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Il posizionamento di Consolo: per un’etica dell’iperletterario

Daniel Raffini
In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vincenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva:
Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultanze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’iperletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1
1 G. Raboni, E nevicò con cocci lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .
Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spiccatamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilinguismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto)»2
2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,
1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dalle pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrittura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.
I tre aggettivi scelti da Raboni per definire l’iperletterarietà consoliana appaiono quanto mai esatti: essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di un contesto in cui i riferimenti si confondono, si amalgamano con la scrittura, diventano allusione, tonalità di un racconto; è elegante, perché spesso sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di particolare ricercatezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinconica, perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra natale, la fine del mondo contadino, il livellamento operato dalla lingua dei media.
La letteratura di Consolo è una letteratura dal limite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima che essa decada nel non essere. È proprio questa malinconia ciò che collega l’iperletterarietà all’altro elemento centrale, e apparentemente discordante, della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromissione costante della scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annientamento. «La storia è sempre uguale»3
3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,
scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, romanzo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La letteratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.
In un’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle ragioni profonde delle sue scelte narrative:
Credo di avere un progetto letterario che perseguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4
4 V. Consolo, Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2016, p. 13.
In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:
Io credo che la letteratura debba […] imporsi appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umiliazione e sfruttamento (isolate ed estranee al flusso principale della storia). Supremo compito della letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.
In questa propensione verso gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana. Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlando del suo sguardo sul Risorgimento siciliano espresso nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi degli emarginati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto marinaio racconta, tra le altre cose, la rivolta contadina di Alcara Li Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo delle truppe garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più complesso di quanto potrebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano un circolo vizioso di violenza e dolore. In una delle pagine finali del romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che possiamo considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? una scrittura continua di privilegiati»6
6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .
La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La
5 riflessione è ancora veicolata dal personaggio di Mandralisca: «Ed è impostura sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .
Si nota insomma come la questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comunque da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con l’impegno professato dallo scrittore. A spiegarcelo è Consolo stesso, nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamente e idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instaurarsi «di un potere politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Consolo non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il grande deposito linguistico» lasciato in Sicilia dallo stratificarsi di popoli diversi è così diventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione, che rappresentava un importante ingranaggio di quella macchina di integrazione e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota, d’altronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul racconto della fine del mondo contadino sopraffatto dalla nuova realtà industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancellazione del passato, che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conservare la memoria di ciò che era prima:

Credo che sia proprio questo il dovere della letteratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che erano anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è memoria e soprattutto memoria linguistica. (Autobiografia della lingua, p. 12)
La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’interno dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che meglio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrittore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6
Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil
“UN ECCEZIONALE BAEDEKER. LA RAPPRESENTAZIONE DEGLI SPAZI NELL’OPERA DI VINCENZO CONSOLO” DI ADA BELLANOVA,
Recensione di Daniel Raffini
Negli ultimi quarant’anni si è assistito da parte di molti scrittori – e in conseguenza anche nella critica e nella teoria letteraria – a un aumento di interesse verso la componente spaziale della narrazione: è quello che, in ambito non solo letterario, è stato definito come spatial turn. A partire dagli anni Ottanta gli scrittori si sono dedicati maggiormente alla rappresentazione dei luoghi, in risposta all’omologazione portata dalla mutazione antropologica e alla perdita di uno sguardo partecipato sui luoghi che si è avuta con l’avvento del turismo di massa. L’altra grande tendenza delle scritture degli ultimi quarant’anni è l’irruzione forte della componente memoriale. Entrambe le tendenze sono rappresentate, seppur con vari elementi originali, nell’opera di Vincenzo Consolo, su cui Ada Bellanova presenta un nuovo studio con il suo libro Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021).
In tema di componente personale e memoriale, pare interessante che Bellanova inserisca in apertura del libro un ricordo personale. L’esperienza della lettrice – e critica – si sovrappone a quella dello scrittore. Nelle primissime pagine Bellanova rimanda al ricordo del suo primo viaggio a Palermo e alla ricerca nello spazio reale dello spazio narrativo, il racconto di Palermo che fa Consolo in Retablo. La riflessione si sposta subito verso un nodo centrale della poetica consoliana, in cui la narrazione diventa il «pretesto per riflettere sui meccanismi della giustizia, umana e disumana» e spinge a «fare considerazioni anche sulla contemporaneità» (p. 11). È, d’altronde, questo il meccanismo stesso che innesca la narrativa di Consolo, attraverso la nozione da lui stesso suggerita di romanzo storico-metaforico, in cui la storia di un determinato tempo – e la storia di ogni tempo – riflette la realtà contemporanea allo scrittore, il momento della narrazione è immagine del momento della scrittura, fa riflettere su quello che avviene intorno, sui corsi e ricorsi della storia, sui meccanismi distorti della narrazione stessa e, in ultima istanza, sulla dicibilità del reale. Il libro di Bellanova parte da una suggestione personale fortemente significativa perché riflette la stessa suggestione personale che genera la scrittura consoliana.
Emerge fin da subito l’idea dello scrittore come cartografo, che esplora territori sconosciuti per farli entrare successivamente all’interno del circolo della conoscenza attraverso lo strumento della mappa. La scrittura di Consolo si presenta come «un’indagine dello spazio mossa da ansia conoscitiva» (p. 15). La vocazione all’esplorazione geografica è viva in Consolo fin da ragazzo e lo spinge a esplorare la Sicilia, che poi sarà luogo della sua narrazione. Bellanova rende manifesto il legame tra l’esperienza personale e l’insistenza sui luoghi: «Da tratto autobiografico la cifra del movimento a scandagliare gli spazi diventa meccanismo narrativo ricorrente e si trasforma in tendenza a cartografare» (p. 16). Allo stesso tempo, dietro la narrazione dei luoghi c’è una forte componente di studio, una documentazione minuziosa su testi e opere spesso dimenticate, che emerge anche dal confronto con l’archivio dello scrittore. Bellanova fa notare come in Consolo i luoghi reali vengano rielaborati in chiave letteraria, pur mantenendo il loro realismo. L’atmosfera onirica di molte narrazioni consoliane – si pensi a Retablo, Lunaria, Nottetempo, casa per casa – viene in molti casi ri-fattualizzata attraverso l’utilizzo dei luoghi. Nella rappresentazione dei luoghi della Sicilia emerge a più riprese il contrasto «tra la Sicilia del passato, contadina, […] e quella della rovina, del miracolo economico» (p. 22), il divario tra un passato scomparso e un presente che tende a livellare le differenze e le peculiarità, in un continuum spaziale, linguistico, culturale, economico, politico, contro il quale lo scrittore si scaglia e a cui cerca – con gli strumenti che ha a disposizione – di opporsi con un’azione estrema e disperata di salvataggio.
Nel capitolo introduttivo, Bellanova ripercorre le principali opere di Consolo e sottolinea in esse la capacità di rappresentare i luoghi, tra reale e irreale. La prima sezione – Strumenti per percorrere i luoghi – si apre, invece, con l’inquadramento metodologico, quanto mai necessario per la materia trattata. La studiosa si serve efficacemente di «approcci critici figli dello spatial turn incentrati su un proficuo incontro tra studio geografico e sguardo letterario e che mettono in gioco anche il rapporto tra reale e finzione» (pp. 33-34). La prospettiva geocritica mette l’autore al centro di un sistema che unisce una molteplicità di livelli cronologici e punti di vista che costituiscono lo spazio di riferimento. La visione stratificata della geocritica fa del luogo un palinsesto, del quale il singolo autore – in questo caso Consolo – rappresenta solo un punto all’interno di un particolare livello. La geopoetica, invece, si concentra sulla capacità di un autore di elaborare uno spazio e renderlo linguisticamente; e la geotematica analizza le funzioni di un tema geografico sia all’interno dell’opera dell’autore che in relazione con altre opere. Infine, l’ecocritica propone un approccio etico attento alle questioni ambientali e sociali. Tutte queste “categorie” vengono utilizzate e messe proficuamente in dialogo da Bellanova nella sua analisi della componente spaziale nell’opera di Consolo.
All’intertestualità tipica della scrittura consoliana, che lo rende secondo la definizione di Daragh O’Connell uno scrittore “palincestuoso”, si aggiunge secondo Bellanova «l’intertestualità insita nel luoghi rappresentati» (p. 40): in Sicilia «innumerevoli sono infatti gli schemi e gli sguardi che si sono saldati all’identità del luogo reale» (p. 41). In questo contesto si inserisce la visione dell’autore «che sceglie cosa appresentare e come rappresentare […] nella fitta foresta di sollecitazioni letterarie già integrate nella natura della geografia reale» (ibidem). Ma di cosa si compongono gli spazi palincestuosi di Consolo? Bellanova mostra con vari esempi che essi derivano dalla letteratura, dalle arti, dalle esperienze personali, dalle suggestioni sensoriali, dalla storia (spesso la microstoria), dalle attività umane, dalle diverse lingue. Queste “categorie” sono studiate da Bellanova singolarmente, in relazione all’opera di Consolo, nella prima parte del suo studio.
