di Ada Bellanova
Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra-
1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sulla cosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine, frontiera anche A. Le-
zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 .
ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436:
L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno”
13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.
1. Lo spazio mediterraneo per Consolo
La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in
14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.).
moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza,
è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57).
evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.
1.1 Nel segno della varietà del mare
Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24.
22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara-
La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu,
del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio, vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore.
-strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.
1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza
Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29.
Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto
28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129.
della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30.
Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32.
Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di
30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820.
una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837.
tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:
No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40
Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo,
40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625.
poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991
42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571).
scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus
45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200. 49 Ivi, p. 197.
e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono.
1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni
Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non
50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che il rapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda
a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53.
Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.).
l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo
54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009,
aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a
pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al
Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62.
Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden
volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale,
tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di
delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchise invece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”.
ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa.
69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7.
La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75.
Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77.
La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza
73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77 Ibidem.
di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82.
78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra
L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86.
del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai
L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87.
La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le
pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453.
ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi
90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem.
ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La
96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217.
Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.
Nostri questi morti dissolti
nelle fiamme celesti,
questi morti sepolti
sotto tumuli infernali,
nostre le carovane d’innocenti
sopra tell di ceneri e di pianti.
Nostro questo mondo di follia.
Quest’im-mondo che s’avvia…103
102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.
Tag: Garzanti
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo, Marinai ignoti, perduti (e nascosti).ean-Claude Izzo e Waciny Larej
NORA MOLL
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo,
Marinai ignoti, perduti (e nascosti).ean-Claude Izzo e Waciny Larej
Sapienza Università di Roma
Hommes perdus d’autres ports, qui portez avec vous la conscience du monde Louis Brauquier O Mediterraneo, doce, sem mistérico, classico, ummar par bater De incontro a esplanadas olhadas de jardins próximos
por estátuas brancas! Alvaro de Campos/Fernando Pessoa 1
Narrare il Mediterraneo, e rappresentarlo in forma saggistica, significa da sempre intrecciare una pluralità di voci e mettere in armonia sonorità provenienti da aree culturali diverse, da civiltà che si sono mescolate nel corso dei secoli sviluppando un’immagine di sé aperta, ibrida, fluida. La frontiera liquida del mare racchiuso da tre continenti, l’Europa, l’Africa e l’Asia, è uno spazio-dimezzo che allo stesso tempo unisce, mette in comunicazione, armonizza i contrasti, e divide, diventa barriera invalicabile, cimitero di speranze e di vite umane. Se a partire dalla prospettiva della longue durée in riferimento all’area mediterranea prevale l’idea di un dinamismo culturale portatore di innovazione e di originalità, di una traduzione tra le culture senza la quale la stessa civiltà europea sarebbe privata delle sue fondamenta, uno sguardo rapido sulla realtà attuale di questo grande lago fa venire lo sconforto: tra l’inquinamento e la tratta di migranti sans papiers, tra il deturpamento delle coste e il decadimento delle antiche città portuali, dal Mediterraneo provengono ora molte dissonanze,con punte acute di disperazione spesso soffocate nel mare, forse più grande,della comunicazione di massa. Che è per lo più impegnata ad abbozzare maldestramente e furbescamente, a sua volta, una narrazione del Mediterraneo all’ insegna del grande e ben sfruttabile tema dello “scontro tra le civiltà”.Fortunatamente, nella parola letteraria si scoprono ancora oggi innumerevoli aspetti che disegnano un Mediterraneo diverso e ben più complesso da quello veicolato dalla cultura di massa. In molti autori del XX e del XXI secolo provenienti da quella “rete interletteraria” tricontinentale 2, il discorso su questa grande regione terracquea viene condotto su due binari: coniugando la dimensione storica con la rappresentazione narrativa del presente, essi volgono lo sguardo sul mare che cancella ogni traccia del passato e al contempo traducono il peso del territorio retrostante, sul quale sono inscritte, pietrificate, le manifestazioni di secoli e millenni di storia. Dall’apocalisse culturale di Stefano D’Arrigo alla desolazione estraniante ma fascinosa di Albert Camus e alla sensualità carnale di Jean Giono, per fare solo alcuni esempi, i risultati di quelle che sono delle vere e proprie poetiche mediterranee sono diversi e sfaccettati; sempre complessi e non facilmente riassumibili in un discorso logico, cartesiano e binario, dialettico magari ma unidirezionale. Del resto, come insegna Édouard Glissant, dalla sua prospettiva caraibica, le poetiche fondate sulla diversità sono portatrici di imprevedibilità,inerente al processo di creolizzazione, di mescolanze che procedono liberamente per vie mai percorse prima, che ci costringono ad abbandonare tali schemi logici, favorendo piuttosto un pensiero polifonico, contrappuntistico 3. Confrontandosi con questo mare interno, fenici, greci, siriani, egizi, romani,arabi e molte altre civiltà e tanti popoli ancora, hanno sviluppato la capacità di efinire sé stessi, nel confronto con gli altri, nello scambio di conquiste materiali e scientifiche, di merci e di beni, nel disegno di cartine nautiche come rappresentazioni del proprio mondo, e della propria cosmovisión 4. Tali espressioni materiali della cultura mediterranea non sono, tuttavia, mai state disgiunte dallo sforzo di narrare la propria comunità, abbracciando a partire dal contesto ristretto della singola Heimat quello più grande della regione d’appartenenza. Nella più importante e fertile di tali foundational fictions, l’Odissea, vi è infatti lo sforzo, collettivo ed epico, di trasformare lo spazio concreto attraversato dal suo protagonista in uno immaginario, mitico, uno sforzo che è allo stesso tempo mitopoietico e mitologico 5. In altre parole, il secondo poema omerico (ma lo stesso vale anche per il primo, l’Iliade) è allo stesso tempo un motore creatore di miti e di figure mitiche (la maga Circe, Calipso, lo stesso Odisseo, Polifemo e molti altri ancora), e un grande contenitore di miti, religiosi ed eziologici, già esistenti, una sorta di archivio che permette di salvare un patrimonio mitologico e di consegnarlo alle future generazioni 6. Una creazione mitica, poetica e narrativa di uno spazio, reale e immaginario, che ha conosciuto una immensa fortuna di rielaborazioni e di riscritture dentro e fuori dal suo contesto di provenienza,parallelamente alla persistenza dell’epos odissaico nella cultura orale mediterranea: infatti, sappiamo che ancora oggi circolano narrazioni epiche popolari che hanno come protagonista degli Odissei, pur portando nomi diversi 7.Se nell’Iliade Odisseo era figura di guerriero (pur umanamente ontrovoglia,dapprincipio troppo attaccato alla sua famiglia e ai suoi beni per accettare la ottomissione ad una superiore “ragion di Stato” o ad una astratta volontà divina),ma anche di sapiente artefice (vedi il suo ruolo di artifex del piano per la conquista di Troia), nell’Odissea egli si trasforma in viaggiatore, in marinaio (pur mantenendo come dote essenziale la “phronesis”): diventa Capitano Ulisse, dirla con Alberto Savinio 8, che non solo ha il desiderio di ritornare alla sua Itaca, ma anche la responsabilità di riportare a casa i suoi compagni. Odisseo,così come ci è stato tramandato nel secondo poema omerico, è anzi l’archetipo della figura del marinaio – se per marinaio intendiamo “l’uomo di mare” (ted.Seemann) senza distinzione di sorta tra gradi e gerarchie – una figura che tanto successo ha conosciuto nella letteratura europea e mondiale, dove tale archetipo è però affiancato da quello orientale di Sindbad 9. Da Coleridge a Conrad, da Melville a Coloane, da Baudelaire a London, i marinai sono figure di uomini che appartengono al mare, che definiscono la propria identità a partire da e attraverso di esso. Uomini che vivono ai margini del consorzio umano, e che proprio in virtù di tale liminarità sociale mettono in comunicazione comunità differenti dal punto di vista etnico e geografico-spaziale. Il marinaio, per via della sua precarietà sociale, è inoltre in contatto con i veri e propri emarginati, come la delinquenza portuale e le prostitute. La sua proverbiale infedeltà, già odissaica, è contrapposta alla tensione psicologica verso un punto fermo, una famiglia, una Penelope che lo attende; una oscillazione che è fonte di inquietudine, infelicità, di conflitti. Il suo essere sempre in viaggio, o tra un viaggio e l’altro, la sua erranza marina-terrestre, ne fa del resto il prototipo dell’ansia profondamente umana verso la conoscenza: una conoscenza del mondo di cui egli è portatore e narratore 10 e una conoscenza della complessa varietà umana che passa attraverso l’esperienza del mare, della sua bellezza e dei suoi pericoli. Come ricorda Eric Leed nel suo magistrale studio sulla letteratura del viaggio, il concetto di esperienza e quello di erranza sono profondamente connessi, se solo prestiamo attenzione all’etimologia del termine tedesco Erfahrung (esperienza autentica, diretta, tratta dal vissuto), derivato dall’antico tedesco irfaran (viaggiare, errare)11. Una parola alla quale si ricollega però etimologicamente anche la forma verbale tedesca (sich) irren (sbagliare), così come del resto vi è una assonanza significativa e parentela derivativa tra l’italiano errore ed errare/erranza, il che ci ricorda che l’esperienza è anche sempre (considerata oltre che di fatto) foriera di errori; e nel caso del marinaio la sovrabbondanza di esperienza porta quasi inevitabilmente verso le zone oscure della illegalità, della immoralità, della malattia, e infine anche della morte (affrontata con ogni nuova partenza, se è vero che nell’ immaginario popolare partire equivale a morire). Pur constatando la grande fertilità letteraria del modello umano del marinaio – che in ambito mediterraneo ricollega in una circolarità ermeneutica la letteratura,e la cultura, contemporanea con quella antica – non lo si può e si deve definire tout court come un tema letterario 12. Piuttosto, esistono diversi complessi tematici che si irradiano a partire da tale figura e prototipo umano, senza escludere però che, in rari casi, essa diventi il modus principale con cui tali complessi tematici si manifestano: e solo in quel caso si può parlare a ragione del “tema del marinaio”. Tra i complessi tematici, a cui in parte ho già accennato, si annoverano l’avventura, il viaggio, l’eros, l’adulterio, il ritorno, il superamento di limiti (interiori) e di sfide (esterne), la libertà, la vita come “navigatio”e come intrigo conflittuale di esperienze. Come è stato giustamente ribadito da Mario Domenichelli, lo stesso Odisseo (omerico e ultraomerico) non è propriamente un tema, bensì un personaggio letterario nel quale si accentra una serie di temi, parzialmente coincidenti con quelli appena menzionati, laddove la nozione di tema, secondo lo studioso, richiederebbe sempre un grado maggiore di astrazione 13. Sottolineando altresì l’aspetto “dinamico” del tema, Domenichelli si oppone, infatti, sia a definizioni come quella di Cesare Segre, che lo limitano all’idea di «unità di significato stereotipe ricorrenti in un testo o gruppo di testi», sia alla tentazione, a tutt’oggi alquanto diffusa, di assegnare il tema esclusivamente alla dimensione del contenuto, separandolo dagli aspetti formali e ntroducendo implicitamente un giudizio di valore negativo sull’opportunità di studiare il “materiale di riempimento”, o Stoff, di un testo, sia sul piano sincronico che su quello diacronico 14. Il suo dinamismo caleidoscopico ne farebbe invece una “forma formante” che estetizza l’esperienza del mondo, un «interfaccia tra esperienza ed esperienza estetica, tra vita e letteratura»15. All’importanza,paragonata da Domenichelli a quella ricoperta dal tema o dal Leitmotiv musicali, che esso assume all’interno del singolo testo letterario, si aggiunge inoltre come importante plus-valore, sul quale si concentrano gli studi comparatistici,il suo ruolo esercitato a livello diacronico e intertestuale, sottolineando che «temi, topoi, articolazioni di motivo sono marche di identità e di appartenenza dell’opera, che concorrono a formare la tradizione e l’identità della tribù»16. Il tema letterario, insomma, non sarebbe altro che una “forma dell’esperienza”dall’importanza strutturale e strutturante per il singolo testo – e, ggiungerei, fondamentale per la comprensione dell’opera complessiva e della poetica di un autore – ma anche una via maestra per accedere alla comprensione delle costanti culturali e delle specificità identitarie di una collettività o di una civiltà (quella europea, nel caso analizzato da Domenichelli). La tematologia, potremmo quindi riassumere, nella sua rivisitazione critica e nella strenua difesa dei suoi assunti teorico-metodologici, si profila quindi come una possibile modulazione sia dell’imagologia letteraria che della geocritica – annoverata dalla comparatistica francese tra le aree di ricerca più innovative emerse in anni recenti 17 – oltre che come nesso e ponte tra la comparatistica letteraria e gli studi culturali, di più recente sviluppo e dalla metodologia spesso assai incerta.D’altronde, si dirà, chiunque abbia una pur vaga conoscenza dell’opera di E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948)sarà poi tanto stupito dall’idea che la tematologia possa essere usata come chiave metodologica degli studi europei. Difatti, già in Curtius lo studio dei temi, o meglio dei topoi letterari è posto all’insegna della comprensione e della canonizzazione della modernità letteraria europea, ricollegata alle sue radici tardolatine esaltate nel loro ruolo di trait d’union tra antichità greco-latina e odernità.Tuttavia, a questa e a tante altre creazioni ingegnose e mirabilmente erudite del “mito” monoculturale della letteratura europea 19 andrebbe giustapposta – per correzione e non per contrapposizione – l’idea di una base interculturale della stessa letteratura europea, data dal confronto e dalla mescolanza di culture/civiltà diverse, dalla traduzione e dall’adattamento di generi, forme, temi,stili provenienti anche dal suo esterno, dalla compenetrazione dell’immaginario culturale occidentale con quello orientale, dall’idea che la stessa antichità greca affondi le sue radici nella (non) lontana Africa, oltre che in Asia 20. Usare quindi la tematologia come strumento per lo studio dell’interculturalità mediterranea – nonché per il collegamento geocritico e interculturale del Mediterraneo con altre aree culturali come quella dei Caraibi – sembra una delle possibili vie percorribili al fine di evitare lo slittamento della pur evidente e molto praticata europeità degli studi letterari verso un eurocentrismo che, con altrettanta evidenza, sembrerebbe ormai necessario superare 21. In questo testo, la triangolazione italo-franco-algerina della ripresa della figura letteraria del marinaio è posta appunto sotto tale insegna, ma viene usata anche con l’obiettivo, di derivazione imagologica e geocritica, di mostrare le diverse modulazioni di un discorso dall’interno e sul Mediterraneo che si incrocia con la rielaborazione della figura del marinaio mediterraneo, nonché con quello di creare una, pur ristretta, esemplificazione delle “forme formanti” che essa può assumere. I marinai che appaiono nelle opere di Jean-Claude Izzo, di Vincenzo Consolo e di Waciny Larej occupano,difatti, una posizione tematico-formale dall’importanza via via decrescente,dal tema letterario vero e proprio (Izzo), al Leitmotiv coniugato con un uso originale dell’ekphrasis (Consolo), al semplice motivo (Larej), dalla ricorrenza meno estensiva e solo debolmente strutturante. Quello che è stato, inoltre, un importante stimolo, per così dire immaginativo, nel trattare questo argomento,era l’idea che così come il marinaio, nella realtà mediterranea (ma non solo) è ed è sempre stata una figura capace di mettere in contatto e di tradurre culture diverse, il tema, Leitmotiv e motivo del marinaio permette un interessante confronto tra opere peraltro molto differenti, sebbene prodotte nello stesso arco di tempo, ma suscettibili di apparire sotto una luce nuova all’ interno di tale intreccio comparatistico-ermeneutico.Il romanzo che rappresenta la prima fascia dell’intreccio-treccia è intitolato Les marins perdus, e fu pubblicato in Francia nel 199722. Il suo autore, il marsigliese di origini italiane Jean-Claude Izzo, prematuramente scomparso nel 2000, si era imposto già precedentemente all’attenzione del pubblico francese con la trilogia noir Casino totale, Chourmo e Solea, ambientata come il resto della sua opera a Marsiglia 23.L’amore per la sua città – che traspare anche in Marinai perduti attraverso una lunga serie di descrizioni del suo porto e delle sue vie, delle indicazioni particolareggiate su locali e bistrot e i piatti tipici che vi vengono serviti – nonché per la cultura mediterranea in generale, sono due punti focali dell’opera di Izzo, dei suoi veri e propri miti personali 24. Dalle prime pagine di Marinai perduti, l’occhio del narratore si sofferma sulla sua bellezza, collegata con un momento significativo della gioventù di uno dei marinai protagonisti del romanzo, nonché con aspetti che sfumano nel mito,capace di far sentire la suo eco attraverso secoli e millenni, frammento di un immaginario culturale che viene rinnovato costantemente nell’immaginario del singolo:Anche a Diamantis piaceva quella città. L’aveva amata fin dalla prima volta che vi era sbarcato. Aveva appena vent’anni allora. Era mozzo a bordo dell’Ecuador, un vecchio cargo arrugginito che non si avventurava mai al largo di Gibilterra. Quel giorno se lo ricordava benissimo. L’Ecuador aveva doppiato l’arcipelago del Riou. Poi, superate le isole del Frioul,l’insenatura gli si era spalancata di fronte. Quasi una linea netta di luce rosata che separava l’azzurro del cielo dall’azzurro del mare. Ne era rimasto come abbagliato. Marsiglia, aveva pensato allora, è una donna che si offre a chi arriva dal mare. L’aveva perfino annotato sul giornale di bordo. Senza sapere che stava citando il mito fondatore della città: la leggenda di Gyptis, principessa ligure che si diede a Protis, marinaio francese, la notte in cui questi entrò nel porto. Da allora Diamantis aveva perso il conto degli scali 25.Il mito fondatore marsigliese di Gyptis e Protis, insieme alla descrizione del porto con immagini sensuali e una metafora erotica, rappresenta un importante nucleo immaginativo e semantico per il romanzo di Izzo, a partire dal quale si dipana tutta la sua trama nelle sue singole fasce narrative: l’arrivo del marinaio,la donna che gli si dona, la bellezza del mare e del porto. Tuttavia, la poesia e la valenza erotica dell’episodio mitico e dell’immagine della città sono rilegate al passato, alla giovinezza del marinaio greco Diamantis, dopo anni nuovamente approdato con la nave sulla quale è “secondo” al porto di Marsiglia, per non ripartire più. Difatti, la rappresentazione dello stesso porto, questa volta visto da terra e non dal mare, con cui si apre il romanzo, contrasta decisamente con i colori, il tempo atmosferico e la metaforicità del passo appena citato:Marsiglia quel mattino aveva colori da mare del Nord. […] Il cielo minacciava tempesta e, in lontananza, le isole del Frioul non erano che una macchia scura. A stento si distingueva l’orizzonte. Proprio un giorno senza futuro, pensò Diamantis. Attraccati, relegati laggiù, in fondo ai sei chilometri della diga del Largo. Lontani da tutto. Senza niente da fare. E senza un soldo. Ad aspettare l’ipotetico acquirente di quel sfottuto cargo 26. Diamantis, insieme al capitano libanese Abdul Aziz e un marinaio semplice,il giovane turco Nedim, sono degli uomini di mare costretti all’immobilità, spinti dalla difficile situazione legale della loro nave, l’Aldébaran (bloccata dal tribunale a garanzia dei debiti contratti dall’armatore) in una trappola, una empasse che è allo stesso tempo economica e psicologica. Infatti, nell’impossibilità di abbandonare la nave, sulla quale continuano a vivere consumando gli avanzi delle loro provviste, nella difficoltà di trovare un altro impiego e nel rifiuto di accettare l’indennizzo offertogli dal tribunale (come aveva fatto il resto della variopinta ciurma, dileguatasi dopo pochi giorni dall’attracco della nave), si traduce la situazione esistenziale in cui versano tutti e tre i personaggi. Una situazione di stallo, di vuoto («Non abbiamo più il mare di mezzo. E di colpo scopriamo il vuoto», p. 15), che li conduce alla rielaborazione del proprio passato,ai ricordi che lentamente essi si cominciano a scambiare, e che sono incentrati principalmente sulla loro scelta di diventare marinai, come anche sulle donne protagoniste della loro vita, durante i loro viaggi (le prostitute e le altre donne dei porti) come durante le brevi permanenze a casa (le fidanzate e le mogli,madri dei loro figli). Se la loro esistenza di marinai è posta all’insegna di un destino al quale non possono sfuggire, della scelta di una libertà alla quale non vogliono rinunciare («In mare, e soltanto lì, si sentiva libero. In mare non si sentiva né vivo né morto. Solo altrove. Un altrove in cui riusciva a trovare qualche buona ragione per essere se stesso. E gli bastava», p. 14), tale destino è allo stesso tempo la condanna ad una instabilità nei rapporti d’amore, arrivati in tutti i tre gli uomini a un momento di svolta: mentre Abdul Aziz sta per essere lasciato dalla moglie, che pur amandolo soffre troppo per via delle lunghe assenze del marito, Nedim prende coscienza della impossibilità di costruirsi un’esistenza con la giovane fidanzata, di rispondere alle attese della sua famiglia di scegliere un lavoro da sedentario. Diamantis, invece, separato da anni dalla moglie da cui ha avuto un figlio, è ora alla ricerca di un suo grande amore giovanile, una donna di origine marocchina conosciuta a Marsiglia vent’anni prima, da lui abbandonata in circostanze oscure, a causa di un intrico di paure e di incapacità che nel corso della narrazione riceve man mano delle delucidazioni.Infatti, la ricerca del suo antico amore da parte di Diamantis costituisce il motore del racconto nonché l’anello di congiunzione tra le varie vicende che si dispiegano intorno ai singoli personaggi. Nedim si innamora di Lalla, una bella entraîneuse conosciuta in un locale del quartiere portuale, la quale è accompagnata da una quarantenne che si rivela essere Amina, la donna ricercata da Diamantis. Tirato dentro un inganno dalle due donne e dai proprietari del locale per il quale lavorano, Nedim chiede aiuto a Diamantis che entra così in contatto con l’entourage malavitoso delle due donne, assistendo infine all’uccisione di Amina da parte del suo compagno, un capo mafioso che l’aveva costretta a lavorare per lui. In un intrico noir, gestito alla perfezione da Izzo, esperto del genere, si narra infine anche la morte tragica di Nedim per mano di Abdul, l’arresto di questi e il salvataggio di Lalla, che in realtà è la figlia che Amina aveva avuto da Diamantis dopo essere stata da lui abbandonata. Diamantis, invece,trova in ultimo rifugio presso una donna marsigliese, una Calipso che gli offre il suo amore materno, e che si prende cura anche della giovane Lalla. Quest’ultimo rimando ad una figura femminile di memoria omerica non è solo di tipo associativo. Diamantis, infatti, è collocato volutamente nell’orbita degli ulissidi, ed è egli stesso cosciente di essere un erede del mitico navigatore del Mediterraneo, così come suo padre, marinaio anche lui, si era identificato con questi. La sua passione per l’Odissea, che Diamantis legge al figlio durante i periodi a terra, si inscrive in un profondo amore per il Mediterraneo, fonte di continue riflessioni che egli annota sul suo diario di bordo. Diamantis colloca se stesso in quella narrazione continua che è il poema omerico, tentando di leggervi il significato della propria esistenza e il proprio futuro:[…] In effetti l’Odissea non ha mai smesso di essere raccontata, da una taverna all’altra, di bar in bar:… e Ulisse è sempre fra noi. La sua eterna giovinezza è nelle storie che continuiamo a raccontarci anche oggi se abbiamo ancora un avvenire nel Mediterraneo è di sicuro lì. […] I porti del Mediterraneo… sono delle strade. Strade per mare e per terra. Collegate.Strade e città. Grandi, piccole. Si tengono tutte per mano. Il Cairo e Marsiglia, Genova e Beirut, Istanbul e Tangeri, Tunisi e Napoli, Barcellona e Alessandria, Palermo e…»Ritrovò infine il pensiero che lo assillava, e le parole per esprimerlo.