“E la fantasia più fantastica di tutte si trova dispiegata in quel catoio profondo, ipogeo sènia, imbuto torto, solfara a giravolta, che fa quasi da specchio, da faccia arrovesciata del corpo principale del castello sotto cui si spiega, il carcere: immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume”.
da Vincenzo Consolo, “Il sorriso dell’Ignoto marinaio”, Torino, Einaudi, 1976
Così scriveva Vincenzo Consolo nel romanzo che lo consacra al canone del Novecento italiano. La planimetria del mondo in cui si muove il suo protagonista, il barone Mandralisca, è un attorcigliarsi, un involversi, un contorcersi e firriarsi di tempi e luoghi, della stessa volontà del protagonista, che smanierebbe di rinchiudersi nel suo studio a catalogare conchiglie. Conchiglie, labirinti, la Storia e la storia come guazzabuglio incomprensibile, sporco e violento, rispetto al quale verrebbe voglia di arretrare, scappare, nascondersi, rifugiarsi tra “vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina”. Tra le buone cose di pessimo gusto, tra le belle cose frivole e rassicuranti che proteggono dal frastuono della Storia e della storia. E invece no, Vincenzo Consolo il suo intellettuale lo vuole immerso nelle cose del mondo, attenta e vigile sentinella, costantemente impegnato a combattere, prima di tutto dentro di sé, la tentazione di accomodarsi tra le buone cose di pessimo gusto. Ce n’è bisogno, Maestro, di sentinelle vigili.
Buon compleanno. 18 febbraio 1933 Sant’Agata Di Militello
In copertina: Leonardo Sciascia con Vincenzo Consolo a Racalmuto, contrada La Noce, 1984 – Foto di Giuseppe Leone (su licenza dell’autore)
Di Rosalba Galvagno
Con una lettera d’accompagnamento datata Sant’Agata Militello 6 dicembre 1963, Vincenzo Consolo inviava a
Leonardo Sciascia il suo primo romanzoLa ferita dell’aprile. Viene così inaugurata una corrispondenza che si chiuderà il 21 aprile 1988 con
una lunga lettera, sempre di Consolo, inviata questa volta all’amico Sciascia
da Milano. Con la sua prima missiva lo scrittore esordiente desidera sottoporre
alla lettura del «Conterraneo», il suo romanzo fresco di stampa: “Egregio signor Sciascia, mi permetto inviarle il mio libro La
ferita dell’aprile. Ho chiesto il Suo indirizzo alla redazione de L’Ora di
Palermo per compiere questo gesto che è dettato da due motivi: riconoscenza per
la parte che hanno avuto i Suoi libri nella mia formazione e desiderio d’essere
letto dal Conterraneo. Spero che questo primo contatto possa dare inizio a
futuri colloqui. La ringrazio intanto per l’attenzione che vorrà prestarmi e Le
porgo molti cordiali saluti.”
Sciascia reagisce a questa sollecitazione con tempestività, il 12 dicembre
1963, rispondendo con parole di stima nei confronti del
romanzo. Il grande scrittore di Racalmuto fa sapere al suo giovane
ammiratore di aver letto il testo con molta attenzione, in più chiede alcuni
«ragguagli», riguardanti specialmente la lingua utilizzata, con l’intenzione di
scriverne presto una recensione.
È così che, in breve tempo, si instaura un’autentica
e reciproca curiosità tra i due autori siciliani. Il più anziano,
nello stesso tempo in cui invita il più giovane a presentarsi ai premi
letterari di cui egli è giurato, non disdegna di apprezzarne il giudizio sulle
proprie opere, come ad esempio sul recente Morte dell’inquisitore,
un “libretto ora uscito (che è propriamente un libretto, ma mi è
costato molto lavoro)” (Caltanissetta, 18 marzo 1964). Consolo
si mostra sempre attento e sensibile ai suggerimenti dello scrittore
agrigentino e ricambia l’interesse capitale che quest’ultimo nutriva per il tema dell’Inquisizione e particolarmente per la
vicenda storica dell’Inquisizione in Sicilia. Lo stesso che gli fece scoprire e
notevolmente apprezzare un personaggio come il racalmutese Diego La Matina,
una “gigantesca figura” sulla quale Sciascia tornerà a
più riprese, specialmente dopo aver letto e riletto il romanzo di Luigi Natoli,
come scriverà in un bel saggio del 1967.