La seconda parte – Un percorso tra luoghi simbolo – assume una prospettiva diversa. Qui l’autrice decide si compiere un attraversamento dei singoli luoghi raccontati da Consolo: la natìa Sant’Agata; Cefalù, cerniera tra due Sicilie; la Palermo degli splendori e della decadenza; Siracusa, disfatta dall’irruzione della modernità; le rovine antiche della Sicilia e infine Milano, luogo della migrazione.
Il discorso approda necessariamente nella terza parte, dedicata alle Ecologie consoliane, a una riflessione sul senso della narrazione degli spazi in Consolo, il cui fine ultimo è sempre un’etica rivolta al presente. Consolo mostra come la mutazione antropologica, figlia del boom economico, abbia decretato la fine di un millenario mondo contadino, con le sue tradizioni e i suoi luoghi, costringendo alla migrazione molti siciliani. In questa armonia perduta si insinuano alcuni fulcri di resistenza, analizzati da Bellanova. Oltre a questo resoconto della distruzione, Bellanova individua nell’opera consoliana anche le radici per una ripresa dopo il disastro, che deve partire in primo luogo da una ricostruzione culturale, della memoria, che si impegni per «evitare il rischio di generare un non-luogo, prestando particolare attenzione alle implicazioni antropologiche, identitarie, relazionali, storiche: si deve evitare che la cultura del ricostruire surclassi quella del riabitare» (p. 265).
L’ultima parte del libro fa riferimento al Mediterraneo e si inserisce efficacemente all’interno di un filone di studi molto fecondo oggi per le analisi delle rappresentazioni spaziali. Consolo risulta un autore particolarmente idoneo a essere inserito nel contesto degli studi mediterranei, come è emerso – per citare solo il contributo più recente – in occasione del Convegno “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione, tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano nel 2019 e i cui atti sono stati pubblicati di recente a cura di Gianni Turchetta (Mimesis 2021). Particolarmente interessante l’analisi che Bellanova fa dello spazio mediterraneo narrato da Consolo come luogo ricco di scambi e interazioni ma anche, soprattutto in tempi recenti, come spazio di migrazioni forzate e di violenza. Ne emerge, ancora una volta, il valore etico della narrazione consoliana.
In ultima analisi, il lavoro di Bellanova ha il merito di saper condensare intorno al nucleo della spazialità tutti gli aspetti salienti della poetica di Vincenzo Consolo, restituendo un’immagine a tutto tondo dello scrittore. Se spesso la critica consoliana ha individuato nella storia il fulcro intorno al quale ricostruire in maniera unitaria la poetica dell’autore, questo studio dimostra, invece, come la prospettiva spaziale, anche grazie alle recenti acquisizioni teoriche, possa rivelarsi ancora più inclusiva ed esaustiva di quella temporale (che vi risulta inglobata) come categoria interpretativa centrale dell’opera di questo scrittore.
(fasc. 43, 25 febbraio 2022)
foto di copertina di Giuseppe Leone
«Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». Vincenzo Consolo e la difficoltà della narrazione
Daniel Raffini
Problema centrale dell’opera e della riflessione di Consolo è quello del linguaggio, un problema che si ripercuote a più livelli. Appare evidente alla lettura l’intenso lavorio che lo scrittore siciliano mette in atto sulla lingua, una lingua che si arricchisce a vari livelli, esplora nel tempo, nello spazio e nella stratificazione sociale. Tale operazione, per ammissione dello stesso Consolo, ha come fine un salvataggio: lo scrittore vuole salvaguardare la lingua letteraria dall’appiattimento del linguaggio dei media1. In questo modo la letteratura finisce per avere un doppio ruolo: salvare una tradizione, ritagliandosi dunque uno spazio autonomo, e combattere contro le derive estreme della contemporaneità. La scrittura di Consolo è elitaria e impegnata allo stesso tempo, torre d’avorio ma anche strumento di intervento sulla realtà. Per questo motivo la lingua di Consolo si fa difficile, per chi legge, una difficoltà ripagata dalla ricchezza d’invenzione e giustificata con un fine etico. Ma la difficoltà del linguaggio in Consolo, oltre ad essere un dato stilistico, diventa anche un importante elemento tematico e nodo di riflessione, quasi un rovello per lo scrittore, un dilemma sul quale torna a interrogarsi in diversi momenti della sua opera. In una prima fase la riflessione sulla difficoltà del racconto, sull’impossibilità del dire, si configura in Consolo sotto una prospettiva storica e sociale. Il sorriso dell’ignoto marinaio tematizza lo scontro sociale tra le élite e le classi subalterne al momento dell’Unità d’Italia, presentando il tentativo storico di riunire due mondi inconciliabili sotto un unico vessillo. Se i nobili siciliani accettarono la nuova dominazione certi che nulla sarebbe cambiato nei loro privilegi, allo stesso modo il popolo capisce che con il nuovo Stato italiano nulla cambierà nella sua condizione2. Di qui il racconto della rivolta popolare di Alcara Li Fusi, attorno alla quale ruota il romanzo di Consolo. Personaggio di mediazione tra i due mondi è Mandralisca, che nella memoria sui fatti di Alcara Li Fusi riportata a partire dal sesto capitolo del romanzo tenta di spiegare le ragioni del popolo. Dall’incompatibilità tra le classi sociali nasce la difficoltà di narrare: Parlai nel preambolo di sopra d’una memoria mia sopra i fatti, d’una narrazione che più e più volte in tutti questi giorni mi studiai di redigere, sottraendo l’ore al sonno, al riposo, e sempre m’è caduta la penna dalla mano, per l’incapacità scopertami a trovare l’avvio, il timbro e il tono, e le parole e la disposizione d’esse per poter trattare quegli avvenimenti, e l’imbarazzo e la vergogna poi che dentro mi crescean a concepire un ordine, una forma, i confini d’un tempo e d’uno spazio, e contenere quell’esplosione, quella fulminea tromba, quel vortice tremendo; e le radici, ancora, le ragioni, il murmure profondo, lontanissimo, da cui discendea? La contraddizione infine nel ritrovarmi a dire, com’io dissi, dell’impossibilità di scrivere se non si vuol tradire, creare impostura, e la necessità insieme e l’impellenza a farlo3. La difficoltà di Mandralisca nasce da una differenza di fondo, da un contrasto tra la tendenza a cercare un ordine, una forma, e l’inafferrabilità di quei fatti, la potenza e il disordine insito negli eventi che si appresta a raccontare. Si profila insomma la differenza di base tra il mondo del dire, la gabbia del linguaggio, e l’irruento progredire degli eventi, la realtà che si espande su diversi piani. Ed è così che il personaggio, e con lui lo scrittore, finisce per percepire il carattere fittizio della narrazione, l’impostura che nasce all’insufficienza del linguaggio a dire la realtà. È questa una riflessione che ritorna più volte nei romanzi dello scrittore siciliano e che viene così sintetizzata nell’ultimo capitolo di Nottetempo, casa per casa: È mai sempre questa la scrittura, è l’informe incandescente che s’informa, il suo freddarsi, il trapassare stilla a stilla nel segno, suono, nel senso decretato, nella convenzione, nella liturgia della parola? È canto, movimento, pàrodo e stàsimo per liberare pena gioia furia rimorso, mostrare nella forma acconcia, nella più bella tempesta? È malizia, compromesso, cedimento, riconciliazione con il mondo?
Oh anima sfuggente, oscura, oh fondo tenebroso.