«In realtà ci vuole una motivazione personale per navigare sul Mediterraneo»27.Per Diamantis, l’Odissea non è tuttavia l’unica fonte per la re-interpretazione e la riflessione sul Mediterraneo. Come emerge da una serie di luoghi testuali,egli è un personaggio intellettualmente complesso ed autoriflessivo, un portavoce dei pensieri e delle ricerche dello stesso Izzo sull’argomento. Molte delle osservazioni di Diamantis sul suo mare sono di natura colta, e vanno ben al di là della narrazione delle proprie storie (pur presenti, come quelle intorno alle tempeste e ai naufragi vissuti durante la sua ventennale vita in mare), o della ripetizione ossessiva delle vicende odissaiche, così come è di natura erudita la sua passione per gli antichi peripli marini. Per di più, Izzo traduce nel suo personaggio principale la propria conoscenza degli scritti di Fernand Braudel e di Predrag Matvejevic´, due studiosi menzionati esplicitamente dall’autore in una postilla al suo romanzo. Di chiara ispirazione matvejeviciana sono, infatti, passaggi come il seguente: Diamantis rinunciò a rituffarsi nelle sue carte nautiche. Le riordinò accuratamente. Ma prese ancora un appunto: «Il Mediterraneo non è solo geografia. Non è solo storia. Ma è più di una semplice appartenenza»28.Sia per la sua natura odissaica che per le sue riflessioni e passioni colte,Diamantis è un uomo profondamente mediterraneo, che come marinaio ha del resto rinunciato a navigare su altri mari, scegliendo di lavorare su delle vecchie imbarcazioni, inadatte ad essere utilizzate per il commercio navale dell’oceano.Diversamente da lui, Abdul Aziz, il capitano dell’Aldébaran, è pervaso da aspirazioni diverse, ovvero da quella ultra-omerica di “prendere” altri mari, di misurarsi con il più vasto Oceano, con l’altrove immenso e imprevedibile, come emerge dalle parole con cui egli interrompe il discorso, prima citato, di Diamantis sul Mediterraneo:«Io… per me, sì, per me, il Mediterraneo… il mare… Per me il mare è bello solo più in là. Una volta passata Gibilterra. L’oceano…»«E qual è la sua motivazione personale?» domandò Lalla a Diamantis.«Trovare me stesso, credo».Pensava a una frase di suo padre. «Tutto è ambivalente nell’animo dell’uomo» diceva.«Ma i duplici valori cercano di ritrovarsi in un luogo in cui i contrari facciano un tutt’uno».«O, più esattamente, riunire in me stesso tutto ciò. Ci si perde a non sapere chi siamo».«L’oceano» lo interruppe Abdul alzando la voce.Non sapeva bene cosa dire. Voleva soltanto riprendere il ruolo di protagonista. Porca miseria! Che era? L’anarchia? Era lui il comandante della nave.. E ne aveva comandate tante altre. Avevano il dovere di ascoltarlo! Voleva raccontare il mare. Quello vero. L’avventura.Non quella pietosa del povero Ulisse imbrigliato nei fili che il Mediterraneo, brutta troia di un ragno, tesseva intorno agli uomini. Era Penelope, quella troia di un ragno. Gli aveva annodato un filo alla caviglia a quel poveraccio. Il filo che alla fine l’avrebbe riportato a casa. Nelle braccia di Circe, nel letto di Calipso, Ulisse era legato a Penelope. Al suo tran tran familiare. Alla vita domestica. Il mare partoriva delle donne ragno. Delle Penelopi. Delle Penelopi e delle Céphée.L’oceano, l’avventura.«Solo altrove il mare è bello» ripeté alzando la voce 29.Il desiderio del capitano dell’Aldébaran di andare oltre, di recidere i legami fisici con il suo mare e quelli sentimentali con la sua Penelope, equivale alla tensione autodistruttiva di cancellare parte della propria identità, ricercata invece da Diamantis nel mar Mediterraneo. Una necessità, quella di Diamantis, che egli riesce a sintetizzare davanti alla giovane Lalla, con delle parole che irritano profondamente Abdul, spinto invece a perdersi e a cancellare il proprio passato per via della grande delusione ricevuta dalla moglie e dall’incapacità di uscire fuori dal circolo vizioso della sua erranza in mare. Sono entrambi dei “marinai perduti” – come lo è anche il giovane Nedim che diventa addirittura vittima della momentanea violenza (auto)distruttiva da parte di Abdul – ma ognuno in modo diverso: Abdul, nella sua cieca disperazione e con l’omicidio da lui commesso si immette nel vicolo cieco dell’illegalità e viene incarcerato, mentre Diamantis giunge attraverso un malinconico ripiegamento sul proprio passato e su una storia amorosa rimasta aperta, nonché attraverso le sue riflessioni sul suo mare, ad una presa di coscienza dei propri errori e dei propri limiti, salvando infine se stesso, anche grazie all’aiuto (ancora una volta, e molto all’insegna del suo mitico antenato) di una donna. Un aiuto e un’apertura verso un possibile futuro che, però, porta i connotati mediterranei della città nella quale, questa volta volutamente, Diamantis si è perduto, gustandone i profumi e i sapori e registrando i suoi tanti colori, le sue tante varietà umane che vi si mescolano in un movimento sensuale e creativo, in un “caos mondo” pieno di luce e di musica 30.Marsiglia diviene così una sorta di specchio e riassunto urbano di quella cultura del mare che Diamantis (e con lui l’autore di Marinai perduti) ama profondamente, diviene un’utopia realizzabile una volta che si è trovati accesso al suo linguaggio segreto, che si diventa esperti delle lingue che i suoi abitanti vi parlano. Il discorso di Izzo, in apparenza tanto aderente al presente della cultura mediterranea (e non privo di denunce rivolte al suo degrado, come emerge dalle vicende legate ai pignoramenti di navi, e alla speculazione illecita da parte delle compagnie di assicurazioni tramite delle messe in scena di naufragi), in realtà usa il passato (storico e mitico) di quella cultura come pietra di paragone da tenere sempre in mente («Il mare, continuò Diamantis, non lo si scopre mai da soli, e non lo si vede solo con i propri occhi. Lo si guarda come altri lo hanno visto, attraverso immagini e racconti che ci hanno tramandato», p. 36), trovando così un’apertura verso il futuro. Il tema del marinaio – un tipo umano capace di “ridisegnare il mondo” (p. 32) attraverso la conoscenza/esperienza del mare e della vita – riceve così, al di là delle sue variazioni relative ai singoli personaggi protagonisti del romanzo e nei suoi risvolti noir, un significato più profondo,ossia quello di un’utopia tratta dal presente vissuto con piena adesione e con l’idea momentanea ma illuminante che «tutto è possibile»31. All’eterno presente di Izzo, con le sue diramazioni verso il futuro e il passato,fa da contrappunto lo scavo nel passato attuato da Vincenzo Consolo, autore dai timbri ben diversi, più vicini alla polifonia della musica barocca, alla quale l’autore siciliano si avvicina anche per l’idea di conferire la stessa importanza a stili e linguaggi diversi (oltre quello narrativo, quello giuridico, quello aggistico-documentario, nonché la traduzione verbale di quello figurativo), gestiti con abile tecnica di incastro e con rimandi impliciti a temi e motivi comuni. Nel suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, del 197632, Consolo alterna la narrazione vera e propria degli eventi legati alle rivolte di contadini e braccianti contro il potere dei feudatari, scatenatesi contemporaneamente all’arrivo dei garibaldini nel 1860, nonché quella di due scene che vedono al centro il barone Mandralisca e l’avvocato Giovanni Interdonato, entrambi favorevoli alla rivoluzione “dal basso” che aveva avuto un suo lontano preludio nei Vespri siciliani, a documenti politici e giuridici relativi agli stessi eventi, autentici o manipolati dallo stesso Consolo, a passaggi tratti da uno studio di malacologia, e infine alle trascrizioni di graffiti che i prigionieri politici, autori dei moti contadini, avevano lasciato inscritti sui muri del loro carcere sotterraneo. Ma più che approfondire la natura delle soluzioni linguistico-stilistiche de Il sorriso dell’ignoto marinaio, la cui struttura “a chiocciola” riflette, come è stato sottolineato da Cesare Segre, la tensione irrisolta dei rapporti sociali sulla quale è incentrata la riscrittura di questo episodio della storia siciliana da parte di Consolo, vorrei focalizzare l’attenzione sul Leitmotiv dell’ignoto marinaio da cui questa è attraversata 33. Intanto, l’identificazione dell’uomo del Ritratto di Antonello da Messina – realmente acquistato dal barone Enrico Pirajno di Mandralisca di Cefalù da uno speziale dell’isola di Lipari e a tutt’oggi conservato nel Museo Mandralisca della località siciliana – con un marinaio, non è affatto senza importanza per lo scrittore, come emerge da un suo recente scritto 34.Come commento alle vicende storiche da lui riscritte con un intricato patchwork di testi stilisticamente e linguisticamente molto eterogenei, Consolo sceglie quindi un elemento extratestuale, un’opera figurativa realmente esistente e in quanto tale rimando alla valenza sovra- e metastorica dell’arte. La scelta di ritrarre con le sue parole il famoso dipinto, piegandone il significato verso un’interpretazione che non può più prescindere dall’idea che l’uomo raffigurato sia un marinaio, è quindi di fondamentale importanza per la comprensione del testo nel suo insieme. L’immagine del marinaio consoliano viene così ad occupare, come direbbe Lea Ritter Santini, «lo spazio intermedio fra valore iconico e valore verbale», perdendo così la sua «innocenza e la sua univocità visiva» a favore di una accrescimento semantico e la trasformazione in una nuova “figura dell’immaginario”35.Ma vediamo come lo scrittore siciliano descrive il dipinto di Antonello, nel momento in cui il barone toglie il panno che lo copre, per mostrare il suo nuovo acquisto agli invitati:Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentì come a disagio 36.Fin dalle prime battute della descrizione ekphrastica, il volto dell’uomo raffigurato viene “letto” all’insegna di una vivida e luminosa intelligenza; è una luce che si staglia da un fondo cupo, associato alla “notte di paura e incomprensione” che gli fa da contesto e contrasto. La metafora del naufragio in relazione alla giovinezza, dalla quale l’uomo è ormai uscito, costituisce l’unico collegamento allusivo con la sua (presunta) professione, che passa invece in secondo piano rispetto alla interpretazione della espressione del suo sorriso. Un sorriso ironico, appena accennato, che mette in comunicazione occhi e labbra, è il principale tratto distintivo di quel volto, un tratto del quale si sottolinea però la sfuggevolezza,la precarietà, ma anche la singolarità e il disagio che suscita nell’ osservatore.Tra dolore e pietà, tra sarcasmo e risata aperta e folle, l’ironia del marinaio è come una freccia lanciata fuori dal dipinto, e fa di lui l’osservatore di chi osserva, trasforma l’oggetto del quadro in soggetto, in “personaggio”, come lo stesso narratore sottolinea. Del resto, tutti gli astanti percepiscono la presenza del marinaio come presenza materiale di un personaggio che li segue con lo sguardo; il marinaio diventa così protagonista della scena “da salotto”, tant’è vero che essa, e insieme il primo capitolo, si conclude con le seguenti attute:«Barone, a chi sorride quello là» […]. «Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli!» rispose il Mandralisca»37.La presenza del marinaio del dipinto, venuto anch’esso dal mare, «nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù approdo nella storia e nella cultura»38, è rafforzata da quella di un personaggio che nella fabula del romanzo consoliano ricopre un ruolo di primo piano. Si tratta dell’avvocato Interdonato, il quale nel primo capitolo appare nei panni di un (presunto) marinaio, che il barone Mandralisca incontra sulla nave che lo riporta a Cefalù.Mentre gli spiega la natura e l’origine della malattia di un cavatore di pietra pomice, che viaggia insieme a loro, il misterioso marinaio mostra al barone il suo volto dal sorriso ambiguo, un volto che questi ricollega subito a un’immagine vista già altrove, e che nello svelamento del quadro, successivo all’ episodio di questo incontro, gli sarebbe nuovamente apparso:Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcarono il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma in guardandolo, colui mostra vasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vissuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E,avvertitasi in colui, la grande dignità di un signore 39.Sono più che evidenti le corrispondenze lessicali tra la descrizione del dipinto e quella del personaggio “in carne e ossa”, le quali si concentrano nella natura,ironica, del sorriso, nella forma degli occhi (“piccoli e puntuti”), e nel vestiario,che nel ritratto dell’uomo a mezzobusto non è pienamente visibile, mentre viene associato esplicitamente all’abbigliamento tradizionale di un marinaio nel caso del personaggio incontrato sulla nave. Ma anche in questo caso, la caratterizzazione di questi è carica di un’ambiguità che va ben oltre quella del sorriso: benché vestito da marinaio, il personaggio non possiede la «stranianza dell’uomo vivente sopra il mare», ovvero quel distacco psicologico (caratteristico in chi vive quasi sempre lontano dal consorzio umano) dalle vicende della terra,dalle dolorose complicanze della storia, di cui egli sembra invece ben cosciente,osservatore interno e partecipe. La somiglianza tra l’Interdonato – rivoluzionario e uomo di contatto tra altri cospiratori fuggiti all’estero, che si era dovuto travestire da marinaio per ritornare in Sicilia, nonché fidanzato della figlia dello speziale di Lipari che aveva venduto il quadro al barone Mandralisca – e il marinaio antonelliano, è del resto sostenuta da una “teoria”, da un “gioco” delle somiglianze, tratto costitutivo, secondo Leonardo Sciascia della “sicilitudine”,come emerge dall’epigrafe (tratta dall’Ordine delle somiglianze) posta da Consolo in apertura del romanzo: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza. […] I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché, della somiglianza […] A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».Sostenuta da tale “teoria”, il volto dell’ignoto e quello del presunto marinaio,richiamandosi a vicenda, divengono un ben visibile filo rosso che attraversa tutto il romanzo. Dopo aver constatato addirittura l’identicità dei due volti («Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente», p. 44), e dopo aver ricevuto delle delucidazioni intorno alle idee e azioni rivoluzionarie dell’ Interdonato, il barone Mandralisca continua ad associare entrambi i personaggi durante i momenti chiave dell’evolversi delle vicende politiche e rivoluzionarie, di cui egli sarebbe stato osservatore esterno. Un “gioco”, il suo, che di fatto è uno strumento di conoscenza, in quanto egli sposa con convinzione crescente gli ideali dello stesso Interdonato, provando man mano disgusto per le proprie occupazioni di collezionista e studioso di lumache e di antiquaria. Come se avesse ricevuto un importante stimolo da quel sorriso ironico, nel barone avviene un’evoluzione interiore che lo porta verso delle riflessioni sugli eventi storici contemporanei, nonché sulla stessa natura della storia in quanto racconto di singole vicende selezionate e a noi tramandate. Difatti, egli giunge a giudicare la scrittura storica l’opera di illuminati e di privilegiati e in quanto tale una vera e propria “impostura” su coloro che invece partecipano attivamente a quelle vicende, senza avere le possibilità materiali ed intellettuali di narrare la propria storia, preservandola da ogni distorsione successiva 40. Non solo, all’interno di tale riflessione (auto)critica intorno alla propria “casta” di intellettuali, nobili in questo caso ed illuminati, la quale sfocia nell’unica possibile azione fattiva del barone, ossia in quella di destinare i suoi beni ad una scuola e ad un museo, egli arriva anche a rileggere lo sguardo e il sorriso ironico del misterioso personaggio del quadro, dando maggiore rilievo al suo «distacco, lontananza […], d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica…» (p. 117); e ancora: di fronte alla trascrizione, da parte del barone, dei graffiti carcerari degli autori della violenta sommossa di Alcalà de li Fusi, quel sorriso sembra volgersi addirittura in «greve, sardonico, maligno» (p. 120).Perciò, proprio per via della natura sempre più sociale ed etica di tale interpretazione,agli occhi del barone l’ignoto marinaio sembra riassumere nel suo volto quelli di numerosi esponenti delle classi elevate e degli intellettuali ed artisti del luogo: dal pittore al vescovo al ministro al direttore della polizia, fin allo stesso Mandralisca, colpevoli, anche nel caso di una concordia ideologica con la povera gente, di un senso di superiorità e di distacco.Il volto dell’Ignoto, da immagine figurativa, e passando per quella verbale,diventa quindi un importante Leitmotiv del romanzo, nonché metafora del distacco ironico ed illuminato, preso in prestito dall’eterna distanza del marinaio,caratteristico dei ceti superiori e degli intellettuali, destinati a rimanere separati dal popolo e da chi si oppone alla stessa divisione in classi, nonché al concetto di proprietà («La proprietà, Interdonato, la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», p. 118). Un Leitmotiv marino che, nella sua valenza di “forma dell’esperienza”, di un’esperienza direi spiccatamente etica e sociale, è affiancato da uno prettamente terrestre,collegato fin dapprincipio alla figura del barone, più che a quella dell’ Interdonato,che con la sua capacità di fare comunque da ponte tra i rivoltosi e il nuovo establishment politico, nonché con quella di agire concretamente in loro favore (salvando loro la vita con il decreto sull’amnistia), conserva la sua qualità marinaresca dell’ambiguità sociale, ma anche dell’azione concreta. Si tratta del Leitmotiv metaforico della chiocciola, che dapprima viene collegata all’occupazione privilegiata del barone, ossia allo studio e alla schedatura delle lumache terrestri e fluviali di quella regione siciliana. Da metafora della mente illuminata dello studioso nobile, e sotto influenza di figure affini quali la spirale e il labirinto (nella loro lettura calviniana ed antropologica) 41, la chiocciola rivela poi, nel corso della narrazione, la sua natura sia centrifuga che centripeta, e viene via via associata a forze contrapposte come la vita e la morte, la libertà e le costrizioni/prigioni, la creatività e l’ossessione infertile. Infatti, di fronte agli eventi di Alcalà de li Fusi, il barone decide di abbandonare i suoi studi, schiacciato dall’idea che le sue lumache possano simboleggiare tutto ciò a cui egli,ormai, cerca di opporsi razionalmente, scegliendo la strada (centrifuga) della vita e della libertà, malgrado egli non riesca a volgere quella maturazione interiore in vera azione:E son peggiori de’ corvi e de’ sciacalli, le lumache, le creature belle, ermafrodite: temono il sole, distruggono i vivai e le colture, si nutrono financo di liquami, decomposizioni, umori cadaverici, s’insinuano in carcasse, ne spolpano le ossa, ricercano ne’ teschi le cervella, il bulbo acquoso nell’orbita dell’occhio… e non per caso i Romani le mangiavan ne’ pasti funerarî Al di là del fascino barocco esercitato da passi come questo – veri e propri risultati della natura strutturalmente e linguisticamente “formante” attribuibile non solo al tema ma anche al Leitmotiv – va quindi sottolineato che la narrazione da parte di Consolo della Sicilia e con essa del suo Mediterraneo è fortemente improntato sulla dialettica tra metafore marine, e marinare, e quelle terrestri, le quali si sviluppano come veri e propri Leitmotive che attraversano tutto il romanzo.Espressione del contrasto tra la cancellazione della storia nel “breve mare”43 che bagna l’isola, e l’ingiustizia sociale, costante storica, connessa all’impossibilità di intaccare radicalmente i poteri secolari che vi sono radicati, tali forme formanti dell’esperienza chiamano in causa i nessi tra storia e attualità, tra il passato e il presente, permettendo altresì delle riflessioni sul ruolo dell’intellettuale nel passato e su quello che egli occupa oggi, sulle sue capacità di osservare e di giudicare gli eventi politici e sociali, con lieve sorriso ironico, e sulla sua incapacità di intervenire, di agire, di prendere radicalmente posizione. Una dialettica irrisolta e produttrice di ambiguità, quella consoliana, che si trasferisce sul piano stilistico e narrativo nella rappresentazione ekphrastica di luminosi quadri di mare e di porti,concentrati nella prima parte del romanzo, alla quale si oppone nel cap. VIII la lunga descrizione della buia prigione sotterranea a forma di chiocciola, o spirale,dove i rivoltosi di Alcalà erano stati a lungo detenuti. Un’ambiguità che sembra tradursi definitivamente in sconfitta, nella rassegnata sovrapposizione delle due metafore, quando il barone esclama infine: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso» (p. 118). Ambiguità mai risolta, però, visto che dal centro del quadro di Antonello da Messina, il sorriso del marinaio, rivolto per un attimo verso se stesso e avviluppatosi in un mortale movimento centripeto, può nuovamente riprendere la sua forza centripeta, ironica ma vitale, liberatoria.Arriviamo alla terza intrecciatura della nostra treccia marinaresca e mediterranea mediante la narrazione da parte di Consolo (amante di antefatti e di appendici) di un episodio che, a sua insaputa, costituisce l’antefatto del romanzo di Waciny Larej:E lui [Cervantes], il pellegrino d’Italia, il soldato di Lepanto, lo schiavo di Algeri, aveva frequentato la Sicilia. S’era imbarcato a Messina con l’Invincibile Armada, nella città dello Stretto aveva curato le sue ferite, aveva soggiornato a Palermo, a Trapani (nella novella El amante liberal è evocata questa città); nei bagni d’Algeri diveniva compagno di pena ell’avventuroso poeta siciliano Antonio Veneziano. Nella spianata delle moschee, dov’erano i bagni, i due udivano attraverso le grate la filastrocca che i bambini della casbah crudelmente cantavano nella franca lingua dei porti mediterranei: Non rescatar, non fugir
Don Juan no venir
Acá morir 44.