Sciascia, quindi, già all’inizio di questa frequentazione epistolare,
propone a Consolo di presentarsi al premio Soverato con La ferita dell’aprile, appena pubblicato nella collana
mondadoriana “Il Tornasole” diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Ma un
curioso destino escluderà il giovane scrittore dalla vittoria sia di questo che
di altri premi letterari cui l’amico scrittore, da giurato, lo invitava a
partecipare. Caduta l’iniziale barriera formale ben presto ̶ già a
partire dalle missive risalenti al 1964, i due corrispondenti abbandonano la
terza persona per la seconda ̶ , subentra in queste lettere una
confidenza diretta e spontanea, che non censura i problemi di salute o quelli
legati alla famiglia e soprattutto al proprio lavoro. Insomma, la
corrispondenza, in un primo momento prevalentemente letteraria, si fa anche
biografia del quotidiano, come quando ad esempio Sciascia accenna ripetutamente
all’acquisto e al pagamento di una certa quantità di olio, per sé e anche per
l’amico Emilio Greco, dal fratello di Consolo, o alla noia che lo opprime, o
ancora ai propri acciacchi fisici, o a certi obblighi familiari che si
intrecciano con quelli del lavoro.
Naturalmente non poteva mancare in questo carteggio la presenza di Lucio
Piccolo, che viene nominato per la prima volta da Sciascia in un post-scriptum
della lettera del 15 giugno1965: «Se vedi Lucio Piccolo, salutalo tanto da
parte mia». In un racconto che rievoca la prima lettera del nostro epistolario,
Consolo ricorda i due scrittori, «due archetipi per
me», proprio da lui fatti incontrare: «Leonardo Sciascia […] a cui avevo
mandato il libro con una lettera, mi rispose chiedendomi delucidazioni sulle
particolarità linguistiche della mia scrittura, e invitandomi insieme ad andare
a trovarlo a Caltanissetta, dove allora abitava. Così feci. E dopo, di tempo in
tempo, cominciai a frequentare, oltre Piccolo, anche Sciascia. Mi diceva
Piccolo, quando gli comunicavo che sarei andato a Caltanissetta, «Mi saluti il
caro Sciascia». E Sciascia, a sua volta, quando mi congedavo da lui, «Salutami
Piccolo». Così, alla fine, feci in modo di far incontrare il poeta e lo
scrittore, così antitetici, così lontani l’uno dall’altro: due archetipi per me, due cifre letterarie che ho
cercato, nella mia scrittura, di far conciliare. L’incontro avvenne una
domenica, la domenica in cui per la prima volta si celebrava nelle chiese la
messa in italiano. […]. Sciascia rimase affascinato dal personaggio e ne
scrisse dopo, in Carte segrete e ne la Corda pazza. Scrisse: “Tutto quello che Piccolo dice è
di un’acutezza che sempre, sia che giunga a verità semplici sia che attinga al
paradossale, sorprende e incanta. È uno che sottilmente conosce l’arte del
conversare; i giudizi, gli aneddoti, i calembours, gli
epigrammi, le citazioni scorrono nella sua conversazione con limpida e
incantevole fluidità”».
Oltre all’interesse letterario e storico per la Sicilia dei secoli XVII,
XVIII e XIX Consolo e Sciascia dichiarano anche di condividere l’amore per
Parigi, un mito incrollabile, com’è noto, per molti aristocratici e
intellettuali siciliani a partire già dal Settecento, e che scandisce a più
riprese, tra il 1976 e il 1988, questa corrispondenza. Sciascia
intitolerà Parigi un singolare saggio autobiografico
e storico-letterario al contempo, nel quale colpisce la scoperta di Parigi
fatta attraverso la Sicilia, come se Parigi gli avesse consentito di riscoprire
una certa immagine dell’isola.
