Paolo Borsellino

PAOLO BORSELLINO

Paolo-borsellinow

Testo letto nella Cattedrale di Marsala il 18 luglio 1994
“ …e tra due folti

cespugli si infilò, nati da un ceppo,

l’uno di olivo e l’altro di olivastro”.

È il naufrago Ulisse che solo, martoriato riesce a toccare terra a Scherìa, nell’isola dei Feaci . L’olivo e l’olivastro che spuntano da uno stesso ceppo, i rami fittamente intrecciati tra loro, sono il simbolo del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, sono presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura.
Lasciato il mare rovinoso, Ulisse entra nella città dei Feaci, nel regno dell’utopia, nella società ideale. Dopo il lungo racconto, l’eroe raggiunge finalmente l’Itaca della realtà e degli affetti, ritrova l’armonia perduta.
L’omerica immagine del ceppo che nutre due rami diversi, incisiva come quella del virgiliano ramo d’oro sul duplice albero che coglie Enea prima di scendere agli inferi, è il simbolo alto della civiltà che s’innesta, con gesto di coltura e cultura, di volontà e di sapienza, sul tronco dove insieme è cresciuto, spontaneo, selvatico, il ramo dell’olivastro; della civiltà che, se non è curata, difesa, può regredire e perdersi nel disordine da cui proviene, nel caos, nel mare della tempesta. È il simbolo più che mai , quel ceppo dai due rami fittamente intrecciati, di questa “nostra terra bellissima e disgraziata” come l’ha definita Paolo Borsellino, della Sicilia della più antica, più ricca civiltà e insieme della barbarie più feroce e rovinosa, dell’inciviltà più buia, della regressione più umiliante; di quest’Isola che dimora ideale dell’albero mediterraneo, dell’argenteo olivo del nutrimento e della luce che i Greci consacrarono all’Atena della ragione e della sapienza; gli Ebrei e i cristiani alla riconciliazione e alla pace: “Pueri Hebraeorum portantes ramos olivarum…” recita la liturgia della Pasqua.
Dimora fu la Sicilia di quell’antico, sacro albero, di quell’ulivo nato da innesto che per amore, pietà la famiglia Borsellino ha voluto piantare in via D’Amelio. È l’albero che immaginò, che vide sul palcoscenico Pirandello, la notte della sua agonia, a risolvere l’ultimo atto di un dramma, di un mito che non avrebbe potuto più scrivere, è l’olivo della cultura e della poesia contro l’irrompere a valle dei barbarici Giganti della montagna.
Fuori dal simbolo, dentro la realtà, dentro la storia, sappiamo che il duplice, atroce destino della Sicilia, l’intreccio suo inestricabile di civiltà e di barbarie, non è dovuto a un evento della natura, a una legge dell’esistenza, a un destino, a una condanna genetica, come spesso neo-lombrosiani d’accatto hanno voluto fra credere, ma a precise responsabilità, a colpe della storia.
Chi ha uso di ragione, possesso di cognizione sa che la mafia, questa mala pianta, quest’olivastro infestante e devastante, è nata in Sicilia per il ritardo storico in cui l’Isola è stata tenuta, per l’ingiustizia a danno di essa costantemente perpetrata da dominazioni, governi, da ottuse, cieche caste di privilegio e sopruso; sa che in Sicilia la mafia s’è sviluppata con l’abbandono, con l’assenza dello Stato, con la connivenza, l’aiuto dei regimi politici, di poteri statali insipienti o corrotti.
Un medioevo di illiberalità, di ingiustizia, di violenza ha gravato su questa regione, una lunga storia di oppressione e sfruttamento dei deboli, di ribellioni popolari, di feroci repressioni, un’assenza dei grandi principi liberali instauratisi in Europa con la rivoluzione del 1789.
C’è, a pochi chilometri da Marsala, nel museo Pepoli di Trapani, una terribile macchina; c’è, alta sui due montanti tenuti dall’architrave del potere, una ghigliottina, questo orrendo palchetto, questa truce scenografia per la rappresentazione della Giustizia.
