Un gioiello finemente cesellato


Fabrizia Ramondino


Ci sono romanzi, scriveva Walter Benjamin, che somigliano a una catasta di legna da ardere; e mentre la legna arde, si consuma. con quello dei protagonisti del romanzo, anche il nostro destino … Retablo è invece un gioiello, finissimanente cesellato, come quelli di Dalì, che sapeva rendere con un rubino un cuore palpitante di vita, simile a un frutto di mare, a prendere il quale nel fondo dell’acqua si trovano nel contempo attrazione e ribrezzo. Ovvero, come suggerisce il titolo, è un retablo, parola spagnola che indica pale d’alare o successioni d’immagini dipinte meravigliose. Nel nostro caso se ratta di un trittico, le cui tavolette evocano la quête dei cavalieri erranti, l’orazione, la peregrinazione, la verità trovata. Spesso gli artisti dediti alle arti figurative si sono rammaricati di non riuscire a raffigurare il tempo; Consolo, con un procedimento à rebours, ha voluto imitare i pittori.
Se si ricorre al paragone del gioiello, esso raffigura la Trinacria. Pietre preziose e semipreziose, minerali rari e vili, smeraldi e corallo, marmo e alabastro, argento e oro, salgemma e piombo, sono stati impiegati a profusione dall’artefice per raffigurare la Sicilia di due secoli fa: i cibi semplici o elaborati al limite del disgusto, gli zibibbi e i grappoli di pasta di mandorle, inganno per l’assetato, teatro della gola per il sazio, le plebi lacere e lazzare, gli ozi crudeli dei ricchi, l’operosità degli artigiani, i pastorali ospitali, ancora oranti dinanzi alla statua della Grande Madre, i briganti feroci e umani, pronti a fraternizzare con i corsari, i frati lussuriosi, i nudi e neri operai delle saline, i contadini dediti alla fatica di dissodare il campo – e pietre maledette sono cocci di urne funerarie fenicie, membra di statue greche -, l’innestatore di aranci, innamorato della sua arte e dei frutti che produce, lo sfarzo delle chiese barocche, la solitudine estatica dei templi sul mare, la bellezza delle donne, la carnalità e la purezza, la bontà e la ferocia… Un’ode alla Sicilia, e nell’ode più odi: all’arancia e al corallo, a Rosalia la santa e alle Rosalie profane, al latte e al cacio di capra, all’amata e all’amato… e sempre odi al cielo e odi al mare.
Se il libro somiglia a un retablo, fra le molte meravigliose storie raffigurate, una è la principale: l’antagonismo fra Dioniso e Apollo – così intende Consolo la loro relazione -, fra vita ed ebbrezza mortale. La tavoletta centrale del trittico è dedicata al cavaliere milanese Fabrizio Clerici, pittore, che, respinto dalla donna amata, Teresa Blasco, invaghita di Cesare Beccaria, viaggia in Sicilia per dimenticarla e descrivere il nuovo paese all’amata lontana. Antidoto contro il mal d’amore è quindi il viaggio. Ma ancora di più lo è l’arte, di cui il viaggio è in realtà metafora. Il cavaliere non è tuttavia un esteta, il più gramo fra gli uomini ha per lui un valore incomparabilmente maggiore di una splendida statua greca. Il primo portello è dedicato a Isidoro, frate che vende bolle d’indulgenza; per amore di Rosalia fugge il convento, finisce fra i facchini del porto, finché viene preso a servizio dal cavaliere milanese che accompagna nelle sue peregrinazioni. Qui Isidoro narra la sua passione, i suoi tormenti, la sua finale pazzia d’amore. Il secondo portello, corrispondente al primo per brevità e intensità narrativa, è dedicato alla vera Rosalia, dopo i tanti abbagli, le tante Rosalie, sante, statue, ragazze, che figurano nel racconto. Qui ella tesse le lodi di Isidoro, l’unico amato. Ma ha visto donne infelici nel vico nero dove è nata, fugge perciò l’amato povero, diventa la mantenuta di un duca decrepito, che le fa studiare il canto. E annuncia che partirà presto, ingaggiata per cantare Cimarosa. Ha fatto sue le parole del castrato, suo maestro: «Siamo castrati, figlia mia, siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore.
 Il tempo, il nostro tempo, che Consolo ha provato a esorcizzare, ‘insinua nel romanzo con abile gioco di baro, con ammiccamenti,
chiamate, rimandi. L’espediente più innocente è l’avere scelto come protagonista Fabrizio Clerici, pittore contemporaneo, come tutti san-no, e non del secolo dei lumi, presente nel libro anche con cinque disegni – e il virtuosismo tecnico del pittore ben corrisponde a quello dello scrittore. Immediato è anche il parallelo tra l’ottimismo del secolo dei Lumi e la fede, ancora cieca, nel progresso tecnico e sociale, del nostro. Ma solo dai molti ingannevoli ammiccamenti si comprende la nuova e diversa forma che ha assunto oggi la separazione tra i sessi, e si legge un’antica, e attuale, misoginia. Infine, e al modo del paradosso, il Novecento irrompe proprio nel raffinato pastiche stilistico che sembra imitare una lingua antica. Infatti i vocaboli arcaici, dialettali, inusitati, i lacerati aulici, le allitterazioni, le amplicazioni; le anastrofi, le apostrofi, le assonanze; le deprecazioni e le invocazioni; la frequente scansione metrica delle frasi e l’imitazione dei cantastorie siciliani: sono tutti stilemi in parte ripescati dal passato, ma soprattutto scaturiti dalla maggiore libertà, almeno linguistica, conquistata nel nostro secolo, e di cui proprio in terra lombarda, dove vive Consolo, si è fatto Ottimo uso.

Il Mattino, 3 novembre 1987
pubblicato anche nella rassegna trimestrale di cultura “Nuove Effemeridi”
Edizioni Guida 1995