Nell’affacciarsi sulla grande agorà del mare di mezzo, echeggiante della lingua franca dei marinai e degli abitanti dei porti, gli scrittori provenienti dai diversi angoli di questo mare ascoltano e ri-narrano storie come questa, una storia vera che appartiene al comune patrimonio culturale e letterario di questa regione, e che, nel diventare parte dell’immaginario personale di un autore,viene rinnovata e re-immessa in quello di una comunità più ampia, sopranazionale ed interculturale. Nella sua triangolazione spagnolo-italo-algerina, l’avventurosa vita dello scrittore Miguel de Cervantes, è qui ripresa molto sinteticamente dal punto di vista siciliano, mentre, a partire dal suo versante algerino,essa viene rielaborata in modo diverso da Waciny Larej, in Don Chisciotte ad Algeri 45. Il romanzo, una attualizzazione delle mitiche vicende intorno allo scrittore spagnolo, è incentrato sul viaggio ad Algeri che Vásquez de Cervantes de Almería, lontano discendente di Miguel de Cervantes, intraprende con l’obiettivo di ripercorrere le tracce del suo famoso avo. In tutto somigliante a Don Chisciotte, la famosa creatura letteraria di Cervantes, Vásquez de Cervantes si presenta al signor Hsissen, funzionario del Ministero della Cultura, dove si occupa delle relazioni (pressoché inesistenti) ispano-algerine. Al termine di un “folle viaggio” che lo ha portato da Valladolid e Madrid a Napoli, Palermo e Genova e poi a Marsiglia, per poi imbarcarsi su una vecchia nave da commercio carica di zucchero da canna per giungere ad Algeri, lo spagnolo chiede a Hsissen di condurlo ai luoghi in cui il suo avo era vissuto per cinque anni come prigioniero. L’obiettivo del moderno Don Chisciotte, di professione giornalista,è quella di ripetere l’avventuroso viaggio di Cervantes «senza passare per le solite vie, […] in modo da riuscire a comprendere le sue sensazioni, le sue paure, e scrivere qualcosa sulle città che aveva amato e in cui aveva vissuto»46.Fondamentale in ciò è da lui considerato l’arrivo dal mare, la registrazione delle sensazioni che il “capitano” Cervantes, il quale aveva partecipato come soldato di marina alla battaglia di Lepanto, aveva provate durante la misteriosa cattura della sua nave da parte dei corsari:Per tornare al viaggio, mi interessava vedere il punto in cui Miguel e il fratello Rodrigo furono catturati. Quando il capitano me lo indicò provai strane sensazioni. Mi parve persino di sentire le urla, subito inghiottite dal mare, dei passeggeri della sfortunata imbarcazione. Mi rendevo conto che il mare è in grado di conservare misteriose ombre, mentre la terra cancella tutto 47.Difatti, la perlustrazione di Algeri, e in particolare dei luoghi in cui si era trovato Cervantes secoli prima, intrapresa dai due uomini, è una conferma dell’idea che “la terra cancelli tutto”. Algeri, la città un tempo tanto amata da Hsissen, assomiglia ormai ad un labirinto dalle mille paure e vie senza uscita,costellato da ombre minacciose che controllano ogni loro movimento, nell’impresa rischiosa e “folle”, anch’essa, di percorrerla per motivi di turismo, per di più culturale. La grotta di Cervantes, un tempo luogo di culto e di attrazione per i visitatori della città, è ora decaduta a mondezzaio, la targa commemorativa dello scrittore è conservata in una discarica, dove Hsissen e Don Chisciotte scoprono dei traffici illeciti e mafiosi intorno ai beni culturali del paese, da anni misteriosamente scomparsi.Condotta in prima persona dal punto di vista di Hsissen, la narrazione delle sue giornate trascorse con Don Chisciotte alla scoperta dei tesori “spagnoli” di Algeri è fin dapprincipio offuscata dalle violenti rappresaglie che egli dovette subire a causa della sua amicizia con il misterioso erede di Cervantes. Nel primo capitolo del romanzo (corredato come tutti gli altri con un breve riassunto del suo contenuto, ad imitazione del romanzo cervantino), Hsissen si presenta come caduto in una profonda solitudine, dopo essere stato licenziato e poi crudelmente mutilato (i misteriosi terroristi da lui denominati “figli di cane” gli hanno amputato la lingua e il pene); una solitudine alleviata solo dalla scrittura,che tuttavia non può impedirgli di formulare il desiderio di suicidarsi:Con la lingua mozzata e il pene reciso, credo di non aver altra scelta che accogliere l’invito delle onde, di quest’azzurra immensità, che tutte le sere mi ricordano l’isolamento e la solitudine in cui mi trovo e la paura, profonda e palese, in cui vivo. Non mi rimane altro che gettarmi in questo mare che guarda il mio silenzio 48.Nelle pagine che seguono, e in cui si inizia il racconto retrospettivo delle vicende che lo hanno condotto verso tale terribile destino, Hsissen attribuisce molta importanza alla sua profonda passione per la Spagna, che ne fa un personaggio speculare rispetto a Don Chisciotte, l’alter ego algerino del discendente di Cervantes. Difatti, Hsissen, è discendente di un morisco di Granada, un bibliotecario che nei tempi “bui” della reconquista era stato cacciato dalla sua Spagna. Da sempre, egli “sogna” l’altra sponda mediterranea, un sogno alimentato dalla nonna che abita con lui e che si è ricostruita in casa una piccola Granada, circondandosi di fiori di Cassia (fiore-simbolo di Carmen) importati secoli prima quando il loro avo ne portò con sé i semi. L’affinità tra l’algerino Hsissen e lo spagnolo Don Chisciotte, entrambi profondamente segnati dalla discendenza da un avo mitizzato, la quale porta i tratti distintivi di un’alterità da loro introiettata a tal punto da divenire delle personalità di “irregolari” che per tutta la loro vita hanno guardato altrove, è sostenuta da una sorta di “teoria della parentela”, che trova il suo corrispettivo nella teoria consoliana della “somiglianza”. Laddove, in Consolo, la somiglianza con il marinaio ritrattato portava alla circoscrizione di un tipo umano, quello dell’intellettuale distaccato, del nobile illuminato, osservatore ironico degli eventi storici, in Larej la parentela con degli avi famosi e mitizzati conduce, oltre a creare una “somiglianza”, consoliana,tra i due personaggi principali, alla sovrapposizione del destino del personaggio contemporaneo con quello dell’avo, ad una ripetizione costrittiva della storia e delle vicende singolari che ne sono stati tramandati, in famiglia (nel caso dell’avo di Hsissen) o nei racconti autobiografici e biografici (nel caso di Miguel de Cervantes).Intanto, e prima ancora di “compiere” il destino del proprio avo, inseguito da Hsissen con la passione per la lingua spagnola e da Don Chisciotte con il viaggio intrapreso per seguire le orme di Cervantes, e nell’incrociarsi dei loro sguardi tra Spagna ed Algeria, i due tracciano una “riscrittura” della stessa città di Algeri: dal suo interno, il degrado della «magnifica città senza senso, uccello libero; meretrice amata» (p. 14) è registrato dal disilluso Hsissen, mentre Don Chisciotte ne esalta e riscopre le bellezze nascoste, ritrovandovi – nonostante i tanti paradossi con cui egli si scontra durante la sua ricerca dei luoghi cervantini – il suo luogo ideale («Il sole di questa città è insopportabile. Il mare era agitato oggi. Il porto quasi deserto. Mi sento leggero come una piuma di pavone variopinta. Assaporo la gioia di vivere. Godo l’irripetibile occasione della vita. Ci è data una volta sola», p. 135). Una idealizzazione, la sua, che nasce dal continuo confronto con il passato, dalla speranza di farlo rinascere insieme alla sua personale ripetizione delle vicende che avevano visto Cervantes prigioniero ad Algeri. Quando, contemporaneamente al licenziamento e al crescendo di minacce di cui è interessato Hsissen, Don Chisciotte viene infine arrestato e incarcerato,egli si ritrova in una situazione da lui, forse inconsciamente, prevista e ricercata.Diversamente che nel caso del suo alter ego algerino, il compiersi del suo destino “parentelare” lo conduce non verso la disperazione suicida, bensì verso la piena realizzazione del suo progetto di vita, ossia una vicinanza inaspettata e suggestiva con il mitico avo.Cambia, infatti, il punto di vista della narrazione nel momento in cui Don Chisciotte viene arrestato, e tutto il cap. V è costruito in forma di taccuino, nel quale egli trascrive le sue esperienze fatte fin dalla partenza da Almería, in Spagna, rifacendosi volutamente alla commedia El trato de Argel (del 1580), in cui Cervantes tradusse i suoi anni algerini nella messa in scena barocca delle vicende di diversi cristiani catturati dai “mori”. Nelle pagine del taccuino del moderno Don Chisciotte emerge quindi con insistenza il motivo della nave,mezzo con cui sia lui che il suo avo sono giunti ad Algeri, entrambi in circostanze misteriose, entrambi condotti o traviati da marinai e corsari, che qui si profilano come i responsabili “materiali” delle vicende ispano-algerine dei due personaggi,custodi di segreti difficilmente comprensibili dagli uomini di terra.Apparso già precedentemente nel romanzo, la figura del marinaio/corsaro, “traduttore”di personaggi di varia provenienza verso esperienze inattese e luoghi sconosciuti, si configura quindi come un importante motivo che rafforza il legame parentelare e di somiglianza non solo con Cervantes, ma anche con altri scrittori ed avventurieri che subirono la stessa sua sorte 49. I marinai in Larej,autori della secolare translatio mediterranea non solo di beni ma anche di personaggi di varia provenienza, “tradotti” da una riva all’altra, deviati dai luoghi di destinazione, catturati e trattenuti in porti sconosciuti che echeggiano di lingue diverse, sono del resto descritti come i protettori dei misteri del mare, come i custodi dei segreti che esso cela ai naviganti “per caso”, e che loro possono rivelare quando decidono. Così, alla vista del luogo in cui fu catturato Cervantes il 26 settembre 1575, il moderno Don Chisciotte, durante il tragitto che lo porta verso Algeri, è posto dallo stesso capitano della nave davanti ad un segreto indecifrabile, mai rivelato in letteratura o in storia, ma custodito ancora dal mare che bagna gli scogli coperti, come da secoli, dai gabbiani:– Il punto è questo. Vedi i gabbiani, Sono sempre qui, d’estate e d’inverno. È qui che i corsari hanno assalito la nave El Sol e catturato Cervantes.[…]– Sai capitano? Ho avuto una visione, ho visto la cattura di Cervantes e dei suoi compagni! Avverto la sua presenza, avverto il silenzio e il tremore causato dalla paura.Guardo le onde e vedo il fascino dell’avventura e dello smarrimento e sento, oltre il loro infrangersi sulle rocce, le urla delle donne cadute preda dei giannizzeri del mare! Il capitano aveva guardato i flutti che lambivano lo scafo, poi si era fregato le mani e come uno che la sa lunga aveva detto:– Amico mio, io sono un marinaio e i marinai conoscono il mare. Cervantes doveva sapere i rischi che correva. Mi chiedo piuttosto come sia stato possibile farsi sorprendere in un tratto ben conosciuto. C’è qualcosa di misterioso in tutto questo. Qualcosa di non detto, forse per paura, forse per amore. – È l’estro dello scrittore geniale infatuato del mare!– Questo non spiega il mistero. Mah! La questione è troppo complicata! Entriamo, fa molto freddo 50. Del resto, il marinaio come figura di scambio, di custode e di traduttore esperto dei segreti del mare e con essi delle dimensioni più profonde della vita 49 Durante la visita della discarica da parte di Hsissen e Don Chisciotte, il suo direttore, interrogato sulle vicende algerine di Cervantes, narra il caso parallelo del poéta francese Jean-François Régnard, catturato anch’egli dai corsari e imprigionato ad Algeri nel 1679,circa un secolo dopo lo scrittore spagnolo, nonché di altri avventurieri che subirono la stessa sorte (vedi ivi., pp. 65-69). 50 Ivi, pp. 138-139. dell’uomo (come la paura e l’amore, a cui allude il capitano), nell’ambito del Mediterraneo è allo stesso tempo figura di traduttore tra le diverse culture che si affacciano su questo mare “interno”, e fin dal secolo in cui visse Cervantes, il XVI, inventore e propagatore di una lingua transculturale che unisce in sé le lingue parlate in tutti i suoi porti: la lingua franca. Fortemente improntata sullo spagnolo (come risulta anche dal testo che poco avanti abbiamo visto citato in Consolo), sull’arabo e sul turco in una prima fase – ossia in quella di poco successiva all’insediamento, nel 1510, di corsari turchi guidati dal pirata Khair Ed-Din Barbarossa ad Algeri che per diversi decenni divenne il più temuto covo di pirati del Mediterraneo – la lingua franca riflesse nel suo lessico il contatto e lo scontro continui tra i corsari musulmani e gli spagnoli che nello stesso secolo avevano occupato molte parti della costa maghrebina. Mescolatosi, ancora nel corso del sec. XVI, in misura crescente con l’italiano (nella sua variante veneta e genovese,soprattutto), e con il francese, la lingua franca (da vero e proprio pidgin dai tratti linguistici autonomi e stabili) divenne durante i secoli seguenti il dialetto parlato,fino ad oggi, ad Algeri e a Malta, noto a partire dalla fine del secolo XIX (insieme alla colonizzazione francese del Maghreb) come “sabir”, e sempre di più assimilato alle singole varianti arabe nazionali nonché alle lingue coloniali 51.Per tornare al romanzo di Larej, la soluzione dell’arcano cervantino custodito dal mare, non appare molto lontana dalla ipotesi del capitano della nave sulla quale viaggia il moderno Don Chisciotte: una delle cause della cattura e della lunga permanenza ad Algeri potrebbe essere stato l’amore per una donna, la Zoraide di cui Cervantes parla in diversi luoghi, una giovane “mora”, prigioniera degli stessi corsari che avevano catturato lo scrittore spagnolo. Un’esperienza,quella amorosa, che si riavvera nuovamente nel discendente di Cervantes,quando egli conosce durante gli interrogatori da parte dei suoi carcerieri una traduttrice algerina che gli viene affiancata, una donna che gli rievoca la Zoraide cervantina e che è da lui amata come il suo avo aveva forse amato la giovane mora: da lontano, nell’ammirazione estasiata della diversità, della bellezza esotica e irraggiungibile, e nella sua associazione con il mito algerino della “Guardiana delle ombre”, un mito appreso da Hsissen e da entrambi ripensato e ri-sognato nei termini della speranza per un futuro migliore della città.Ripartendo da Algeri, ancora una volta per mare («chi entra in Algeria per mare viene espulso per mare», p. 179), Don Chisciotte porterà con sé questo suo segreto insieme a quello di Cervantes, concludendo: Ormai questa narrazione non riguarda più Cervantes ma me stesso e la storia degli abitanti di questa città che è come un’isola, per alcuni versi grande come una stella, per altri piccola come la cruna di un ago 52. Nel suo passaggio da tema a Leitmotiv e a motivo, la figura del marinaio nei tre autori mediterranei presi in esame riceve delle modulazioni diverse, rivolte nel caso di Izzo maggiormente verso i suoi aspetti esistenziali e mitici, di derivazione omerica, in Consolo verso quelli metaforici, a cui lo scrittore giunge tramite lo sfruttamento della tecnica ekphrastica e l’applicazione della teoria “siciliana” della somiglianza, e in Larej verso l’incarnazione dell’idea di uno scambio tra le culture, e di quella di una sovrapposizione metonimica tra il marinaio e il mare. In tutti e tre gli autori, un importante fattore che incide sulle diverse modulazioni della stessa figura letteraria è rappresentato dall’incrocio tra il tempo presente con quello storico, un incrocio sul quale incidono in varia misura le narrazioni mitologiche e letterarie del Mediterraneo e che in tutti i casi è caratterizzato da aperture utopistiche e visioni del futuro che si nutrono di una rivisitazione meditata del passato: in Consolo il passato “illustra” il presente (tramite una vera e propria illustrazione figurativa), mentre in Izzo e Larej il presente è memoria attiva, vivida del passato, di cui esso offre una interpretazione nuova. Oltre ad essere quindi crocevia delle diverse dimensioni temporali, il marinaio diviene la chiave di lettura non solo dello spazio e della cultura del Mediterraneo, ma anche stimolo verso l’interpretazione originale del proprio senso di appartenenza a tale spazio e a tale cultura, la quale nel caso di Izzo e di Larej si manifesta principalmente nella riscrittura dello spazio urbano della città portuale in cui gli stessi autori vivono, mentre in Consolo è volta maggiormente verso la rielaborazione di problematiche storico-identitarie che caratterizzano la sua Heimat insulare, la Sicilia. Attraverso la ripresa variamente modulata della figura del marinaio, la narrazione della cultura e della storia mediterranea vede quindi negli autori provenienti da diverse aree della grande regione mediterranea,l’introduzione di una pluralità di aspetti nuovi che, a partire dall’elaborazione di problematiche connesse alla patria più ristretta, interessano un comune e più vasto discorso identitario ed interculturale. Un intreccio – ancora una volta marino e condotto nel grande spazio della letteratura – tra la coscienza di appartenere ad un microcosmo che non può non aprirsi al macrocosmo della pluralità di mari, di oceani e di continenti con cui è in relazione, come potremmo dire parafrasando Vincenzo Consolo:Lo spazio nella letteratura è vasto quanto il mondo, varca a volte i confini stessi del mondo. Diventa infinito. Dobbiamo allora giocoforza navigare per il breve mare, il Mediterraneo, muoverci per una esigua terra, l’Italia, dei quali abbiamo maggiore cognizione,con la consapevolezza tuttavia che questo mare e questa terra non sono separati da oceani e continenti, che con essi hanno relazioni, ad essi e da essi danno e ricevono esperienza e conoscenza 53.E allora, a partire dall’idea del Mediterraneo come complesso incrocio di mondi e come ponte verso mondi remoti ma ad esso collegati, viene voglia di partire con moto odissaico, dantesco, verso l’oceano e la vastità di altri mari. Per interrogarsi, magari, sui marinai di Fernando Pessoa e di José Saramago,che a sorpresa aprono lo spazio letterario non tanto verso geografie reali quanto verso quelle puramente immaginarie, introducendo delle note esistenziali nel trattamento di tale figura, che stupiscono per la loro delicatezza e per l’aspirazione alla scoperta di verità profondamente umane: l’esperienza dell’esilio come cifra della vita umana e l’amore come il suo estremo ideale e utopia 54. Ma conviene, per questa volta, calare le vele e non superare le Colonne di Ercole.
1 «Il dolce e classico Mediterraneo privo di mestieri, fatto apposta per sciabordare / contro terrazze guardate da statue bianche in giardini contingui!» (da “Ode marittima”, tr. it. di A. Tabucchi).2 Tale espressione è stata usata da A. GNISCI in “La rete interletteraria mediterranea”,saggio compreso in D. DURIS ˇIN, A. GNISCI (a cura di), Il Mediterraneo. Una rete interletteraria,Roma, Bulzoni, 2000, pp. 29-40.3 Dello scrittore martinicano E. GLISSANT si veda in particolare Introduction à une poétiquedu divers, Paris, Gallimard, 1996; tr. it. (a cura di F. Neri), Poetica del diverso, Roma,Meltemi, 1998.4 È d’obbligo citare a questo proposito P. MATVEJEVIC ´, Il Mediterraneo. Un nuovo breviario,Milano, Garzanti, 1993, e in particolare il cap. II, “Carte”, pp. 139-198, dedicato ai peripli marini e alle cartine nautiche.5 Recenti tentativi pseudoscientifici di trasferire l’ambientazione di una ipotetica “reale”odissea nel Mar Baltico, portano il segno di una doppia assurdità: l’attaccamento ad un presunto statuto di realtà del poema, e la negazione dell’evidenza della sua location greco-mediterranea:faccio soprattutto riferimento al libro di F. VINCI, Omero nel Baltico, Roma, Fratelli Palombi Ed., 19982. La mediterraneità del poema omerico è stata, peraltro, ben riconosciutada chi lo ha riattualizzato a partire da contesti culturali distanti come quello caraibico: vedi ad esempio il poema di D. WALCOTT, Omeros (tr. it. di A. Molesini, Omeros, Milano, Adelphi,2003), e il romanzo Los pasos perdidos di A. CARPENTIER (tr. it. di A. Morino, I passi perduti,Palermo, Sellerio 1995).6 A proposito di questo concetto mi permetto di rinviare al mio libro Ulisse tra due mari.Le riscritture novecentesche dell’Odissea nel Mediterraneo e nei Caraibi, Isernia, Cosmo Iannone 2006, e nello specifico alle pp 14-19; foundational fiction è un’espressione usata daHOMI K. BHABA in Nation and Narration, London/NewYork, Routledge, 1993, p. 5; tr. it.Nazione e Narrazione, Roma, Meltemi, 1997.7 Vedi la testimonianza diretta di uno dei riscrittori italiani dell’Odissea, lo scrittore,recentemente scomparso, Luigi Malerba: nel breve Post Scriptum al suo romanzo Itaca per sempre, egli fa infatti riferimento alla performance di un cantastorie greco incontrato sull’Isola di Corfú, un incontro che fece da importante stimolo alla composizione del suo romanzo. Cfr. L. MALERBA, Itaca per sempre, Milano, Mondadori, 1997, p. 183-185.8 Mi riferisco ovviamente all’omonima pièce saviniana, del 1925, ripubblicata da Adelphi nel 1989.9 Vedi a questo proposito la voce “Marinaio” di C. SPILA, per il Dizionario dei temi letterari,a cura di R. CESERANI, M. DOMINICHELLI, P. FASANO, Milano, UTET, 2007, pp. 1422-1429. Una originale sovrapposizione tra il mito di Ulisse e quello di Sindbad è stata attuata da Stefano Benni e Paolo Fresu in Sagrademari. La storia di Odisseo Sinbad perduto in mare (il testo di questo lavoro letterario-musicale in lingua sarda è consultabile all’indirizzo www.stefanobenni.it/inediti/sagrademari.html). 10 Come è stato giustamente osservato da Cristiano Spila con riferimento a Walter Benjamin, il marinaio è uno dei principali “maestri del racconto” (cfr. C. SPILA, “Marinaio”,cit., p. 1423).11 Cfr. E. LEED, La mente del viaggiatore: dall’Odissea al turismo di massa, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 14. Difatti, o meglio paradossalmente, mentre Spila, nella sua voce del DTL sopra citata,non usa mai la dizione “tema” in riferimento ai “suoi” marinai, essa risulta pur sempre come uno dei temi schedati dai curatori del Dizionario. Non credo infatti che nel caso di Moby Dick di Melville né in quello della Ballata del vecchio Marinaio di Coleridge, per indicare solo due testi esemplari, si possa ragionevolmente sostenere che si tratti di opere in cui venga sviluppato il tema del marinaio. Piuttosto, i temi in essi trattati sono quelli della ribellione metafisica (Melville) e della vita come perpetua erranza, vista come redenzione (Coleridge), come lo stesso Spila sostiene. Né, credo, un attento studioso di tematologia come Mario Domenichelli sarebbe del resto d’accordo nel creare una tale, facile, equazione.13 Vedi M. DOMENICHELLI, “I temi e la letteratura europea”, in M. DOMENICHELLI, P. FASANO,M. LAVAGETTO, N. MERLA (a cura di), Letture e riflessioni critiche, vol. I degli Studi di Letterature Comparate in onore di Remo Ceserani, Roma, Vecchiarelli editore, 2003, pp. 125-143.14 Cfr. ivi, p. 131. La citazione da Segre è tratta dal suo Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi 1985, p. 348. Per una presentazione critica della storia della tema-18,tologia a partire dalla Stoffgeschichte di stampo positivista e della discussione delle principali correnti internazionali emerse più recentemente vedi il fondamentale contributo di A.TROCCHI, “Temi e miti letterari”, in A. GNISCI (a cura di), Letteratura comparata, Milano,Bruno Mondadori, 2001, pp. 63-86.15 Cfr. M. DOMENICHELLI, art. cit., p. 132.16 Ivi, p. 133.17 «La géocritique est ensemble une théorie et une méthodologie innovante qui permet l’étude des représentations esthétiques des espaces humains. Elle sonde en particulier le lien entre le référent et ses représentations. La géocritique repose sur trois prémisses théoriques distinctes mais complémentaires: la spatio-temporalité, la transgressivité et la référentialité»,cfr. B. WESTPHAL, “Géocritique”, in La Recherche en Littérature générale et comparée en France en 2007. Bilan et perspectives, études réunies par A. TOMICHE et K. ZIEGER, Valenciennes,Presses Universitaires de Valenciennes, 2007, pp. 325-345. Per approfondimenti teorico-metodologici vedi inoltre B. WESTPHAL, “Pour une approche géocritique des textes:esquissse”, in La Géocritique mode d’emploi, éd. B. WESTPHAL, Limoges, Presses Universitaires de Limoges, 2000, éd. 9-39; lo stesso articolo è stato ripreso nella Bibliothèque comparatiste,www.vox-poetica.org Per l’area mediterranea, si veda inoltre Le Lieu et son mythe. Une géocriqtique méditerranéenne,éd. B. WESTPHAL, Limoges, Presses Universitaires de Limoges, 2002.18 Tr. it. Letteratura europea e Medio Evo Latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992.19 Per l’analisi critica e l’esemplificazione antologica di tale concetto si veda il fondamentale contributo di F. SINOPOLI, Il mito della letteratura europea, Roma, Meltemi, 1999.20 Faccio riferimento al libro di M. BERNAL, Atena nera, Milano, Pratiche, 1997.Notevole anche il libro di S. MARCONI, Reti mediterrane. Le censurate matrici afro-mediorientalidella nostra civiltà, Roma, Gamberetti, 2003.21 Intorno alla necessità etica di superare l’eurocentrismo, non solo sul piano degli studi letterari, sono state indicate diverse vie da A. GNISCI in Via della Decolonizzazione europea,Isernia, Cosmo Iannone, 2004, in Mondializzare la mente. Via della Decolonizzazione europea n. 3, Isernia, Cosmo Iannone, 2006 e in Decolonizzare l’Italia, Roma, Bulzoni, 2007.22 Per Flammarion, Paris. La traduzione italiana (della quale purtroppo non si segnala l’autore) è apparsa nel 2001 per e/o, Roma, sotto il titolo Marinai perduti.23 L’opera di Izzo è disponibile in traduzione presso la stessa casa editrice romana.24 Per la comprensione della poetica dell’autore marsigliese, fortemente influenzata dall’opera del poeta-marinaio marsigliese L. Brauquier, rimando soprattutto alla raccolta di tredici brevi scritti (ai quali si aggiunge un testo tratto dalla raccolta di racconti Vivere stanca,Roma, e/o, 2007) intitolata Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo,Roma, e/o, 2006. Da segnalare anche il ben informato articolo di L. SULIS, “Jean-Claude Izzo”, in «Pulp libri», n. 65, gennaio/febbraio 2007, pp. 61-65.25 Cfr, J.-C. Izzo, Marinai perduti, cit., p. 11.26 Ivi, p. 9.97 27 Ivi, p. 238.28 Ivi, p. 116. Il corrispettivo testuale si trova in P. MATVEJEVIC ´, Il Mediterraneo. Nuovo Breviario, cit., p. 18. Altri riferimenti più o meno diretti ad idee ricorrenti negli scritti di Matvejevic´ sono alle pp. 122 («L’Atlantico o il Pacifico sono dei mari di distanza. Il Mediterraneo è un mare di prossimità. L’Adriatico d’intimità») e alle pp. 214 (in cui si dà l’elenco delle parole greche per definire il mare).29 Ivi, p. 238.30 Marinai perduti è ricchissimo di riferimenti musicali, tra cui le canzoni del cantautore italiano Gianmaria Testa. Le musiche di Testa accompagnano anche la pièce teatrale intitolata Rien à signaler (una finestra sul Mediterraneo), libero adattamento dello stesso romanzo di Izzo da parte di S. Gandolfo e F. Beccacini, il cui debutto sotto la regia di S. Gandolfo ha avuto luogo dal 24 al 26 luglio 2008 a Borgio Verezzi.Marinai ignoti, perduti (e nascosti)31 «L’ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione. L’ho scoperto a casa mia, a Marsiglia. Vicino alla baia des Singes, ben oltre il porticciolo di Les Goude, all’estremità orientale della città. Ore e ore a guardar passare nello stretto di Les Croisettes le barche di ritorno dalla pesca. È qui, e in nessun altro posto, che queste mi sembrano,mi sembreranno sempre, la più belle. Ore e ore ad attendere quel momento, più magico di qualsiasi altro, in cui un cargo entrerà nella luce del sole al tramonto sul mare e vi scomparirà per una frazione di secondo. Il tempo di credere che tutto è possibile»; cfr. J.-C. IZZO, “Il Mediterraneo e le sue felicità possibili”, in Id., Aglio, menta e basilico…, cit.,pp. 17-18.32 L’ultima edizione di questo romanzo è del 2004, per Milano, Oscar Mondadori. A questa edizione si rimanda sia per le citazioni che seguono, sia per la bibliografia critica alle pp.XIV-XVII, a cui si aggiunga un rimando al ricco volume collettaneo di I. ROMERO PINTOR (ed.), Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y Espanˇa. Los treinta anˇos de Il sorriso dell’ignoto marinaio, Valencia, Universidad de Valencia, 2007.33 Vedi il fondamentale saggio di C. SEGRE, intitolato appunto “La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo”, già prefazione all’edizione einaudiana dello stesso romanzo del 1987, e ora raccolto in ID., La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86.34 Mi riferisco al contributo di V. CONSOLO a I. ROMERO PINTOR (ed.), op. cit., dal titolo “Antonello da Messina”, pp. 51-61. Riprendendo una sua polemica con Roberto Longhi intorno alla questione dell’identità del personaggio ritrattato da Antonello da Messina,Consolo sposa l’ipotesi che si tratti di Giovanni Rizo di Lipari, un notabile dell’isola «di cui non si escludono interessi marinari» (p. 57).35 Cfr. L. RITTER SANTINI, Ritratti con le parole, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 9-10.36 Cfr. V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 25.37 Ivi, p. 23.38 Cfr. la postfazione dello stesso Consolo alla riedizione del suo romanzo, “Nota dell’autorevent’anni dopo”, ivi, pp. 169-170.39 Ivi, p. 8.104 40 Vedi a questo proposito: ivi, pp. 112-113.42.41 «Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade)», cfr. “Nota dell’autore vent’anni dopo”, ivi, p. 170.42 Ivi, p. 115.106 Marinai ignoti, perduti (e nascosti)43 Cfr. ID., “Lo spazio in letteratura”, in ID., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001,p. 263.44 Cfr. ID., “La retta e la spirale”, in ID., Di qua dal faro, cit., p. 259.45 Il romanzo, dal titolo originale Harisata al zhilal. Don Kishot fi l-jazai’r, è stato tradotto nel 1999 da W. Dahmash, per la piccola e meritevole casa editrice Mesogea di Messina.Non sono segnalati la data e il luogo dell’edizione originale.46 Ivi, p. 29.47 Ivi, p. 31.48 Ivi, p. 15.51 Per la storia e le caratteristiche della lingua franca e del sabir, vedi G. V. ERNST, M-D.GLEBGEN, CH. SCHMIDT, W. SCHWEICKARD (Hrsg.), Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen / Histoire linguistique de la Romania. Manuel international d’histoire linguistique de la Romania, Berlin/New York,Mouton/de Gruyer Verl., 2003, pp. 1100-1105.52 Cfr. W. LAREJ, op. cit., p. 179.53 Cfr. V. CONSOLO, “Lo spazio in letteratura”, cit., p, 263.54 Faccio riferimento alla pièce di F. PESSOA, Il marinaio. Dramma statico in un atto, tr.it. di A. Tabucchi, Torino, Einaudi, 1996, alla famosa “Ode marittima” (in Poesie di Álvaro de Campos, tr. it. di A. Tabucchi, Milano, Adelphi, 1993) al racconto lungo di J. SARAMAGO,Il racconto dell’isola sconosciuta, tr. it. di P. Colle e R. Desti, Torino, Einaudi, 2003.