È menzogna l’intelligibile, la forma, o verità ulteriore?4 Il dubbio di fondo, se la scrittura sia imperdonabile menzogna o scoperta di una verità ulteriore, resterà costante in tutta la produzione consoliana. Allo stesso tempo il racconto si presenta come un’azione imprescindibile, unico modo, seppur monco, di trattenere i fatti dopo che sono avvenuti, di far compiere alla letteratura il suo compito «di essere testimone del nostro tempo»5. In soccorso a Mandralisca viene la realtà stessa, che gli appare nella forma di una serie di testimonianze dei protagonisti dei fatti, «alcune carte ove calato avea di pugno mio, pari pari, con fede notarile, le scritte di carbone sopra un muro, […] le testimonianze personali de’ rotagonisti»6. Proprio sulla disparità tra il linguaggio di chi racconta e quello del popolo si gioca la riflessione del barone. Nel sesto capitolo Mandralisca, annunciando l’invio della memoria a Interdonato, si lasciava andare a una riflessione sulla natura della storia: «E cos’è stata la storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati »7. La storia raccontata dai vincitori, da chi detiene il potere, appare per forza di il popolo e scaturisce dall’impossibilità di maneggiare un linguaggio per il quale non è stato istruito e che anzi è stato fatto con lo scopo di tenerlo in soggezione. La riflessione sulla difficoltà del racconto viene però gradualmente interiorizzata da Consolo, che la proietta in prima istanza su sé stesso e in seguito sui propri personaggi e sull’umanità intera. Le difficoltà incontrate nel ricostruire la storia dei vinti devono aver portato lo scrittore a riflettere sempre più sul carattere illusorio del racconto. Ciò si lega alla volontà di esprimere il dolore e il male nella storia, che caratterizza sempre più la scrittura di Consolo. Nei romanzi degli anni Novanta il problema della difficoltà del racconto diventa di carattere esistenziale: il dolore, legato alla perdita di una condizione originaria di stabilità, determina la difficoltà di dire, l’inciampo della narrazione; ma allo stesso tempo il racconto diventa necessario, unico strumento per non cadere nel baratro, nel nulla che c’è in fondo a ogni dolore. Nottetempo, casa per casa è in questo senso un romanzo emblematico, in quanto romanzo il cui «tema centrale potrebbe essere sintetizzato come “l’irrazionale e la storia”»11. Consolo stesso dirà a proposito del libro: «Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito come una tragedia»12. «La funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo»13, tanto che la storia e il dolore sembrano spesso sovrapporsi, diventare la stessa cosa. La difficoltà di dire il male si percepisce nelle pagine di Nottetempo, casa per casa, nel suo apparire sempre in procinto di dire per bloccarsi sempre un attimo prima che la narrazione diventi dispiegata. La ragione di questo andamento a singhiozzi che si percepisce nella scrittura e nella struttura stessa del romanzo, nei salti da un capitolo all’altro, nel non detto e nelle reticenze, viene resa palese nel finale. Petro Marano, fuggendo da Cefalù alla volta di Tunisi, sente finalmente di potersi abbandonare al racconto: «Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata la calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro»14. Attraverso l’allontanamento dal luogo del male, dal luogo dove il dolore personale ha avuto modo di attecchire, il personaggio ritrova la forza di raccontare. Su questo punto il romanzo si conclude, esaurendo il suo compito primario. Il libro si chiude così un attimo prima dell’inizio, trova il suo culmine nel momento in cui la narrazione dovrebbe dispiegarsi per bocca del personaggio, configurandosi come un viaggio difficoltoso verso la possibilità di dire.
Nottetempo, casa per casa è il romanzo di Consolo che tematizza più degli altri lo sfioramento dell’abisso per quanto riguarda l’uomo e del silenzio per quanto riguarda la scrittura, l’espressione di quello che ne Lo spasimo di Palermo l’autore definirà come «il passo breve tra il moto e la paralisi»15. Nel capitolo IV, di fronte alla rovina sua e della sua famiglia, Petro sembra sul punto di cedere all’urlo estremo, alla disperazione: cose distorta. Meglio sarebbe poter disporre di «un immaginario meccanico instrumento […], che fermasse que’ discorsi al naturale»8, anche se in fin dei conti – conclude Mandralisca – anche una macchina di tale genere risulterebbe inutile, giacché non possederemmo «la chiave, il cifrario atto a interpretar que’ discorsi»9. Consolo individua così una delle difficoltà principali del narrare nel punto di vista, nella soggettivizzazione che ogni racconto subisce da parte di chi lo enuncia. In una società impari tale soggettivizzazione diventa quasi un reato: colui che detiene gli strumenti del racconto finisce per usarli per tenere in soggezione l’altro. La sottomissione del popolo nasce in primo luogo, secondo quanto dice Mandralisca, dalla mancanza di un linguaggio proprio, atto ad esprimerne l’esperienza. La creazione di un linguaggio nuovo diventa allora il mezzo attraverso il quale le classi subalterne potranno ottenere la libertà. Per questo Mandralisca sceglie di donare i suoi beni per la costruzione di una scuola per i figli dei popolani: «Sì che, com’io spero, la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, o voi, Interdonato, o uno scriba assoldato, tutti per forza di nascita, per rango e disposizione pronti a vergar su le carte fregi, svolazzi, aeree spirali, labirinti…»10. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio dunque il problema della scrittura si presenta come un problema storico e sociale, la difficoltà di narrare riguarda «Uuuhhh…» ululò prostrato a terra «uuhh… uhm… um… umm… umm…
umm…» e in quei suoni fondi, molli, desiderava perdersi, sciogliere la testa, il petto. Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: «Terra. Pietra. Sènia. Casa. Formo. Pane, ulivo. Carrubo. Sommaco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficidindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Frainguello. Nuvola. Sole. Arcobaleno…» scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento in cui nulla era accaduto, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo16. Petro si aggrappa all’essenzialità delle parole per non cedere al baratro, all’urlo disarticolato che rappresenta il disordine e la fine di ogni razionalità, dell’elemento umano, una regressione a una condizione ferina. Il male è pervasivo, tanto che le parole stesse sembrano più avanti essere minacciate dal suo avanzare: «E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro – il pane si faceva pena, la pasta peste, la pace pece, il senno sonno»17. Tuttavia, attraverso il valore creatore della parola, Petro come un novello Adamo tenta l’illusorio ritorno a una condizione edenica, la condizione di tranquillità precedente alla rottura dell’equilibrio, la frattura da cui è generato il dolore18. La condizione iniziale di equilibrio rimanda a un momento specifico della vita di Petro, precedente alla morte della madre, alla follia della sorella, alla malattia del padre, ma è anche una condizione universale, che accomuna tutti gli uomini, il sentimento di un’origine perduta e percepibile ormai solo in via frammentaria: Una suprema forza misericordia immensa potrebbe forse sciogliere l’incanto, il grumo dolorante, ricomporre lo scempio, far procedere il tempo umanamente. O l’invocare ognuno, il mondo intorno, a capire, assumere insieme l’enorme peso, renderlo comune, e lieve. E il dolore suo sembrò a Petro sorto non solo dalla madre troppo presto assente, dal padre malinconico, piegato, da Serafina torpida, di pietra, da Lucia che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada, ma da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?19 Borges, autore caro a Consolo20, diceva che ogni uomo è tutti gli uomini: così il destino personale di Petro, la disgrazia e il dolore, diventa il destino di ogni uomo. Il dolore allontana il senso, offusca la ragione, che è alla base del linguaggio. Ed è così che lo scrittore finisce per interrogarsi sulla dicibilità stessa del dolore e del male: In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichìo di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? È possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione21. Pur nella difficoltà il racconto deve dunque andare avanti, continuamente minacciato dagli estremi opposti e uguali dell’urlo, quello a cui sta per cedere Petro, e del silenzio, «l’inespresso, l’ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto »22. La tentazione verso di essi è forte, e anche il dubbio che in essi sia il senso ultimo, tanto che nel finale del romanzo l’autore arriva a ipotizzare: «È la ritrazione, l’afasia, l’impetramento la poesia più vera, è il silenzio. O l’urlo disumano»23. Ma subito dopo, come detto, c’è la fuga da Cefalù, in cui Petro trova la sua possibile riconciliazione con il racconto, una riconciliazione che rimane sospesa sul finale del romanzo. Il discorso sulla difficoltà della narrazione espresso da Consolo in Nottetempo, casa per casa trova una sua ideale continuazione ne Lo spasimo di Palermo. L’epigrafe del romanzo riprende una frase del Prometeo Incatenato di Eschilo, in cui Prometeo, incitato a rivelare il suo racconto risponde: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La scelta tra dire e non dire si gioca allora, come detto, su un piano etico: il dire può incidere sulla realtà, o almeno redimere in qualche modo dal dolore. Consolo rifugge dalla tentazione dell’urlo e da quella del silenzio, opta per la narrazione; ma la riflessione su questo punto deve essere ormai giunta a un punto di non ritorno e l’autore decide di tematizzarla. Lo spasimo di Palermo racconta la storia di uno scrittore che non riesce più a scrivere, si tratta di un romanzo che attraverso la narrazione parla «dell’impossibilità di narrare»24. In questo modo Consolo esorcizza la propria tentazione trasponendola sul personaggio, che si fa carico dell’impossibilità di raccontare. Gioacchino Martinez è d’altronde un alter ego imperfetto di Consolo stesso, nel suo personaggio è possibile rintracciare molti elementi dello scrittore. Al di là delle vicende biografiche, come l’origine siciliana e il lungo soggiorno a Milano, a identificare Gioacchino con Consolo è il profilo intellettuale dello scrittore: Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo25. L’identificazione di Consolo con Gioacchino passa dunque proprio attraverso la dicotomia urlo-silenzio che già abbiamo incontrato in Nottetempo, casa per casa.
