Un ritratto di Elio Vittorini a cento anni dalla nascita di Vincenzo Consolo

Vittorini
da Siracusa
alle città del mondo

(“Il Manifesto”, quotidiano comunista,

24 luglio 2008)

Jole, sorella di Elio Vittorini: e viene subito in mente la più famosa sorella della letteratura italiana, Maria, la Mariù di Zuanì, di Giovanni Pascoli. Ma Jole Vittorini è quanto di più lontano si possa immaginare da quel precedente. Il suo libro, Mio fratello Elio non è una imbarazzante agiografia, ma una breve memoria remota, un piccolo quadro di vita familiare, d’una famigliola siciliana dei primi anni del Novecento in cui i genitori, i figli, i nonni, gli zii risultano avvolti in una tenera luce, la jonica luce di Siracusa, in cui il primogenito Elio, luminoso per nome, risulta il più ricco d’inventiva, il più assetato d’avventura. Sembra, il racconto di Jole Vittorini, ubbidire innanzitutto al pudore, alla discrezione in cui sempre avvolgeva l’autore di Conversazione in Sicilia la sua famiglia, la sua vita privata, in cui era avvolta la madre Lucia, luminosa per nome anche lei.

Scrive Jole: «Mia madre era gelosa dei suoi sentimenti; e non permetteva che altri frugassero nella sua vita sentimentale. Un po’ come Elio». È quella madre che, scoperta un giorno la figlia intenta a leggere le lettere che il marito le aveva inviato, le strappa, una per una. (Questa ritrosa e orgogliosa Lucia ricorda Clementina, la protagonista del racconto di Giuseppe Antonio Borgese La Siracusana). «Non avrà più di sedici anni, ma gli si sente addosso l’odore della gonna di mamma. Oh, altre donne ha per il capo» pensa del ragazzo che è con lei nello scompartimento del treno la procace e vitale canzonettista Montalbano del racconto Piccolo amore di Piccola borghesia. Questo è il racconto di Jole. Salvatore Vittorini, diplomato maestro, decide d’imbarcarsi su un bastimento. La sua carriera di marinaio si interrompe però al primo viaggio dopo una tempesta nel canale di Sicilia e un fortunoso approdo nel porto di Pozzallo. Il mare lo regala alle ferrovie. È il 1906. L’anno dopo il giovanotto sposa la bella Lucia Sgandurra, figlia di un barbiere appassionato lettore di libri (De Amicis, a Siracusa, di cui scrive splendidamente in Ricordi di un viaggio in Sicilia, capita nella bottega dello Sgandurra e dirà di non aver mai incontrato un barbiere così colto).

Epiche avventure tra case di fango

I due sposini Salvatore e Lucia raggiungono Sant’Agata di Militello, un paese di pescatori e di contadini sulla costa tirrenica. È la prima stazione di tante altre, il primo di altri paesini, di luoghi sperduti in cui dimoreranno i coniugi Vittorini con i quattro figli che con gli anni verranno. «Si stava in piccole stazioncine ferroviarie con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno. Era un deserto ovunque di malaria; e ovunque di latifondo incolto; in qualche luogo con un allevamento di pecore a un tiro di schioppo, in qualche altro luogo con una miniera di zolfo nelle vicinanze» (Elio Vittorini, Pesci rossi, 1949, n. 3 della rivista bollettino editoriale di Bompiani in Diario in pubblico).

È la smarrente solitudine, l’angosciante desolazione del povero, nudo paesaggio del racconto La signora della stazione ancora di Piccola borghesia, o di Conversazione in Sicilia. È la solitudine più toccante della bambina Jole, unica femmina e ultimo rampollo di una nidiata di maschi: Elio, Ugo, Aldo, che per i campi s’inventavano epiche avventure, si costruivano mondi favolosi. «La mia unica distrazione erano gli arrivi e le partenze dei treni. Li guardavo dalle finestre, dietro le grate metalliche che dovevano proteggerci dalla zanzara anofele», scrive Jole. Ma pure, tra le case di fango davanti alla stazione, la piccola scopriva persone, vicende, destini umani: donna Luigia, i sei figli e il marito cantoniere avventizio e cacciatore di conigli e di istrici; Mariannina, moglie dello zolfataro Gueli e sorella di Salomone, fattosi bandito per un delitto d’onore, che nella solitudine della montagna legge la Divina Commedia.

Nel ’24 il ferroviere Vittorini viene trasferito finalmente nella sua Siracusa, in Ortigia, bianca come il miele ibleo e azzurra come il Ciane o la fonte Aretusa. La famiglia va ad abitare nella casa dei nonni materni, nella via Mastrarua, nella Siracusa teatro del Garofano rosso e di Piccola borghesia. E a Siracusa, proveniente da Licata, si trasferisce pure la famiglia del ferroviere Quasimodo. Elio s’innamora subito di Rosina, la sorella del poeta Salvatore. I due ragazzi, per l’opposizione delle rispettive famiglie, compiono la famosa fuga d’amore, la fuitina, e passano la loro prima notte sotto le stelle, sui gradini del Teatro Greco: si può immaginare una prima notte d’amore più «siracusana» di questa? Dice De Amicis, trovandosi nel silenzio di quel teatro: «Sentii le grida dei ventiquattromila spettatori del teatro greco, plaudenti alla rappresentazione dei Persiani». Non sappiamo cosa sentirono i due giovani Elio e Rosa in quella solitudine notturna del teatro greco.

Dopo il matrimonio riparatore, i due si trasferiscono a Gorizia, dove Elio lavora come assistente alla costruzione di un ponte. Il successivo trasferimento sarà a Firenze. Ma dopo, conclusa questa breve, epifanica storia, comincia l’altra storia di Elio Vittorini. Ma il narratore Vittorini, il suo accento favoloso, lirico, il suo tono civile, la sua tensione all’ottimismo, al movimento, l’intellettuale Vittorini libero e orgoglioso, attivo e generoso, non si può capire senza la sua famiglia, la sua Siracusa, il mondo libertario dei ferrovieri, senza le stazioncine sperdute nel vasto teatro dell’infelicità sociale della Sicilia. «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori: non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto». Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia. E aveva, quell’attacco, il ritmo di un rintocco di campana, lento e triste, che dava suoni, voce, nell’atrocità del regime fascista e della guerra in corso, nel ricordo dell’atroce guerra civile di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno. Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo della ideologia. Ed è insieme, come quello di Odisseo e di Enea, un nòstos e un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli inferi, nel regno delle ombre, dei morti per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, attraversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, approda in una Sicilia invernale, livida, in una patria di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma in una patria anche di fieri e indomiti «gran lombardi», di uomini che parlano di «nuovi doveri», di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblio del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio bloccandolo a una patologica, infinita adolescenza, come succede al Giovanni Percolla del Don Giovanni in Sicilia di Brancati, ma è una madre, quella di Vittorini, che spinge il figlio a ritornare al suo lavoro di linotipista, di compositore di parole, ai suoi doveri di uomo, di scrittore, di intellettuale.