La mutazione antropologica tra sud e nord: i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati
DANIEL RAFFINI
Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Tra gli scrittori che si interessarono al fenomeno, cercando di trasferirne gli effetti nelle loro narrazioni e ragionando su di esso a livello teorico, si analizzano qui i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati. Il primo descrive nei suoi racconti la fine del mondo contadino siciliano, il dramma della dissoluzione di un sapere millenario e la resistenza strenua ma inutile di alcuni personaggi reali che entrano nelle narrazioni. La mutazione antropologica sfocia in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, la Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio e nei suoi racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio e viene riportata dallo scrittore sulla pagina attraverso una scrittura scarna frutto di un’attenta osservazione. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Pasolini se ne occupa in una serie di articoli usciti tra il 1973 e il 1974 su varie testate, dando vita a un dibattito che vede l’intervento di molti scrittori e intellettuali italiani, tra cui Alberto Moravia, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Maurizio Ferrara, Tullio De Mauro, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. In particolare, Pasolini viene accusato di rinnegare lo sviluppo e di ripetere concetti già formulati. Lo scrittore riprende in effetti discorsi sulla società contemporanea già formulati da Marcuse, Horkheimer e Adorno, quando parlavano ad esempio di uomo a una dimensione e di tolleranza repressiva. Tuttavia, specifica Berardinelli nell’introduzione agli Scritti Corsari che «solo ora quei processi di cui aveva parlato la sociologia critica in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, arrivano a compimento in Italia, con una violenza concentrata e improvvisa»1. Gli articoli di Pasolini ci restituiscono l’idea della società contemporanea come di sistema repressivo teso all’omologazione culturale, in cui una nuova classe media formata culturalmente su modelli esterni imposti dal potere viene a sostituire le vecchie categorie oppositive di fascismo e antifascismo. Scrive ancora Berardinelli che «per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo»2. La mitizzazione dei processi sociologici rende possibile la trasfigurazione letteraria di questo mondo che va scomparendo in un gruppo di poesie italo-friulane tarde, pubblicate da Pasolini in quegli anni e poi entrate nella sezione Tetro entusiasmo della raccolta La Nuova Gioventù. Nell’articolo Acculturazione e acculturazione, uscito per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione, Pasolini si scaglia contro la centralizzazione come livellazione delle differenze: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana? Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. […] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.3 La religione del consumo avrebbe preso il posto della religione vera e propria in qualità di oppio dei popoli di marxista memoria. Da qui parte Pasolini nel suo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, dalla costatazione – in seguito alla vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio – che la società italiana è più evoluta in fatto di laicismo rispetto a quanto credessero il Vaticano e il PCI. Pasolini ne deduce un cambiamento del ceto medio, non più legato ai valori cristiani ma all’ideologia del consumo e ne trae la conclusione «che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione»4. Pasolini registra insomma un cambiamento profondo nella società italiana a seguito del boom economico: Si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa in realtà è enorme: è un fenomeno, insito, di «mutazione» antropologica.5 La mutazione antropologica implica da una parte il miglioramento delle effettive condizioni di vita delle persone, dall’altra determina però la fine delle culture popolari italiane in favore di un’unica cultura centralizzata fondata su un modello esterno di origine statunitense. D’altra parte Pasolini ha una visione fortemente ideologizzata e negativa della civiltà dei consumi, che definisce come il «più repressivo totalitarismo che si sia mai visto»6 e alla quale sente la necessita di opporre una battaglia politica prima ancora che culturale fondata sui principi di una rivoluzione proletaria e contadina. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pasolini sarà ripreso da scrittori del decennio successivo. Tra di essi un punto di vista privilegiato è quello del siciliano Vincenzo Consolo. Privilegiato perché è quello di uno scrittore attento ai contrasti insiti e ai cambiamenti storici della sua terra, la Sicilia. In Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino Pasolini parlava di un «illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa»7, per il quale gli stati preunitari, l’Italia unita, l’Italia fascista e l’Italia democratica hanno rappresentato senza soluzione di continuità la nazione estranea, l’altro e l’oppressore. Consolo, dal canto suo, tornerà a parlare di quel mondo contadino in termini mitici, come «di tempi andati, di tempi d’oro, tempi che sono durati fino all’altro ieri»8, e descriverà le rivolte dei siciliani di fronte al potere La raccolta postuma La mia isola è Las Vegas raccoglie testi brevi pubblicati nel corso degli anni da Consolo su vari giornali e fondamentali per capire l’evoluzione del pensiero dello scrittore così come la genesi 3 borbonico, all’unificazione, al Fascismo e all’Italia dopoguerra, per arrivare alla fine di quel mondo che pure aveva fatto in tempo a conoscere da bambino e che aveva descritto in alcuni racconti degli anni Cinquanta e Sessanta9. In due racconti tardi, pubblicati per la prima volta nel 2007 e nel 2008 e poi inclusi nella raccolta La mia isola è Las Vegas, Consolo cita direttamente il concetto pasoliniano di mutazione antropologica. In Alésia al tempo de Li Causi, parlando degli anni in cui studiava a Milano, l’autore scrive: Erano quelli gli anni della fine del mondo contadino e della rapida trasformazione dell’Italia in Paese neo-industriale, del miracolo economico e della mutazione antropologica; gli anni, quelli dell’espulsione dal Paese di milioni e milioni di lavoratori in cerca d’un futuro, d’un destino migliore. 10 Mentre nel racconto E Ciro vide Anna Magnani, riferendosi agli stessi anni, scrive: Era quello il momento della fine del mondo contadino, del fallimento della riforma agraria in Sicilia, della vittoria dei feudatari, eterni Gattopardi, e dei loro sovrastanti o gabelloti mafiosi. Era il momento quello che Pasolini poi chiamò della “mutazione antropologica” di questo nostro Paese.11 L’attenzione dello scrittore al tema della mutazione risale almeno agli anni Ottanta ed è legata all’osservazione del fenomeno dell’emigrazione di massa dei siciliani verso il nord Italia, dovuta all’irruzione delle nuove tecniche di produzione che mettono fine a tradizioni che in Sicilia, oltre ad essere millenarie, rivestivano un forte ruolo identitario, come quella della coltivazione degli aranci o della pesca del tonno12. In un racconto del 1985 dedicato al tema dell’emigrazione a Milano, Consolo parlerà del sud come di una terra «dove la storia si è conclusa»13. La mutazione antropologica rappresenta nella narrativa consoliana una cesura netta e su di essa lo scrittore fonda la funzione etica della propria scrittura. Se il mondo globalizzato digerisce nel suo ventre le culture particolari, se la cultura del centro progressivamente sostituisce le culture periferiche, il compito della letteratura è quello di narrare ciò che non c’è più. In questo senso fortemente significativi sono alcuni personaggi della sezione Persone della raccolta del 1989 Le Pietre di Pantalica, attraverso i quali Consolo prova a raccontare il momento di passaggio, l’attimo della fine, attraverso le figure di chi tentò di opporvisi. Antonino Uccello, poeta-etnologo amico di Consolo, cerca di salvare le vestigia di ciò che sta finendo, raccogliendo gli strumenti e le testimonianze del mondo contadino; oggetti che trova abbandonati, relitti della storia, il cui unico destino è quello di essere musealizzati. In un’intervista Consolo accosterà il proprio compito a quello dell’amico: di alcune delle sue opere. 4 Il poeta-etnologo de La casa di Icaro, credo che sia il personaggio più importante, la figura-simbolo di tutto il libro. È stato uno, Uccello, che, come un pietoso raccoglitore di detriti dopo la risacca, ha cercato di salvare, nel momento in cui essi sparivano, i resti, le testimonianze del mondo contadino. E non è questo in fondo il dovere e il destino di ogni scrittore della mia età e della mia estrazione, che si è trovato a cavallo della grande trasformazione, tra un mondo che spariva e un mondo che iniziava? Non è questo il compito e il destino sempre, in ogni epoca, di uno scrittore: raccogliere e custodire memorie, reliquie di un mondo che continuamente frana, sparisce?14 Ad un’altra Sicilia che va scomparendo, quella magica e barocca, sognante e mitologica, rimanda invece la figura del barone Lucio Piccolo, poeta fuori dalle mode e fuori dal tempo, simbolo di un’erudizione che ci ricorda quella di Mandralisca de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Piccolo fu amico e mentore di Consolo, che in queste pagine racconta il loro primo incontro, gli insegnamenti, le visite nella casa di Capo d’Orlando. Come Uccello, Piccolo è emblema di un mondo che non esiste più, tanto che nel momento della sua scomparsa il dolore che Consolo prova non è solo per la perdita dell’amico e maestro, ma anche «per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»15. Andando ancora indietro, Consolo risale ai tempi in cui quel mondo esisteva, con i suoi riti e le sue usanze, con la sua cultura, quella cultura popolare rivendicata come tale da Pasolini, contro tutti quegli intellettuali che la relegavano agli strati prerazionali. Consolo ci racconta le lotte di quel mondo, le rivolte e le battaglie per la sua sopravvivenza, in molti racconti de Le Pietre di Pantalica e in alcuni di quelli poi confluiti ne La mia isola è Las Vegas, così come nei romanzi, basti pensare alle rivolte di Alcara Li Fusi narrate ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Come afferma Flora Di Legami la scrittura di Consolo viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sé il compito di narrare quanto è andato disperso.16 Anche per quanto riguarda il discorso sull’evoluzione linguaggio nell’epoca della mutazione antropologica Consolo sembra essere in linea con quanto Pasolini diceva in Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva.17 Il discorso di Consolo sulla lingua è più profondo di quello di Pasolini, non si limita solo a un recupero linguistico di tipo dialettale, ma allarga la propria ricerca e l’operazione di salvataggio anche al piano diacronico e ai diversi livelli d’uso della lingua, restituendo sulla pagina una grande dose di ricchezza e invenzione verbale, contro l’appiattimento del linguaggio letterario su quello dei media. 5 La mutazione antropologica sfocia dunque in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino e le difficoltà della nascita di una nuova società. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, nella Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio di Verso la foce e nei racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio determinando una descrizione in cui la parola stessa diventa scarna ed essenziale e il paesaggio postindustriale ci mostra quanto la nuova società derivata dalla mutazione abbia in realtà un carattere effimero e transitorio. A differenza dello sguardo politicizzato di Pasolini e di quello partecipe di Consolo, Celati si pone dal punto di vista dell’osservatore anonimo, lasciando la centralità dell’evocazione all’immagine nuda. Una tecnica che gli viene dalla frequentazione, nei primi anni Ottanta, di quei fotografi raggruppati intorno alla figura Luigi Ghirri, i quali si proponevano di registrare attraverso il loro lavoro la mutazione del paesaggio italiano. Nell’introduzione a Verso la foce Celati definisce questi diari di viaggio come «racconti d’osservazione»18 e specifica meglio il tipo di osservazione necessaria e lo scopo che intende perseguire: Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non si capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.19 L’osservazione di Celati non ha dunque un fine consolatorio, parte dallo straniamento e arriva allo spaesamento, ma solo così lo scrittore sente di poter rendere il senso ultimo di quel «deserto di solitudine»20 che si trova ad attraversare durante le sue peregrinazioni. Celati descrive il paesaggio padano svuotato della sua storicità in seguito a una mutazione di cui rimangono solo ruderi. Anche qui, come nella Sicilia descritta da Consolo, permangono relitti di una storia che non c’è più, che entrano in contrasto con le superfetazioni della modernità. L’esempio più evidente sono forse le corti, fattorie tipiche di queste zone, ora abbandonate: Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle vilette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali.21 Di fronte alla piattezza e all’omologazione delle costruzioni moderne, le corti presentano una grande varietà di soluzioni architettoniche, che cambia da una provincia all’altra. I segni dell’antica bellezza non sono solo nelle corti, ma si possono ravvisare anche in alcuni centri storici, come in quello di Casalmaggiore Vedo strade girovaganti, portici e palazzi scrostati, finché non si arriva nelle stradine dietro il palazzo municipale, e da lì nella piazza centrale. […] Dalla piazza, ripassando per stradine un po’ in salita dietro il municipio, si arriva all’argine del Po. Accanto a una vecchia porta della città, la fila irregolare di palazzi sette-ottocenteschi, ognuno con facciata e forma e altezza 6 diverse, movimenti di linee senza mai forti squadrature, segue l’andamento sinuoso dell’argine e del fiume che si allarga in prospettiva.22 La differenza tra antico e moderno è dunque per Celati prima di tutto una questione di linee e di forme. A Codigoro lo scrittore osserva le case dalle facciate veneziane e le villette in stile liberty disposte lungo il canale, elementi che «formano davvero un luogo» e mostrano che qui «il tempo è diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco sull’altro, come le rughe sulla nostra pelle»23. A ciò si oppone la fine del tempo, fine della storia e le forme geometrizzanti rappresentate dagli elementi della modernità, che minacciano i luoghi antichi: le industrie, che finiscono per costituire delle nuove città; i centri commerciali, che nel giro di pochi anni stravolgono il paesaggio; le strutture turistiche, presenti persino nelle zone più solitarie della foce del fiume; i cartelloni pubblicitari, che ostruiscono la visuale sostituendosi al paesaggio; infine, le nuove tipologie abitative dell’omologazione, le villette a schiera. La mutazione antropologica descritta da Celati non interessa solo il paesaggio, ma lo scrittore si sofferma anche sulle modalità di vita. L’alienazione dei luoghi rispecchia quelle delle persone. I nuovi non-luoghi creati dalla società di consumo, che di lì a qualche anno saranno teorizzati da Marc Augé, sono occupati da delle non-persone, svuotate anch’esse di storicità e private della diversità in favore dell’omologazione imposta24. In Acculturazione e acculturazione Pasolini si chiedeva se le persone sarebbero davvero riuscite a realizzare il modello imposto dalla cultura di massa e si rispondeva: No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi.25 In questo senso va anche l’osservazione compiuta da Gianni Celati sui luoghi dell’abitare che la mutazione antropologica impone agli abitanti della pianura, le villette a schiera che ricorrono come leitmotiv di queste pagine. Celati riprende le teorie dell’abitare espresse da Bachelard negli degli anni Cinquanta, adattandole al nuovo contesto depersonalizzato successivo alla mutazione antropologica. Le villette diventano allora simbolo stesso dell’alienazione postindustriale dei luoghi descritti, simbolo di un tentativo falso e illusorio di nascondersi della «vita piena di pena»26 e di non vedere «l’orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali»27: Quelle case non hanno volto, hanno solo aperture di sicurezza e superfici protettive dietro cui si va a nascondere. Si esce a vedere se in giro è tutto normale, poi si torna a nascondersi nelle tane.28 Se i luoghi precedentemente descritti da Celati mostrano una stratificazione del tempo e delle epoche, qui il tempo risulta sospeso, nelle villette le persone si autoesiliano involontariamente dal7 proprio tempo. Nel 1957 Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio descriveva la casa come il luogo dove le persone si rifugiano a seguito dell’aumento di importanza della vita pubblica determinato dal progresso economico e tecnologico29. Se in Bachelard il senso di protezione evocato dalla casa ha ancora un valore positivo, Celati ci presenta trent’anni dopo i risultati di quel processo e ripropone in chiave negativa la visione della casa come rifugio. La mutazione antropologica cambia insomma i luoghi e le persone che li abitano. Raccontare la mutazione antropologica significa per gli scrittori raccontare la realtà in un momento in cui il realismo sembra essere una via non più percorribile. Ciò rende necessaria una riflessione e un lavoro da parte degli scrittori sulle forme e sui generi. Se Pasolini sceglie la via di una poesia per metà dialettale e per metà italiana per trasfigurare in forma artistica ciò che andava scrivendo nei suoi saggi, Consolo opta invece da una parte sulla rifondazione del romanzo storico su basi antiromanzesche e dall’altra sull’inserimento dell’elemento autobiografico all’interno delle strutture finzionali del racconto. Celati, infine, sceglie il diario di viaggio, un diario di viaggio denso di narratività e riflessioni, che fungono da punto di partenza per i racconti veri e propri di Narratori delle pianure e per le Quattro novelle sulle apparenze. Si nota insomma come la mutazione antropologica sia stata un motore, forse primo, che spinse gli scrittori a un ripensamento delle forme, quel ripensamento che culminerà nei nuovi realismi e nella fioritura della nonfiction a partire dagli anni Novanta, ma che affonda le basi sui grandi cambiamenti antropologici e sociologici che hanno interessato il mondo e l’Italia nella seconda metà del Novecento.
***
1 A. BERARDINELLI, Premessa, in P.P. PASOLINI, Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. X. 2 Ivi, VIII.
3 PASOLINI, Acculturazione e acculturazione, in ID., Scritti corsari…, 22-23. 4 PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari…, 40. L’articolo era uscito per la prima
volta sul «Corriere della Sera» il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. 5 Ivi, 41. 6 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, 53-54. L’articolo viene pubblicato l’8 luglio 1974 su «Paese sera» come lettera aperta in risposta a Italo Calvino.
7 Ivi, 53. 8 V. CONSOLO, Arancio, sogno e nostalgia, in ID., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano, Mondadori, 2012, 133. Il racconto è pubblicato per la prima volta su «Sicilia Magazine» nel dicembre del 1988. Cfr. D. RAFFINI, La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario, in A.
Frabetti e L. Toppan (a cura di), Studi per Vincenzo Consolo. Come lo scrivere può forse cambiare il mondo,
«Recherches», n. 21, automne 2018, 129-142. 9 Si fa riferimento in particolare ai racconti Un sacco di magnolie, Befana di novembre, Grandine come neve e Triangolo e
luna, riproposti anch’essi nella raccolta La mia isola è Las Vegas. 10 CONSOLO, Alèsia al tempo di Li Causi, in ID., La mia isola…, 226. 11 ID., E Ciro vide Anna Magnani, in ID., La mia isola…, 229. 12 Alla coltivazione degli aranci Consolo dedica il già citato racconto Arancio, sogno e nostalgia; mentre sul tema
delle tonnare è il saggio La pesca del tonno pubblicato nella raccolta Di qua dal faro. 13 CONSOLO, Porta Venezia, in ID., La mia isola…, 113. 14 CONSOLO, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, 1388. 15 ID., Piccolo grande Gattopardo, in ID., La mia isola…, 214. 16 F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 10. 17 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in ID., Scritti corsari…, 54. 18 G. CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 2011, 9. 19 Ivi, 10. 20 Ivi, 9. 21 Ivi, 32. 22 Ivi, 38-39. 23 Ivi, 95. 24 Secondo la definizione di Augé: «Se un luogo può definirci some identitario, relazionale, storico, uno spazio
che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (M. AUGÉ, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, 73). 25 PASOLINI, Acculturazione…, 23. 26 CELATI, Verso la foce…, 35. 27 Ivi, 31. 28 Ivi, 94. 29 Cfr. G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 31-45
Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018),
a cura di A. Campana e F. Giunta,
Roma, Adi editore, 2020
Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche»
Laura Toppan.
Nella conversazione Le Pietre di Pantalica – uscita sul Corriere della Sera del 13 febbraio 1989 –, Consolo risponde che la sua «consonanza con Zanzotto è evidente». Una consonanza stilistico-formale, con la sola differenza che il poeta di Pieve di Soligo l’ha declinata in poesia e Consolo in prosa. Zanzotto è un poeta che egli ha «moltissimo amato e letto» e va da sé che la stima profonda fosse reciproca, a giudicare anche, come vedremo, dal tono della recensione di Zanzotto e dall’omaggio esplicito di Consolo allo stesso poeta ne Lo Spasimo di Palermo (1998). I due autori si sono frequentati poco, ma ‘studiati’ da lontano, con un’attenzione costante al lavoro dell’altro. Due autori profondamente diversi, ma animati entrambi dalla volontà di resistere alla mercificazione e alla corruzione del linguaggio e di tentare l’ardua impresa di restituire una dignità alla lingua letteraria attraverso la tradizione, rinnovandola e, in un certo senso, ‘stravolgendola’ anche, quella tradizione che il Gruppo ’63 cercava in qualche modo di ‘azzerare’ e da cui sia Consolo che Zanzotto si sentivano lontanissimi, seppur ne fossero incuriositi, e con cui si dovettero comunque misurare.
2Dal confronto / scontro con i “Novissimi” si sono quindi ‘sprigionati’ due percorsi molto originali, in linea più con il Pasolini (2000: 5-24) delle Nuove questioni linguistiche del ’64, che con i Neoavanguardisti del ’63. Nel suo saggio Pasolini non si proponeva di definire un modello ideale di lingua nazionale, ma si concentrava piuttosto su un’analisi socio-linguistica del contesto italiano del dopoguerra e in particolare degli anni del boom economico. Egli vedeva nell’italiano della nuova civiltà industriale delle trasformazioni portate dall’arrivo del lessico tecnico, tipico del settore industriale. In effetti, mentre dal dopoguerra sino agli anni Sessanta aveva prevalso piuttosto l’asse delle parlate Roma-Napoli, a partire dagli anni Sessanta in poi prevarrà soprattutto quello dell’asse Milano-Torino, polo industriale attrattivo per tutta una massa di persone provenienti dall’Est e dal Nord del paese. Pasolini registrava quindi la cessazione, per l’italiano, dell’osmosi con il latino e intuiva che la guida della lingua non sarebbe più stata la letteratura, ma la tecnica, che il fine della lingua sarebbe ora rientrato nel ciclo produzione-consumo. Contro queste trasformazioni Pasolini cerca di resistere, e così fanno Consolo e Zanzotto che, attentissimi ai mutamenti del cosiddetto italiano ‘standard’, si costruiscono un percorso tutto personale in materia di sperimentazione linguistica, di lingua poetica, diverso comunque anche dall’operazione dello stesso Pasolini. Lo scrittore siciliano infatti scriverà:
La mia sperimentazione […] non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettale di Pasolini o la degradazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico o una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell’Introduzione a Il Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permetteva di non adottare un codice linguistico imposto (Consolo 1993: 16)
- 2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza (…)
Zanzotto, dal canto suo, in un’intervista dal titolo L’italiano siamo noi (otto brevi risposte)2 del ’62 osservava:
Il latino è oggi una faglia che s’apre nel terreno discusso dell’italiano, è più un richiamo agli Inferi (come i dialetti, seppure con diverso significato) che ai Superi. (Zanzotto 1999: 1104)
Il ’62 è anche l’anno della recensione di Zanzotto in cui prende distanza dai Novissimi (Zanzotto 1999: 1105-1113), oltre che della pubblicazione di IX Ecloghe, raccolta in cui la lingua inizia ad aprirsi agli inserti che derivano dal registro scientifico tecnologico (mucillagini, cariocinesi, geyser, anancasma, macromolecola) e che convivono con latinismi, arcaismi, recuperi danteschi e letterari in generale. Il latino, in particolare, interviene spesso a fungere da ‘mediatore’ tra il repertorio tradizionale e la terminologia tecnica (Dal Bianco 2011: XXV).