Gioacchino però, a differenza di Consolo, opta per abbandonare la scrittura. «Sai bene che non sono più scrittore, se mai lo sono stato»26 dice in risposta a una provocazione del figlio Mauro; mentre alla richiesta della compagna del figlio di una dedica per una lettrice risponde: «Non scrivo più, neppure dediche. Di’ che sto lontano, non viaggio…»27. Il narratore motiva così la decisione del personaggio: «S’era chiuso nel silenzio, nel dominio della notizia, invasione del resoconto, scomparsa di memoria, nell’assenza o sordità dell’uditorio, vana era ormai ogni storia, finzione e rimando del suo senso diceva e si diceva»28. Il blocco di Gioacchino deriva dunque da una sorta di ipertrofia della realtà esterna, dall’impossibilità di mettere in atto quella «lenta sedimentazione della memoria»29 che è per Consolo condizione necessaria alla narrazione. Questo si ricollega ancora una volta all’idea del logoramento del linguaggio nella società mediatica contemporanea, che si ripercuote sulla scrittura, ed è evidente anche nel più volte ribadito rifiuto di Gioacchino verso gli scrittori contemporanei30. Ma al di là delle condizioni esterne, il blocco di Gioacchino si manifesta come una condizione interna al soggetto: «Ma sapeva che suo era il panico, l’arresto, sua l’impotenza, l’afasia, il disastro era nella sua vita»31. Ancora una volta, come nel caso di Petro Marano, il disastro personale va letto anche come disastro collettivo, condanna di tutta l’umanità al dolore. Il figlio di Gioacchino, esule a Parigi per aver partecipato alle vicende torbide legate agli Anni di Piombo, rappresenta un’altra faccia della lotta al dolore, il volto razionale, disincantato, di chi ha provato attraverso la vita reale a lasciare un segno nel mondo ed è rimasto scottato dal fallimento e dalla consapevolezza dell’errore32. Il figlio Mauro, costantemente polemico verso l’attività letteraria del padre, cinico e ironico verso il suo chiudersi in mondi altri33; ma anch’egli abitante di una menzogna fatta di parole, vittima di ideologie illusorie: «Le parole con cui ti mascheri e nascondi sono solo una pazzia recitata, un teatro dell’inganno»34.Anche il figlio, come Gioacchino, come Petro Marano, come ogni uomo, vive nell’angoscia di un impossibile ritorno all’origine: «Riparti sempre dall’inizio, non sei riuscito a placare dopo anni i tuoi assilli»35. Il figlio rappresenta per Giacchino una parte del dolore, il silenzio che li divide diventa impossibilità di racconto; il linguaggio ancora una volta mostra tutta la sua insufficienza a dire il tormento umano: Il silenzio, ancora e sempre, il silenzio duro si stendeva tra di loro. Quali parole poi, e quale tono? Oppure quali gesti sguardi balbettii? L’avrebbe fermato Mauro, schernito con la sua ironia, il suo sarcasmo, gli avrebbe rivelato il suo disagio, il suo risentimento, mostrato forse ancora di peggio. Aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima o poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso. S’era accontentato dei continui viaggi per rivedere il figlio, colmare così un qualche modo, con le elusioni, coi silenzi quel silenzio36. L’esilio del figlio, la sua lontananza fisica ma anche emotiva, determina il dolore che impedisce a Gioacchino di dispiegare il racconto. L’impossibilità di dire appare ancora una volta prima di tutto nella resistenza della lingua a incanalarsi in una cadenza, in un tono, come una macchina inceppata che non riesce ad avviarsi. La macchina del linguaggio appare difettosa e menzognera, inadatta allo scopo al quale la si vuole piegare. Nottetempo, casa per casa si chiudeva con il riferimento di Petro alla falsità della scrittura; Lo spasimo di Palermo inizia con lo stesso tema, in una sorta di continuazione ideale del discorso: Capiva che sempre, sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente. Arriva mai la remissione, la fine d’ogni sisma, d’ogni fuga, l’ora di sciogliere il nodo marinaro, placare lo sgomento, immaginare ancora una cerchia confidente?37 Allo stesso modo Nottetempo, casa per casa si chiudeva con Petro che, abbandonato il luogo del dolore, si apprestava finalmente a scrivere il proprio racconto. Lo spasimo di Palermo rappresenta il fallimento di quel proposito, presentandoci uno scrittore che non riesce a scrivere, quasi che Gioacchino Martinez fosse un Petro Marano sconfitto in quello slancio finale. Lo spasimo di Palermo entra dunque in dialogo col romanzo precedente proprio sul tema della difficoltà della narrazione. Ma non è l’unico elemento di intertestualità interna presente in questo romanzo. Si può rimandare, ad esempio, anche alla riflessione sulla scrittura della storia come discorso dei vinti di cui parlava Mandralisca ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e metterlo in relazione con la critica che Consolo fa, ne Lo spasimo di Palermo, ai codici abusati degli scrittori: «Stendono prose piane i professori, narrano storie tonde, scrivono aulici elzeviri, decorano le accademiche palandre di placche luccicanti. […] I tristi imbonitori, trame, panie catturanti, gerghi scaduti o lingue invase, smemorate»38. Per Consolo e per il suo personaggio la scrittura ha tutt’altro fine, e proprio a causa di questo scopo più alto si scontra con la difficoltà di dire. Il blocco deriva da uno scontro con una realtà difficoltosa, ma anche da una natura diversa rispetto a quella degli altri scrittori, che appare evidente in un dialogo col figlio: Chiese al padre se scriveva. «Nulla» disse. «Ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia mia e generale.» «Altri riescono, e assai felicemente… lo scoiattolo ligure, il romano indifferente, l’amaro tuo amico siciliano…» «Hanno la forza, loro, della ragione, la chiarità, la geometria civile dei francesi. Meno, meno talento, e poi mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…»39. Il proposito è lo stesso di Nottetempo, casa per casa: la riconciliazione con un’origine perduta. In una sorta di invocazione proemiale che apre il romanzo Consolo scrive: «Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza », e cita il verso eliotiano «In my beginning is my end»40. L’autore si presenta qui come «voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio»41, rimandando di nuovo alla frammentarietà insita nel racconto, all’impossibilità di dire in maniera chiara. Ed è così che anche questo romanzo non riesce a dispiegarsi in una forma lineare, il racconto è continuamente interrotto, con continui salti temporali dovuti all’impossibilità stessa del personaggio di stabilire la collocazione reale degli eventi: «Non riusciva a scandire quel numero di anni, un cumulo uniforme, una landa sconfinata»42; e dall’altra parte il tentativo, quello di sempre, di rientrare «per il varco che conduceva nel passato, nel racconto, in cui tutto era accaduto, tutto sembrava decifrabile»43. I due romanzi dialogano non solo nell’incipit, ma anche nel finale. Se il finale di Nottetempo, casa per casa si apriva sulla possibilità del racconto, quello de Lo spasimo di Palermo invece si chiude sul silenzio. L’ultima scena del romanzo mostra l’attentato al procuratore, la bomba che esplode e lo uccide e il tentativo estremo di Gioacchino di salvarlo. Dopo il fragore il silenzio diventa impossibilità di dire. Il fioraio – ma potrebbe trattarsi anche di Gioacchino, la costruzione è forse volutamente vaga, a significare ancora una volta l’universalità dell’esperienza – si rialza, stordito, e non riesce a parlare: «Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono»44, e gli rimane solo l’implorazione muta, l’invocazione a Dio, che stenda la sua mano potente su quella terra disgraziata:
«O gran manu di Diu, ca tanti pisi, / cala,
manu di Diu, fatti palisi!»45.