Tra queste lettere sui «luoghi dell’anima», c’è anche quella in cui
Sciascia nomina La Noce, la contrada di campagna dove egli soleva trascorrere
le sue vacanze estive e amava ospitare gli amici, che è stata immortalata in
alcuni celebri scatti degli amici fotografi Ferdinando Scianna e Giuseppe
Leone.
Tra il fitto scambio di libri, di articoli e di recensioni, preme infine
segnalare il ripetuto riferimento di Sciascia alla bella, e oggi un po’
dimenticata, antologia dei Narratori di Sicilia,
nella quale, accanto ai testi dei più significativi scrittori siciliani, appare
il racconto di Consolo Per un po’ d’erba al limite del
feudo che Sciascia gli aveva caldamente richiesto.
Numerose altre curiosità letterarie e aneddoti biografici riserva
naturalmente la lettura integrale di questo prezioso carteggio, che condensa la
vita e il lavoro di poco meno di un trentennio di due fra i più grandi
scrittori del Novecento, offrendo uno spaccato singolare del contesto non
soltanto letterario ma più profondamente antropologico dei due corrispondenti,
un contesto da un lato fortemente radicato nell’arcaismo della cultura
siciliana, dall’altro incredibilmente aperto all’Europa (alla modernità). Ma
questo apparente, fecondo e affascinante contrasto costituisce, com’è noto,
l’originalissima cifra della grande letteratura siciliana classica.
Note Rosalba Galvagno ha insegnato Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università di Catania. Il testo per Ferraraitalia ripropone parzialmente l’Introduzione di Essere o no scrittore: Lettere 1963-1988. Libro di Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo , a cura di Rosalba Galvagno, Milano, Archinto, 2019
pubblicato il 16 febbraio 2021 sul quotidiano indipendente “FerraraItalia”
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il
dramma di Ulisse e di Ifigenia.
Senza la letteratura
Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece
Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per
eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo
viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].
Ulisse in viaggio,
intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di
Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare.
Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il
nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una
volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra,
sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2].
Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non
solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua
geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste
ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e,
smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea
risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la
sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che
l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia.
Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di
ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come
scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è
insanabile, inestinguibile[3].
Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel
luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo,
neppure nell’opportunità di un ritorno.
Ifigenia a sua volta,
la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci
Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una
reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei
lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua
madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in
questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di
una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa
greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere
il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia
in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita
il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella
mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume
i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui
rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come
dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche
di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla
Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia
nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può
essere estremamente traumatico.
Il mito e la letteratura,
proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in
simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di
vivere gli spazi.
Ne sa qualcosa Vincenzo
Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e
sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e
perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le
nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride
euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di
Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto
procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già
nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea
olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei
Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina –
ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti
anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la
vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la
nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con
le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4],
non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel
secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino
Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia
della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro,
deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica
esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di
via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il
testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado –
culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in
causa i simboli della tragedia euripidea[5],
tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6],
che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore
dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e
li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a
un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una
modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di
mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella
prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i
tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità
– l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il
migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi,
dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una
perdita irreparabile in termini di valori e identità[7].
La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e
la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e
quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.
Eppure, affrontato il
rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto
allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però
prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle
radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di
buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di
ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare
una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.
La vera letteratura ha
questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti
e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con
gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano
cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come
unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi
stessi.
Trovo illuminante la sua
riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo
scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo
appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado,
i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo
di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore
della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha
una sua indubbia fragilità.
Nella sua
rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di
sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi
pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui
sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi
del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia
tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni
gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di
sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta
il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia
perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto
nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza
che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono –
fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di
barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani.
Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli
spazi.
La sua opera invita
dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio
consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella
salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.