Fallimenti e speranze perdute

«La parola utopia rappresenta nell’uso comune lo stadio ultimo della umana follia o della umana speranza» scrive Lewis Mumford, autore di una Storia dell’utopia. E aggiunge «che quasi tutte le utopie criticano implicitamente le civiltà in cui nascono e sono implicitamente un tentativo di scoprire le possibilità che le istituzioni originano o seppelliscono sotto la crosta delle vecchie usanze e abitudini». Ed è dall’utopia, parola coniata da Tommaso Moro, dall’utopia, come «stadio ultimo dell’umana speranza», che bisogna partire per leggere Le città del mondo di Vittorini. La concezione utopica credo che sia la matrice del libro. E dobbiamo dunque partire da Platone e, giù giù, passare per Bacone e Campanella, il monaco calabrese che, con la sua Città del sole, aveva inventato la comunità ideale, in cui gli uomini «sono ricchi perché non hanno bisogno di nulla; sono poveri perché non posseggono nulla; di conseguenza non sono schiavi delle loro circostanze, ma sono le circostanze che li seguono». Partire da Platone, dicevo, e arrivare agli illuministi lombardi, ai Verri, al Beccaria, al Cattaneo; arrivare a Melville, De Foe; arrivare forse fino ad Adorno, Horkheimer, Marcuse. E se nei filosofi antichi l’utopia sorge da un connubbio di religione e di ragione, nei filosofi moderni l’utopia o le «città del mondo» sono le città dell’uomo, le città a misura d’uomo, dove l’uomo può essere felice. Ne Le città del mondo ancora una volta il siracusano Vittorini ritorna alla Sicilia. Ma vediamo per quali occasioni nasce questo romanzo. Nel 1950 compie un viaggio in Sicilia, insieme al fotografo Luigi Crocenzi e a un gruppo di amici, per preparare un’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (nel ’49 era uscito Le donne di Messina). Nel ’50 erano successe molte cose. Vittorini, dopo la famosa polemica con Togliatti, era uscito dal partito comunista. Aveva anche visto, lo scrittore, il fallimento di una certa politica meridionalista e perso la speranza di una soluzione a questo annoso problema. E aveva visto forse fin d’allora che il mondo contadino meridionale era ormai «perduto alla storia».

Il viaggio in Sicilia del ’50 fu molto stimolante. Da una parte, incominciò a maturare in lui l’idea utopica, utopia come superamento di condizioni statiche inaccettabili (e l’idea già in qualche modo era espressa ne Le donne di Messina, nella costruzione di una nuova comunità democratica) e dall’altra, si andava definendo in lui l’idea di illuminismo-razionalismo lombardo, della Lombardia o della Milano, ripetiamo, dei Verri e del Beccaria, illuminismo contrapposto alla irrazionalità, alla staticità, al verghiano fatalismo. Contrapposizione che diventerà poi quella tra mondo neo-industriale e mondo contadino. Tema che teorizzerà e svilupperà ne Le due tensioni e nei fascicoli della rivista Il menabò, a cominciare dal famoso numero quattro dove si parla di «industria e letteratura». Questa idea, questa utopia vittoriniana, sorta forse per la scoperta del petrolio in Sicilia e per l’impresa di Mattei, ma sorta anche per la frequentazione di quell’industria a misura d’uomo che era rappresentata dalla Ivrea di Adriano Olivetti. Questa generosa idea, questa utopia, sappiamo, s’infrange poi, contro gli scogli della storia, della mala storia, la mala storia che creerà gli inferni ambientali e antropologici di Priolo, di Melilli, di Gela.

Il castello di Lombardia

Dietro la sua idea utopica, aveva scritto Vittorini Le città del mondo, opera che, a causa della delusione storica vuole distruggere. Le città del mondo, fortunatamente salvato da Ginetta Varisco, seconda moglie di Vittorini, è l’ultima opera prima del silenzio narrativo e, come scrive Pampaloni, il romanzo può «essere letto in positivo e in negativo». Poeticamente (e affettivamente) esprime le sue idee, la sua utopia già in Conversazione in Sicilia con il tema, lì allora accennato, del Gran Lombardo che «doveva essere di Nicosia o Aidone; parlava il dialetto ancora oggi quasi lombardo di quei posti lombardi del Val Demone: Nicosia o Aidone». Ne Le città del mondo sviluppa pienamente il tema con la contrapposizione città-lombarde belle, altre città brutte. Dice Rosario, il pastorello che arriva a Scicli col padre: «…e la gente è contenta nelle città che sono belle… e si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente ! Lo stesso ogni volta che entriamo ad Enna. Ma che bella gente!». Diciamo qui per inciso che per fortuna l’ideale Lombardia siciliana di Vittorini non era, non corrispondeva all’attuale atroce fascistica razzistica Lumbardia di Bossi e della Lega Nord, Nicosia e Aidone non hanno nulla da spartire con Pontida, Pontedilegno o Casalpusterlengo.

Ma torniamo a Enna, la città che nomina il pastorello Rosario. È la città, Enna, dove c’è il castello di Lombardia, alto, con le sue alte torri. La città, così alta che è tutta un castello di Lombardia ha un monumento in una delle sue piazze. È il monumento al socialista Napoleone Colajanni, di Leonardo Ximenes, e questo monumento Vittorini fa fotografare a Crocenzi, nell’edizione illustrata di Conversazione, facendolo riprendere da più parti. Vittorini identifica Colajanni con il Gran Lombardo. Ne Le città del mondo, Colajanni compare proprio come statua assieme a quella del re Ruggero, di Garibaldi, della regina Giovanna. Il protagonista storico del movimento contadino, dei Fasci Siciliani, così lombardo, cioè così ricco di volontà di superare il momento storico è il suo eroe positivo. Vitalità, movimento, atteggiamento attivo, questo ama Vittorini (e arriva per questo sino alla bestemmia letteraria per il suo contrapporsi al fatalismo di Verga: «il nostro schifosissimo Verga, il più reazionario tra gli scrittori moderni» scrive ne Le due tensioni). Ed è per questo che Le città del mondo è il libro più antinaturalistico della letteratura meridionale.

Qui tutto brucia nella metafora. I personaggi sono in figura di funzione, hanno perso la consistenza realistica; parlano in modo metaforico, declamatorio, parlano ritualmente e profeticamente. «Ciò che interessa l’autore non è una mimesi della realtà (…), ma una utilizzazione della realtà che possa rendere immediatamente, subito, e costituire subito, per le forze storiche, un’arma, uno strumento di trasformazione, o insomma una chiamata a trasformare…» scrive ancora Vittorini in Le due tensioni. E quindi i personaggi del romanzo sono in continuo movimento sul palcoscenico della Sicilia, il movimento fisico e psicologico, in ribellione e in tensione di felicità e di dolore.

Ma che cosa narra infine questo romanzo, uscito postumo, ricordiamolo, nel 1969? Così riporta la nota in chiusura del curatore Vito Camerano, riprendendola dalla rivista «Galleria d’arte e lettere» del ’53: «Con questo romanzo che ha per titolo provvisorio Le città del mondo e che forse finirà per intitolarsi I diritti dell’uomo, Vittorini ritorna alla sua Sicilia, ma a una Sicilia diversa da quella di Conversazione, una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi, che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, prostitute, zolfatari e campieri, paesi e città sono come vie, piazze, angoli di una medesima città, e, nello stesso tempo, è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l’universo, poiché tutto ciò che è nel libro viene citato come estraneo all’Isola, è ancora come se fosse Sicilia. Così i Pirenei, così Gerusalemme e Samarcanda e Tucuman e Ur dei Caldei. E un episodio della Bibbia è anche un fatto accaduto in Sicilia, proprio come un parlamento di siciliani radunatisi in un vallone, diciamo delle Madonie o dei Monti Erei, per far festa o cospirare. Una Sicilia che potrebbe essere quella dei Borboni come quella di sempre, la Sicilia fertile e desolata, isola felice e terra di fame». La trama di questo romanzo è quanto mai aperta e libera. C’è la Sicilia, immensa e areosa, biblica e da Mille e una notte, di Ariosto e di Cervantes. Vittorini, in una di quelle classificazioni che vogliono esemplificare, aveva diviso i romanzi in arteriosi e venosi. Ecco, questo suo libro postumo è certo il più arterioso, il più ricco di ossigeno, di flusso vitale. È ricco di luce, di cristallina luce siracusana, del «dolce color d’oriental zaffiro».