In una lettera al figlio contenuta nel capitolo finale del romanzo, Gioacchino spiega le ragioni che lo avevano spinto a scrivere, il dubbio tremendo di aver rivelato ai tedeschi il luogo in cui il padre aveva nascosto un disertore, causandone la morte: Al di là di questo, rimaneva in me il bisogno della rivolta in altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta – come avviene credo a chi è vocato a scrivere – il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo d’una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri e fratelli – confrères – più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale. Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dismissione, l’abbandono della penna46. Gioacchino Martinez descrive a più riprese la esperienza di scrittore come un fallimento. Raccontando la perquisizione avvenuta nel suo appartamento in occasione dell’arresto del figlio, Consolo scrive: Nello studio erano sparsi i libri suoi, storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri testi della sua illusione, del suo fallimento. Ricordò il racconto La perquisizione che appena scritto aveva lasciato sopra il tavolo. Mentre i militi, venuti per il figlio, buttavano giù libri, rovistavano cassetti, armadi, il poliziotto lo leggeva. «Mi sembra di sognare» disse. A lui, primo di
metafore, correlativi obbiettivi, puntelli di rovine. Viene citato qui per la prima volta il racconto La perquisizione, che tornerà a comparire di nuovo in una seconda descrizione dell’irruzione dei poliziotti nella casa. In questo secondo passo, oltre alla scena della perquisizione, si fa riferimento a un sogno dello scrittore, in cui appaiono un glottologo e un re: Ed era nel passato della storia, nei goyeschi disastri d’una guerra, fra contadini rivoltosi, cieche stragi, rapidi processi e fucilazioni contro i muri delle chiese. Era sulle assolate sabbie, il tell che seppelliva il regno, davanti all’archivio, alle tavole d’argilla. Il glottologo sagace ricomponeva frasi, testi, leggeva
il racconto alto d’un re che narra e che governa, elude la metafora, annulla la contraddizione della prosa. Dissolveva il sogno archeologico, le tessere, i cunei della scrittura, l’incubo dei colpi fragorosi dei poliziotti sulla porta, mitra spianati, che irrompono, sconvolgono la casa. Poi reali, a frantumare tutto, urla di sirene, strida di freni, sgommate furiose sulla strada. “Cristo cosa sarà successo ancora, cosa sarà successo?” Terminato il racconto La perquisizione, aveva lasciato il foglio sopra il tavolo47. La scena della perquisizione e il riferimento alla storia del re permettono di identificare senza dubbio il racconto citato nel romanzo con il racconto Un giorno come gli altri dello stesso Consolo. Come spesso accade nello scrittore, i passi maggiormente significativi, su cui si concentra la riflessione e il rovello, risultano ripetuti, con piccole o grandi variazioni, in diverse opere48. In questo caso la riproposizione riguarda proprio il sogno del re e del glottologo, che si rivela fortemente significativo per decifrare il senso ultimo della riflessione sulla difficoltà della narrazione che Consolo, come si è cercato di dimostrare, porta avanti per tutta la sua vita. Vale la pena trascrivere per esteso il sogno – di sapore fortemente borgesiano – come è raccontato in Un giorno come gli altri, passo che poi verrà abbreviato ne Lo spasimo di Palermo: A poco a poco non sento più il rumore delle macchine che sfrecciano sui Bastioni, mi allontano, viaggio per l’Asia Minore e l’Egitto, sprofondo in antichità oscure, indecifrate. M’immagino che nel futuro, fra cinquanta, cento o più anni, i biblio-archeologi non scaveranno più sotto i tell alla ricerca dei Libri, ma sotto montagne di libri, sotto Alpi, Ande, Himalaia di carta stampata, alla ricerca del Libro. Quindi è la volta di Ninive, della biblioteca di Assurbanipal, e di Ebla, delle quindicimila tavolette d’argilla incise dell’archivio di
stato eblaita. Mi sembra di sentire tutto il caldo del deserto siriano, in viaggio traAleppo e Tell Mardikh. Sugli scavi, il glottologo, lo scopritore della lingua eblaita, con fare complice, dopo segni d’intesa dietro le spalle dell’archeologo e dei suoi assistenti, mi conduce di nascosto fino a un piccolo vano della corte. In un angolo, dove l’ombra di un muro taglia l’abbaglio del sole sulle pietre bianche del pavimento, scosta un cespuglio di cardi e di rovi secchi che nascondono una piccola botola. Il glottologo alza la botola, affonda le mani nella bocca buia del pozzetto e tira fuori tavolette d’argilla. «Sono testi letterari » mi dice, e allinea sul pavimento le argille, le compone in un gioco di puzzle come una pagina di un grande libro. «È un racconto» dice, «un bellissimo racconto scritto da un re narratore… Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora: egli vive, comanda, scrive e narra contemporaneamente…» E punta l’indice su quei bastoncini,
su quella stupenda scrittura cuneiforme e sta per cominciare a tradurmi… 49
Su questo punto, un attimo prima della rivelazione, della comprensione, il narratore
si sveglia a causa dell’irruzione della polizia nella sua casa. Ancora una volta è la realtà della vita contemporanea, nei suoi aspetti più crudi, ad allontanare il senso, a non permettere il dispiegarsi del racconto. D’altronde quello che il glottologo stava per rivelare al sognatore è qualcosa di non dicibile, il racconto di un re che vive, governa, scrive e narra insieme, un racconto composto dunque in un linguaggio perfetto, un linguaggio che non è un linguaggio, in quanto privo di filtri, un linguaggio che fa tutt’uno con la realtà50. In questo modo Consolo risolve l’eterno dissidio tra realtà e parola, ma allo stesso tempo ci dice che tale risoluzione rimane un’utopia.
Solo un re immaginario potrebbe scriverlo e solo un glottologo altrettanto immaginario potrebbe decifrarlo. È la rassegnazione finale al paradosso del linguaggio, lo scacco e l’accettazione della difficoltà di d ire. Dopo verranno Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo, i due romanzi nei quali il tema – come si è cercato di dimostrare – diventa centrale e pervasivo. Dopo ancora, il silenzio. 1 Scrive Traina a questo proposito: «Consolo è comunque fermamente convinto che una prosa non referenziale ma ricercata, piena di echi e risonanze, con picchi di esibita letterarietà o forti sprezzature semantiche, sia la strada necessaria da percorrere per una letteratura che si vuole antagonista rispetto a n’omologazione culturale che è innanzitutto omologazione linguistica, propagandata riduzione del lessico a un basic Italian da comunicazione pubblicitaria» (G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, p. 104). 2 L’immutabilità della condizione dei subalterni nella storia è un elemento importante di molte opere di Consolo e sembrerebbe essere anzi proprio uno dei motori della sua scrittura. Nell’accoglienza di tre paesani agli americani, il narratore del racconto Lo Sherman vede la stessa cerimonia «di sempre, che sempre ripetono i baroni, proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare, per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani» (V. Consolo, Lo Sherman, in Id., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988, p. 25). 3 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 95. 4 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992, pp. 167-168. 5 Cit. in J. Fracchiolla, Storia e storie nell’opera di Vincenzo Consolo, inAa.Vv., La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo, a cura di I. Romera Pintor, Valencia, Generalitat Valenciana y Universitat de València, 2008, p. 77.
6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 96. Anche se qui si tratta di un espediente narrativo per far sì che il personaggio possa raccontare ciò che non ha vissuto in prima persona, tuttavia la commistione tra realtà e finzione è un elemento tipico della scrittura di Consolo e del suo particolare riutilizzo del romanzo storico (cfr. R. Cremante, La sperimentazione di Vincenzo Consolo fra storia e invenzione, inAa.Vv., Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de «Il sorriso dell’ignoto marinaio», a cura di I. Romera Pintor, Valencia, Generalitat Valenciana y Universitat de València, 2007, pp. 63-74; D. Raffini, La scrittura ibrida di Vincenzo Consolo, inAa.Vv., Contro la finzione. Percorsi della non-fiction nella letteratura italiana contemporanea, a cura di C. Baghetti e D. Comberiati, Verona, Ombre corte, 2019, pp. 50-69; Id., I personaggi di Vincenzo Consolo tra verità
storica e finzione romanzesca, inAa.Vv., Il personaggio nella letteratura italiana, a cura di P. Ortolano
eA. Sorella, Firenze, Cesati, 2019, pp. 157-174).
7 Ivi, p. 88.
8 Ivi, p. 89.
9 Ibidem.
10 Ivi, p. 91. 11 C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta,
Milano, Mondadori, 2015, p. XIII.
12 Cit. in J. Fracchiolla, art. cit., p. 77.
13 Ibidem.
14 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, cit., p. 175.
15 Id., Lo spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 2013, p. 58. 16 Id., Nottetempo, casa per casa, cit., pp. 42-43. 17 Ivi, p. 144. 18 Spesso in Consolo la parola nella sua essenzialità viene presentata come ultimo appiglio alla realtà in situazioni estreme. Ne Lo spasimo di Palermo, il protagonista rievoca una scena in cui da bambino, durante un bombardamento, il prete «ordinò di cantare l’aria con parole senza senso, ch’erano forse parodia, scherno d’una liturgia» (V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 10). Perfino privata di significato, ridotta alla pura sonorità, la parola è uno strumento di ancoraggio al mondo, un modo per sopportare il dolore. Dalla parola si può ripartire per la ricostruzione: tornato a Palermo dopo tanti anni di assenza Gioacchino decide di ricominciare documentandosi sul nome della sua via di casa e inizia a risistemare i propri libri, profilando una riconciliazione con la parola che si era rotta nel momento in cui aveva deciso di smettere di scrivere.
19 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, cit., pp. 109-110. 20 Ne Lo spasimo di Palermo Consolo inserisce un incontro tra il protagonista Gioacchino e il
«fantastico bibliotecario, […] cieco poeta bonarense ch’era andato quella volta ad ascoltare nell’affollato anfiteatro» (V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 44).