3Fin dai loro esordi letterari, quindi, sia Consolo che Zanzotto cercano di costruirsi una lingua poetica, una lingua della creazione che attraversi tutta la tradizione letteraria italiana ed europea (ed extra-europea) risalendo verticalmente sino alle origini della/e lingua/e, in un’immersione da cui poi le parole risalgano rigenerate o vengano riscoperte. Consolo spiegherà:
[le parole] le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocaboli italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. (Consolo 1993: 54)
- 3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’U (…)
- 4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it (…)
- 5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2 (…)
4Ma se la sperimentazione linguistica dello scrittore siciliano e del poeta di Pieve di Soligo – ormai due “classici” del secondo Novecento italiano – è un punto forte e comune, il loro percorso di vita è, potremmo dire, all’opposto. Consolo parte dalla Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta per andare a studiare a Milano3, città che poi sceglierà per vivere e lavorare, anche perché «era la stessa in cui operava Vittorini, dove aveva passato circa un ventennio Verga nell’Ottocento e dove aveva avuto luogo la rivoluzione industriale»4, secondo le parole dello stesso Consolo in un’intervista per la R.A.I. della serie Scrittori per un anno. Il capoluogo lombardo diventa il luogo privilegiato da cui osservare la propria isola e il mondo, con continue partenze e ritorni tra Nord e Sud e frequenti viaggi all’estero, per quella sua necessità irrefrenabile di movimento spaziale, nel tentativo di capire e di interpretare i grandi eventi epocali: le nuove migrazioni, le ingiustizie, le connivenze, come il fenomeno mafioso a cui Consolo dedicherà molte riflessioni5. La scrittura diventa quindi un’arma per opporsi ai poteri, denuncia contro i mali del nostro tempo. Zanzotto, al contrario, rimane praticamente ‘stanziale’ per tutta la vita, se escludiamo brevi soggiorni a Milano e il periodo in cui partì per la Svizzera tra il ’46 e il ’47 per un’esperienza di lavoro: entro il perimetro geografico della sua Pieve, ai piedi delle Alpi trevigiane e attorniato dal paesaggio dei colli, egli osserva il mondo locale e globale, cercando di interpretarne i cambiamenti. Questo piccolo centro, la sua Pieve, ha rappresentato non il punto fermo di un universo in movimento, ma un luogo che il poeta ha visto ‘girare e muoversi’ secondo ritmi sempre più rapidi, sino a diventare quasi irriconoscibile, inghiottito dalla mostruosa conurbazione che va dal Garda al Friuli e che è chiamata «la Los Angeles veneta». In Consolo, invece, sarà la sua isola, la Sicilia, ad essere sempre il punto di partenza: «Io porto in me questo unico punto del mondo, questo paese» (Consolo 2014: 137-138), e aggiunge:
- 6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014.
Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. (Consolo 2014: 135)6
- 7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare (…)
E il narrare è da intendersi nell’accezione definita da Benjamin (2011) nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, per il quale il narratore è pre-borghese (rispetto al romanziere), è colui che «riferisce di un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio» . Per Zanzotto, al contrario, Pieve di Soligo è il punto da cui allontanarsi ogni tanto, ma sempre centro del suo vivere. Nei mesi dopo il 25 aprile e durante l’estate del ’45, egli si reca più volte a Milano, compiendo il viaggio su convogli di camion partigiani che, dai paesi devastati della zona intorno al Piave, erano alla ricerca di viveri e di materiali, in assenza di una rete di rifornimenti. Nel ’46, al referendum per determinare la forma di governo che dovrà guidare l’Italia postbellica e che mobilita l’opinione pubblica, Zanzotto sostiene il voto in favore della Repubblica e si troverà in contrasto con la propaganda ecclesiastica. La direzione del collegio Balbi-Valier dove ha da poco ottenuto una supplenza, fa intendere ai dipendenti il gradimento per una scelta anche politica e Zanzotto quindi, terminato l’anno scolastico ’45-’46, decide di emigrare in Svizzera, dove rimarrà per più di un anno7. Una volta rientrato nella sua Pieve, inizierà da lì il suo percorso letterario, tanto che la definizione consoliana relativa ai tanti scrittori siciliani che avevano rinunciato alla ‘fuga’ dall’isola, ovvero che appartenevano ad una «letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33), può forse essere applicata anche all’opera del poeta del solighese. Nella conversazione con Calcaterra, Consolo affermava che «esiste una letteratura della distanza spaziale, o dell’esilio» (Calcaterra 2014: 33) e «una letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33): per lui, ancor più incisiva della distanza spaziale è la distanza intellettuale, poiché si riesce ad «affinare una grande saggezza e lucidità rispetto alle cose» (Calcaterra 2014: 32) e al mondo che si osserva. Lucidità che Zanzotto ebbe tutto lungo il suo percorso ‘scosceso’: pensiamo solo, a titolo di esempio, al volume In questo progresso scorsoio (Zanzotto 2009) in cui il poeta, dialogando con l’amico giornalista Marzio Breda, affronta temi capitali come le emergenze climatiche e le crisi ambientali, i conflitti per l’energia e i fondamentalismi religiosi, il ‘turbocapitalismo’ in panne e l’eclissi degli idiomi minori. Per Zanzotto, agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un tempo che «strapiomba», in cui si aprono nuove difficili sfide di cui a volte siamo addirittura inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia così di portarci verso l’autodistruzione.
5Pur con dodici anni di differenza – Zanzotto nato nel ’21 e Consolo nel ’33 – entrambi vivranno in prima persona il trauma della Seconda Guerra Mondiale: Consolo prima da bambino, sotto i bombardamenti degli Americani sulla Sicilia nell’estate del ’43, in particolare a Palermo e a Messina; in seguito da sfollato, e poi tramite i giochi pericolosi delle bombe e delle mine disseminate sul territorio che lasceranno tracce indelebili nella sua memoria. Zanzotto invece, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, è poco più che ventenne e partecipa in prima persona alla Resistenza veneta nelle Brigate di “Giustizia e Libertà” occupandosi della stampa e della propaganda del movimento. Si era formata la Brigata Mazzini che, pur essendo sotto il controllo del Partito Comunista, accoglieva anche altre forze antifasciste e Zanzotto, avendo deciso di non far uso delle armi, partecipò alla realizzazione di manifesti e fogli informativi. Nell’inverno del ’44 Pieve di Soligo diventa una sorta di campo di concentramento e il poeta viene reclutato a forza e inviato al lavoro coatto. Nel ’45 riprenderà l’attività partigiana di propaganda sulle colline e in quel periodo non scriverà quasi nulla, tranne qualche frammento diaristico e una poesia per i morti fucilati del paese (Zanzotto 1999: CXII). Gli scontri continuano sino al 30 aprile, data a partire dalla quale la zona viene liberata dalle truppe alleate e si avvia verso il processo di normalizzazione.
6Le tracce della guerra nei Nostri si trasmisero anche attraverso i padri: il padre di Consolo era stato in prima linea sul Carso nella Guerra del ’15-’18, mentre il padre di Zanzotto, pittore-decoratore, a causa delle sue posizioni apertamente antifasciste era dovuto partire per l’esilio in Francia nel ’25 e nel ’26 e, successivamente, a Santo Stefano di Cadore, in montagna. La Storia entra quindi violentemente nella vita dei due autori e segnerà profondamente la loro opera, anche per contrasto al fenomeno della cancellazione della memoria del nostro tempo che entrambi hanno denunciato in più occasioni in varie interviste. Consolo affermava che funzione della letteratura rimane quello di portare alla luce le verità nascoste, di svelare, smascherare, denunciare. Lo scrittore deve riscoprire la forza della parola, verticalizzare la scrittura, renderla più possibile densa e pregna di significati, trovare strumenti più incisivi e graffianti, perché lo scandalo venga raccontato, la colpa denunciata, il misfatto scoperto, l’ingiustizia rivelata8. E il paesaggio da cui scaturisce questa parola è il testimone di questa ricerca: per Consolo è la Sicilia, con il suo Mar Mediterraneo carico di approdi e di tragedie; per Zanzotto è il Veneto, quello delle Prealpi sino alla Laguna e all’Adriatico, «luoghi ricchi di lontananze ed intrecci di tempo-spazio» (Zanzotto 2013: 142), li definisce il poeta ne La memoria della lingua, tanto che per lui:
muoversi, aggirarsi, stare […] in una di queste aree porta sempre un senso di sprofondamento, di peso sulle spalle, e insieme di spinta verso altri orizzonti, verso altezze atmosferiche e perfino stellari. (Zanzotto 2013: 142)
8Anche Consolo, probabilmente, ha avuto un senso di sprofondamento aggirandosi nella sua isola, ma è proprio da quel peso, paradossalmente, che si è mosso, che è partito verso un’avventura «archeologica» della lingua e della Storia siciliana, che è poi Storia italiana, europea, mondiale. Allo stesso modo Zanzotto, sin dall’infanzia, ha «avvertito gli spostamenti entro la geografia [veneta] come spostamenti nella storia» (Zanzotto 2013: 143), legati alla terra in modo radicale e ciò dovuto in parte «alla frequenza ossessiva delle commemorazioni della Grande Guerra» (Zanzotto 2013: 143). Di conseguenza egli si è «interiormente segnato un tracciato particolare, quello dell’ubicazione degli Ossari, che inneva la linea del Piave». Per il poeta di Pieve di Soligo, infatti:
una vera memoria è propria della lingua, prima ancora della letteratura, nelle profondità in cui diviene continuamente e continua ad essere ‘lingua nascente’ […] in contatto […] con la “fisica” antropologica e [la] geografia dell’ambiente, in continue interazioni. (Zanzotto 2013: 142)
Zanzotto cerca di recuperare la memoria della lingua e alla stessa impresa ha dedicato tutta la sua opera Consolo, come mette in evidenza Cesare Segre nel Profilo del Meridiano:
[egli] mostra […] che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei Greci delle colonie, e poi dei Romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori delle classi subalterne. (Segre 2015: XX-XXI)
Ecco allora che, attraverso il plurilinguismo, Consolo apre degli orizzonti verso i momenti significativi della storia siciliana: «archeologo della lingua» o «delle lingue», egli scava in altri dialetti siciliani e nell’italiano per riportare alla luce significati perduti, originari, con innesti da varie lingue. La sua sperimentazione si svolge sia sul piano della storia che della lingua nelle sue diverse stratificazioni (Domenico 2014: 53). E sempre secondo Segre:
ciò che tiene insieme questo plurilinguismo è un fatto musicale, [grazie alla] tecnica del pastiche [e al ricorso di] frammenti [di] altre [e numerose] lingue. (Segre 2015: XXI)
- 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it
9Gianni Turchetta, inoltre, nella sua ricchissima Introduzione al Meridiano, evidenzia che «il dialetto siciliano è di norma italianizzato e l’italiano spesso sicilianizzato» (Turchetta 2015: XXXI), mentre in un’intervista Consolo precisa che in Sicilia esistono sette aree linguistiche di gallo-italico, ovvero dialetti che sono arrivati con i Normanni e quindi con residui di lombardo9. Di conseguenza:
gli strati siciliani della lingua di Consolo attingono ad un’impressionante molteplicità di varietà locali: [il] siciliano orientale, che ha più riconoscibili radici greco-bizantine […]: [il] sanfratellano, […] oltre al toscano, al napoletano e al milanese. (Turchetta 2015: XXXI)
- 10 Il sabir era chiamata anche petit mauresque, ferenghi, ‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse u (…)
- 11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni (…)
Si tratta di «lacerti di lingue vive e morte, corrette o deformate: il greco classico, il latino classico, liturgico e medioevale, il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il sabir10» (Turchetta 2015: XXXI), che è la lingua franca del Mediterraneo. Diamo qui solo qualche esempio11: per il latino della liturgia, «Regem venturum Dominum / Venite Adoremus / Ecce Dominus veniet, et erit in die illa lux magna» (FA: 8); per il greco, «Agios o Théos / Agios ischirós / Agios athanós, / eléison imás» (FA: 76); «chiocciola, kochlías nella lingua greca, còchlea nella latina» (S: 235); per il francese, «Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois» (R: 445); per lo spagnolo, uno dei personaggi principali, Doña Sol, è spagnola: «También, Madre de Dios?! Hombre sin nervio, debilidad, ságoma sin vida, sombra sin consistencia, ausencia, lástima de mi vida, cojón de algodón!» (L: 278); per l’inglese, «(Broccolino, Broccolino), che alla lunga identificai con Brooklyn» (PP: 493); per un mélange di francese e di arabo, parlato da un tunisino in Sicilia, «E l’alìve? Sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’». (PP: 502); per l’arabo, «Inshallah» (R: 440) e per un dialogo a più lingue (PP: 569):
«Alò» gli fece uno dei giovinotti per rompere il silenzio e l’imbarazzo. «Hallo» gli rispose Robert. «Do you speak english?» Silenzio dall’altra parte. «Habla español?» Silenzio. «Parlez-vous français?» «Moi, je parle français» rispose il Piancimòre. «Êtes-vous allé en France?» «Non, je suis allé en Belgique, à travailler, dans les mines» «…» «Et êtes-vous américain?» «Non, non, je suis hongrois, mais j’habite en France.» «Ah, la France, le pays de Prudhon et de Victor Hugo!» escalamó il Pinciamòre. «Oui, de Proudhon, de Hugo et bien d’autres…» rispose Robert ridendo apertamente. Ma capì subito di fronte a chi si trovava, e pensò, guardando la faccia del suo interlocutore, ai contadini catalani di Durruti, ai duri minatori delle Asturie. «Dites-moi, était-il de ce pays le cardinal Mazarin?» chiese il francese. «Bah, ici il n’y a jamais eu un cardinal, mais seulement des prêtres, des religieuses et des capucins. Nous en avons déjà assez!» Robert gli tese la mano sorridendo e l’altro gliela strinse. «Au revoir» disse «au revoir» «Au revoir» rispose il Pinciamòre «Vive la France!» «Oh…Vive le monde tout entier!» disse Robert. (Consolo 2015: 569)
10Consolo ricorre poi a una pluralità di termini appartenenti ad una lista impressionante di settori, quali «la pesca, la marineria, la botanica, l’agricoltura, la zoologia, la cucina, l’architettura, la tessitura, la medicina e l’astronomia» (Turchetta 2015: XXXII), solo per citarne alcuni, e in questi «impasti linguistici, la lingua di Consolo lavora sistematicamente e progressivamente sugli estremi» (Turchetta 2015: XXXII), passando dall’aulico, all’iper-letterario al registro più basso e familiare («il bambino con la testa a vaporino grufolava per terra, agitava le mani e tirava sgrigne soffocate», FA: 51; «sulle ginocchia e sul didietro», FA: 13; «ci dissero cacati e, per l’invidia, ci presero a sfottò», FA: 15; «o stronzo, o merda!…e calci e cinque franchi», FA: 15; «Si vede nu cazzu!», S: 152), e anche se con il tempo il suo sperimentalismo vira verso il tragico, il registro comico, ironico, rimane comunque sempre presente come sottobosco; quell’ironia che fa capolino sin dal primo libro, La ferita dell’aprile: «Puressa, puressa, primavera di bellessa» (FA: 13); «zanglé…sta piova, lesanglé, non inglesi, ma normanni», (FA: 24). E il carattere predominante nei saggi critici e nella poesia di Zanzotto, come per esempio ne La Beltà, raccolta uscita nel 1968 in pieno boom economico, è proprio l’ironia, che si trasforma in aperta comicità o in sarcasmo (come nel componimento Sì ancora la neve: “per voi bimbi con diritto / e programma di pappa, per tutti / ferocemente tutti, voi (sniff sniff / gnam gnam yum yum slurp slurp: / perché sempre si continui l’«umbra fuimus fumo e fumetto»); «colorini più o meno truffaldini») (Zanzotto 2001: 240).
11Il plurilinguismo di Zanzotto, inteso come la messa in opera di elementi appartenenti a diverse lingue e di una pluralità di voci, dialoganti o meno, può esser considerato, secondo Jean Nimis, «una delle caratteristiche ‘fondanti’ della poetica dell’autore» (Nimis 2018: 23). Si tratta di un fenomeno ancora in nuce fino a Vocativo (’57), che diventa esplicito a partire dalla raccolta IX Ecloghe (’62), per poi prendere tutta la sua forza ne La Beltà (’68), ne Gli sguardi i fatti e i Senhal (’69) e in Pasque (’73), in cui la commistione di lingue, linguaggi e voci genera una musicalità molto particolare, ovvero «quel grain de la voix di cui parlava Roland Barthes» – suggerisce Nimis (2018: 23) – e che contraddistingue la poetica zanzottiana. A questa raccolta si deve aggiungere anche il Filò (del ’76), in un dialetto intessuto della koiné veneta. La poesia di Zanzotto è stata una vera e propria «esperienza di linguaggio» – secondo una formula di Stefano Agosti – e dunque un’esperienza sul e nel linguaggio e possiamo attribuire la stessa formula al lavoro letterario di Consolo, che ha realizzato un’escursione a largo raggio verso le origini del linguaggio.
12Anche il plurilinguismo di Zanzotto, come quello di Consolo, riguarda l’uso di varie lingue: l’italiano; il latino, che secondo Dal Bianco, dalla raccolta Vocativo (1957) in poi rappresenta la lingua della Storia, con tutta la sua portata di terrore, soprattutto quando è accompagnata dal lessico scientifico (Dal Bianco 2018: 41); il dialetto, che è la lingua dell’inconscio, la lingua materna e della madre (l’uso del dialetto in Zanzotto esplode dopo il ’73, ovvero dopo la morte della madre), ma che ad un certo punto, in Idioma (1986), diventa la lingua dei morti; il greco, in particolare quello dei Vangeli e di San Paolo, utilizzato quindi come lingua dell’alterità massima, della Natura; il francese, che in genere compare in citazioni letterarie; il tedesco, che è la lingua dell’abbrutimento nazista e al tempo stesso il sublime di Hölderlin – uno dei modelli più alti in poesia –, quindi lingua «dell’antiumano e della somma umanità» (Dal Bianco 2018: 41-43); l’ungherese, che entra nell’ultima raccolta, Conglomerati (2009), in particolare nel componimento Silvia, Silvia, là sul confine… (Zanzotto 2011: 1041-1042), dedicata alla figlia del poeta Cecchinel, morta in giovane età, che studiava lingua e letteratura ungherese all’università di Venezia («Jó estét, kisasszoni!», che significa «Buonasera Signorina!»).
- 12 Breda 2012: 3.
13Dal Bianco osserva che, a partire dalla trilogia di Zanzotto ch’egli ha definito «dell’Oltremondo» (Dal Bianco 2018: 43), ovvero Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), gli inserti delle varie lingue a cui ricorre Zanzotto giocano in un certo senso al ribasso, ovvero ad un «abbassamento di registro». Alle lingue già citate si aggiunge l’inglese, la lingua disprezzata (perché in Italia è quella della pubblicità, della mercificazione) ma che negli anni Ottanta, dopo un lungo periodo di depressione e di afasia, sorge dal profondo per la composizione di pseudo-haiku: Zanzotto dirà che fiorivano spontaneamente, come degli zampilli improvvisi provenienti da qualche luogo recondito della psiche, da un fondo oscuro e fangoso, quasi delle bolle, a testimonianza del fatto che nonostante il deserto doloroso della malattia, un’oasi salvatrice, una fonte di creazione esisteva ancora. Nel saggio Europa, melograno di lingue, il poeta definisce l’inglese «una lingua vulcanica, […] che non può non stimolare alle grandi arrampicate» (Zanzotto 2011: 45), e il suo è un inglese petèl, come lui stesso l’ha definito, ovvero quello dei bambini piccoli che iniziano a parlare: ricorrendo ad elementi minimi della fonologia inglese, Zanzotto spiega «che gli pseudo-haiku gli si congegnavano un po’ alla volta, si coagulavano quasi da sé, grazie alla spinta allitterativa così caratteristica di questa lingua» (Zanzotto 2011: 45). Egli aveva provato a tradurre quei frammenti in italiano, ma restavano in qualche modo sminuiti; e si era anche industriato a tradurli in francese, ma senza grandi risultati e quindi vi aveva rinunciato. Gli riuscivano bene in inglese e non sapeva nemmeno lui bene il perché: partiva forse da una citazione molto conosciuta e da lì nasceva un vero haiku. Solo in un secondo momento li tradurrà in italiano e verranno pubblicati postumi in edizione bilingue negli Stati Uniti: Haiku for a season / Haiku per una stagione (Zanzotto 2012)12.
14La lingua poetica di Zanzotto ricorre inoltre, come la prosa consoliana, a vari lessici specifici appartenenti a numerosissime e svariate discipline, come la medicina, la psicanalisi, la botanica, l’astrofisica, la matematica, l’astronomia, la geologia, l’ottica, oltre ad elementi espressivi connessi all’uso dei linguaggi, come il balbettio rappresentato, gli ideogrammi, i disegni e gli scarabocchi (qualificabili tutti come «iconografie»), i disegni e i collages che accompagnano i testi (cfr. Dal Bianco 2011). E molto importante è anche la dimensione sonora, ove i segni sulla pagina bianca sono da considerarsi come delle ‘scansioni’, dei ‘segnali metronomici’, delle ‘pause’: indicazioni ritmiche per un’interpretazione musicale. Il suo procedere mette in atto un dispositivo sonoro molto denso, costituito da onomatopee, spezzoni di enunciati in diverse lingue, serie di versi dal tessuto ‘acustico’: ora rumoroso, ora sussurrante, ora quasi bisbigliato. Lo stesso Montale aveva definito il poeta di Pieve di Soligo «un poeta percussivo» (Montale 1968: 338). Anche in Consolo, seppur con procedimenti diversi, vi è una «tensione verso la pronuncia fisica [delle parole] e dunque [un’]evocazione permanente dell’oralità» (Turchetta 2015: XXXV), anche perché legata ad una lingua che ha in sé una forte teatralità, quindi che ben si presta alla recitazione. E ricordiamo anche la pratica di riportare melodie e canti popolari in Consolo, così come filastrocche, proverbi e modi di dire in dialetto in Zanzotto.
15Entrambi gli autori, inoltre, scrivono quella che è stata definita una trilogia o, nel caso di Zanzotto, una «pseudo trilogia», secondo le parole dello stesso poeta: un connubio di lingua e storia, le due componenti fondamentali nell’opera dei Nostri.
16La trilogia di Consolo comprende il Sorriso dell’ignoto marinaio (’76) ambientato nel periodo del Risorgimento, un momento di grandi speranze e di grandi delusioni; Nottetempo, casa per casa (’92), che mette a confronto l’avvento del fascismo, segnato da un’estrema violenza tra Cefalù e Palermo attraverso le vicende della famiglia Marano e, allo stesso tempo, con l’Italia degli anni Novanta, dell’avvento della destra; e Lo Spasimo di Palermo (’98) che mette in luce le collusioni tra il potere politico e la mafia con le stragi degli anni Novanta.
17Anche la trilogia di Zanzotto è legata alla Storia, ma comprende un arco temporale che parte dalla grande tragedia popolare della Prima Guerra Mondiale con la prima ‘anta’, Il Galateo in Bosco (’78), nella prospettiva di rivitalizzarne la memoria nel presente. Il Bosco è quello del Montello, a sud di Pieve di Soligo, visto dal poeta come un’enorme pattumiera che r-accoglie i sedimenti organici e inorganici del processo naturale, i resti dei picnic dei villeggianti assieme alle ossa dei soldati della Grande Guerra, il cumulo delle tracce lasciate dall’uomo nei secoli. Questo Bosco rimasto quasi intatto, seppur sfruttato, nei secoli venne distrutto dopo l’Unificazione, nelle varie battaglie che portarono, nel ’18, alla vittoria italiana contro l’Austria-Ungheria. Le tracce di questa tragedia sono rimaste nella terra, tanto che la topografia della zona segna la linea degli Ossari nel Montello (Tessari 2009). Parecchi titoli dei componimenti – come indica Zanzotto in una Nota – sono tratti da parole o frasi del Bollettino della Vittoria e questo è un procedere anche di Consolo, che si spinge forse ancora più in là riportando in alcuni casi, nei suoi romanzi, stralci di documenti inediti consultati in archivio, con quella sua preoccupazione di verità e soprattutto di dar voce a chi non ne ha avuta. Galateo è un codice di comportamento, espressione delle regole che presiedono al vivere civile, ma che storicamente si sono incarnate nella retorica del potere e nella volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; è il Galateo overo de’ costumi che Giovanni della Casa scrisse probabilmente negli anni in cui si ritirò nell’abbazia di Sant’Eustachio, presso Nervesa, nel trevigiano, tra il 1551 e il 1555 (e pubblicato postumo nel 1558). Ambiguo e lacerato è lo statuto della poesia: da una parte si rivolge al bosco come unica fonte di sostentamento e speranza di vita autentica, dall’altra si riconosce nelle istanze razionalizzanti del Galateo, poiché memoria stratificata nel codice letterario. Al centro della raccolta vi è l’Ipersonetto (16 sonetti), che sta ad indicare l’elezione di un codice altamente letterario, ma ‘stravolto’, poiché vi è la tendenza del poeta ad incorporare grafismi, ideogrammi, simboli matematici, disegni naïf, a volte con valore di notazioni musicali, influendo quindi sull’intonazione degli enunciati; a volte con funzione di semplice “commento” al testo; a volte con funzione di “disturbo” o monito, poiché manifestazioni del “rumore” della storia e del mondo contemporaneo.