Conversazioni-in-Siciliaelio-vittorini

Sulla regionalità letteraria in italia: Pirandello, D’arrigo, Consolo

Salvatore C. TROVATO

Pages 41 – 56
LA REGIONALITA LETTERARIA TRA REALISMO ED ESPRESSIONISMO

1
La lingua italiana di base fiorentina diffusasi dal Cinquecento in poi in tutta la penisola per l’adesione spontanea degli scrittori – d’arte e non – si incontr fin dall’inizio con le tradizioni linguistiche regionali, ben radicate nel territorio. La conseguenza fu che l’interferenza della lingua col dialetto caratterizz fin dall’inizio (e caratterizza tuttora) la storia linguistica italiana. La lingua letteraria – che almeno fino all’Unità d’Italia fu la lingua tout court – ne venne ovviamente coinvolta sul piano stilistico, particolarmente in autori e in momenti in cui la regione entra realisticamente nell’opera letteraria o, ancor più, in autori in cui il plurilinguismo, giocato anche sul versante della regionalità linguistica, diventa ingrediente forte di scritture espressionistiche. Espressionismo e realismo insieme, dunque, sono gli elementi che possono indirizzare le scelte linguistiche degli autori nella direzione della regionalità [1] Non interessano, in questa sede, le scelte mistil… [1] .
2
Dopo l’Unità del paese (a. 1861), la lingua letteraria italiana, cristallizzata nell’uso scritto, era giunta da tempo al bivio e portava il peso di essere stata per più di tre secoli lingua scritta senza ricambi con un modello parlato. A ci bisogna aggiungere i guasti provocati dalla sclerosi retorica. La consapevolezza dello stato della lingua e la necessità di poter contare, ora che la nazione era unificata in uno stato, su di un codice di interscambio sia scritto sia parlato, era diffusa negli ambienti colti italiani.
3
La vivacità delle discussioni sulla lingua, le varie proposte e la stessa insistenza sul problema anche a livello istituzionale, mostrano quanto fosse importante la questione della lingua, a maggior ragione che i problemi non erano più o non erano solo di livello letterario, ma anche e soprattutto sociale. In ogni caso si trattava di proporre alla nazione un modello di lingua che non fosse più solo scritta, ma anche parlata.
4
La soluzione manzoniana, com’è noto, è quella del fiorentino colto, una soluzione che d’un sol colpo avrebbe dato alla nazione un modello parlato, vivo, moderno. Ma, ahimé, senza prestigio, perché il fiorentino colto degli anni posteriori all’Unità non era certo la lingua italiana di base fiorentina esemplata sui grandi trecentisti, che era stata universalmente accettata da tutta la nazione. Peraltro, nella proposta manzoniana era coerentemente insita la preclusione ai dialetti.
5
La soluzione ascoliana, invece, si basava sull’italiano della tradizione, da rinnovare in conseguenza e in parallelo al rinnovarsi della cultura. L’una e l’altra, la lingua e la cultura, erano affidate all’energia operosa degli ” operaj della intelligenza ” [2] V. Graziadio Isaia Ascoli, 1870, ” Proemio ” all’Archivio… [2] . Nessuna preclusione nei confronti delle fonti del rinnovamento e del ringiovanimento in Ascoli, nessuna preclusione nei confronti degli apporti dialettali.
6
Al di là delle proposte di Ascoli e Manzoni, va qui ricordato che tutte le volte che la letteratura italiana, nei suoi quasi ottocento anni di storia, è venuta a trovarsi in stato di sofferenza comunicativa ed espressiva, ha ricevuto il soccorso dei dialetti che della lingua da sempre sono l’inesauribile risorsa. D’altra parte i dialetti nelle regioni hanno da sempre costituito il sostrato della lingua medesima, sia al livello scritto (e cioè fin dal Cinquecento) sia a livello parlato (solo posteriormente all’Unità d’Italia). È pertanto del tutto naturale che i dialetti facciano capolino, entrino o trionfino nella lingua letteraria che, nel corso dei secoli, si è spesso rinnovata alla fonte dei dialetti. Di vario ordine sono i motivi della penetrazione dei dialetti nella lingua letteraria.
7
Innanzi tutto storico: il corrispettivo parlato della lingua letteraria scritta è stato costituito dai dialetti. E con questi gli scrittori d’Italia hanno da sempre dovuto fare i conti per escluderli (istanza puristica) o per accoglierli (istanza antipuristica). L’italiano di base toscana è stato dovunque la lingua appresa sui classici, linguisticamente insufficienti ad esprimere tutta la realtà. I dialetti, viceversa, non hanno mai difettato degli strumenti, sia pure all’interno di determinati limiti, per comunicare la realtà.
8
Segue l’istanza realistica, per la quale la regione non pu essere comunicata senza il coinvolgimento degli strumenti espressivi della regione medesima, strumenti che da sempre sono stati (e in gran parte sono) i dialetti.
9
Un terzo motivo è di ordine politico-sociale. In questo caso i dialetti possono assumere funzione di rottura e di polemica contro una lingua troppo borghese, che si è poco rinnovata o che appare socialmente sclerotizzata e sclerotizzante o addirittura di classe.
10
Il quarto motivo, infine, è di ordine più squisitamente soggettivo – anche se spesso legato a mode, correnti, ideologie e, comunque, a scelte personali – ed è dovuto al gusto espressionistico, che caratterizza tante opere ed autori della storia letteraria italiana, insomma, all’ ” eterna funzione Gadda ” di continiana memoria.
11
Non senza illustrare le motivazioni profonde, teoriche, dell’innesto del dialetto sulla lingua negli autori oggetto della nostra analisi, ovviamente quando questi ne abbiano lasciato traccia, scopo di questo lavoro è quello di mettere a fuoco da vicino, sulla base di una rappresentativa se pur limitata campionatura, i modi di accessione al dialetto da parte di autori come Pirandello, D’Arrigo e Consolo. Tre autori compromessi col dialetto, pur se in modo, in misura e con motivazioni diverse l’uno dall’altro, in rapporto, ovviamente, alla temperie storico-culturale in cui hanno vissuto o vivono.
TRE SCRITTORI COMPROMESSI COL DIALETTO: PIRANDELLO, D’ARRIGO, CONSOLO

12
La dialettalità o regionalità che dir si voglia dei nostri tre autori si gioca sul piano del realismo e dell’espressionismo. In Pirandello i piani sono tutti e due coinvolti, D’Arrigo e Consolo sono autori espressionisti che si collocano all’interno di una vasta area sperimentale che da Gadda va agli autori di “Officina” e a un discreto numero di isolati tra cui, appunto, i nostri due, ma anche Pizzuto, Bianciardi e Testori [3] Cf. Romano Luperini et al., La scrittura e l’interpretazione…. [3] .
1. Luigi Pirandello