21 Ivi, pp. 68-69.
22 Ivi, p. 168.
23 Ibidem.
24 G. Traina, op. cit., p. 102. 25 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 89. Nella stessa pagina viene detto che Gioacchino sta scrivendo un articolo su Cervantes e Antonio Veneziano, pezzo su cui in quegli anni stava lavorando Consolo, citando anche le fonti che lo stesso Consolo userà nel suo articolo. Come si vedrà più avanti,
Consolo attribuisce a Gioacchino anche un altro racconto proprio, Un giorno come gli altri, che nel romanzo prende il titolo La perquisizione. Infine, nel capitolo X, il procuratore attribuisce a Gioacchino un passo del racconto Le pietre di Pantalica di Consolo: «”Ho letto i suoi libri… difficili, dicono. Di uno mi sono rimaste impresse frasi su Palermo” socchiuse gli occhi, recitò: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino…”. “Sono passati da allora un po’ di anni…” disse Gioacchino» (Ivi, p. 97)
26 Ivi, p. 45. 27 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 31.
28 Ibidem. 29 V. Consolo, Un giorno come gli altri, «Il Messaggero», 17 luglio 1980, ora in Id., La mia isola è Las Vegas, p. 87. In questo passo Consolo, partendo dalle riflessioni di Benjamin, porta avanti un sottile discorso sulla differenza tra scrivere e narrare, che vale la pena riportare: «È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, a quella lenta sedimentazione su cui germina la memoria, è sempre un’operazione vecchia arretrata regressiva. Diverso è lo scrivere, lo scrivere, per esempio, questa cronaca di una giornata della mia vita il 15 di maggio del 1979: mera operazione di scrittura, impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta». 30 La critica assume a volte i caratteri di una caricatura grottesca: «Mutavano, si deformavano i volti appesi tra le scansie e il soffitto, sparivano sorriso bonomia profondità tormenti serenità entusiasmo comprensione condiscendenza, si leggevano sotto le maschere di quella galleria di scrittori vacuità furbizia vizio rancore supponenza idiozia…» (V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 31) 31 Ibidem. 32 «Il suo andare è il segno ancora umano, la ferita aperta, il dolore immoto, l’antica tragedia sempre in atto. È nostro, è nella cavea del male, la peste dilagante. Dall’inferno di là siamo finiti in questo, nelle nebbie fitte, nella notte… no, io non resto inerme, non voglio esser complice» (ivi, p. 56) 33 Dirà al padre: «Tu e i soavi letterati siete le epigrafi d’ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio d’annientamento» (ivi, p. 32). In questa frase è racchiusa anche l’impossibilità del figlio di capire la lotta interna del padre, il distanziarsi da quei “soavi letterati” che determina in Gioacchino l’allontanamento dalla scrittura.
34 Ivi, p. 29.
35 Ibidem.
36 Ivi, p. 44.
37 Ivi, p. 8.Anche L’olivo e l’olivastro, che si pone tra i due romanzi qui presi in esame, presenta il tema dell’impossibilità di dire, tanto da aprirsi così: «Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto. Solo può dire intanto che un giorno se ne partì con un bagaglio di rimorsi e pene. Partì da una valle d’assenza
e di silenzio, mute di randagi, nugoli di corvi su tufi e calcinacci» (V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori 1994, p. 9). La posizione incipitaria e finale di questi riferimenti è maggiormente significativa in Consolo, autore che dà molta importanza ai momenti liminari dei suoi libri e dei singoli capitoli.
38 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 8. 39 Ivi, p. 73.
40 Ivi, p. 5.
41 Ibidem.
42 Ivi, p. 57
43 Ibidem.
44 Ivi, p.109.
45 Ibidem. 46 Ivi, p 108.
47 Ivi, p. 69. 48 Un altro esempio interessante, che si ricollega al discorso sulla storia fatto per Il sorriso dell’ignoto marinaio, è quello della riproposizione di un pensiero espresso da Montesquieu. Commentando le parole lodevoli spese dal filosofo sul fatto che i siracusani abbiano interrotto l’usanza fenicia di sacrificare bambini, Consolo ribadisce la relatività dei punti di vista sulla storia e sulla pervasività del male. Tale passo, con poche modifiche, appare sia in Retablo che nel racconto La grande vacanza orientale occidentale. Ecco come appare in quest’ultimo: «Ammirevole sì, quel trattato, ma l’illuminato barone francese dimenticava che quegli stessi Siracusani, dopo la vittoria, avevano crocifisso tutti i greci che
avevano combattuto accanto ai Fenici-Cartaginesi. È crudeltà, massacro, orrore dunque la storia? O è sempre un assurdo contrasto? Quei Fenici che sacrificavano i loro figli agli dèi erano quelli che avevano inventato il vetro e la porpora, e la scrittura segnica dei suoni, aleph, beth, daleth… l’alfabeto che poi usarono i Greci e i Latini, usiamo anche noi, quei Fenici che, con i loro commerci, per le vie del
mare portarono in questo Mediterraneo occidentale nuove scoperte e nuove conoscenze» (V. Consolo, La grande vacanza orientale-occidentale, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit., p. 67). 49 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 96. 50 Nello stesso racconto Consolo indicava nella memoria e nella metafora gli strumenti necessari per mettere in atto la narrazione. Il re del sogno non ne ha bisogno, la sua condizione supera i confini dell’umano, si avvicina al divino, all’assenza di mediazione.

“Con lo scrivere si puo’ forse cambiare il mondo”. Studi per Vincenzo Consolo

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Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, 1933 – Milano, 2012) è uno dei grandi classici del secondo Novecento; la sua opera è ormai tradotta in molte lingue.
Questo volume vuole rendere omaggio alla sua originalissima figura di scrittore e di intellettuale e propone, accanto a studi di critici “consoliani” di lungo corso, nuove prospettive di lettura di giovani ricercatori.
Il libro presenta anche alcuni materiali inediti: un’intervista all’autore, una nota esplicativa sul suo archivio di recente apertura e due fotografie in bianco e nero.
Anna Fabretti
ReCHERches n° 21/2018
«Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo». Studi per Vincenzo Consolo
Avec Anna Frabetti, Laura Toppan, Marine Aubry-Morici, Lise Bossi, Michele Carini, Giulia Falistocco, Cinzia Gallo, Nicola Izzo, Rosina Martucci, Daragh O’Connell, Caterina Pilenga Consolo, Daniel Raffini, Giuseppe Traina, Gianni Turchetta
Édité par Anna Frabetti, Laura Toppan
Photographies de Giovanna Borgese
Dettagli:
Caterina Pilenga Consolo, « Breve nota sull’Archivio Consolo » ;
Anna Frabetti, « Conversazione con Vincenzo Consolo » ;
Anna Frabetti e Laura Toppan, « Introduzione »;
Gianni Turchetta, « Soggettività e iterazione nel romanzo storico-metaforico di Vincenzo Consolo » ;
Daragh O’Connell, « Il punto scritto: genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio » ;
Giulia Falistocco, « La scrittura come fuga dal carcere della Storia. Il sorriso dell’ignoto marinaio » ;
Lise Bossi, « Vincenzo Consolo, dal sorriso allo spasimo: l’impossibile romanzo » ;
Giuseppe Traina, « L’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo » ;
Nicola Izzo, « Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo;
Daniel Raffini, « La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario » ;
Marine Aubry-Morici, « Écrivains de l’histoire, écrivains du mythe : la géographie littéraire de Vincenzo Consolo » ;
Michele Carini, «E questa storia che m’intestardo a scrivere» Sull’istanza narrativa nell’opera di Vincenzo Consolo » ;
Cinzia Gallo, « Vincenzo Consolo lettore di Pirandello » ;
Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» » ;
Rosina Martucci, « Vincenzo Consolo e Giose Rimanelli: quadri di letteratura comparata fra viaggio, emigrazione ed esilio ».