Il passato – come
insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e
umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo
linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un
ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.
Mi piace pensare che nei
versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità
sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione
vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi:
tolto tutto questo, cosa saremmo?
Solo se ripartiamo da
questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso,
difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo
avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche
speranza, se non per domani, almeno per dopodomani.
[1]A. Montandon,
Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des
mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.
[3]V.
Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983,
pp. 370-371.
[4]V.
Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un
saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. 869.
[5]V.
Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica,
in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.
[6]Ifigenia
fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno,
Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27
maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.
[7]«Non si
ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi
che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga
dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma
1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista
con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili.
Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a
colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento:
dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non
riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra
dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è
dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti,
espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza
sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non
s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda
da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante,
che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo
Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp.
20-22).
[8]P.P.
Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in
forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll.,
Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.
[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015. pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)
Caterina se ne è andata. Questa mattina ci ha lasciati la vedova di Vincenzo Consolo, custode preziosa e infaticabile della sua memoria. Oltre ai ricordi di anni intensi di collaborazione culturale, mi rimane la gratitudine per aver potuto godere della sua amicizia.
La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto: una lettura di Vincenzo Consolo, di George Popescu Literatura Italiana
Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che tra l’altro sono vere e proprie arti poetiche, manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità del pensiero, capaci da se’ di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase, da ogni parola a parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzi tutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose. O amor, Jacopo Tintoretto – Museu de Colônia Quella disponibilità, quella chiarezza e sopratutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo. La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardano il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato ad un certo momento di un carattere “intellettuale” della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Tra l’altro perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – che purtroppo esiste una allucinante arte di consumo che si rivolge prevalentemente ad un fruitore pigro, andando sempre verso le sue aspettative più facili, verso la sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere alla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni. Detto questo, vorrei iniziare, sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica. Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: Mi interessava – afferma lui – il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo. C’è già tutto qui: la scelta della “tematica” e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario. Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, da chi, per chi e di chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e via discorrendo. E proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella beniaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola.: …un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera. Una metafora, questa beniaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla in faccia; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto ove anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare a trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita… Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di farci avvisare su qualche via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo contare. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molti, voglio dire, molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in un secondo luogo, operazione difficile perché, proprio nel caso speciale di uno scrittore che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una specie di filo conduttore nella esegesi della sua opera sarebbe ancor una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa. Apriamo un’altra strada: Ecco, prese casualmente, altre alcune citazioni dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali…. Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte tra tante ma poi, vedremo qual era il criterio impegnato in quella scelta. Invece molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Beniamino: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato “di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese”. Cosa significherebbe pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatoria. Quel mondo quindi situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scatena sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male… Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto.Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale * . A proposito di Eliade, si può riflettere ad un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptare alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio il centrare del margine; come un massimo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di far andare al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere difficile. Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per l’altro è anche una metafora di estrazione romantica e, poi, in particolar modo, nietzscheana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre nel punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzializza la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano. Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni. Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere antico, come destino. In Sicilia [afferma l’autore] si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto. E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di una’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. E di nuovo la parola dell’autore: Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale… Conclusione, una fra tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro. Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quel ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E di cui le immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne), sono un po’ il corrispettivo, della profondità della lingua e della profondità della storia è già un altro punto di partenza nell’approfondire l’opera consoliana. Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione, riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro. Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza nell’interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi. La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato ad una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità di poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che resta – in quanto deve restare – ancora un mondo da interrogare, tramite un confronto sempre aperto alla coscienza del lettore… Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di se’; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci. Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, tramite un’idea che l’abbiamo incontrata anche in Consolo, a proposito di un altro argomento, ma non così staccata, l’idea voglio dire, da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico. Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si va in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perche’ coll’avvicinarsi il topos, l’isola cambia il nome, vuol dire anche l’identità. Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme incitante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò necessitante di non una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente. Angelus novusi, Paul Klee – The Israel Museum, Jerusalém Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora beniaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per quella bufera che lo sconfigge. Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un passeggio, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo l’interrogarsi come la soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro. Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone ne’ per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), ne’ per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito. In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per il suo intero lavoro e che si può chiamare la testualizzazione del reale e che vuol dire un tentativo di trasmutazione, nel logos, quel ontos che possa essere preso come topos, ipogeo, nostos che dir si voglia.