13
Pirandello, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento, è tra gli scrittori teoricamente più consapevoli. Ascoliano fin dalla giovinezza, non ha preclusioni nei confronti della lingua della tradizione. Ma, attraverso quella lingua, si fanno breccia, nella prassi scrittoria di Pirandello, con discrezione, i neologismi d’autore e l’elemento regionale (siciliano e non).
14
Fin da quando era ancora studente a Bonn aveva notato che un siciliano e un piemontese ” messi insieme a parlare, non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, lasciando a ciascuno il proprio stampo sintattico, e fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana parlata in Italia delle reminiscenze di questo o di quel libro letto ” [4] Luigi Pirandello, 1890, ” Prosa moderna (Dopo la lettura… [4] .
15
Se c’è spazio, all’interno della lingua letteraria, per il dialetto, il varco è aperto dal desiderio, da parte di Pirandello, di portare nella lingua la scorrevolezza e la vivacità del parlato. L’espressività e la comunicatività sono le esigenze attorno alle quali coagula la dialettalità pirandelliana.
16
Dal punto di vista comunicativo, l’elemento regionale – per lo più, ma non esclusivamente, lessicale – diventa necessario ” perché serve a denotare momenti, oggetti e nozioni della vita paesana e rurale regionale, per i quali il termine di lingua, anche se esiste, non rende con fedeltà la specifica natura della cosa o dell’azione, come sono proprie di quell’ambiente ” [5] Antonino Pagliaro, 1969, ” Teoria e prassi linguistica… [5] . Per quel che riguarda il piano dell’espressività, in cui prende forma la tensione fantastica, il dialetto partecipa a quest’ultima come fonte viva del parlato [6] Pagliaro, Teoria., p. 268. [6] . Per quest’ultima via è possibile il calco semantico, una sorta di traduzione della sottesa forma dialettale ” che riprende con efficacia e precisione la connotazione più rilevante del significato del termine dialettale, sovvenuto per primo alla coscienza “, come acutamente mette in evidenza Pagliaro [7] Pagliaro, Teoria., p. 268. [7] .
17
Un cenno, infine, prima di mostrare qualcuno degli esempi più significativi della regionalità pirandelliana, meritano i modi dell’assunzione della regionalità da parte dello scrittore agrigentino. Essi sono improntati, secondo Maria Luisa Altieri Biagi [8] Maria Luisa Altieri Biagi, 1980, ” Pirandello: dalla… [8] , al ritegno linguistico che impone la giusta cautela sulla via dell’espressionismo e al ritegno filologico, che porta lo scrittore a non fare a meno – ascolianamente – della lingua della tradizione. Questa, muovendosi programmaticamente nella direzione del parlato, permette allo scrittore di assumere per la sua prosa – sia sul versante del realismo sia su quello dell’espressionismo – gli elementi regionali che di volta in volta riterrà opportuno.
18
Infine, nel pieno rispetto del lettore, Pirandello, tutte le volte che assume elementi regionali che ” in base alla sua sensibilità filologica, non prevede la possibilità di promozione a lingua ” [9] Altieri Biagi, La lingua…, p. 171. [9] , ricorre alla corsivizzazione, alla virgolettazione o anche alla glossa, intesa quest’ultima come nota esplicativa del termine regionale adoperato. Ci si spiega, ancora una volta, all’interno dell’ideologia ascoliana dello scrittore, ” impegnato anche civicamente a collaborare alla formazione di una lingua unitaria, che fosse strumento valido di comunicazione orale di cittadini di diverse regioni ” [10] Altieri Biagi, La lingua…, p. 170. [10] .
19
Cosî, nella sua prosa entrano parecchi regionalismi cosiddetti segnici, ripresi cioè nella totalità del significante – adattato, ovviamente alle strutture fono-morfologiche dell’italiano – e del significato.
20
Tra i tanti [11] Uno spoglio completo dei regionalismi nelle Novelle… [11] è possibile ricordare: babbo [12] Gli esempi che seguono sono tratti da Luigi Pirandello,… [12] per ‘stupido’, bollo [13] Nella novella Il ” fumo “, I*, p. 67 (in un discorso… [13] per ‘bollore’, candelina di pecorajo [14] Nella novella Chi la paga, II*, p. 466. [14] per ‘lucciola’, mesi grandi [15] Nelle novelle Tanino e Tanotto, II**, p. 755, e Il… [15] per ‘i mesi che vanno da maggio a ottobre’, nànfara [16] Nel Vitalizio, II**, p. 854. [16] per ‘vocetta di naso’ e, per quel che riguarda i regionalismi semantici: giardino [17] Nelle novelle Il vitalizio, II**, p. 845, 846; Il… [17] per ‘agrumeto’, giro [18] Nelle novelle Il ” fumo “, I*, p. 52 ; La giara, III*,… [18] per ‘appezzamento di terra’, principali [19] Nella novella La morta e la viva, III*, p. 88. [19] per ‘commercianti, magazzinieri, sensali di noleggio’, ma anche parlare usato come sostantivo maschile col significato di ‘decisione, parere’: ” Don Simo’a che gioco giochiamo? Di quanti parlari siete? ” [20] Nella novella Fuoco alla paglia, I*, p. 345. [20] ; peccato mortale [21] Nella stessa novella, p. 339. [21] col significato di ‘persona che vive in peccato mortale’ e tanti altri ancora.
21
Tra i calchi, non frequenti, va ricordato l’esempio, credo paradigmatico, di sorsare ‘tirare su col naso’, che Pirandello usa nella novella Cinci [22] In Novelle, III**, p. 667-675. [22] , in un contesto in cui il senso della parola è più che evidente: ” Tornando a scuola, quel pomeriggio, [Cinci] ha dimenticato a casa il fazzoletto, per cui ora, di tanto in tanto, lî seduto a terra, sorsa col naso. ” [23] P. 668. [23] La riusa poi in altri contesti. In Resti mortali, ad esempio: ” [Zio Fifo] si metteva a frugolare per casa, sorsando, soffiando, dando smusatine, come per tenere in continuo esercizio d’esplorazione il naso puntuto […] ” [24] II**, p. 690. [24] , in cui la trasparenza semantica è evidente; e ancora: in Lumie di Sicilia: ” – C’è o non c’è? – domand il giovanotto, corrugando le ciglia e sorsando col naso. ” [25] II**, p. 904. [25] Sorsare, per, col significato di ‘tirare su col naso’ non è registrato da tutti dizionari [26] Non lo registrano, infatti, Dardano, Devoto-Oli, 2000… [26] : Treccani IV lo registra riportando il contesto pirandelliano e lo stesso fanno, seguendo il GDLI [27] E cioè: Battaglia Salvatore, Bàrberi Squarotti Giorgio,… [27] , De Mauro 2000 e il GRADIT.
22
L’unica strada che ci permette di cogliere la ” creazione ” pirandelliana resta quella del dialetto agrigentino, nel quale surchjari, che per il significato di ‘bere a sorsi’ corrisponde all’it. sorsare, ha, come secondo significato, quello di ‘tirare su col naso’. È evidente che Pirandello ha esteso il secondo significato della parola agrigentina alla corrispondente parola italiana. E quest’ultima, per calco semantico, ne è uscita sicuramente rinnovata e arrricchita. L’operazione certamente sfugge ai più, ma è sintomatica dell’ideologia di un autore che, a riprendere Altieri Biagi [28] Altieri Biagi, La lingua…, p. 170. [28] ha voluto essere ” impegnato anche civicamente a collaborare alla formazione di una lingua unitaria “.
23
Il lessico, comunque, è il settore in cui maggiormente, nell’opera pirandelliana, il dialetto si incontra con la lingua. Andrebbe ancora ricordato l’uso di lessemi complessi, come le molte polirematiche (avanzare il passo [29] In Distrazione, I*, p. 468 e Marsina stretta, II*,… [29] per ‘accelerare l’andatura’, far buona comparsa [30] La verità, I*, p. 743. [30] per ‘far bella figura’, guardarsi davanti e dietro [31] Lo spirito maligno, II*, p. 174. [31] per ‘esser guardingo’) e i proverbi (fortuna e dormi, meglio nero pane che nera fame) [32] Entrambi nel Vitalizio, II**, p. 843 e 872. [32] , mentre, tra i tratti morfologici più vistosi trasferiti dal dialetto alla lingua, è ancora il caso di ricordare peggiorativi del tipo figliacci [33] Ne L’altro figlio, II*, p. 47. [33] e madraccia [34] In Acqua amara, I*, p. 270, e L’imbecille, I*, p…. [34] con gli stessi valori delle forme dialettali figliazzi e mammazza e cioè ‘figli e mamma degeneri’.
24
A livello sintattico, infine, è opportuno segnalare l’uso dello stato in luogo con a + art. + nome, come in dialetto, piuttosto che con in + nome, come in: ” Nessuno aveva visto Neli, né era riuscito ad averne notizia, né all’Argentina, né al Brasile, né agli Stati Uniti. ” [35] Ne Il ” fumo “, I*, p. 64, corsivo mio. [35]
25
I pochi esempi ricordati danno un’idea più che sufficiente delle scelte linguistiche e stilistiche di Pirandello e spiegano bene perché ” l’impatto della prosa pirandelliana sulla formazione della lingua nazionale è stato notevole e duraturo ” [36] Luca Serianni, 1993, ” La prosa “, in Id. e Pietro… [36] .
2. Stefano D’Arrigo