Vincenzo Consolo (Sant’Agata Di Militello,18 febbraio 1933 – Milano 21 gennaio 2012)
La mutazione antropologica tra sud e nord: i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati
DANIEL RAFFINI
Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Tra gli scrittori che si interessarono al fenomeno, cercando di trasferirne gli effetti nelle loro narrazioni e ragionando su di esso a livello teorico, si analizzano qui i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati. Il primo descrive nei suoi racconti la fine del mondo contadino siciliano, il dramma della dissoluzione di un sapere millenario e la resistenza strenua ma inutile di alcuni personaggi reali che entrano nelle narrazioni. La mutazione antropologica sfocia in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, la Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio e nei suoi racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio e viene riportata dallo scrittore sulla pagina attraverso una scrittura scarna frutto di un’attenta osservazione. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Pasolini se ne occupa in una serie di articoli usciti tra il 1973 e il 1974 su varie testate, dando vita a un dibattito che vede l’intervento di molti scrittori e intellettuali italiani, tra cui Alberto Moravia, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Maurizio Ferrara, Tullio De Mauro, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. In particolare, Pasolini viene accusato di rinnegare lo sviluppo e di ripetere concetti già formulati. Lo scrittore riprende in effetti discorsi sulla società contemporanea già formulati da Marcuse, Horkheimer e Adorno, quando parlavano ad esempio di uomo a una dimensione e di tolleranza repressiva. Tuttavia, specifica Berardinelli nell’introduzione agli Scritti Corsari che «solo ora quei processi di cui aveva parlato la sociologia critica in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, arrivano a compimento in Italia, con una violenza concentrata e improvvisa»1. Gli articoli di Pasolini ci restituiscono l’idea della società contemporanea come di sistema repressivo teso all’omologazione culturale, in cui una nuova classe media formata culturalmente su modelli esterni imposti dal potere viene a sostituire le vecchie categorie oppositive di fascismo e antifascismo. Scrive ancora Berardinelli che «per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo»2. La mitizzazione dei processi sociologici rende possibile la trasfigurazione letteraria di questo mondo che va scomparendo in un gruppo di poesie italo-friulane tarde, pubblicate da Pasolini in quegli anni e poi entrate nella sezione Tetro entusiasmo della raccolta La Nuova Gioventù. Nell’articolo Acculturazione e acculturazione, uscito per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione, Pasolini si scaglia contro la centralizzazione come livellazione delle differenze: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana? Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. […] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.3 La religione del consumo avrebbe preso il posto della religione vera e propria in qualità di oppio dei popoli di marxista memoria. Da qui parte Pasolini nel suo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, dalla costatazione – in seguito alla vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio – che la società italiana è più evoluta in fatto di laicismo rispetto a quanto credessero il Vaticano e il PCI. Pasolini ne deduce un cambiamento del ceto medio, non più legato ai valori cristiani ma all’ideologia del consumo e ne trae la conclusione «che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione»4. Pasolini registra insomma un cambiamento profondo nella società italiana a seguito del boom economico: Si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa in realtà è enorme: è un fenomeno, insito, di «mutazione» antropologica.5 La mutazione antropologica implica da una parte il miglioramento delle effettive condizioni di vita delle persone, dall’altra determina però la fine delle culture popolari italiane in favore di un’unica cultura centralizzata fondata su un modello esterno di origine statunitense. D’altra parte Pasolini ha una visione fortemente ideologizzata e negativa della civiltà dei consumi, che definisce come il «più repressivo totalitarismo che si sia mai visto»6 e alla quale sente la necessita di opporre una battaglia politica prima ancora che culturale fondata sui principi di una rivoluzione proletaria e contadina. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pasolini sarà ripreso da scrittori del decennio successivo. Tra di essi un punto di vista privilegiato è quello del siciliano Vincenzo Consolo. Privilegiato perché è quello di uno scrittore attento ai contrasti insiti e ai cambiamenti storici della sua terra, la Sicilia. In Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino Pasolini parlava di un «illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa»7, per il quale gli stati preunitari, l’Italia unita, l’Italia fascista e l’Italia democratica hanno rappresentato senza soluzione di continuità la nazione estranea, l’altro e l’oppressore. Consolo, dal canto suo, tornerà a parlare di quel mondo contadino in termini mitici, come «di tempi andati, di tempi d’oro, tempi che sono durati fino all’altro ieri»8, e descriverà le rivolte dei siciliani di fronte al potere La raccolta postuma La mia isola è Las Vegas raccoglie testi brevi pubblicati nel corso degli anni da Consolo su vari giornali e fondamentali per capire l’evoluzione del pensiero dello scrittore così come la genesi 3 borbonico, all’unificazione, al Fascismo e all’Italia dopoguerra, per arrivare alla fine di quel mondo che pure aveva fatto in tempo a conoscere da bambino e che aveva descritto in alcuni racconti degli anni Cinquanta e Sessanta9. In due racconti tardi, pubblicati per la prima volta nel 2007 e nel 2008 e poi inclusi nella raccolta La mia isola è Las Vegas, Consolo cita direttamente il concetto pasoliniano di mutazione antropologica. In Alésia al tempo de Li Causi, parlando degli anni in cui studiava a Milano, l’autore scrive: Erano quelli gli anni della fine del mondo contadino e della rapida trasformazione dell’Italia in Paese neo-industriale, del miracolo economico e della mutazione antropologica; gli anni, quelli dell’espulsione dal Paese di milioni e milioni di lavoratori in cerca d’un futuro, d’un destino migliore. 10 Mentre nel racconto E Ciro vide Anna Magnani, riferendosi agli stessi anni, scrive: Era quello il momento della fine del mondo contadino, del fallimento della riforma agraria in Sicilia, della vittoria dei feudatari, eterni Gattopardi, e dei loro sovrastanti o gabelloti mafiosi. Era il momento quello che Pasolini poi chiamò della “mutazione antropologica” di questo nostro Paese.11 L’attenzione dello scrittore al tema della mutazione risale almeno agli anni Ottanta ed è legata all’osservazione del fenomeno dell’emigrazione di massa dei siciliani verso il nord Italia, dovuta all’irruzione delle nuove tecniche di produzione che mettono fine a tradizioni che in Sicilia, oltre ad essere millenarie, rivestivano un forte ruolo identitario, come quella della coltivazione degli aranci o della pesca del tonno12. In un racconto del 1985 dedicato al tema dell’emigrazione a Milano, Consolo parlerà del sud come di una terra «dove la storia si è conclusa»13. La mutazione antropologica rappresenta nella narrativa consoliana una cesura netta e su di essa lo scrittore fonda la funzione etica della propria scrittura. Se il mondo globalizzato digerisce nel suo ventre le culture particolari, se la cultura del centro progressivamente sostituisce le culture periferiche, il compito della letteratura è quello di narrare ciò che non c’è più. In questo senso fortemente significativi sono alcuni personaggi della sezione Persone della raccolta del 1989 Le Pietre di Pantalica, attraverso i quali Consolo prova a raccontare il momento di passaggio, l’attimo della fine, attraverso le figure di chi tentò di opporvisi. Antonino Uccello, poeta-etnologo amico di Consolo, cerca di salvare le vestigia di ciò che sta finendo, raccogliendo gli strumenti e le testimonianze del mondo contadino; oggetti che trova abbandonati, relitti della storia, il cui unico destino è quello di essere musealizzati. In un’intervista Consolo accosterà il proprio compito a quello dell’amico: di alcune delle sue opere. 4 Il poeta-etnologo de La casa di Icaro, credo che sia il personaggio più importante, la figura-simbolo di tutto il libro. È stato uno, Uccello, che, come un pietoso raccoglitore di detriti dopo la risacca, ha cercato di salvare, nel momento in cui essi sparivano, i resti, le testimonianze del mondo contadino. E non è questo in fondo il dovere e il destino di ogni scrittore della mia età e della mia estrazione, che si è trovato a cavallo della grande trasformazione, tra un mondo che spariva e un mondo che iniziava? Non è questo il compito e il destino sempre, in ogni epoca, di uno scrittore: raccogliere e custodire memorie, reliquie di un mondo che continuamente frana, sparisce?14 Ad un’altra Sicilia che va scomparendo, quella magica e barocca, sognante e mitologica, rimanda invece la figura del barone Lucio Piccolo, poeta fuori dalle mode e fuori dal tempo, simbolo di un’erudizione che ci ricorda quella di Mandralisca de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Piccolo fu amico e mentore di Consolo, che in queste pagine racconta il loro primo incontro, gli insegnamenti, le visite nella casa di Capo d’Orlando. Come Uccello, Piccolo è emblema di un mondo che non esiste più, tanto che nel momento della sua scomparsa il dolore che Consolo prova non è solo per la perdita dell’amico e maestro, ma anche «per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»15. Andando ancora indietro, Consolo risale ai tempi in cui quel mondo esisteva, con i suoi riti e le sue usanze, con la sua cultura, quella cultura popolare rivendicata come tale da Pasolini, contro tutti quegli intellettuali che la relegavano agli strati prerazionali. Consolo ci racconta le lotte di quel mondo, le rivolte e le battaglie per la sua sopravvivenza, in molti racconti de Le Pietre di Pantalica e in alcuni di quelli poi confluiti ne La mia isola è Las Vegas, così come nei romanzi, basti pensare alle rivolte di Alcara Li Fusi narrate ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Come afferma Flora Di Legami la scrittura di Consolo viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sé il compito di narrare quanto è andato disperso.16 Anche per quanto riguarda il discorso sull’evoluzione linguaggio nell’epoca della mutazione antropologica Consolo sembra essere in linea con quanto Pasolini diceva in Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva.17 Il discorso di Consolo sulla lingua è più profondo di quello di Pasolini, non si limita solo a un recupero linguistico di tipo dialettale, ma allarga la propria ricerca e l’operazione di salvataggio anche al piano diacronico e ai diversi livelli d’uso della lingua, restituendo sulla pagina una grande dose di ricchezza e invenzione verbale, contro l’appiattimento del linguaggio letterario su quello dei media. 