Priva qui del terrifico, disumano ma grandioso sfondo storico contro cui si ergeva la francese consorella, dialettale com’è nel lessico, nella sintassi dei suoi congegni, diventa ancor più incomprensibile, più crudele. Si sa che la ghigliottina di Trapani veniva anche montata sulle piazze dei vari paesi del Circolo giudiziario; si sa ch’essa funzionò fin dopo l’Unità, sotto i Savoia; si sa che non tagliò teste di re, di nobili, di  Amici del popolo o di Incorruttibili, ma solamente teste di ribelli o banditi. Proviamo orrore per ogni tipo di pena di  morte, per quella pena ancora ammessa nel diritto di società moderne ma barbariche, che è contemplata nel codice non scritto della mafia, diciamo con Voltaire che quella pena offre vantaggi solo per il boia, ma è vero che la tremenda macchina di Trapani non tagliò mai teste di mafiosi.
Ché allora della mafia, da parte di magistrati, di funzionari statali, di politici, di intellettuali, si negava l’esistenza o se ne dava una spiegazione di ordine psicologico o folcloristico. Qualche magistrato, qualche politico avvertì della mafia la vera natura, la forza sua invasiva e distruttiva: il procuratore generale di Trapani don Pietro Ulloa, il giudice agrigentino Alessandro Mirabile, il socialista corleonese Bernardino Verro, il repubblicano ennese Napoleone Colajanni. Questa negazione della mafia come associazione, come ferrea, gerarchica struttura criminale, da parte del potere politico, degli organi dello Stato, è durata, si sa, fino a ieri. Tanto più negata la mafia, si direbbe, quanto più le sue azioni criminose si facevano frequenti e clamorose, la sua azione antisociale, antistatale sempre più distruttiva e arrogante, quanto più la pubblicistica, l’informazione su di essa si arricchiva e diffondeva. Negazione della mafia, nel migliore dei casi, per la regressiva, falsa difesa dell’  “onor di Sicilia”, per insipienza, per malafede: per privato, meschino tornaconto, per colpevole connivenza con gruppi di potere.
Sicché i morti, tutti i morti di mafia pesano, oltre che sui diretti assassini, su quei responsabili, su quegli uomini che meritano di giacere nel “tristo buco”, nel “pozzo scuro” della dantesca Caina.
Pesano su quei responsabili i braccianti, i capilega, i sindacalisti uccisi sopra le terre dei feudi negli anni Venti e nel Secondo Dopoguerra; pesano i contadini, le donne, i bambini uccisi a Portella della Ginestra.
Oh il Sud è stanco di trasdcinatìre morti
in riva alle paludi di malaria,
stanco di solitudine, stanco di catene…
scriveva qualche mese prima della strage, Quasimodo.
Pesa su quei responsabili la morte di tutti quelli – magistrati, militari, politici burocrati, imprenditori, sacerdoti, comuni cittadini – che nella tremenda, lunga guerra contro la mafia sono caduti. Pesa su di loro la morte di due uomini eroici – usiamo senza titubanza una parola ipotecata spesso dalla retorica – di due simboli alti: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Siamo qui oggi, riuniti in questo Duomo di Marsala, intitolato a San Tommaso di Canterbury, all’arcivescovo Tommaso Becket assassinato dai sicari del re nella cattedrale, per ricordare e per commemorare nel secondo anniversario della morte, Paolo Borsellino.
C’è, nella storia di quest’uomo, uno sfondo storico siciliano, una dimensione umana, umile e alta, spesso ignorata. C’è una parca, dignitosa misura della vita, un pudore, una ritrazione di gesto e di parola, un rigoroso, inflessibile senso morale e civile, una disillusa, lucida conoscenza e accettazione della realtà e un modo aspro, diretto e schietto  di affrontarla; c’è un senso privo di limiti del sacrificio, una generosità di sé senza risparmio; c’è infine in quest’uomo  orgoglio e candore, tutto che gli viene da una matrice girgentana, da quella zona di Sicilia in cui sola si è compiuta nel passato, per la presenza dello zolfo, per la condizione umana all’estremo limite, all’orlo del precipizio, a cui quell’industria, dentro e fuori della miniera, la spingeva, si è compiuta una rivoluzione culturale: il ribaltamento della vecchia cultura contadina della soggezione e della rassegnazione; la presa di coscienza dei propri diritti umani e civili, la volontà di non farli violare, di farli rispettare attraverso il dibattito, la dialettica, il pubblico confronto, nel rispetto delle leggi dello Stato. Non è quello l’Agrigento aulica di Empedocle o del sofista Polo, mala Girgenti di Pirandello, di Navarro della Miraglia, di Sciascia.