26
È l’autore di Horcynus Orca, romanzo uscito nel 1975 presso Mondadori. Il romanzo, lunghissimo, fu atteso per lungo tempo e fu fonte di vivaci discussioni dopo la pubblicazione. Oggi se ne parla poco. Le storie letterarie si limitano a collocare il romanzo nell’area dello sperimentalismo espressionistico [37] Cosî, ad esempio, Giulio Ferroni, 1991, Storia della… [37] .
27
Sono poche le occasioni in cui D’Arrigo ha potuto consegnare alla critica la sua “poetica”. In un’intervista concessa a Stefano Lanuzza [38] In Stefano Lanuzza, 1985, Scill’e Cariddi. Luoghi… [38] dichiara che nello scrivere il suo Horcynus il problema non era ” di raccontare certi fatti ma del come raccontarli, e, di conseguenza, di quale linguaggio […] adoperare ” [39] Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134. [39] . E subito dopo: ” Ho costantemente cercato di far coincidere i fatti narrati con l’espressione, la scrittura con l’occhio e con l’orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile. ” [40] Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134-35. [40] Infine, in riferimento all’utilizzazione del dialetto, passato ovviamente attraverso il filtro dell’italiano, dichiara: ” […] per non pochi aspetti, Horcynus Orca [è] il momento, certo non paradigmatico, di una scrittura che vuole rifarsi anche all’espressività del parlato e all’idioma popolare, ma in un senso non demagogico né pretestuoso, cercando di trar fuori, ricreare e quindi valorizzare al massimo la temperie culturale e l’elemento estetico di quell’idioma. ” [41] Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 139. [41]
28
Quell’espressività è dilatata dallo scrittore fino ai limiti delle possibilità consentite a un sistema linguistico e non sono pochi i casi in cui l’autore non esita a violare i “blocchi” che la lingua impone alla formazione di parole nuove [42] Ho segnalato altrove (Salvatore C. Trovato, 2007,… [42] . La ricchezza di forme tratte dal dialetto e da lui piegate in vario modo alle esigenze espressive della scrittura letteraria è inimmaginabile.
29
La regionalità permea tutta l’opera di D’Arrigo, nella quale netto è il rifiuto della manzoniana lingua unitaria di base toscana, ormai storicamente e pedagogicamente superato, mentre il dialetto viene sfruttato sino alle possibilità estreme, fino a diventare forma lessicogena per lingue altre, che di volta in volta, nella costruzione darrighiana, possono assumere, esternamente, veste francese o addirittura latina, ferma restando l’anima, che è dialettale. Tale è il caso, ad esempio, di improsare ‘truffare; ingannare’ e improsatura ‘truffa; inganno’, trasportate direttamente dal sic. mprusatura e mprusari ‘id.’, ma anche di improsé (p. 62), improsato (p. 716) e della bella e imprevedibile retroformazione (in) prosum (p. 85), in latino!, qui inventata a coprire di raffinatezza, ostentata e ironica, un concetto colpito da tabù, oltre che a supplire egregiamente un proso mancante in Horcynus come nel siciliano, ma ben presente in vari gerghi, e nell’argot nella forma proze.
30
Intere famiglie lessicali e campi semantici vengono attinti al siciliano e trasportati in italiano.
31
Tra le famiglie lessicali, tantissime, si pu ricordare quella formatasi, nel siciliano e nel romanzo darrighiano, attorno a babbo ‘stupido; persona stupida’ coi derivati babbigno, babbione, babberia, babbicello, imbabbirsi e i composti babbannacchio e babbabella; mentre, tra i campi semantici, si pu ricordare, tra i tanti, la terminologia degli uomini di mare appresa dallo scrittore dai pescatori dello Stretto: acciara, bastardello, caloma, conzo, feluca, filere, gistra, intinnere, ontro, palamitara, palella, rema calante, rema montante, sciabica, scorciatore, traffinera; e, ancora, una serie di neoformazioni che ruotano attorno ai poemi epici del ciclo carolingio – notissimi nella cultura popolare attraverso l’Opera dei Pupi – e in particolare ai due toponimi Maganza e Roncisvalle. Dal primo D’Arrigo deriva l’agg. maganzese ‘traditore’, il cui modello immediato è nel sic. maganzisi ‘id.’ [43] Cf. Tropea Giovanni, a cura di, 1985, Vocabolario… [43] ; dal secondo, Roncisvalle, invece, forma alcuni derivati inediti. Il percorso muove dall’uso referenziale del toponimo con un primo passaggio a quello antonomastico: ” Dallo sperone [i pellesquadre] avevano voglia a gridare per avvertirli [i pescespada] che stavano incappando a Roncisvalle, perché questa fu: una Roncisvalle, una carneficina, una strage degli innocenti, uno sterminio ” (p. 524); prosegue poi dal nome proprio al nome comune: ” Ci furono miserande roncisvalli di marinai italiani come voi, nei mari qui dintorno e sti nomi di strage, certo v’arrivarono pure a voi […] ” (p. 346), e quindi all’aggettivo: ” I pellisquadre se lo sentirono subito che quella era aria maganzese, impresa roncisvalla ” (p. 522), o in: ” I pellisquadre si confermarono che quello delle fere era appostamento roncisvallo ” (p. 523). Dal nome comune, infine si passa da un lato al verbo roncisvallare e roncisvallarsi e all’agg. verb. roncisvallato, e dall’altro all’agg. roncisvalloso.
32
Numerose poi le neoformazioni in cui: a) a una base italiana si aggiunge un suffisso siciliano (induzione del suffisso), come il notevole deissa [44] P. 383 con numerose occorrenze. Si noti che l’it…. [44] (← it. dea + sic. -issa, ad es. di bbatissa ‘badessa’, bbarunissa ‘baronessa’, liunissa ‘leonessa’, ecc.); b) a una base siciliana si aggiunge un suffisso italiano, come è il caso, ad es. di pazziscolo [45] Con numerose occurrenze nel romanzo, di già segnalate… [45] ‘un po’ pazzoide’ che presuppone il sic. pazziscu (l’it. ha pazzesco) cui si aggiunge il suff. it. -olo (dimin., vezz., o, nel caso in questione, attenuativo). E tanti altri.
33
Ancora il dialetto gli fornisce forme reduplicate del tipo maremare, piedipiedi (nella forma graficamente unita), oltre che orlo orlo, pelo pelo, riva riva i quali tutti, sicilianamente, indicano moto attraverso luogo.
34
Lo studio dei giochi di parole, altro campo di rilevante interesse in Horcynus, esce dal tema di questo breve intervento, ma è opportuno mettere in rilievo, sia pure di passata, che anche in questo un campo D’Arrigo si è egregiamente misurato. Basti pensare a famera e ferame che rappresentano il diverso sviluppo dell’incrociarsi di fera e fame; a Masignora, in cui a incrociarsi sono il modello francese madame e il calco italiano mia signora; a barca che, per sottrazione progressiva di lettere (o di suoni) dà luogo ad arca, ma anche a bara e ad ara; oltre che a giraluna ammiccante neoformazione calcata sul “normale” girasole.
35
Questi pochi esempi [46] Ma v. Salvatore C. Trovato, La formazione delle parole…… [46] danno appena l’idea della lingua di D’Arrigo e della grande tensione stilistica che attraversa tutto il romanzo. E ha ragione Guglielmi [47] Angelo Guglielmi, a cura di, 1981, Il piacere della… [47] quando scrive che ” il lettore è trascinato a una vigilanza cui solitamente non è chiamato “, poiché sono i grandi testi che obbligano a capire o a interrompere per sempre la lettura.
3. Vincenzo Consolo