18In Fosfeni (dell’83), il paesaggio è quello a nord di Pieve di Soligo e il carico di responsabilità sulla lingua poetica aumenta progressivamente, mentre in Idioma (dell’86) – la terza ‘anta’ della Trilogia – il centro geografico è la Pieve del poeta, un paese che è come un giardino devastato qua e là, una mappa, un palinsesto. La necessità di una presa di coscienza della distanza presente da ciò che ci costituisce in quanto passato è certamente uno dei principi guida della trilogia. Idioma contiene i Mestieròi, una sorta di ‘museo d’ombre’ in dialetto solighese, e una vecchia canzoncina satirica locale, I putèi del Mulineto, e vi è l’espressione queimada brasilèira, con cui Zanzotto denuncia il fatto di bruciare le foreste per coltivare il terreno (ciò’ è legato all’emigrazione veneta in Brasile alla fine del XIX secolo). Ma anche la foresta del Montello era stata abbattuta nell’82 per poter coltivare il terreno. In questo processo di nominazione (da Idioma, appunto) entra sempre la Storia e un esempio ne è la poesia intitolata Il nome di Maria Fresu, dedicata a una ragazza letteralmente polverizzata dalla bomba della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente tra le vittime: ridotta unicamente al suo nome:
E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp. (Zanzotto 2011: 700)
La necessità di registrare gli accadimenti passati e più recenti ritorna costantemente nell’opera di Zanzotto e Consolo, ma nell’ultima ‘anta’ della trilogia dello scrittore siciliano è presente il rischio dell’afasia, rappresentata dal protagonista Gioacchino Martinez, dietro cui si cela lo stesso Consolo, uno scrittore che non scrive e non vuole più scrivere, nemmeno le dediche sui propri libri. Questo silenzio è causato dall’esigenza di dire una verità e dalla constatazione dell’impossibilità di farlo. L’afasia qui si accentua, testimone anche della coerenza e del coraggio del percorso letterario di Consolo: Decise di scuotersi, di fare, dar mano al proposito, da tempo accantonato, d’indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes e a quella, insieme, d’un poeta di qua dialettale, Antonio Veneziano. Sarebbe riuscito forse a scriverne, scrivere d’una realtà storica, della pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine d’una pieve saccheggiata – tutt’ossa del Montello questo mondo – «Le tue ecloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa…’ questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d’un antico Mediterraneo devastato13. (Consolo 2015: 953-954)
Il «veneto» è chiaramente Zanzotto che, «rinchiuso nella sua solitudine», registra i mutamenti di Pieve di Soligo e la dissacrazione del paesaggio che lo circonda dovuta alla cementificazione e al disboscamento; «le tue ecloghe» fa riferimento alla raccolta del ’62, IX Ecloghe, e la «puella pallidula vagante» è citazione appunto da IX Ecloghe, in particolare dal componimento:
13 settembre 1959 (Variante)
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
distonia vita traviata,
atonia vita evitata,
mataia, matta morula,
vampirisma, paralisi,
[…] (Zanzotto 2011: 171)
19Ritorna il tema della luna – che ha tanto affascinato Consolo tanto da comporre Lunaria (1985) – legato ad una serie di nominazioni provenienti da diversi campi linguistici: selenita, che in astronomia è tutto ciò che è in rapporto con la luna; distonia, che è l’alterazione del tono muscolare; l’atonia, che in linguistica è la mancanza di accento e in medicina la perdita del tono muscolare; la mataia, che deriva dal greco e significa folle, stolta; morula, che in biologia è la fase con cui ha inizio il processo di sviluppo di un embrione e infine vampirisma, che deriva da vampiro, spettro che esce dalle tombe la notte. «La tua lingua prima balbettante» è invece il dialetto di Zanzotto, mentre «la seconda ancor più ardua, scoscesa» è l’italiano. In questo passaggio, che possiamo considerare un omaggio di Consolo al poeta di Pieve di Soligo, l’io narrante aborre il romanzo e lamenta di non avere il dono della poesia, che per lo scrittore siciliano rappresenta
un’esigenza primaria dell’uomo. Se non ci fosse la poesia, se si estinguesse il canto, l’umanità rischierebbe parecchio, perché la poesia ha la capacità di risorgere, rifiorire inaspettata, riapparire anche nei luoghi più imprevedibili. In Italia rimane certamente la forma letteraria più irriducibile (perché meno mercificabile), continua a possedere un genuino nucleo di forza espressiva e verità. (Calcaterra 2016: 66)
Da questa concezione alta della poesia, deriva anche la prosa ritmica di Consolo e l’omaggio esplicito a Zanzotto va de soi, forse perché, come suggerisce Massimo Onofri, egli è:
abituato a lavorare sull’ideologia per alchimia sintattica, fermento lessicale, combustioni prosodiche […] dentro una «metrica della memoria» proprio come Consolo, senza compromessi. Entrambi hanno fatto della forma una questione di sostanza (Onofri 2004: 193-199).
- 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RA (…)
20Ricordiamo inoltre che nella seconda metà degli anni Settanta, Consolo realizzerà per la RAI il documentario dal titolo Una giornata di Iseo Tesser. Dentro e fuori una mostra sulla cultura contadina veneta, nato dall’esposizione Settecento anni di costume nel Veneto per la regia di Raoul Bozzi. La sceneggiatura è di Consolo, mentre l’intervistatore è Andrea Zanzotto, che parla con Iseo Tesser, un mezzadro sulle terre dei principi di Collalto (il ramo italiano degli Hohenzollern), ultimo di una famiglia che esercita quel mestiere da secoli14. Questo lavoro è testimonianza dell’attenzione dei due scrittori per i mestieri legati alla terra e la storia, nei secoli, di determinati territori, in particolare quelli delle loro regioni, che rappresentano sempre il punto di partenza.
21E veniamo ora alla recensione di Zanzotto alle Pietre di Pantalica, (Zanzotto 2001: 308-310):
Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati […]. L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare [ed] è sempre un rivolgersi ai molti […] è quasi una preghiera […]. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, […]. […] all’orizzonte, [vi sono] quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. […] trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore (odore penetrante e acre) di memoria, o perfino di necessario vuoto-di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.
Ma il momento più alto del libro è […][il] fascinoso imperio linguistico di Amalia: che trascina (l’amico) […] iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto. (Zanzotto 2001: 308-310)15
Zanzotto, così attento alla lingua, alle parole, in particolare a tutti i nomi di piante, di fiori, di alberi, al paesaggio in generale e a quello del bosco in particolare, e così ‘funambolo’ nell’invenzione linguistica (pensiamo alla fantasia linguistica de Il Galateo in bosco del ’78), non poteva non apprezzare, sopra tutti, il magnifico racconto consoliano Il linguaggio del bosco, tanto che alla fine della sua recensione scriverà:
Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, […], [m]a non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere. (Zanzotto 2001: 308-310)16
Ci sembra importante sottolineare che per la scrittura di Consolo si è parlato di “palinsesto” (‘O Connell 2010: 42-66), un termine che si riferisce al codice di pergamena su cui, raschiata la prima scrittura, si può scrivere un nuovo testo e dove l’originale rimane in trasparenza: così l’ipertesto si innesta nell’ipotesto. Zanzotto, nel 2001, pubblica la raccolta Sovrimpressioni e il primo significato del titolo è il riemergere di parole, di storie e di figure antiche di un tempo ormai lontano, ma confuso-fuso con quello reale. Il titolo deve quindi essere letto in relazione al ritorno di ricordi e di “tracce scritturali”: il poeta registra il degrado del paesaggio della sua amata terra, esprime la propria amarezza e lo fa rivivere, in dialetto, attraverso il ricordo di figure ‘mitiche’ del suo passato, già incontrate nella sua opera (come la Maestra Morchet o l’agricoltore Nino). Il modo di procedere è personalissimo, ma delle convergenze sono riscontrabili nell’idea di traccia, di recupero di modelli letterari, fatti storici, immagini di persone che hanno segnato in qualche modo il loro percorso.
22Questo studio si propone quindi come un primo contributo all’analisi comparativa di due autori che sono accomunati da un forte interesse per la sperimentazione linguistica e da una poetica comune, pur nell’estrema diversità dei risultati e dei generi praticati. Lo sforzo di recuperare dall’oblio pezzi di Storia, Consolo e Zanzotto l’hanno investito tutto nella lingua, e anche nei momenti più terribili, più tragici, quando la tentazione di abbandonare l’impresa era forte, da un degré zéro della pagina bianca hanno sempre continuato, nonostante tutto, l’entreprise, forti di un valore prima di tutto etico, che estetico, della letteratura e della lingua.Haut de page
Bibliographie
Des DOI sont automatiquement ajoutés aux références par Bilbo, l’outil d’annotation bibliographique d’OpenEdition.
Les utilisateurs des institutions qui sont abonnées à un des programmes freemium d’OpenEdition peuvent télécharger les références bibliographiques pour lequelles Bilbo a trouvé un DOI.
AA.VV., 2010, Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo, Microprovincia, 48, gennaio-dicembre.
Adamo G. (a cura di), 2006, Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, prefazione di Giulio Ferroni, Lecce, Manni.
Alvino G., 2012, Lo scrittore verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, prefazione di Pietro Trifone, Casoria (NA), Loffredo Editore University Press, coll. Studi di Italianistica, n. 6.
Bassi S., Un «giardiniere e botanico delle lingue»: Andrea Zanzotto traduttore e autotraduttore, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari di venezia, XXIII ciclo (a.a. 2009/2010), http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1068/Tesi%20Dottorato%20Bassi.pdf?sequence=1.
Benjamin W., 2011 [19361], Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, note e commento di Alessandro Baricco, trad. it. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, coll. Super ET.
Bongiorno G., Toppan L. (a cura di), 2018, Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione, Firenze, FUP, coll. Moderna e Comparata.
Breda M., 2012, «Haiku, la cura di Zanzotto», Corriere della Sera/La lettura, 30 settembre, p. 3.
Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.
Consolo V., 2014, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori.
Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Consolo V., 2017, Cosa loro. Mafie tra cronaca e riflessione (1997-2010), a cura di Nicolò Messina, Milano, Bompiani.
Dal Bianco S., 2018, Le lingue e l’inglese degli haiku, in: Bongiorno G., Toppan L. (a cura di), 2018, Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione, Firenze, FUP, coll. Moderna e Comparata, p. 41-47.
Dal Bianco S., 2011, «Il percorso della poesia di Andrea Zanzotto», in: Zanzotto A., 2011, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, coll. Oscar, p. VII-XCII.
Galvagno R. (a cura di), 2015, «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di Antonio Di Grado, Avellino, Edizioni Sinestesie.
Minarda M., 2014, La lente bifocale. Itinerari stilistici e conoscitivi nell’opera di Vincenzo Consolo, Messina, Pungitopo. Montale E., 1968, «La poesia di Zanzotto», Il Corriere della Sera, 1/06/1968; poi in: Id., Sulla poesia, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori. Nimis J., 2018, Glossalalie, xenoglossie nella «pseudo-trilogia», in Bongiorno G., Toppan L. 2018, p. 23-39. O’Connell D., 2010, «Il palinsesto della memoria», in: AA.VV., Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo, Microprovincia, 48, gennaio-dicembre, p. 42-66. Onofri M., 2004, «Nel magma Italia. Considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale», in: Id., Il sospetto della realtà. Saggi e paesaggi novecenteschi, Avagliano, Cava de’ Tirreni, p. 193-99. Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 16 dicembre. Pasolini P. P., 2000 [1972], Empirismo eretico, Milano, Garzanti, p. 5-24. Segre C., 2015, «Un profilo di Vincenzo Consolo», in: Consolo V., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. IX-XXII. Tessari R., 2009, Ritorno sul Montello con Andrea Zanzotto, in: Il Montello della Grande Guerra, vol. 3, Udine, Gaspari Editore.
Turchetta G., 2015, «Da un luogo bellissimo e tremendo», in: Consolo V., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. XXIII‑LXXIV.
Turchetta G., 2015, «Cronologia», in: Consolo V., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. LXXV-CLIII. Zanzotto A., 2013, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Milano, Bompiani.
Zanzotto A., 2012, Haiku for a season / Haiku per una stagione, edited by Anna Secco e Patrick Barron, Chicago, University of Chicago.
DOI : 10.7208/chicago/9780226922225.001.0001 Zanzotto A., 2011, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, coll. Oscar.
Zanzotto A., 2009, In questo progresso scorsoio. Conversazioni con Marzio Breda, Milano, Garzanti.
Zanzotto A., 2001, Scritti sulla letteratura, a cura di Gianmario Villalta, Milano, Mondadori, coll. Oscar saggi, vol. 2.
Zanzotto A., 1999, Le poesie e le prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gianmario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori, «I Meridiani».
Zanzotto A., 1990, Dai monti fatati al sangue di Palermo, Consolo sospeso tra due Sicilie, in: Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone, p. 179-181.
Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone.Haut de page
Note
2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza di diritti, ma non meno tra parentesi che gli altri fenomeni. […] si rende impossibile salvare, attraverso tanto legittimo disamore, qualche cosa che alluda, almeno, all’amore, ne isoli l’immagine per assurdo».
3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’Università. Intervenne mio fratello: ‘Lo mandiamo a Milano all’Università Cattolica’. Io felice. Vincenzo si iscrive quindi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano: Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo il desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito».
4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2010, ovvero poco prima di morire. Ora riuniti in Consolo 2017.
6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014. I corsivi sono nostri.
7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare. Da amici trevigiani apprende che in Svizzera si può trovare un impiego: gli segnalano in particolare un posto di insegnante presso il collegio della cittadina turistica di Villars sur Ollon, nel Vaud, sulle montagne sopra Losanna, dove prende servizio nel mese di settembre. L’ambiente si dimostra alquanto opprimente, sia per una singolare figura di direttrice-padrona […] sia perché viene impiegato per supplenze e lezioni innumerevoli in tutte le materie, compresa la matematica. Rimane in Svizzera quasi un intero anno scolastico, poi è costretto a rientrare per essere operato di appendicite e per il successivo mese di convalescenza. Al ritorno in Svizzera decide di abbandonare il collegio tra i monti e si stabilisce a Losanna, dove l’atmosfera è ben più vivace. […] è disposto a fare il barista e il cameriere […] viene in contatto con i seguaci di Swedenborg. Rientrerà in Italia alla fine del’47 all’aprirsi di nuove prospettive per l’insegnamento». Di questo periodo svizzero inizierà a scrivere, in francese, nel Cahier Vaudois, rimasto però incompiuto e a tutt’oggi inedito. 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
10 Il sabir era chiamata anche petit mauresque, ferenghi, ‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse una storpiatura del catalano saber; lingua franca, invece, deriva dall’arabo lisān-al-faranğī. Il secondo termine è in seguito passato ad indicare qualsiasi idioma che metta in contatto parlanti di estrazione diversa. Questa lingua ausiliaria serviva a mettere in contatto i commercianti europei con gli arabi e i turchi, ed era parlata anche dagli schiavi di Malta, dai corsari del Maghreb e dai fuggitivi europei che trovavano riparo ad Algeri. La morfologia era molto semplice e l’ordine delle parole molto libero. Per supplire alla mancanza di alcune classi di parole, vi era un largo uso di preposizioni e di aggettivi possessivi e aveva un numero limitato di tempi verbali (il futuro, per esempio, si creava usando il modale bisognio, il passato con il participio passato). Il primo documento in lingua franca risale al 1296 (Compasso da Navegare). Nel 1830 viene pubblicato a Marsiglia il Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque, suivi de quelques dialogues familiers et d’un vocabulaire de mots arabes le plus usuels; à l’usage des Français en Afrique, manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione francese in Algeria per la conquista di Algeri (è l’inizio della colonizzazione francese che si sarebbe protratta fino al 1962). Veniva così alla luce un idioma alquanto misterioso, usato dai secoli medievali nel Mediterraneo come mezzo di comunicazione tra cristiani di lingua romanza da un lato, arabi e poi turchi dall’altro. Doveva servire ai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir. Nell’Impresario delle Smirne, Goldoni inserisce un personaggio che si esprimeva in lingua franca. Cfr. Francesco Bruni, https://web.archive.org/web/20090328135757/http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/lezioni/f_lll5.htm.
11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni, seguite dal numero di pagina: Ferita dell’aprile (FA), Il sorriso dell’ignoto marinaio (S), Retablo (R), Le pietre di Pantalica (PP).
12 Breda 2012: 3. 13 I corsivi sono nostri. 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RAI 1 la sera del 10 luglio 1977.
Référence papier
Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches, 21 | 2018, 183-198.
Référence électronique
Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches [En ligne], 21 | 2018, mis en ligne le 07 octobre 2021, consulté le 20 septembre 2022. URL : http://journals.openedition.org/cher/1269 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cher.1269
Vincenzo Consolo con Luigi Meneghello “Laurea honoris causa” Palermo 20 giugno 2007
Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine
— Penso che vincere un premio come lo Strega possa essere, per uno scrittore serio, un’assicurazione contro i faccendoni, e il dilagare della carta. — La carta seppellisce i libri. Una volta gli scrittori lavoravano con la speranza nel futuro1 . Senza troppa esagerazione si può affermare che il tono essenziale della prosa consoliana rimane soprattutto riflessivo e didascalico. E se con questo ci si vuole riferire ad una remota disposizione che si ripresenti nelle opere degli scrittori siciliani, e cioè, una ricorrenza di quella peculiarità, nominata da Leonardo Sciascia una “specie di follia”. In questa zona discorsiva, acquista un rilievo massimo la figura di Luigi Pirandello atteggiata nell’argomentativo e sofistico ritmo di un ragionatore e di un maestro tutto volto a spiegare e insegnare. Ma questa razionalizzante sicilitudine non è da credere che s’aggiri in una forma di cattedratica istruzione o di astratta lezione2 . Al contrario, la meditazione svolta dell’autore, pur nei confini dello schema prestabilito si avvia di acute analisi e di fini notazioni psicologiche
1 F. Parazzoli: Il gioco del mondo. Dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie […]. Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998, p. 23. 2 Cfr. M. Tropea: Nomi, „ethos”, follia negli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento. Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2000, p. 5.
essenza della sicilitudine che superano i consueti limiti del comune repertorio morale. Pirandello, nel modo più autonomo, è riuscito a collegare i motivi siciliani come: mania, follia e superstizioni e grandi temi dello smarrimento dell’animo dell’uomo. Si potrebbe dire, a titolo non solo di paradosso, che lo scrittore avverta la presenza della conoscenza della vita nella totalità dei suoi aspetti come il frutto di un’esperienza non gradita e tendenzialmente rifiutata. Invece la liberazione dei sentimenti e dell’invenzione dal peso del reale presuppone un’intensa partecipazione ad esso, non un rifiuto, non un esilio, ma un’accettazione contrastata e difficile. Ad una maggiore immediatezza d’espressione si torna con l’esperienza di Vitalino Brancati che distingue la cultura della Sicilia in due grandi suddivisioni: “[…] quella occidentale degli arabi, dei cavilli, delle sottigliezze, della malinconia, di Pirandello e di Giovanni Gentile e dei mosaici; e quella orientale dei Fenici, dei Greci, della poesia, della musica, del commercio, dell’inganno, di Stesicoro, Verga, Bellini, San Giuliano”3 . Con le opere di Brancati si rimane sempre nella stessa dimensione della poesia invasa dalla follia che forma la peculiarità dell’anima e della cultura siciliana. Secondo Mario Tropea l’esistenza di una “letteratura siciliana” costituisce una figurazione di una insularità affermata non solamente dal punto di vista storico e antropologico. Nella sua sostanza si conferma una tonalità narrativa della psicologia umana4 . Allo sguardo satirico di Brancati, l’universo siciliano non appare come lo spazio di cui celebrare il fasto, né tanto meno la sede in cui si elaborano progetti politici; esso diviene piuttosto il bersaglio privilegiato di un processo di smascheramento, teso a mettere a nudo l’incapacità dei rappresentanti del potere, l’interesse dei cittadini e il loro stato di umiliante soggezione. In questo senso appare emblematico il punto di vista di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pieno d’ironia, pensata come sintesi di distacco aristocratico. Forse ha capito che allo scrittore non si chiede più l’eroismo di una classe feudale, ma la naturale mutevolezza di caratteri osservati nella
3 Ibidem, p. 6. 4 Cfr. ibidem.
realtà quotidiana. L’ottica dall’interno con cui il mondo della Sicilia è narrato compare nella presenza di nozioni dell’ironia e della storia. L’isola ha una sua storia che la genera e rigenera. Nella scelta di una narrazione mimetica l’insularità diventa una proprietà imprescindibile. Consolo non inventerebbe l’isola se non vi fosse venuto al mondo, se nella vita, nella scrittura non fosse venuto incontro ad esso e se non l’avesse raccontato tramite le vicissitudini dei compaesani. Pubblicando i suoi scritti, Consolo ha salvato dall’oblio inerente all’oralità le storie dolorose e fragili. Sembra che, simbolicamente, lo scrittore abbia saldato un debito nei confronti degli interlocutori del paese natio. Non si tratta, in questa analisi, di propugnare uno scavalcamento delle gerarchie né di rinnegare gli interessi degli scrittori; invano si cercherebbe in queste opere un progetto di riforma della società in base a nuovi valori. Mondo insulare e mondo della penisola sembrano impermeabili. Eclettico Capuana non tanto lontano dalla realtà del naturalismo di Verga rappresenta la follia proprio tramite uno studio “clinico”. Nella poetica che sembra quella di un generico realismo, Consolo varca la soglia della finzione e recupera le forme testuali della verità quasi documentaria: struttura e tono del reportage, appendici forniti dalla storia, narrazione in terza persona. Un’idea di narrazione polimorfica potrebbe risultare una necessità di inquadrarsi all’interno di una prospettiva di moderno umanesimo delle contraddizioni. Ferruccio Parazzoli ha ammesso di sentirsi come Ismaele — il protagonista di Moby Dick. Invece, però di andarsene per mare, lo studioso si accontenta di svolgere la ricerca tra gli amici5 . In Mondadori, la sua casa editrice, Consolo viene considerato uno dei più ascoltati scrittori italiani. “Quando dice fa opinione” — ricorda Parazzoli6 . Se lo scrittore si riferisce alla quotidianità politica, lo fa direttamente come nella constatazione rapportata alla situazione del settembre del 1994: “Io credo che chi ci governa sia affetto da una grave malattia mentale. […] Tutti i suoi gesti, tutte le sue azioni, tutti
5 Cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 54. 6 Ibidem.
gli ordini, tutto quanto lui dispone è all’insegna dell’irrazionalità e della follia”7 .
Prendendo le mosse dal mito sul Cavallo inventato da Ulisse, Consolo cerca di individuare un’ipotesi fondamentale dell’illusione vissuta dall’Italia dopo la seconda guerra mondiale; l’illusione dell’Itaca e cioè dell’armonia, della storia e degli affetti. Dopo le tragedie subite c’era bisogno di razionalità e di ordine che potevano essere visti come tappe di un possibile recupero della ragione. Va poi sottolineato, sul piano delle corrispondenze fra la ragione e la follia che questa oscillazione è diventata una costante della storia dell’Italia. Consolo dichiara decisamente il desiderio di testimoniare il senso storico del suo tempo. In questo caso la testimonianza riguardante la situazione del paese è un espediente narrativo esemplare della tecnica della trasformazione che si gioca su capovolgimenti. La generazione di Consolo ha conosciuto un mondo che era la civiltà contadina è che poi ha cominciato a sostituire la vita con le cose, con la merce. In conseguenza è accaduto lo spostamento della centralità dell’essere e la sua sostituzione con l’avere. La rapidità di questo processo ha lesionato anche le altre sfere dell’attività umana. Secondo Consolo il movimento delle masse contadine ha portato alla distruzione della cultura popolare. Anche un discorso svolto dallo scrittore sui colpevoli di questo stato di cose indica chiaramente i politici un primo luogo e poi gli intellettuali. Questa idea di responsabilità sopravvive nella coscienza letteraria consoliana, specialmente quanto il narratore sottolinea la propria provenienza siciliana. In questo paesaggio dell’Italia corrotta e arrettrata, Milano è cominciata ad essere considerata come la città dell’utopia, senza sopraffazione e violenza. Non è quindi per un caso nemmeno da questo punto di vista, in fondo, che Vincenzo Consolo come Verga e Vittorini, approdì a Milano. Con il passare di tempo nasce la delusione. La cosa da notare subito è la convinzione di Consolo della responsabilità maggiore della Milano moderna, siccome più dotata nel campo di lavoro e di cultura, della digradazione e dell’avvilimento.