19 maggio 2020 George Popescu Poeta, tradutor e professor de Literatura Italiana da Universidade de Craiova * Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.
Racconta Maxime du Camp che Alexandre Dumas
seguì l’impresa di Garibaldi, da Marsala a Napoli, inviando corrispondenze a
Parigi, con lo scopo di ottenere, ad Unità avvenuta, la direzione degli scavi
di Pompei. L’aspirazione di Dumas
scaturiva certo da quel fervore per il mondo antico che i diari dei
viaggiatori, a partire dal Settecento, avevano suscitato. E nella Francia
dell’Ottocento particolarmente, dove Rivoluzione e Impero napoleonico avevano
preso a modello l’antichità classica. I
viaggiatori stranieri avevano anche fatto aprire o riaprire gli occhi ai
meridionali sulla ricchezza archeologica della loro regione: avevano fatto
vedere quello che per troppa vicinanza era diventato invisibile. Ma oltre i templi e i teatri, le città
tornate “al celeste raggio / dopo l’antica oblivion”, quei viaggiatori non
potevano far vedere un altro grande patrimonio, più antico dei ruderi greci o
romani, remoto, secondo Propp, che è la cultura popolare in genere e la
tradizione della fiaba in particolare.
Per conoscere questo patrimonio, bisognava sostare, imparare la lingua
dei parlanti, raccogliere dalla viva voce dei popolani canti, proverbi, motti,
e soprattutto il racconto favoloso o leggendario, fissarli nella
scrittura. C’erano stati sì in passato
illustri “favolisti” italiani: da Giambattista Basile, il cui Lo cunto de li cunti s’era diffuso per l’Europa, era stato
forse letto da Perrault, imitato da Quevedo e Gianfranco Straparola, a Carlo
Gozzi, a Pompeo Sarnelli. Ma questi autori avevano “ricreato” il racconto
popolare, avevano scritto delle “loro” fiabe.
Quelli che gettarono le basi della nuova scienza folklorica, di questa diversa
archeologia, furono gli straordinari fratelli Grimm. Le loro Fiabe
del focolare erano in qualche modo la fedele restituzione scritta del
dettato popolare. Gli studi di folklore
o di demopsicologia, dopo quel primo impulso germanico, si svilupparono in vari
paesi d’Europa. Ma in Italia sembrava regnare il silenzio. Così lamentava Giuseppe Pitrè nella
prefazione alla sua raccolta in quattro volumi di fiabe siciliane: Il movimento intellettuale iniziato dai
Grimm fu indi a non guari seguito in Germania e fuori: e molte furono le
novelle e le tradizioni d’ogni sorta messe in luce dopo il 1812 […].A tanto
fervore di studi l’Italia non ha preso parte veramente attiva. Beh ha dato
molte e ricche raccolte di canti popolari, ma una raccolta di novelle con
gl’intendimenti scientifici che guidarono gli studiosi delle altre nazioni,
fino a pochi anni addietro essa non l’aveva ancora […] Prima che noi sono stati
gli stranieri a darci l’esempio del come s’abbia a fare dove non s’è voluto o
potuto fare. Li fa i nomi, il Pitrè,
degli studiosi stranieri che in varie parti d’Italia – a Venezia, a Livorno,
nel Tirolo, a Roma – hanno raccolto fiabe, le hanno tradotte e diffuse nei loro
rispettivi paesi. “Novantadue ne raccoglie nelle provincie di Messina e Catania
la signora Laura Gonzenbach” scrive. È
dunque la prima, la Gonzenbach, ad arare in quel campo della novellistica
siciliana, di una popolazione in cui il retaggio di più culture aveva reso
quanto mai ricchi, variegati canti, usi, costumi, racconti orali. Su questo patrimonio il Pitrè lavorerà,
stenderà quella sua vasta Biblioteca
delle tradizioni popolari siciliane. Insieme a lui, o dopo di lui, tanti
altri, da Lionardo Vigo a Salvatore Salomone-Marino, a Serafino Amabile
Guastella, fino a Giuseppe Cocchiara e oltre. A questo patrimonio popolare
attingeranno gli scrittori veristi siciliani.