36
Vincenzo Consolo, parlando di sé e della sua opera in una intervista effettuata a Roma nel giugno del 1993 [48] Vincenzo Consolo, 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia… [48] si autodefinisce scrittore ” di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale ” (p. 6); mentre poi, parlando del suo primo libro – La ferita dell’aprile [49] Prima ediz, 1963, Milano, Arnoldo Mondadori. Seconda… [49] – sottolinea che ” il racconto non [è] di tipo realistico-testimoniale, ma memoriale e metaforico ” e che la scrittura di quel suo primo romanzo non è ” di tipo logico, referenziale, ma fortemente trasgressiva ed espressiva ” [50] Consolo, Fuga…, p. 14. [50] . Poco più oltre ribadisce il bisogno di conservare alla memoria fatti e persone, in un mondo ” che cerca di cancellare la nostra memoria ” [51] Consolo, Fuga…, p. 28. [51] , e assegna alla letteratura la funzione del ” memorare “. E il ” memorare ” trascina con sé ” la necessità di riesumare un certo patrimonio lessicale, di nominare gli oggetti, di evocare personaggi emblematici ” di quel mondo scomparso, che Consolo rappresenta nei suoi romanzi.
37
Successivamente, all’intervistatore che, nel dichiarare l’assoluta novità della Ferita cosî fortemente espressionista, gli chiede se nel 1963 avesse letto Gadda, Consolo risponde positivamente ribadendo che ” in letteratura non si è innocenti ” [52] Consolo, Fuga…, p. 15. [52] . Seguono poi delle parole importanti a capire la formazione dello scrittore e le sue scelte linguistiche e stilistiche: ” Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Ritenevo che fosse conclusa la stagione del cosiddetto neorealismo e avevo l’ambizione di andare un po’oltre quell’esperienza. Mi sono trovato cosî fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria, una vera spinta oppositiva, la consapevolezza che le cancellazioni, gli azzeramenti avanguardistici, la loro impraticabilità linguistica, che si pu rovesciare nel conservatorismo più bieco, sono speculari all’impraticabilità linguistica o all’afasia del potere. La nuova lingua italiana, tecnologico-aziendale-democristiana era uguale a quella del Gruppo ’63. ” [53] Consolo, Fuga…, p. 15. [53]
38
Memorialità della scrittura letteraria e forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria nella maniera che le intende lo scrittore non sono conseguenza dello sperimentalismo, che pure fa parte del credo poetico consoliano, ma elementi di fondo che convergono verso lo sperimentalismo. Nella prassi Consolo mostra di sapere sapientemente mescolare i codici più svariati, la lingua e il dialetto o i dialetti, il latino e il greco, il francese e lo spagnolo, ma anche i vari registri della lingua, l’italiano aulico e duecentesco, quello regionale, quello popolare, lessici specialistici e linguaggio popolare, o di attribuire al dialetto – in particolare a quello di San Fratello, un’isola linguistica italiana settentrionale tra le parlate siciliane – funzione di protesta e di rabbia sociale, quando, nel Sorriso dell’ignoto marinaio lo mette in bocca al povero prigioniero del principe Granza Maniforti, o di presentarlo come la lingua di un’Arcadia felice, naturale, primigenia, la lingua della ” remota Contrada senza nome “, nella favola teatrale Lunaria [54] V. per ci, S. C. Trovato, 1995, ” Forme e funzioni… [54] .
39
Cosî, a ripercorrere qualcuno dei romanzi consoliani, ci si imbatte, pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, in parole attinte al siciliano e promosse a lingua letteraria. Tra queste, una serie di regionalismi segnici, come arco di Noè (No. [55] No. = Vincenzo Consolo, 1992, Nottetempo, casa per… [55] 108) per ‘arcobaleno’; carnaglie (No. 61) per ‘quantità di prodotti in natura che il fittavolo deve al proprietario del fondo oltre al canone pattuito’, adattamento del sic. carnaggi ‘id.’; luponario (No. 114) per ‘licantropo’; male catubbo (No. 7, 14) per ‘epilessia’; tarderite (No. 51, 144) per ‘pipistrelli’ o anche zampette (No. 125, 131, 134) spiegato con ‘uose’ dallo stesso Consolo: ” Batteva e ribatteva alla buffetta, tagliava e cuciva Gandolfo Allegra, e d’incanto fiorivano nelle sue mani paia e paia di scarpe, che scarpe non erano ma uose pelose di vacca becco porco. Zampette le chiamavano […] ” (No. 125). E poi i regionalismi semantici o di significato, meno numerosi, ma ugualmente presenti, come: bramare (No. 81) per ‘urlare’, imbarazzi (So. [56] So. = Vincenzo Consolo, 1976, Il sorriso dell’ignoto… [56] 97, No. 47) per ‘cianfrusaglie’, làstrico (So. 105, No. 30, 49, 110, 169, Spa. [57] Spa. = Vincenzo Consolo, 1998, Lo spasimo di Palermo,… [57] 31, 48) per ‘terrazzo’, lenticchie (No. 78) per ‘efelidi’ o ‘lentiggini’ ed altri ancora.
40
Vanno ancora ricordati calchi del tipo piumaccio (Pa. [58] Pa. = Vincenzo Consolo, 1988, Le pietre di Pantalica,… [58] 79 e No. 24) ‘guanciale, cuscino’ rifatto sul sic. chjumazzu ‘id.’ o anche sap’egli (Fe. [59] Fe. = Vincenzo Consolo, 1977, La ferita dell’aprile,… [59] 22) per ‘chissà’, strutturalmente calcato sul sic. sapiddhu ‘id.’.
41
Poi, per quel che riguarda il patrimonio lessicale recuperato alla memoria, è possibile indicare sequenze di lessico settoriale appreso dai pastori, dagli olivicultori, dagli agrumicultori, dai pescatori e dai lavoratori del mare, lessico che rende davvero Consolo, come egli ama dire di sé stesso, scrittore ” di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale ” e, insieme, nella misura in cui alcune di quelle parole possono essere frattanto sparite, scrittore “memoriale”.
42
Al lessico della pastorizia sono attinte cazza, rtola, fiscelle: ” Partiti i genitori e i fratelli, Janu […] supino sul paglione, […] prendeva da terra il fiasco e scolava quel vino vecchio, acido, da tempo nella nicchia, tra cazza rtola fiscelle, lasciato dalla brigata […] ” (No. 75 [60] Corsivo mio. [60] ); a quello degli olivicultori le parole che nel brano che segue evidenzio in corsivo: ” Petro […] faceva i conti nel quaderno, scriveva le partite, i rotoli i cantàri delle olive, il tempo di passata della mola, il numero di coffe riempite, la primitura prima e altre, i cafîsi di vergine di pasta di sansa di rinzzolo, il numero di otri riempiti, l’olio d’inferno che prendevano i fezzari pel sapone e per le lampe […] ” (No. 108); alla terminologia agricola dell’agrumicultura e dell’orticultura vanno riferite le sequenze lessicali evidenziate in corsivo nel brano che segue: ” […] qui giardini di tarocchi portogalli sanguinelli cedri chinotti mandarini, là distese di carcioffoli cocuzze saracine cardi vrccoli finocchi – appresso Làscari Roccella Bonfornello […] ” (No. p. 123); alla terminologia dei vasai: ” Lasci la riva una speronara ch’avea fatto carico di pignatte quartare lancelle giarre piatti lemmi e mafaràte delle fabbriche di Marina di Patti ” (So. p. 9); e infine, a quella dei pescatori e della gente di mare: ” Tonno. Tonnina, ventresca, bottarga, cuore, ficazza, lattume e buzzonaglia ” (So. p. 31).
43
Gli esempi potrebbero a lungo continuare, ma preferisco rimandare per ci al lavoro in stampa di Grasso-Trovato [61] Sebastiano Grasso, Salvatore C. Trovato, in stampa,… [61] .
44
Sull’altro versante dello sperimentalismo, ecco la lingua colta, elevata, la lingua per la quale Consolo si considera legato alla tradizione letteraria. Anche per questa è possibile compilare un vocabolario. Qui basta solo ricordare parole come verone, madonna, guata, vento di Soave che entrano in un brano di grande tensione lirica, composto da splendidi endecasillabi – ” Al castello de’ Lancia, sul verone, / madonna Bianca sta nauseata. / Sospira e sputa, guata l’orizzonte. / Il vento di Soave la contorce. / Federico confida al suo falcone: […] ” (So. p. 4) – e utilizzato dallo scrittore a introdurre una citazione dotta: i versi di una canzone di Federico II:
O Deo, come fui matto
quando mi dipartivi
là ov’era stato in tanta dignitate
E sî caro l’accatto
e squaglio come nivi… ” (So. p. 4).
45
Altrove, come ad es. in Nottetempo, è posibile trovare altre parole colte o comunque rare e iperletterarie come pusterla (p. 11), la casa de la dolora (p. 41), i propugnacoli (p. 141), l’nfalo (p. 150), gli olifanti (p. 153) e poi ancora flammule (p. 152), flato (p. 152), pàrodo e stàsimo (p. 167), iconostasi e flicorni (p. 153) e tante altre.
46
E infine, tralasciando le citazioni latine, greche, i prestiti francesi, l’italiano popolare delle iscrizioni del nono capitolo del Sorriso, ecco la chiusa del romanzo nel dialetto galloitalico di San Fratello, in cui il povero prigioniero del Granza Maniforti – e con lui lo scrittore – si appella alla ” fam sanza fin/ di/ libirtaa ” ‘la fame senza fine di libertà”.
PER CONCLUDERE