5 La mutazione antropologica sfocia dunque in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino e le difficoltà della nascita di una nuova società. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, nella Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio di Verso la foce e nei racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio determinando una descrizione in cui la parola stessa diventa scarna ed essenziale e il paesaggio postindustriale ci mostra quanto la nuova società derivata dalla mutazione abbia in realtà un carattere effimero e transitorio. A differenza dello sguardo politicizzato di Pasolini e di quello partecipe di Consolo, Celati si pone dal punto di vista dell’osservatore anonimo, lasciando la centralità dell’evocazione all’immagine nuda. Una tecnica che gli viene dalla frequentazione, nei primi anni Ottanta, di quei fotografi raggruppati intorno alla figura Luigi Ghirri, i quali si proponevano di registrare attraverso il loro lavoro la mutazione del paesaggio italiano. Nell’introduzione a Verso la foce Celati definisce questi diari di viaggio come «racconti d’osservazione»18 e specifica meglio il tipo di osservazione necessaria e lo scopo che intende perseguire: Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non si capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.19 L’osservazione di Celati non ha dunque un fine consolatorio, parte dallo straniamento e arriva allo spaesamento, ma solo così lo scrittore sente di poter rendere il senso ultimo di quel «deserto di solitudine»20 che si trova ad attraversare durante le sue peregrinazioni. Celati descrive il paesaggio padano svuotato della sua storicità in seguito a una mutazione di cui rimangono solo ruderi. Anche qui, come nella Sicilia descritta da Consolo, permangono relitti di una storia che non c’è più, che entrano in contrasto con le superfetazioni della modernità. L’esempio più evidente sono forse le corti, fattorie tipiche di queste zone, ora abbandonate: Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle vilette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali.21 Di fronte alla piattezza e all’omologazione delle costruzioni moderne, le corti presentano una grande varietà di soluzioni architettoniche, che cambia da una provincia all’altra. I segni dell’antica bellezza non sono solo nelle corti, ma si possono ravvisare anche in alcuni centri storici, come in quello di Casalmaggiore Vedo strade girovaganti, portici e palazzi scrostati, finché non si arriva nelle stradine dietro il palazzo municipale, e da lì nella piazza centrale. […] Dalla piazza, ripassando per stradine un po’ in salita dietro il municipio, si arriva all’argine del Po. Accanto a una vecchia porta della città, la fila irregolare di palazzi sette-ottocenteschi, ognuno con facciata e forma e altezza 6 diverse, movimenti di linee senza mai forti squadrature, segue l’andamento sinuoso dell’argine e del fiume che si allarga in prospettiva.22 La differenza tra antico e moderno è dunque per Celati prima di tutto una questione di linee e di forme. A Codigoro lo scrittore osserva le case dalle facciate veneziane e le villette in stile liberty disposte lungo il canale, elementi che «formano davvero un luogo» e mostrano che qui «il tempo è diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco sull’altro, come le rughe sulla nostra pelle»23. A ciò si oppone la fine del tempo, fine della storia e le forme geometrizzanti rappresentate dagli elementi della modernità, che minacciano i luoghi antichi: le industrie, che finiscono per costituire delle nuove città; i centri commerciali, che nel giro di pochi anni stravolgono il paesaggio; le strutture turistiche, presenti persino nelle zone più solitarie della foce del fiume; i cartelloni pubblicitari, che ostruiscono la visuale sostituendosi al paesaggio; infine, le nuove tipologie abitative dell’omologazione, le villette a schiera. La mutazione antropologica descritta da Celati non interessa solo il paesaggio, ma lo scrittore si sofferma anche sulle modalità di vita. L’alienazione dei luoghi rispecchia quelle delle persone. I nuovi non-luoghi creati dalla società di consumo, che di lì a qualche anno saranno teorizzati da Marc Augé, sono occupati da delle non-persone, svuotate anch’esse di storicità e private della diversità in favore dell’omologazione imposta24. In Acculturazione e acculturazione Pasolini si chiedeva se le persone sarebbero davvero riuscite a realizzare il modello imposto dalla cultura di massa e si rispondeva: No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi.25 In questo senso va anche l’osservazione compiuta da Gianni Celati sui luoghi dell’abitare che la mutazione antropologica impone agli abitanti della pianura, le villette a schiera che ricorrono come leitmotiv di queste pagine. Celati riprende le teorie dell’abitare espresse da Bachelard negli degli anni Cinquanta, adattandole al nuovo contesto depersonalizzato successivo alla mutazione antropologica. Le villette diventano allora simbolo stesso dell’alienazione postindustriale dei luoghi descritti, simbolo di un tentativo falso e illusorio di nascondersi della «vita piena di pena»26 e di non vedere «l’orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali»27: Quelle case non hanno volto, hanno solo aperture di sicurezza e superfici protettive dietro cui si va a nascondere. Si esce a vedere se in giro è tutto normale, poi si torna a nascondersi nelle tane.28 Se i luoghi precedentemente descritti da Celati mostrano una stratificazione del tempo e delle epoche, qui il tempo risulta sospeso, nelle villette le persone si autoesiliano involontariamente dal7 proprio tempo. Nel 1957 Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio descriveva la casa come il luogo dove le persone si rifugiano a seguito dell’aumento di importanza della vita pubblica determinato dal progresso economico e tecnologico29. Se in Bachelard il senso di protezione evocato dalla casa ha ancora un valore positivo, Celati ci presenta trent’anni dopo i risultati di quel processo e ripropone in chiave negativa la visione della casa come rifugio. La mutazione antropologica cambia insomma i luoghi e le persone che li abitano. Raccontare la mutazione antropologica significa per gli scrittori raccontare la realtà in un momento in cui il realismo sembra essere una via non più percorribile. Ciò rende necessaria una riflessione e un lavoro da parte degli scrittori sulle forme e sui generi. Se Pasolini sceglie la via di una poesia per metà dialettale e per metà italiana per trasfigurare in forma artistica ciò che andava scrivendo nei suoi saggi, Consolo opta invece da una parte sulla rifondazione del romanzo storico su basi antiromanzesche e dall’altra sull’inserimento dell’elemento autobiografico all’interno delle strutture finzionali del racconto. Celati, infine, sceglie il diario di viaggio, un diario di viaggio denso di narratività e riflessioni, che fungono da punto di partenza per i racconti veri e propri di Narratori delle pianure e per le Quattro novelle sulle apparenze. Si nota insomma come la mutazione antropologica sia stata un motore, forse primo, che spinse gli scrittori a un ripensamento delle forme, quel ripensamento che culminerà nei nuovi realismi e nella fioritura della nonfiction a partire dagli anni Novanta, ma che affonda le basi sui grandi cambiamenti antropologici e sociologici che hanno interessato il mondo e l’Italia nella seconda metà del Novecento.
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1 A. BERARDINELLI, Premessa, in P.P. PASOLINI, Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. X. 2 Ivi, VIII.
3 PASOLINI, Acculturazione e acculturazione, in ID., Scritti corsari…, 22-23. 4 PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari…, 40. L’articolo era uscito per la prima
volta sul «Corriere della Sera» il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. 5 Ivi, 41. 6 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, 53-54. L’articolo viene pubblicato l’8 luglio 1974 su «Paese sera» come lettera aperta in risposta a Italo Calvino.
7 Ivi, 53. 8 V. CONSOLO, Arancio, sogno e nostalgia, in ID., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano, Mondadori, 2012, 133. Il racconto è pubblicato per la prima volta su «Sicilia Magazine» nel dicembre del 1988. Cfr. D. RAFFINI, La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario, in A.
Frabetti e L. Toppan (a cura di), Studi per Vincenzo Consolo. Come lo scrivere può forse cambiare il mondo,
«Recherches», n. 21, automne 2018, 129-142. 9 Si fa riferimento in particolare ai racconti Un sacco di magnolie, Befana di novembre, Grandine come neve e Triangolo e
luna, riproposti anch’essi nella raccolta La mia isola è Las Vegas. 10 CONSOLO, Alèsia al tempo di Li Causi, in ID., La mia isola…, 226. 11 ID., E Ciro vide Anna Magnani, in ID., La mia isola…, 229. 12 Alla coltivazione degli aranci Consolo dedica il già citato racconto Arancio, sogno e nostalgia; mentre sul tema
delle tonnare è il saggio La pesca del tonno pubblicato nella raccolta Di qua dal faro. 13 CONSOLO, Porta Venezia, in ID., La mia isola…, 113. 14 CONSOLO, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, 1388. 15 ID., Piccolo grande Gattopardo, in ID., La mia isola…, 214. 16 F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 10. 17 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in ID., Scritti corsari…, 54. 18 G. CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 2011, 9. 19 Ivi, 10. 20 Ivi, 9. 21 Ivi, 32. 22 Ivi, 38-39. 23 Ivi, 95. 24 Secondo la definizione di Augé: «Se un luogo può definirci some identitario, relazionale, storico, uno spazio
che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (M. AUGÉ, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, 73). 25 PASOLINI, Acculturazione…, 23. 26 CELATI, Verso la foce…, 35. 27 Ivi, 31. 28 Ivi, 94. 29 Cfr. G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 31-45
Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018),
a cura di A. Campana e F. Giunta,
Roma, Adi editore, 2020