L’eredità culturale paterna, del rigoroso, severo farmacista di via Vetriera, è temperata dalla dolcezza della madre, di Maria Lepanto, che, cresciuto in quel Belmonte Mezzagno che s’affacciava sulla meraviglia della Conca D’Oro, immagine, riflesso del Paradiso, come della loro città dicevano i Mori di Granada, ha assorbito bellezza e sentimento.
L’adolescente Paolo si muove in quello spazio ricco di segni, di echi, di memorie, di immagini e di suoni ormai perduti che era il cuore antico della Palermo tra la Cala, la Kalsa, Piazza Marina e la Magione, la chiesa di San Francesco e la Gancia. Fa il chierichetto, gioca al pallone, corre in bicicletta, frequenta il liceo Meli. È lo stesso spazio, quello di Borsellino, la stessa geometria, la stessa splendida scenografia su cui e dentro cui si muovono negli stessi anni Giovanni Falcone e il marescialle Carmelo Canale; si muovono tantissimi altri ragazzi che prenderanno altre strade, avranno altro destino: si trasformeranno, sbucando da quello couche, da quella
cultura, in spinosi, selvatici oleastri. “La rilevanza di una tale ‘promiscuità’ tra mafia e società siciliana non è sempre chiara. Palermo è al riguardo un tipico esempio. Io vi ho vissuto fino all’età di ventixinque anni e conoscevo a fondom la città. Abitavo nel centro storico, in piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica
vederli uscire da quei buvhi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero” ricorda Falcone.
La prematura morte del padre segna per Paolo, appena laureato, la fine della giovinezza, la fine vale a dire delle illusioni e delle divagazioni. Si assume a ventidue anni, con serietà, rigore, il ruolo di capo famiglia. Lo studio per il concorso in magistratura diventa un impegno totale. “Se vengo bocciato, per la disperazione mi getto dentro il Tevere” dice alla madre prima di partire per Roma. Ma vince e compie il suo apprendistato a Palermo, presso il collega anziano Cesare Terranova. Nessuno ancora sapeva, ma si stava formando a Palermo, in Sicilia, e naturalmente anche nel resto del Paese, verso la fine degli anni Sessanta, una nuova leva di magistrati, di giovani di nuova cultura, di nuova moralità, di nuovo impegno.
Il neofita della scienza delle leggi, il diacono della mentalità giuridica si appassiona al diritto civile, e crediamo che immagini di tracciare per sé e di perseguire, con l’ardore e la tenacia che sono del suo carattere, la strada della ricerca, del perfezionamento, di giungere, grado a grado, com’è nell’ascesi, com’è nella scienza e nell’arte, a quella condizione di grazia, in cui il lavoro perde chiarità, diventa gioia.
La famiglia, quella d’origine, la madre e i fratelli, la nuova che aveva appena formato, il lavoro di magistrato unito alla scelta, alla passione per il diritto civile ci fanno pensare che Borsellino immaginasse – com’era normale, com’era giusto immaginare – di vivere in uno Stato di diritto, in una società civile, in cui la sfera privata, l’umano regno degli affetti trovasse rispetto e difesa; dove anche l’avere, il frutto dell’onesto lavoro, trovasse legittimità a protezione.
Abbiamo tutti, tutti creduto, noi cittadini, forse anche i magistrati, creduto per molto tempo, fino a ieri, che la vecchia, parassita, velenosa mala pianta della mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati: forze dell’ordine e magistratura.
Borsellino e gli altri magistrati di nuova cultura e di nuova morale hanno visto a un punto che la mafia tutto invadeva e distruggeva in questa nostra Sicilia, in questo Paese, che era un mostro osceno, un bestiale Polifemo che stritola e divora uomini, che minacciava ogni giorno di oiù, nonché l’avere, il primo dei beni, la vita minacciava la sfera privata della famiglia, la pubblica sfera, distruggeva i valori della civiltà. Uccideva e uccideva la mafia, spargeva morte e morte per le strade di Palermo e di ogni città di Sicilia, la morte – lo diciamo qui con Savinio – “ che insudicia quello che era pulito. Intorpida quello che era limpido. Inlaidisce quello che era bello. Intenebra quello che era luminoso. Istupidisce quello che era intelligente. Immiserisce quello che era ricco..”