47
Al di là delle motivazioni storiche e stilistiche che hanno spinto e spingono gli autori della letteratura italiana a utilizzare, nella loro scrittura, movenze e forme attribuibili al dialetto, non posso non concludere queste righe, senza citare, ancora una volta, Pirandello. Scrive, infatti, l’autore agrigentino che la ” generalità ” della nostra letteratura – e cioè la caratteristica peculiare della letteratura italiana – è la ” dialettalità, da intendere come vero e unico idioma, vale a dire come essenziale proprietà d’espressione, la quale, come Dante scrisse: “in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla” ” [62] Luigi Pirandello, 1921, ” Dialettalità “, Cronache… [62] . E la dialettalità non è difetto, ma ricchezza, ” ricchezza di storia, ricchezza di vita, ricchezza di forme e di costumi, ricchezza di caratteri ” [63] V. nota precedente. [63] .
Notes

[1]
Non interessano, in questa sede, le scelte mistilingue.
[2]
V. Graziadio Isaia Ascoli, 1870, ” Proemio ” all’Archivio Glottologico Italiano I, ristampato in parte in Id., Scritti sulla questione della lingua a cura di Corrado Grassi, Torino, Einaudi, 1975, p. 28.
[3]
Cf. Romano Luperini et al., La scrittura e l’interpretazione. Storia e antologia della letteratura italiana nel quadro della civiltà europea. 3. Dal Naturalismo al Postmoderno, t. III : Dal Fascismo ad oggi, Palermo, Palumbo, 2001, p. 762.
[4]
Luigi Pirandello, 1890, ” Prosa moderna (Dopo la lettura del Mastro don Gesualdo del Verga) “, in Vita Nuova, 5 ottobre 1890, ora in Id., 2006, Saggi e Interventi a cura e con un saggio introduttivo di Ferdinando Taviani e una testimonianza di Andrea Pirandello, Milano, Arnoldo Mondadori, p. 78-81: p. 81. Il corsivo è nel testo.
[5]
Antonino Pagliaro, 1969, ” Teoria e prassi linguistica di Luigi Pirandello “, in Bollettino [del] Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, vol. 10, p. 249-293: p. 268.
[6]
Pagliaro, Teoria., p. 268.
[7]
Pagliaro, Teoria., p. 268.
[8]
Maria Luisa Altieri Biagi, 1980, ” Pirandello: dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica “, in Ead., La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, p. 163 sgg.
[9]
Altieri Biagi, La lingua…, p. 171.
[10]
Altieri Biagi, La lingua…, p. 170.
[11]
Uno spoglio completo dei regionalismi nelle Novelle per un anno è stato portato a termine, nell’ambito delle loro tesi di laurea, dalle mie allieve Maria Rosa Bonanno e Maria Giovanna Màvica, che ora ne preparano l’edizione per la stampa.
[12]
Gli esempi che seguono sono tratti da Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Milano, Arnoldo Mondadori, 1985, voll. I* e I**; 1987, voll. II* e II**; 1990, voll. III* e III**. Cosî, il babbo (nel femm. babba e in un discorso diretto) in questione è in Tutt’e tre, II*, p. 273.
[13]
Nella novella Il ” fumo “, I*, p. 67 (in un discorso diretto).
[14]
Nella novella Chi la paga, II*, p. 466.
[15]
Nelle novelle Tanino e Tanotto, II**, p. 755, e Il Vitalizio, II**, p. 841.
[16]
Nel Vitalizio, II**, p. 854.
[17]
Nelle novelle Il vitalizio, II**, p. 845, 846; Il viaggio, III*, p. 222; I due giganti, III**, p. 1157.
[18]
Nelle novelle Il ” fumo “, I*, p. 52 ; La giara, III*, p. 5.
[19]
Nella novella La morta e la viva, III*, p. 88.
[20]
Nella novella Fuoco alla paglia, I*, p. 345.
[21]
Nella stessa novella, p. 339.
[22]
In Novelle, III**, p. 667-675.
[23]
P. 668.
[24]
II**, p. 690.
[25]
II**, p. 904.
[26]
Non lo registrano, infatti, Dardano, Devoto-Oli, 2000 (Dir.), Zingarelli, 2007.
[27]
E cioè: Battaglia Salvatore, Bàrberi Squarotti Giorgio, a cura di, 1998, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, vol. XIX, p. 505.
[28]
Altieri Biagi, La lingua…, p. 170.
[29]
In Distrazione, I*, p. 468 e Marsina stretta, II*, p. 311.
[30]
La verità, I*, p. 743.
[31]
Lo spirito maligno, II*, p. 174.
[32]
Entrambi nel Vitalizio, II**, p. 843 e 872.
[33]
Ne L’altro figlio, II*, p. 47.
[34]
In Acqua amara, I*, p. 270, e L’imbecille, I*, p. 519.
[35]
Ne Il ” fumo “, I*, p. 64, corsivo mio.
[36]
Luca Serianni, 1993, ” La prosa “, in Id. e Pietro Trifone, Storia della lingua italiana, Vol. primo. I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, p. 571.