7 Ibidem, p. 25.
Si capisce ancora meglio, così, perché sia proprio quest’inclinazione a renderci più coscienziosi e più sensibili ai problemi della realtà circostante. Esaminando il percorso dello sviluppo del romanzo politico, Consolo pronuncia apertamente la sfortuna di Sciascia e di Pasolini. Il primo è stato dimenticato, il secondo invece, è stato imbalsamato in una nicchia di santità laica. Nelle sue narrazioni ci si rivolge come un’ultima volta a uno spazio e a un tempo che stanno per svanire definitivamente. Attingendo ai maestri come Verga, Pirandello, Vittorini, Consolo vuole mettere in evidenza una realtà che si può raccontare. Non consumata dall’informazione, dalla televisione o dai giornali ma capace di far sopportare e di capire la realtà. Una delle caratteristiche di questo modo robusto di narrare è quel ricorso frequente alla parola “armonia” che è diventata una parola chiave nel suo vocabolario di scrittore. Si scopre così che, correntemente alla sua essenza patetica, questa parola, come specchio e rappresentazione dello sguardo che lo affronta, può diventare un espediente che renderà più facile il conciliarsi con la vita e con la realtà. È altrettanto importante mettere in evidenza un’altra costante della produzione letteraria consoliana e cioè, la volontà di decifrare un passato remoto. L’atteggiamento di protesta contro la dissacrazione del nostro tempo. Gli elementi della materia che diventano veri e propri protagonisti della memoria di Consolo sono tra l’altro: le pietre, le piante e il mare. La loro capacità di ipostatizzare lo sguardo che li contempla e di oggettivarlo in una forma visibile, non si trasforma mai in pura contemplazione ma cambia nell’esperienza interiore. La memoria del mondo ormai dimenticato e trascurato diventa anche il modo per salvarlo. Con questo espediente lo scrittore vuole opporsi al senso della precarietà del mondo moderno. Nella prefazione al saggio di Basilio Reale lo scrittore constata: Ho sempre pensato la letteratura siciliana (e non solo la letteratura, ma la pittura, la scultura, la musica: l’arte insomma) svolgersi su due crinali, su due filoni o temi distinti: quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura, o del mito)8 .
8 V. Consolo: Prefazione. In: B. Reale: Sirene siciliane. L’anima esiliata in “Lighea” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2001, p. 15.
La memoria di quel mondo viene conservata anche nella dimensione di fuga dal paese. La fuga che è possibile forse solo in letteratura. La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l’esilio dall’interno. Molto legato ai valori come l’orgoglio, l’umiltà e il pudore, Consolo constata che la mancanza di pudore che ormai fa parte di ogni settore dell’attività umana, lo disorienta e offende. La paragona a una forma di violenza, come nei teatri anatomici quando si squadernavano i corpi. Parlando dell’importanza della memoria, lo scrittore rievoca la testimonianza di Pirandello, vissuta a circa due anni e legata ad un’eclisse solare che diventa un autentico archetipo della scrittura pirandelliana e un’ipostasi che è presente anche nella narrativa di Consolo9 . La prova di ricostruire questa memoria storica riguarda un mondo in cui la memoria sta per annullarsi. Ne rimangono solo delle apparenze e degli stereotipi. Per salvare questa realtà acquisisce soprattutto una forza dell’espressione linguistica, il richiamo alla lingua: unico segno realmente distintivo e significativo di appropriazione del mondo nelle possibilità di narrarlo, il che vuol dire per Consolo di ricrearlo narrativamente. Non a caso Giulio Ferroni riconosce allo scrittore il merito di essersi mosso alla ricerca di un linguaggio capace di unire in sé “la curiosità storica e razionale di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda”10. Per Consolo la forza stilistica e inventiva diventa simbolo dell’aspirazione barocca a inglobare i diversi aspetti del reale in un complesso eterogeneo, ma organizzato. Le stesse ansie e inquietudini che, come si è visto, stanno a fondamento della ricerca dello scrittore siciliano, permeano altrettanto la prosa di diversi autori legati alla loro terra, alla loro regione, al loro quartiere. Il rapporto con il nichilismo del Novecento, la crisi di valori, la redifinizione dell’identità, i temi fondamentali non solo dell’opera di Consolo non solo hanno volto l’attenzione di molti su
9 Consolo, questa prosa, la nomina “la memoria di un’eclisse”, cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 29. 10 G. Ferroni: Storia della letteratura italiana. Milano, Einaudi, 1991, p. 129.
questi problemi ma sono anche stati oggetto di analisi di vari critici11. Joanna Ugniewska, nella parte conclusiva del saggio di Matteo Collura ci ricorda che l’autore, attingendo al modello vittoriniano del viaggio orientato verso i luoghi dell’isola d’infanzia e di origine, definisce la propria narrazione come il percorso verso luoghi dove la memoria è stata imprigionata12. Nel corso del Novecento la critica aveva riesaminato con accenti più serrati il ruolo degli autori siciliani. Alcuni di loro come Elio Vittorini e Leonardo Sciascia e un po’ più tardi Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono stati premiati con il Nobel per la letteratura, gli altri hanno goduto un notevole successo editoriale. Nel quadro di questo pensiero siciliano non sarà luogo d’azione a sancirne il suo carattere originale. È vero che le narrazioni consoliane sono ambientate nella Sicilia, ma accade che le opere degli autori rievocati presentino i contesti geografici più neutri e generici. Da questo punto di vista, dunque, la provenienza potrebbe risultare un mero dato anagrafico. Ma in effetti la personalità consoliana era lungi dal limitarsi a tale rapporto tra la terra di nascita e le scelte future, tra l’aspirazione e i contrasti della vita, rapporto in certo modo risolto nella posizione dello scrittore di estrema apertura verso il reale, quale era propria di una scrittura che avverte in sé il continuo bisogno di nuovi orizzonti e di nuove situazioni. Se si volesse configurare la letteratura d’arte come perenne conflitto di “rappresentazione” e di “intellettualità”, si dovrebbe tornare mentalmente allo Stilnovismo, ma la presenza del momento intellettualistico è percepibile anche nell’arte moderna. Nel suo saggio dedicato agli scrittori siciliani del Novecento, Massimo Naro constata che l’atteggiamento intellettuale degli scrittori isolani si innesta sulla loro provenienza, non solo nel senso anagrafico o geografico, ma molto più profondamente, con le implicazioni etiche come antichi modi
11 Cfr. G. Pellegrino: Lotta, memoria e responsabilità: Eraldo Affinati. In: Scrittori in corso. Osservazioni sul racconto contemporaneo. A cura di L.A. Giuliani, G. Lo Castro. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 155. 12 Cfr. M. Collura: Na Sycylii. Przeł. J. Ugniewska. Warszawa, Fundacja Zeszytów Literackich, 2013, p. 158.
di percepire il mondo a partire dalla terra di nascita13. L’esperienza siciliana diventa una specie di prospettiva nella quale gli autori contrappongono l’isola ad ogni terraferma. Più netti sono i contorni dell’isola, più il mondo fa da sfondo, diventa il miraggio. Così, quando lo sguardo degli scrittori entra “dentro” l’isola, la descrizione della concretezza fisica dello spazio non perde mai di vista gli elementi “strutturali” della Sicilia stessa. Una concretezza descrittiva che non trascura la peculiarità funzionale di questa scrittura, di esprimerne la gratitudine e la nostalgia. Questa caratteristica dell’ottica siciliana viene confermata fortemente nell’analisi del titolo dell’opera di Antonio Di Grado Finis Siciliae14 svolta da Anna Tylusińska-Kowalska nella parte introduttiva al volume dedicato alla produzione artistica di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno e Matteo Collura15. Nel commentare il titolo del libro citato del Di Grado e il contenuto del proprio volume, la studiosa sottolinea la funzione del diversificato paesaggio siciliano da cui scaturisce il mito della tradizione, del legame con la terra di nascita e della storia non sempre felice. Pirandello ha già definito le caratteristiche di questa specie di ottica, usando il termine “raziocinare” per questo modo di esaminare: volutamente più lento, più pacato, meno calcolante e più poetico, ma sempre capace di focalizzare l’attenzione sulle questioni problematiche e urgenti del tempo. Le cose hanno un volto diverso nel senso che qui sono appunto gli scrittori a porsi delle domande che nelle altre parti del mondo si pongono dei filosofi: sull’esistenza, sulla verità, sulla giustizia e sul potere. Gli echi dello stesso dibattito sorgono nei pensieri di Gesualdo Bufalino che si chiedeva se ciò che l’uomo sperimenta sia conclusivo o provvisorio, reale o illusorio? Nelle sue
13 Cfr. Sub specie typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del Novecento. A cura di M. Naro. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2003, p. 6. 14 A. Di Grado: Finis Siciliae. Scrittura nell’isola tra resistenza e resa. Acireale— Roma, Bonanno, 2005. 15 Cfr. Literacki pejzaż Sycylii. Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno, Matteo Collura. Red. A. Tylusińska-Kowalska. Warszawa, Wydawnictwo DiG, 2011, p. 9.
opere l’isola diventa metafora della teatralizzazione della vita16. Vale ancora aggiungere che nella sua ricerca appare chiara la volontà di valutare questa “qualità interrogante” della letteratura siciliana. Questo capitolo, di carattere esclusivamente introduttivo, si limita a considerare alcuni nomi e testi esemplari di questa lunga e complessa storia letteraria. La problematicità della letteratura siciliana si comprende nell’antirazionalità della poesia di Bartolo Cattafi, nell’opposizione tra certezza e dubbio nei libri di Giuseppe Antonio Borgese, nella contrapposizione tra fede e follia nei testi di Lucio Piccolo e Carmelo Samonà nella rappresentazione della dignità umana nelle opere di Elio Vittorini, nella ricerca del senso della vita in Francesco Lanza o in Nino Savarese, nella felicità perduta in Ercole Patti, nel nichilismo esistenziale in Sebastiano Addamo, nel dramma dell’emigrazione nella poesia di Stefano Vilardo, nell’impegno intellettuale di Vincenzo Consolo, nella protesta contro le violenze quotidiane di Dacia Maraini, nell’angoscia esistenziale nella narrativa di Gianni Riotta, Giosuè Calaciura e Roberto Alajmo. Consolo si realizza nella sua coscienza dell’intellettuale, egli misura costantemente la propria sorte d’uomo di cultura. Allude in questo modo alla tradizione l’iniziatore della quale viene considerato Dante — il primo intellettuale in senso moderno. Il sapere ritrovato è tutto orientato in senso “morale” e la reintegrazione della cultura nel destino dell’uomo segno un punto fermo nella storia della civiltà letteraria17. La caratteristica che unisce ambedue i personaggi è la coscienza “militante”. Alla letteratura siciliana è stato quindi assegnato il privilegio di colmare un ritardo, a sua volta necessario per riflettere sul valore e sulla ragione dell’esistenza umana. Giulio Ferroni denuncia la tendenza ad apparizione degli scrittori impegnati su altri terreni. Lo scrittore si pone cioè di fronte a un mondo passato e la sua continuità nel mondo postmoderno con gli strumenti mentali e catalogatori con cui aveva sempre osservato la
16 Cfr. J. Ugniewska: O zaletach peryferyjności, czyli jak można być Sycylijczykiem. W: Literacki pejzaż Sycylii…, p. 37. 17 Cfr. S. Battaglia: Mitografia del personaggio. Milano, Rizzoli Editore, 1968, p. 516.
resistenza della Sicilia continuamente decrescente18. Di qui il richiamo ad un rapporto difficile ma molto efficace tra memoria storica e ricerca linguistica, alle quali Consolo riconosce di essere “a livello d’indagine”. Un “livello” situato evidentemente nell’aver stabilito un nuovo rapporto con la realtà in cui appaiono mutati i fattori stessi del passato. Alla narrativa ha assegnato il dovere di confrontare la violenza del passato e quella del presente e provare la presenza della stessa continuità di un modo di soffrire e di cercare la via di salvezza. L’interesse per questi scrittori, che, con precisa terminologia, sono stati definiti siciliani, non è un fatto recente, ma ancora in fase di sistemazione critica. Nell’ottica della ricezione che esprime l’orizzonte dell’opera letteraria, si scorge negli scrittori siciliani la coscienza di un dramma e di un dissidio psicologico e quindi la profonda serietà morale dell’ispirazione. L’indagine più recente, mentre respinge l’interpretazione che fa degli autori siciliani le figure periferiche, accetta alcune conclusioni critiche precedenti, ma le integra con una nuova serie di proposte e di riconoscimenti. Vincenzo Consolo vive nella tradizione segnata dagli studiosi quasi esclusivamente per il fatto che fu l’amico, l’ammiratore e l’ereditario letterario di Leonardo Sciascia. Ma accanto a questa immagine esiste un’altra figurazione civica di Consolo, quella del letterato enciclopedico, che fa sentire nelle sue opere, con l’ardore della scoperta e l’ansia di comunicarla, tutto l’amore della scienza, della storia e della cultura. E non è da dimenticare il contegno civile di Vincenzo Consolo. Anche se opera nell’ambiente milanese, in uno stadio di involuzione più profonda, non è lontano dall’atteggiamento di partecipazione. Anzi, risulta propenso a stabilire fra la letteratura e la vita quotidiana un legame, in cui si celebri la nuova teorizzata libertà e dignità del letterato. La letteratura che prende avvio dalla Sicilia è caratterizzata dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime 18
Cfr. G. Ferroni, A. Cortellessa, I. Pantani, S. Tatti: Storia della letteratura italiana. La letteratura nell’epoca del postmoderno. Verso una civiltà planetaria 1968—2005. Vol. 17. Milano, Mondadori, 2005, p. 87.
31 il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme obbediente a molte sollecitazioni. Una letteratura di transizione, segnata da parecchie fortissime personalità di orgogliosi cantori della propria terra e capostipiti della civiltà antica, e da una propensione ai tentativi e agli esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile, contradditoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico, morale ed intellettuale. Esperienza intima e reale è quella che Consolo invera nelle sue opere e che egli fa conoscere distinguendo, su un fondamento assiologico due cose: il valore metaforico di vicende individuali nelle quali ciascuno può ritrovare le proprie passioni e il valore universale dei fatti della storia siciliana con le loro proiezioni ed interpretazioni. Bisogna quindi accostarsi alle opere consoliane come a una cronaca, i cui personaggi rappresentano una specie di dramatis personae, capaci di facilitare il passaggio dalla confessione e dall’indagine psicologica e antropologica ai processi della conoscenza di una più profonda e più complessa realtà, quella che non vive costretta nei limiti di questo, cioè, isolano, spazio. Il significato che assumono gli eventi riportati da Consolo nelle narrazioni, per esempio la strage che conclude il suo ultimo romanzo, risulta assai vasto. Lo spasimo di Palermo sembra una sconfitta della ragione di fronte alla violenza, invece secondo il messaggio metaforico può assumere il valore della presa di coscienza della società civile rinata. Nei romanzi consoliani vi è presente un’immensa esperienza di vita, ed è presente come può esserla a chi non solo la contempla ma anche a chi si mescola fra la vita. I flashback che illuminano l’infanzia difficile dei protagonisti consoliani, la fuga dall’isola e il deludente soggiorno a Milano sono raccontati come il dramma umano che appartiene all’universale travaglio. Questa prosa ci offre, alle soglie della civiltà postmoderna, un’ampia documentazione di fatti e di figure, un quadro mobile e profondo delle società e delle storie diverse. Non sorprende affatto, quindi, che in polemica con l’esistenza e la funzione del confine gli scrittori siciliani non abbandonassero il carattere della loro terra, indicando come correlato della sua consi – 32 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine stenza non la limitatezza causata dal mare, ma la fermezza della vicinanza del continente. Nell’immaginario degli autori siciliani l’isola risulta dunque un paesaggio percepito prima staticamente (da lontano) e poi dinamicamente (dall’interno), in una dialettica giustapposta tra “dentro” e “fuori”, tra spazio guardato e spazio vissuto che corrisponde alla duplice essenza dell’isola stessa, che è per definizione un luogo d’accesso posto al confine con mare, uno spazio in cui si abita in uno spazio in cui si viaggia. Per i siciliani le relazioni di spostamento seguono questa fenomenologia lineare di inoltramento (varcare il confine, passare il mare), che si accorda a un’inclinazione all’esplorazione delle direzioni ben determinate come: l’America, l’Italia e l’Europa occidentale. Nell’intreccio di queste istanze antitetiche ancora più nitido sembra il capovolgimento della situazione siciliana, che affonda in complesse dinamiche sociali e antropologiche. La Sicilia, dall’essere terra di emigrazione, è diventata la terra di immigrazione. La sintesi più valida del ribaltamento avvenuto, la dobbiamo a Leonardo Sciascia che nel suo racconto intitolato Il lungo viaggio presenta la partenza dei clandestini da una spiaggia tra Gela e Licata in cui adesso approdano gli immigrati dal Nordafrica. Un’attenzione più dettagliata al rapporto fra la letteratura e la storia viene espressa molte volte nei libri degli scrittori siciliani contemporanei. All’efficacia della storia reinterpretata dalla scrittura non si può non accostare quella della produzione letteraria sempre più florida che spesso coincide con la prima. L’attenzione per la scrittura siciliana è un fenomeno rilevante e procede di pari passo con le vere esplorazioni delle presenze letterarie che si compiono sempre più sistematicamente. Accanto agli autori e ai temi di massima rappresentatività, vi si trovano quelli più recenti che completano l’artistico panorama siciliano. Tra gli argomenti narrati quelli più frequenti riguardano l’espatrio (in America, in Africa, in Germania) e l’attuale condizione della penisola siciliana. Non di rado gli scrittori siciliani tendono a rappresentarsi in questo luogo in cui si concretizza la loro invenzione. Del ritorno in Sicilia scrivono dunque: D’Arrigo, Brancati, Vittorini, Consolo. Secondo Ignazio Romeo: “Tornare significa infatti anche, metaforicamente, Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine 33 scavare in se stessi e nella propria storia, cercare l’estraneo in quello che si è familiare: guardare, insomma, in profondità e a distanza”19. Ma è vero anche che da questo spazio limitato fisicamente si aprono i grandi percorsi della cultura e della fantasia. Sono due elementi fondamentali che reggono l’asse assiologico della letteratura siciliana, il primo riguardante il dibattito relativo all’attuale e storica esistenza umana e il secondo relativo alla letteratura stessa e il suo ruolo nella nostra modernità. Non si tratta di due realtà distintive che finiscono con lo scontrarsi ma di due componenti che complementandosi occupano un posto considerevole nel panorama letterario non solo siciliano o italiano. La forza dell’autoriflessione letteraria degli scrittori siciliani finisce nella maggior parte dei casi come il metadiscorso. Le domande sul senso dell’arte, poste da Verga e Pirandello — i primi esploratori di tale problematica, hanno un carattere ben definito. Una specie di slittamento metonimico da una fase di lotta per la ricchezza ad uno stadio di lotta per la parola, il contrasto essere/apparire, la permanenza del binomio vita/teatro diventano motivi costanti di chi vuole autointerrogarsi. Non meraviglia dunque il fatto che tutto ciò che Pirandello nomina nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ”il tumulto della civiltà” trae l’ispirazione dalla figura leopardiana del poeta “inattuale” che ha provocato la discussione sulla relazione tra la scrittura e la lettura, l’autore e il pubblico20. Si radica ai nostri occhi l’opinione che la Sicilia sia soltanto il simbolo, l’espediente che consente di stabilire un contatto tra l’uomo e la sua identità. Vincenzo Consolo si dedica alla stesura delle sue opere ricorrendo alla pluralità linguistica che caratterizza la sua espressione letteraria. Accanto all’uso del lessico dell’italiano comune, il prosatore si serve del dialetto siciliano con delle varietà di re19 I. Romeo: Passare il mare. Dall’emigrazione all’immigrazione: cento anni di memorie e racconti nelle pagine degli scrittori siciliani. Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione, Dipartimento dei beni culturali, ambientali e dell’educazione permanente, 2007, p. 12. 20 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura alle domande sulla scrittura. La coscienza letteraria dei siciliani. Caltanissetta, Sciascia, 2003, p. 11. 34 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine gistri e di toni dal domestico familiare al lirico-volgare21. Giuseppe Bellia, analizzando il modo di scrivere consoliano, parla dell’autonomo sviluppo del filone gaddiano rafforzato dalla ricerca costante di linguaggi antichi, di tradizioni locali e di ritualità arcaiche. E nell’affermato gusto barocco dello scrittore riconosce il meccanismo di un reperimento o di un ritrovamento della parola e non della sua invenzione22. Rifiuta le parole e i pensieri comuni, cerca con accuratezza quelle che rinchiudono il più d’accessori, esimio soprattutto nella scelta degli epiteti e dei verbi. Mira ad esprimere molto in poco. Ha l’idolatria della parola, non solo come espressione dell’idea, ma staccata, presa in sé come suono, attento a separare le parole nobili dalle plebee, le poetiche dalle prosaiche, ed raccontare tutto con sincerità. Anche nell’uso delle parole poetiche Consolo segue l’ultimo Verga che invade lo strato sintattico introducendo le formule dubitative. Con questo procedimento lo scrittore ha dichiarato l’allontanamento dal centro ed ha espresso la mancanza di una univocità dei significati23. La prosa consoliana manifesta un’inquietudine uguale causata dall’assenza dell’interlocutore immediato inscrivendosi nell’attuale discorso sulla comunicazione letteraria. Lia Fava Guzzetta nomina Consolo “un intellettuale meridionale, consapevole di una ‘ferita’, di una esclusione e di uno sradicamento”24 che si applica allo studio profondo del passato troppo facilmente rifiutato dalla società odierna. La difficoltà sta nell’impossibilità dell’abbinare la parola di oggi alla rappresentazione della Sicilia di una volta. La narrazione che avviene per frammenti viene paragonata a volte alla dimensione del reportage giornalistico. Anche Giuseppe Traina nel suo saggio dedicato allo scrittore siciliano mette in rilievo l’importanza di questo genere destinato da Consolo alla testimonianza degli avvenimenti accaduti negli ultimi anni come, per esempio, i funerali dello studente Walter Rossi, militante della sinistra extraparlamentare ucciso
21 Cfr. G. Passarello: Un’isola non abbastanza isola. Palermo, Palumbo, 2007, p. 136. 22 Cfr. G. Bellia: L’obliquo percorso della memoria. La scrittura di Vincenzo Consolo tra storia, ritualità e sdegno. In: Sub specie typographica…
23 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura…, p. 15. 24 Ibidem, p. 19.
35 dai neofascisti25. Perciὸ, per evitare l’ambiguità del discorso, Consolo ricorre più volte ad un referente diverso dalla scrittura, appartenente invece al campo delle arti figurative, come i quadri di Antonello, di Caravaggio e di Raffaello, i dipinti di Clerici. Il romanzo Lo spasimo di Palermo vuole essere infatti la manifestazione della forza stilistica orientata verso la ricreazione di una speranza di giustizia e di razionalità nel modo in cui dominano oppressione e terrore anche se la sospensione della comunicazione tra un padre e un figlio espressa tramite il motivo di una lettera rimane una tra le scene più suggestive di questo romanzo che tratta dell’impossibilità della continuazione di scrivere. Consolo è cosciente delle conseguenze della postmodernità così come lo era George Steiner che nel Linguaggio e silenzio parla dell’esaurimento dell’era verbale e del dominio delle forme “postlinguistiche” e addirittura del silenzio parziale26.
25 Cfr. G. Traina: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo, 2001, p. 21. 26 Cfr. G. Steiner: Linguaggio e silenzio. Milano, Garzanti, 2001, p. 56.
Aneta Chmiel ” Rompere il silenzio I romanzi di Vincenzo Consolo“
Ports as locus of the Mediterranean imaginary Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo
by
Maria Roberta Vella
In Partial Fulfillment of the Requirements of the Degree of
Master of Arts in Literary Tradition and Popular Culture
August 2014
Faculty of Arts
University of Malta
I dedicate this thesis to you, dear father. You showed me with your constant love, that whatever I do with persistence and commitment will open the doors to my destiny. The long nights I spent awake, reading and researching reminded me of the long nights you spent awake working, pennitting me to study and build my future. Your sacrifices are always accompanied by a constant smile that continuously gives me courage in difficult moments.
ACKNOWLEDGMENTS
The number of people to whom I owe my accomplishments is far too long to fit on this page, as many have inspired me and given me their constant support which has helped me realize that knowledge could open doors I did not even know existed. Nevertheless, there are a number of people who I would like to mention as they have been there for me during tough times and have given me the support I needed. I would like to thank my family without whom I would not have been able to further my studies, my boyfriend Terry, who has always believed in me and has always been there to support me with his constant love, and my uncle Carlo, who from an early age fed me with books and literature that fostered my love of knowledge and the curiosity to find my inner self. I would also like to thank my dearest colleague Ray Cassar, who always helped me grow both academically and as a person, as well as my tutor and mentor Adrian Grima, who directed me, allowing me to ground and express my ideas better whilst always respecting and valuing my opinions.
