“Dentro il paesaggio”

Per Rino Scognamiglio

Sul lago di giallo cadmio, d’ocra dorata, di limone, naviga un paesaggio
vivido, verde terra, rosso cinabro, un campo in cloisonnage che si
stacca per urgenza, affresco per fioritura di salnitro, isola vagante al soffio
dei venti. E il lago e il campo hanno tagli vibranti, argentei, lunari, ferite
per febbri di crescenza, pulsioni d’umori incubati, frenetiche ansie, primaverili insorgenze

Verde che spiega al flabello, si modula a scala, in crescendo, terra oliva
cobalto smeraldo veronese, a bande si piega in volute, a chiocciola,
a spirale. La cui ansa, seno, golfo, madreperla muschiosa, è lambita da onde, da ritmi azzurri, marini, vibrazioni orizzontali, trasparenze abissali.
E su terra mare cielo, fiammate, incandescenze, immobile luce, pietrificata,
d’estivi meriggi.

Rossi piani che si incontrano, s’intersecano a angolo – il verticale è
più ardente, di sangue cristallino, vermiglio, più cupo l’altro, indiano
o porporino. Sul quale, in parallelo, in geometrica cadenza, occhieggiano,
in processione vanno lumache smeraldine, cespi, chiome, avvolgimenti,
viti d’una vigna in fiamme un tramonto senza fine, autunnale.

Grava sulla distesa bianca un bianco aggrumato d’argento o di zinco, e vene d’azzurro
serpeggiano, riflessi di ghiacci o metalli. Memorie vaghe riemergono, affiorano pallide, incerte, a linee, a macchie, sogni di blu e di rossi, nostalgia di forza e calore, da lontani, sepolti paesaggi, nel freddo e nell’atonìa del sonno che non promette risvegli.

Paesaggi, nelle cadenze del perenne giro del tempo. D’una natura riemersa in variazioni di luce, un gioco infinito di toni. In pigmentazioni, in grumi materici. E se una commozione, un sentimento vibra per le linee
e i colori, lo stesso senti che non siano nella natura, ma nella nostalgia della natura. Che uno strazio grava sopra quelle tele, che il dolore d’una lontananza, d’una perdita le impregna. Dolore per il tempo che inesorabilmente ci stacca, ci trascina verso gli abissi del buio e dell’oblio; per una natura lontana,
inaccessibile dietro spesse lastre di cristallo.

Qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario…

Il Montaliano reliquiario è qui la tela che è lo strappo d’un affresco, il
recupero estremo d’un paesaggio che vetustà, erosioni, opera devastante della storia sono sul punto
di cancellare, disperdere nel nulla.
In passato, nelle tele di Scogliamiglio c’era come l’impressione di reperti paleontologici , di paesaggi, forme
violate da tagli verticali, come certe erbe, certi pesci nel cuore delle pietre.
Oggi c’è come un ribaltamento di piani, come una disposizione di quei reperti nella loro primitiva posizione orizzontale, una riesposizione al sole. E conseguente rimetterli nel ciclo del tempo, nella vicenda della luce e del colore.
Per una più pressante forza della memoria, per un più acuto bisogno di poesia.

Vincenzo Consolo

Milano, febbraio 1984

“Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa Aseneth” di Anonimo

 

Romanzo d’amore e d’avventura

di VINCENZO CONSOLO

Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe e di Rachele, odiato dai fratellastri, venduto a mercanti ismaeliti e finito schiavo in Egitto; oggetto di desiderio della moglie di Potifar, consigliere del faraone, calunniato e imprigionato; liberato e irresistibilmente asceso grazie alle sue facoltà oniromantiche, al potere e alla ricchezza; salvatore dell’Egitto e del suo popolo dalla fame durante i sette anni di carestia, questo Giuseppe, non solo occupa il suo posto importante e singolare nel libro dei libri, nella Bibbia, ma trasmigra in altri libri sacri, dal Talmud al Corano. E da sempre ha acceso fantasie, ha mosso il bisogno di sciogliere enigmi contenuti nel conciso testo biblico, di dipanare e arricchire il racconto originale, di togliere questa figura dalla sua intangibile e impenetrabile corazza di sacralità, di profezia, di missione, di bellezza e di virtù, e umanizzarla, laicizzarla: ha mosso insomma il bisogno di imbastire racconti sul racconto, di scrivere libri sul libro. Da tutta la letteratura orale e scritta mediorientale fino ai cosiddetti pseudepigrafi, fino ai moderni scrittori occidentali, da Goethe a Mann.