“Potresti indicarmi una raccolta di Proverbi e Modi di dire siciliani?”
chiedeva da Milano Verga a Capuana nell’accingersi a scrivere I Malavoglia. Chi era la pioniera della favolistica
siciliana, chi era quella Laura Gonzenbach che nel 1870, cinque anni prima
delle Fiabe, novelle e racconti del
Pitrè, pubblicava a Lipsia Sicilianische
Märchen? Poco si sapeva di lei: il
terremoto di Messina del 1908 ne aveva cancellato la memoria, disperso i testi
siciliani delle fiabe da lei raccolte.
È stata la studiosa Luisa Rubini, curatrice di questo volume, a far
riscoprire da noi Laura Gonzenbach con il suo saggio dal titolo Fiabe e mercanti in Sicilia – La raccolta di
Laura Gonzenbach – La comunità di
lingua tedesca a Messina nell’Ottocento (Olschki, Firenze 1998), le cui
linee essenziali vengono riprese nell’Introduzione che segue. Uno studio, quello della Rubini, ampio,
accurato, con vasto apparato di note, di riferimenti bibliografici. Apprendiamo
così dalle notizie sulla vita di Laura Gonzenbach, e su quella della sorella,
la pedagogista Magdalena, che questa giovane intellettuale, nata a Messina
nella comunità svizzera di lingua tedesca, collegata con studiosi come Hartwig
e Köhler, era andata, nella sua ricerca etnologica, nel senso opposto a quello
in cui sarebbe andato il Pitrè, come conferma la lettura di queste fiabe.
Il Pitrè e i suoi epigoni avevano per molti
versi mitizzato il mondo popolare siciliano, creduto il primitivismo sede del
candore e della bontà.Scrive Calvino:Nei folkloristi del secolo passato […] la
scienza si colora delle suggestioni culturali che presiedettero alla sua
nascita: da una parte il mito rousseauiano d’una vita secondo natura a cui il
popolo sarebbe rimasto vicino […]; dall’altra l’esaltazione romantica delle
radici profonde dello spirito nazionale, di cui il volgo sarebbe stato custode
nelle sue tradizioni. Mito e nazionalismo: due brutti scogli insomma. Contro i
quali andarono a sbattere il Pitrè ed altri intellettuali siciliani al momento
della pubblicazione dell’Inchiesta in
Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (1876), in cui appariva la
parola mafia. Hartwig, che aveva elogiato quell’inchiesta, fu bandito dalla
bibliografia dell’opera di Pitrè. Capuana arrivò a scrivere un pamphlet contro quell’inchiesta, in
difesa del buon nome della Sicilia. La direzione opposta – direzione
illuministica – per cui va la Gonzenbach, la si vede soprattutto in due fiabe
qui pubblicate: vi si parla di uno stupro e di un prete che vuole sedurre una
fanciulla. In Pitrè i due argomenti sono velati, le due fiabe nella sua
raccolta censurate.
Laura Gonzenbach nacque nel 1842 a Messina in seno alla locale comunità di lingua tedesca, dove trascorse gran parte della sua vita (morì a Napoli nel 1878). Raccoglitrice di racconti storici, fiabe e leggende delle classi popolari della Sicilia ottocentesca, proveniva da una famiglia di colti mercanti originari della Svizzera. Seguiva, insieme alla sorella Magdalena, il dibattito europeo sull’emancipazione femminile. Il suo lavoro di raccolta delle tradizioni orali dell’isola rappresenta una delle rare opere folkloriche ottocentesche realizzate da una donna.