La mafia umiliava e infamava nel mondo la Sicilia della storia, della cultura, dell’arte, della filosofia, del diritto; quest’Isola della generosità e della nobiltà del popolo, della dignitosa misura, dell’orgoglio e della tenacia della piccola borghesia: la classe di Borsellino, di Falcone, di tantissimi magistrati, servitori dello Stato, di tanti intellettuali e artisti.
Dopo l’uccisione dei magistrati Terranova, Costa, del capitano Basile, del commissario Boris Giuliano, Chinnici e gli altri magistrati  seppero che in Sicilia era la guerra: guerra contro la civiltà, contro la democrazia.
Decisero di combattere, quei magistrati, e si fecero, per la Sicilia, per noi, soldati di prima linea.
Non vogliamo qui raccontare ancora la vita di sacrifici a cui si sottoposero i giudici del pool antimafia, l’altissimo prezzo che hanno pagato in quella guerra le loro famiglie.
Uno dopo l’altro caddero nella guerra i valorosi capitani, caddero quei san Michele e san Giorgio in lotta contro il drago. Caddero a Palermo  Chinnici, Saetta, Livatino, Falcone, Borsellino…Caddero nel modo più atroce, più straziante. Paolo Borsellino poi nel modo più inaccettabile: lungo un itinerario prevedibile e previsto; nel momento più umano e più tenero in cui si reca dalla madre: avrebbe dovuto condurla dal medico per farle controllare il cuore. Tutto qui naturalmente si carica di metafora.
In quel quieto, deserto primo pomeriggio d’una domenica di luglio, la vecchia madre, dopo il trillo del campanello che il figlio aveva pigiato, ode il tremendo boato, il fragore infernale.
Nessuna madre, moglie, figli, sorelle e fratelli riusciremo mai a consolare di tanto dolore, di tanto strazio.
Noi, non più giovani o vecchi, riusciamo solo a dire, parafrasando il poeta de La terra desolata: con il ricordo tuo, degli altri, di Paolo Borsellino, con la riconoscenza per il vostro sacrificio riusciamo oggi a puntellare le nostre macerie. E insieme speriamo, noi vecchi, abbiamo fede che i giovani magistrati, gli allievi, i figli, i Manfredi, nell’insegnamento in onore dei morti riusciranno a costruire una nuova società, una nuova Sicilia, un’Itaca della civiltà e dell’armonia. Riusciranno a far crescere su questa terra insanguinata, rigoglioso e forte, l’ulivo della ragione e della pace. Grazie Paolo Borsellino.

Vincenzo Consolo

Milano, 14 luglio 1994