In Poesia e verità, Goethe ricorda che, da ragazzo, sulla storia di Giuseppe aveva costruito un’ampia narrazione, che poi aveva distrutto. Scrive: “Questa semplice e spontanea storia (…) si è tentati di completarla in tutti i suoi particolari “.  E Mann, coma ad accogliere l’invito del suo predecessore, dedicò sedici anni della sua vita a riscrivere la storia di Giuseppe, sedici anni a scrivere una tetralogia dal titolo Giuseppe e i suoi fratelli.

Ma c’è, nella biblica storia di Giuseppe, “bello di forma e avvenente di aspetto”, del “casto” Giuseppe, un episodio che più degli altri è conciso, sibillino; più degli altri ha posto problemi di ordine esegetico, religioso.

È l’episodio del suo matrimonio con l’egiziana Aseneth ( matrimonio misto, d’un figlio d’Israele con una straniera) .  Episodio che più degli altri ha acceso quelle fantasie narrative di cui dicevamo.

Così racconta la Bibbia: “E il faraone chiamò Giuseppe Zafnat – Panache e gli diede in moglie Aseneth, figlia di Potifera, sacerdote di On”; “Intanto nacquero a Giuseppe due figli, prima che venisse l’anno della carestia; glieli partorì Aseneth (…) Giuseppe chiamò il primogenito Manasse (…) E il secondo lo chiamò Efraim (Genesi, 41,43).  Su questo episodio s’imbastisce il bellissimo romanzo in lingua greca dei primi anni dell’era cristiana, di autore anonimo, presumibilmente della comunità ebraica di Alessandria.  Il romanzo s’intitola Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa Aseneth.  Il quale ora, felicemente tradotto da Marina Cavalli e accompagnato da una dotta e appassionata nota di uno dei nostri maggiori grecisti, Dario Del Corno, è pubblicata dall’editore Sellerio.

La storia di Giuseppe in Egitto, il suo matrimonio con Aseneth, è senza dubbio la storia di un emigrato che si integra nel nuovo mondo, col suo potere, fino a impersonarlo anzi, dopo il faraone, fino a cambiare nome, fino a sposare una idolatra. Da questo punto “dubbio” della vita di Giuseppe, che ha gettato un’ombra sul popolo eletto, parte l’indagine di Del Corno, muovendosi tra l’ironia moderna di Mann, che fa bruciare a Giuseppe “incenso davanti a un’immagine del falco Horacte con il disco solare sulla testa” (Giuseppe in Egitto), e l’astuzia della teologia antica, che arriva a trasformare l’egiziana Aseneth nell’ebrea nipote di Giuseppe, figlia di Dina, per mettere in luce la terza via rappresentata da questo romanzo greco: di Aseneth convertita per amore.  Un’opera “al punto di incrocio tra l’apologetica e la fiaba, il romanzo e l’allegoria” scrive Del Corno. Per noi romanzo soprattutto d’amore e d’avventura, nettamente diviso in due parti.

Nella prima, campeggia la stupenda figura di Aseneth, “maestosa e fiorente”, chiusa nello splendore delle sue vesti, dei suoi gioielli, delle sue camere animate dalla virginale presenza delle sette ancelle, in cima alla inviolabile torre in mezzo a un giardino di delizie; di Aseneth che, folgorata d’amore, dopo sette giorni di espiazione con lacrime, cenere e digiuno, “convertita”, risorge a nuova vita e sposa Giuseppe. Nella seconda, tutta azione, intrighi, agguati, battaglie, ferimenti e uccisioni, è il trionfo del bene sul male, di Giuseppe sul figlio del faraone.

 

Romanzo carico di simboli, ora chiari ora indecifrabili; opera che, al di là delle sue ipoteche teologiche, religiose, vive di una sua autentica vita letteraria, di una sua vera poesia.

Da Il Messaggero 15/2/1984

Lingua originale: greco antico
Traduzione di Marina Cavalli
Titolo originale: Πράξεις του̃ παγκάλου ‘Ιωσήφ καί τής γυναικòς αυ̉του̃ Ασενὲθ θυγατρòς Πεντεφρη̃ ‘ιρέως ‛Ηλιoυπόλεως
Nota di Dario Del Corno
4 illustrazioni a colori
Una delle più poetiche storie, imperniate sulla figura di Giuseppe, proliferate dalla tradizione biblica.