[37]
Cosî, ad esempio, Giulio Ferroni, 1991, Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Torino, Einaudi, p. 534 e Luperini et al., Storia e antologia…, p. 762.
[38]
In Stefano Lanuzza, 1985, Scill’e Cariddi. Luoghi di ” Horcynus Orca “, Catania, Lunarionuovo, p. 133-39.
[39]
Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134.
[40]
Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 134-35.
[41]
Lanuzza, Scill’e Cariddi…, p. 139.
[42]
Ho segnalato altrove (Salvatore C. Trovato, 2007, ” La formazione delle parole in Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Tra regionalità e creatività “, Quaderni di Semantica a. XXVIII, n. 1, p. 41-88) stravaganterîa per stravaganza e posso ancora aggiungere, tra i tanti, delinquenteria, nonsenseria, allarmosamente, spontemente segnalati da Clara Grosso, in stampa, ” Horcynus Orca tra italiano regionale e creatività linguistica “, in L’Italia dei dialetti. Atti del Convegno Internazionale di Dialettologia, Sappada-Plodn, 26 giugno – 1 luglio 2007.
[43]
Cf. Tropea Giovanni, a cura di, 1985, Vocabolario siciliano, Catania-Palermo, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, II, p. 580.
[44]
P. 383 con numerose occorrenze. Si noti che l’it. conosce deessa e diessa, il fr. déesse (cf. Battaglia Salvatore, Bàrberi Squarotti Giorgio, a cura di, 1966, rist. 1971, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Torino, UTET, vol. IV, p. 112).
[45]
Con numerose occurrenze nel romanzo, di già segnalate in Trovato, La formazione delle parole…, p. 43 n.
[46]
Ma v. Salvatore C. Trovato, La formazione delle parole… oltre che Id., ” Italiano regionale e creatività linguistica in Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo “, Siculorun Gymnasium. Rassegna della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania, N.S., a. LVI, n. 1, p. 211-223.
[47]
Angelo Guglielmi, a cura di, 1981, Il piacere della letteratura. Prosa dagli anni ’70 ad oggi, Milano, Feltrinelli, p. 164.
[48]
Vincenzo Consolo, 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.
[49]
Prima ediz, 1963, Milano, Arnoldo Mondadori. Seconda ediz. 1977, Torino, Einaudi.
[50]
Consolo, Fuga…, p. 14.
[51]
Consolo, Fuga…, p. 28.
[52]
Consolo, Fuga…, p. 15.
[53]
Consolo, Fuga…, p. 15.
[54]
V. per ci, S. C. Trovato, 1995, ” Forme e funzioni del linguaggio “, in Nuove Effemeridi. Rassegna Trimestrale di Cultura, VIII, n. 29: p. 15-29 [numero monografico dedicato a Vincenzo Consolo].
[55]
No. = Vincenzo Consolo, 1992, Nottetempo, casa per casa, Milano, Arnoldo Mondadori.
[56]
So. = Vincenzo Consolo, 1976, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino, Einaudi.
[57]
Spa. = Vincenzo Consolo, 1998, Lo spasimo di Palermo, Milano, Arnoldo Mondadori.
[58]
Pa. = Vincenzo Consolo, 1988, Le pietre di Pantalica, Milano, Arnoldo Mondadori.
[59]
Fe. = Vincenzo Consolo, 1977, La ferita dell’aprile, Torino, Utet.
[60]
Corsivo mio.
[61]
Sebastiano Grasso, Salvatore C. Trovato, in stampa, Il vocabolario regionale di Vincenzo Consolo.
[62]
Luigi Pirandello, 1921, ” Dialettalità “, Cronache d’attualità, agosto-settembre-ottobre, ora in Id., 2006, Saggi e interventi…, p. 1025-1028: p. 1027, passim.
[63]
V. nota precedente.
Résumé

English
Both in the written and the oral form, the dialects have always been the great reserve of the Italian language, which has never had a spoken ” pendant “, being born as a literary language. The only true spoken language was, especially in the past, dialect. Italian writers have always derived data from this huge reserve. Realism and Expressionism have motivated writers to use dialects, even through the filter of the Italian language. According to that, are being examined both works of Pirandello, an author lived between the 19th and the 20th century, and works written by contemporary authors, like D’Arrigo and Consolo. For each of them a representative sample of their ” regionality ” is given.
Plan de l’article

LA REGIONALITA LETTERARIA TRA REALISMO ED ESPRESSIONISMO
TRE SCRITTORI COMPROMESSI COL DIALETTO: PIRANDELLO, D’ARRIGO, CONSOLO
1. Luigi Pirandello
2. Stefano D’Arrigo
3. Vincenzo Consolo