II
Table of Contents
1 Introduction …………………………………………………………………………………………. 2
1.1 The Harbour as Threshold ………………………………………………………………. 7
1.2 The Port as a Cultural Lighthouse ………………………………………………….. 10
1.3 The Mediterranean Imaginary of Izzo and Consolo Inspired by the Port12
1.4 Conclusion ………………………………………………………………………………….. 16
2 The Harbour as Threshold …………………………………………………………………… 1 7
2.1 Natural Landscape and the Development of Literature …………………….. 20
2.2 Instability vs. Stability in the Mediterranean Harbour ………………………. 23
2.3 The Prototypical Sailor …………………………………………………………………. 27
2.4 The Harbour as a Metaphorical Door ……………………………………………… 34
3 The Port as a Cultural Lighthouse ………………………………………………………… 38
3.1 Religious Cultural Mobility ………………………………………………………….. 43
3.2 The Lingua Franca Mediterranea as a Mode of Communication ………. 49
4 The Mediterranean Imaginary of Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo
Inspired by the Port ………………………………………………………………………………….. 58
4.1 The Mediterranean Imaginary in Izzo and Consolo ………………………….. 60
4.2 The Mediterranean Imaginary in Popular Culture ……………………………. 69
4.3 Conclusion ………………………………………………………………………………….. 76
5 Conclusion ………………………………………………………………………………………… 78
5.1 The ‘Imaginary’ of the Mediterranean ……………………………………………. 80
5.2 The Mediterranean ‘Imaginary’ Beyond the Harbour ……………………….. 84
6 BIBLIOGRAPHY……………………………………………………………….. .. 9?.
III
Abstract
The Mediterranean harbour is a place of meeting, of encounters between
civilizations, of clashes, wars, destructions, peace; a place where culture comes to live, where art is expressed in various ways and where authors and thinkers have found inspiration in every comer. The harbour imposes a number of thresholds to the person approaching it. This threshold could have different fonns which could be emotional, geographical, spiritual or cultural. Authors such as Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo lived and experienced the Mediterranean harbour in all its aspects and expressions; their powerful experience resulted in the formation of important images referred to as ‘imaginary’. The Mediterranean imaginary is the vision of various authors who have been able to translate facts and create figures and images that represent a collective, but at the same time singular imagination. The harbour is an important part of the Mediterranean geographical structure and thus it has been the main point of study for many examining the region. Factors such as language have transformed and suited the needs of the harbour, being a cultural melting pot.
1 Introduction
The Mediterranean is represented by chaos, especially in the harbour cities that are witness to the myriad of cultures which meet each and every day to discuss and interact in the harbour. It is imperative to state that chaos, as the very basis of a Mediterranean discourse has been fed through the different voices fonned in the region. These same voices, images and interpretations have found a suitable home in the Mediterranean harbours, places where literature and culture managed to flourish and where the so-called ‘margins’, both geographical and social, found centrality. The harbour has acquired significance in the discourse on the Mediterranean and thus on how literature and cultural expedients and the vaiious authors and artists recall the harbour as an anchorage point for their deep thoughts about the region. 1
Nowadays, the unification of the Mediterranean seems a ‘utopia’, since the Mediterranean is politically perceived as a region full of borders and security plans. One may easily mention the various strategic moves put forward by the European Union to safeguard the northern Mediterranean countries from migration from North African shores. By applying and reinforcing these security plans, the Mediterranean has become ever increasingly a region of borders. It is also important not to idealize the Mediterranean past as a unified past, because the 1 Georges Duby Gli ideali def Mediterraneo, storia, jilosojia e letteratura nella cultura europea
(Mesogea, 2000) pp.80-104
2
region was always characterized by conflict and chaos. Despite the chaos that was always part of the Mediterranean, being a region of clashing civilizations, it managed to produce a mosaic of various cultures that is visible to the eye of the philosopher or the artist. The artist and the philosopher manage to project their thoughts and ambitions for the region; therefore they are able to see hannony in a region that seems so incoherent. The aim of my thesis is to understand why the harbour is crucial in the construction of the Mediterranean imaginary. Both open space and border, the port, as in the case of Alexandria or Istanbul, has for a long time been a center for trade, commerce and interaction. Therefore, it is imperative to focus on the study of the harbour and harbour cities to be able to give substance to a study about the Mediterranean as a complex of imaginaries. The boundaries in the study about the Mediterranean have a special place; in fact a boundary that may be either geographical or political has the ability to project and create very courageous individuals that manage to transgress and go over their limits when facing the ‘other’. In the Mediterranean we perceive that the actual reason for transgressing and overcoming a limit is the need of confonning or confronting the ‘other’, sometimes a powerful ‘other’ able to change and shift ideas, able to transpose or impose cultural traits. Yet, the Mediterranean in its multicultural environment has been able to maintain certain traits that have shaped what it is today. Through movement of people in the region, the Mediterranean has been able to produce a number of great innovations, such as the movement of the Dorians who moved from the south all along the 3 Greek peninsula, and also the ‘sea people’ that came from Asia and, being hungry and thirsty, destroyed whatever they found. The same destruction and movement resulted in the creation of three important factors for the Mediterranean: the creation of currency, the alphabet, and marine navigation as we know it today. The various movements also contributed to the fonnation of the person as a free being with the ability to move freely. Therefore, movement and the overcoming of boundaries in the Mediterranean have contributed greatly to the fonnation of civilization itself.2 A board, today found in the museum of Damascus, with an alphabet very similar to the Latin one written on it, was very useful as it was very simple in its structure. This confirms a high level of democracy, as civilization meant that each individual had the possibility of knowing and understanding what his leaders understood. We get to understand that in the Mediterranean each person can practice his freedom by travelling out at sea and engage in trading. All this was made possible by the same interactions and conflicts raised in the region. Conflicts though are not the only factor that promoted the interaction and the fonnation of interesting cultural and literature in the Mediterranean, as we know it today. Art and culture have been means by which the various conflicts and interactions took life and expressed the deep feelings that inhabited the soul 2 Georges Duby Gli ideali de! Mediterraneo, storia, filosofia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp. 80-104
4
of the artist. Karl Popper3 states that the cultural mixture alone is not sufficient to put the grounds for a civilization and he gives the example of Pisistratus, a Greek tyrant that ordered to collect and copy all the works of Homer. This made it possible to have a book fair a century later and thus spread the knowledge of Homer. Karl Popper wants to tell us that art and culture have deeply influence the fonnation of a general outset of the region and that the fonnation of the general public is not something that comes naturally, but is rather encouraged. The Greeks in this sense were directly fed the works of Homer by the diffusion of the works themselves. On the other hand, the majority of Greeks already knew how to read and write, further enabling the diffusion of knowledge. Art and architecture are two important factors that have detennined the survival of empires and cultures through time. When artists such as Van Gogh were exposed to the Mediterranean, they expressed art in a different way and when Van Gogh came in contact with the Mediterranean region, the French Riviera and Provence in particular, he discovered a new way of conceiving art. In a letter that Van Gogh wrote to his sister in 1888, he explained that the impact the Mediterranean had on him had changed the way he expressed art itself. He told her that the colours are now brighter, being directly inspired by the nature and passions of the region. The Mediterranean inspired Van Gogh to use a different kind of colour palette. If the art expressed by Van Gogh that is inspired by the Mediterranean is directly 3 Georges Duby Gli ideali del Mediterraneo, storia, jilosofia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp. 80-104
5 represented and interpreted by the spectator, the region manages to be transposed through the action of art itself.4 The way in which the thesis is structured aims to focus on the vanous images created by poets, popular music and art. Each chapter provides evidence that the harbour has been the centre of attention for the many authors and thinkers who wrote, discussed and painted the Mediterranean. The thesis aims to prove that certain phenomena such as language and religion have contributed to a knit of imaginaries, the layout of certain events such as the ex-voto in the Mediterranean and the use of Sabir or Lingua Franca Mediterranea, which shows how the harbour managed to be the center of events that shaped the cultural heritage of the Mediterranean. The language and religious movement mentioned have left their mark on the Mediterranean countries, especially the harbour cities, which were the first cities encountered. The choice of the harbour cities as the representation and the loci of a Mediterranean imaginary vision is by no means a casual one. In fact, the harbour for many centuries has been the anchorage point not only in the physical sense but also emotionally and philosophically for many authors and thinkers, two of which are Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo, extensively mentioned in the dissertation. These two authors are relevant for the purpose of this study as they manage to create a vision of the Mediterranean, based on their personal experience and influenced by 4 Georges Duby Gli ideali de! Mediterraneo, storia, jilosojia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp.43-55
6 the harbour from which they are looking at the region and observing the
Mediterranean. Popular culture ‘texts’ such as movies and music based on the interaction between the person and the Mediterranean region have an important role in the study, as they represent the first encounter with the harbour. It is a known fact that in the postmodern era where technological means have a broader and deeper reach, popular culture has become the first harbour in which many find anchorage. Therefore it would be difficult to mention literature works that have shaped the Mediterranean without mentioning the popular texts that have constructed images about the region that intertwine and fonn a complete and powerful image. The relevance of each factor is well defined in this study, delving deep in not only popular culture but also in language and various historical events that have transformed the Mediterranean, providing examples of how factors such as geographical elements, spirituality, devotion and passion have transfonned the way in which we perceive a region.
1.1 The Harbour as Threshold The first chapter focuses on the harbour as a threshold between stability and instability, between wealth and poverty, between mobility and ilmnobility. The various elements that constitute the harbour always convey a sense of ‘in between’ to the person approaching. The very fact that the harbour seems to be a place of insecurity gives the artists and authors a more stimulating environment to 7 write about their feelings and to contrast them with the ever-changing and chaotic enviromnent of the harbour. The way in which the natural landscape manages to influence the poetic and artistic expression is of great relevance to the study of the Mediterranean region, especially with regards to the study of the harbour. Poets such as Saba and Montale wrote about the way in which nature felt as a personified figure, able to give hope and change the way poets look at the world.
They also wrote about nature in the Mediterranean as being an impmiant feature
shaping the way in which history and culture developed.
The sailor as a representation of a Mediterranean traveller is often found in
literature especially with regards to the notion of the harbour as an image of the
Mediterranean culture. Many authors such as Jean-Claude Izzo and Vincenzo
Consolo wrote about the figure of the sailor in relation to the sea and everyday life in Mediterranean harbours. The novels fl Sorriso dell ‘Ignoto Marinaio by
Vincenzo Consolo and Les Marins Perdus by Jean-Claude Izzo are written in two
different geographical areas of the Mediterranean and reflect two different
periods, but they are tied by an expression of a Meditemm~im i1rn1eirn1ry and
somehow recall common features and aspects of the harbour. Both novels manage to transpose their authors’ personal encounter with the Mediterranean, therefore
recalling their own country of birth. The novels are somewhat personal to the
authors; Consolo recalls Sicily while Izzo often refers to Marseille. The fact that
the novels are projecting two different areas and two different points of view on
8
the Mediterranean proves that by gathering different experiences related to the
region, a rich imaginary is created.
The harbour is a door, an entryway to a new world, and borders. Security
and expectations are all part of the experience of the threshold when entering a
country, especially in the Mediterranean, where thresholds are constantly present and signify a new and exciting experience that leads to a new interpretation of a Mediterranean imaginary. The way in which the harbour acts as an entryway suggests that what lies beyond the harbour is sometimes a mystery to the traveller.
Literature greatly contributes to the fonnation of ideas, especially in regard to the fonnation of thoughts such as the idea of a Mediterranean imaginary, but there is another element of fundamental importance to the formation of ideas on a generic line, which is popular culture. High-culture, referring to elements such as art, literature, philosophy and scholarly writings, creates a common understanding between an educated public. Popular culture refers to the section of culture that has a common understanding between the public. High-culture and popular culture have the power to transform what is mostly regarded as pertaining to high society; literature is constantly being reinterpreted and transfonned by popular culture to be able to reach a greater audience.
9
1.2 The Port as a Cultural Lighthouse The imp01iance of natural landscape which detennines the success or failure of a harbour, also detennines a number of historical events. In this sense, the Mediterranean is a region that has been naturally set up with a number of very important harbours that consequently fonned a particular history. The image of the harbour could be compared to the image of the lighthouse, which is part of the harbour itself but at the same is a distinct entity that in some cases had a role which went beyond its initial role of guidance and assumed almost a function of spiritual assistance. 5 The symbol of the lighthouse is also tied to knowledge and therefore the lighthouse has the ability to give knowledge to the lost traveller at sea, it is able to show the way even in uncertainties. The lighthouses in the Mediterranean had the ability to change through ages and maintain a high historical and cultural meaning; their function is a matter of fact to give direction to the traveller, but in certain cases it has been used to demarcate a border or as a symbol of power.
The Mediterranean Sea has witnessed different exchanges, based on belief,
need and sometimes even based solely on the search of sel£ Among these modes
of exchange and these pretexts of voyage in the Mediterranean, we find the exvoto and the movement of relics. Both types of exchange in the region have in
common at the basis religion that instilled in the traveller a deep wish to follow a
5 Predrag Matvejevic Breviario Mediterraneo (Garzanti: 2010)
10
spiritual path. These exchanges resulted in an increasing cultural exchange. The
ex-voto6 shows a number of things. One of these things is that the very existence
of ex-voto proves a deep connection with the geographical aspect in the
Mediterranean and therefore proving that the region is a dangerous one. In this
sense, people in the Mediterranean have shown their gratitude to God or the
Virgin Mary in the fonn of ex-voto after a difficult voyage at sea. On the other
hand, the ex-voto shows how popular culture mingles with the spiritual experience and the way in which a person expresses gratitude to the divine. The ex-voto paintings have a special way of being identified. The saint or in most cases Virgin Mary, is usually set in a cloud or unattached from the sea in a tempest. Another element that shows if a painting is or is not part of an ex-voto collection, is the acronyms found in the bottom of every painting V.F.G.A (votum facit et gratiam accepit). The use of Latin demonstrates the vicinity to Christianity, whilst the words meaning that ‘I made a vow and I received grace’ prove the tie between the tragedies at sea and the grace given by God. The difficult Mediterranean geographical predisposition, discussed by Femand Braudel7 has developed an abundance of devotion that transformed to shrines and objects of adoration and gratitude. These same shrines, objects and materials that were most of the time exchanged and taken from one place to another, have deeply enriched the Mediterranean with cultural objects and the same shrines are nowadays part of a collective cultural heritage.
6 Joseph Muscat Il-Kwadri ex-voto Martittimi Maltin (Pubblikazzjonijiet Indipendenza, 2003) 7 Fernand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II
(Fontana press: 19 8 6)
11
1.3 The Mediterranean Imaginary of Izzo and Consolo Inspired by the
Port The Mediten-anean for Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo revolves around the idea of a harbour that gives inspiration because it is in essence a border where ideas meet and sometimes find concretization. The Mediterranean harbour for centuries has been a meeting place for people and cultures, thus creating a region full of interactions on different levels. The imaginary for both authors has been shaped by both cultural elements and by the literary elements that find a special place in the mindset of the author. Culture as a popular expression of the concept of the Mediten-anean has developed in different ways, one of which is the projection of the harbour and the Mediterranean itself through media and advertising. Various elements such as the touristic publicity or the actual reportage about the harbour and the Mediten-anean have widened the horizon and the imaginary of the region. In advertisements, the Mediterranean has been idealized in some ways and tends to ignore controversial issues such as ‘migration’; advertising also tends to generalize about the Mediterranean and so mentions elements such as the peaceful and relaxing way of life in the region. Advertisement obviously has its own share in the building of an ‘imaginary’ of the region, but it may also create confusion as to what one can expect of the region. On the other hand, the reportage about the Mediterranean harbour and the region itself focuses more on everyday life in the Mediterranean and common interactions such as encounters with fishennen. Nevertheless, when mentioning 12 the MediteITanean even the reportage at times makes assumptions that try to unite the MediteITanean into an ideal space and it sometimes aims to give an exotic feel to the region. Yet there are a number of informative films that have gathered important material about the MediteITanean, such as the French production Mediteranee Notre Mer a Taus, produced by Yan Arthus-Bertrand for France 2.8 The difference between the usual promotional or adve1iising video clips and the documentary film produced for France 2 was that in the latter the focus points were an expression of the beauty of the whole, whereas in the fonner, beauty usually lies in the common features that for marketing purposes aim to synthesize the image of the Mediterranean for a better understating and a more clear approach to the region. The harbour and other vanous words associated to the concept of the harbour have been used in many different spaces and areas of study to signify many different things other than its original meaning, and this makes us realize that the harbour itself may hold various metaphorical meanings. We have seen the way in which the harbour served as a first spiritual refuge or as an initial salvation point, but it is also interesting to note how the harbour is conceptually seen today,
in an era where globalization has shortened distances and brought down barriers. Nowadays, the harbour is also used as a point of reference in the various technological terms especially in relation to the internet, where the ‘port’ or 8 Yan Arthus-Betrand Mediteranee notre mer a taus (France 2, 2014)
www.yannarthusbertrand.org/ en/films-tv/–mediterranee-notre-mer-a-tous (accessed February,
2014)
13
‘portal’ refers to a point of entry and thus we perceive the main purpose of the harbour as being the first point of entry as is in the context of infonnation technology. The concept of core and periphery has deeply changed in the world of Internet and technology, as the concept of core and periphery almost disappeared. Similarly, the Mediterranean’s core and pe1iphery have always been in a way different from what is considered to be the nonn. Geographically, the core could be seen as the central area, the place where things happen, whereas in the Mediterranean, the periphery acquires almost the function of the core. The harbour is the geographical periphery; neve1iheless, it acquires the function of the core. The islands for example are usually centres, whereas in the Mediterranean they are crossroads rather than real centres of power. In nonnal circumstances the relation between core and periphery is something that denotes not only the geographical location of a place but it usually also refers to economical, social and cultural advancement. Therefore, in the Mediterranean region the concept of geographical centre and economical and social centres are different from their usual intended meaning.
The Mediterranean imaginary has developed in such a way that it
purposely distorted the concepts such as the standard core and periphery or the usual relationship between men and nature or between men and the various borders. In the Mediterranean imaginary, which as we have mentioned is being fed by various authors and popular discourse, has the ability to remain imprinted in our own thoughts and thus has the ability to reinterpret the region itself; we find 14 that the usual conceptions change because they suit not only the region but the author that is writing about the region. The way in which the various authors and artists who describe the Mediterranean are faced with the ongoing challenges presented by the region shows how in essence each and every author has their own personal approach to the region. Their works are essentially a personal project which lead to the enriclunent of the region’s imaginary. The differences between each and every author makes the ‘imaginary’ and the accounts about the Mediterranean much more interesting and ersonalized.
Consolo9 and Izzo10 have different ways of perceiving the region and
although they both aim to create an ‘imaginary’ that may recall similar features, it is undeniable that there are substantial differences in their approach. Consolo on the one hand focuses a lot on the image of Ulysses as a figure that represents him in his voyage in search of the self. Ulysses for Consolo is a figure that manages to preserve a meaning even in the modem era, a figure that is able to travel through time all the while reinventing the Mediterranean. Izzo as well feels that the figure of Ulysses is imperative to the study of the Mediterranean, but he mostly focuses on the impact of the present experience of the region on the conception of a Mediterranean ‘imaginary’ rather than focusing on the past as a representation of the present situation. 9 Vincenzo Consolo Il Sorriso dell’Ignoto Marinaio (Oscar Mondadori: 2012) 10 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) 15
1.4 Conclusion
The Mediterranean has been seen as a region full of inconsistencies,
contradictions and conflicts, based mainly on the divergent ideas and cultures residing in the same area. The Mediterranean imaginary does not exclude the conflicts that are present in the region and does not aim to unify the region, and in doing so it aims to give voice to the region. For the various authors and thinkers that are mentioned in the thesis, the Mediterranean has transmitted an emotion or has been able to create the right environment to express ideas and fonn thoughts. The relevance of each and every author within the framework of this thesis shows that without analyzing the single expression about the region, through the various works, one cannot fonn an imaginary of the Mediterranean region. The various concepts of borders, thresholds, conflicts and cultural clashes manage to mingle with each other in everyday life in the Mediterranean – greater ideas and fundamental questions find resonance and meaning in simple everyday interaction between a common sailor and a woman at a bar. The Mediterranean in essence is the voyage between the search for deep roots and the analysis of the clashes that result from this search for roots. The study of the Mediterranean is the constant evaluation of boundaries and the search for the ‘self’ through a wholly subjective analysis of the ‘other’. The imaginary plays a fundamental role in bringing near the ‘roots’ and the ‘present’, and the ‘self’ and the ‘other’.
16
2 The Harbour as Threshold The Mediterranean harbour for many authors and thinkers is a starting point as well as a dying point of the so called ‘Mediterranean culture’. In fact many sustain that the ‘MediteITanean culture’ takes place and transfonns itself in its harbours. This concept does not have to confuse us in assuming that a ‘Mediterranean culture’ in its wholesomeness really does exist. There are elements and features that seem to tie us; that the sea so generously brought ashore. On the other hand the same sea has been keeping things well defined and separate. The harbour as the first encounter with land has always maintained an important role in the formation of ideas and collective imagination. The harbour is not selective in who can or cannot approach it and so the fonnation of this collective imagination is a vast one. It is also important to state that the harbour in itself is a place of contradictions, a place where everything and nothing meet. The contrasting elements and the contradictions that reside in Mediterranean ports are of inspiration to the various authors and thinkers who study the Mediterranean. In this sense they have contributed in the formation of this Mediterranean imagination. Literature is an important factor that contributes to a fonnation of a collective imagination; it would be otherwise difficult to analyze the Mediterranean without the help of literature, as the fonnation of a collective imagination was always fed through literature and cultural expedients.
17
The Mediterranean region, as we shall see, is an area that is somehow
constructed; a person in France may not be aware of what a person in Morocco or in Turkey is doing. The concept of a constructed Mediterranean may be tied to the anthropological study conducted by Benedict Anderson 11 where he states that the ‘nation’ is a constructed concept and may serve as a political and somehow economic pretext. The sea is navigated by both tragic boat people and luxurious cruise liners, and these contradictions seem to be legitimized in the Mediterranean region. To give two recent examples we can observe on a political sphere, the European Union’s decision to fonn a Task Force for the Mediterranean (TFM) whose aims are to enhance the security of its shores and to drastically reduce deaths at sea. The TFM is a recent initiative that follows a number of proposals at a political level that have the Mediterranean security at heart. 12 This idea was triggered by a particular event that saw the death of 500 migrants off Lampedusa. It clearly poses a question whether the Mediterranean is a safe place or not, and whether it remains in this sense appealing to touristic and economic investment. The TFM probably reinforces the idea that the Mediterranean is a problematic region and thus requires ongoing ‘security’. To reconnect to the main idea, the TFM reinforces the notion that the Mediterranean is a constructed idea where access from one shore to another is denied and where one shore is treated as a security threat whereas the other shore is treated as an area to be protected or an 11 Benedict Anderson, Imagined communities (Verso, 1996)
12 Brussels, 4.12.2013 COM (2013) 869 Communicationjiwn the commission to the European Parliament and the council on the work of the Task Force Mediterranean 18 area that is unreachable. The contradictions keep on adding up when we see the way the Mediterranean is portrayed for economic and touristic purposes. One example is the ‘Mediterranean port association’ that helps the promotion of cruising in the Mediterranean region providing assistance to tourists who would like to travel in the region. In this context the Mediterranean is used in a positive way in relation to the touristic appeal it may have. The construction of a Mediterranean idea is by no means restricted to an economical or a political discourse; it has deeper roots and meanings that have fonned through a history of relations between countries and of fonnations of literary expedients. For Franco Cassano13, the Mediterranean is a region that in essence is made of differences, it would be otherwise difficult to justify the clashes that have characterized the Mediterranean history, if it was not for the fact that we are all aware that it is a region made up of dissimilarities On the other hand it is due to these dissimilarities that the Mediterranean is an appealing region both for authors and for travelers alike.
13 Franco Cassano,Danilo Zolo L ‘alternativa mediterranea (Milano:Feltrinelli, 2007)
19
2.1 Natural Landscape and the Development of Literature Nature and literature are two elements that intertwine and thus create a collective imagination around the concept of the Mediterranean harbour. In fact, the dialectic between natural landscape and poetic expression was always a matter of great relevance as nature constantly managed to aid the development of poetic expression. The natural landscape helps the fonnation of existential thoughts, such as life, death and the existence of men – thoughts that are always reinterpreted and reinvented through literature. This relation between men and nature was always important in configuring spaces and detennining them according to a common understanding. 14 In the poem of Giacomo Leopardi Dialogo delta Natura e di un Islandese, Nature is personified, and although the indifference and coldness of nature is palpable, we sense that the poet is being aided by nature in fanning his ideas about life itself. Through time and especially through globalization, the world is being interpreted in terms of geographical maps and technology is subsequently narrowing our concept of space and enlarging our concept of life. In the new modem dimension, where the concept of space has acquired an abstract meaning, literature leaves the possibility of dialectic relationship between men and nature, thus enabling men to perceive the places they inhabit as a significant part of their self-construction process. This concept takes us to the perception created around the Mediterranean region and especially the way people look at 14 Massimo Lollini fl Mediterraneo de/la contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Quest: 2009) pp.358-372
20
figures such as the sea, the ports and the shores. In Giambattista Vico’s15 poetic geography we understand that the representation of geography through poetic expression is something that dates back in time, through a cosmic representation of senses and feelings. In this regard, Montale and Saba both express in a relatively modem tone the deep representation of the Mediterranean through a mixture of contrasting feelings and ideas. The image of the harbor and any other images in the Mediterranean are deeply felt and analyzed, through the eyes of the poets that live in the region. Montale uses the dialectic of memory to explain his relationship with the Mediterranean, a region locked in its golden age that lives through the memory of poets and authors. He refers to the Mediterranean as ‘Antico ‘ emphasizing the fact that it is an old region. The word ‘Antico ‘ does not merely refer to oldness, but to oldness combined with prestige. The memory characterizes the Mediterranean for Montale, the image of the sea for instance is an archaic image that notwithstanding holds a modem and yet spiritual meaning as it expresses a sense of purification. The sea with its movement brings ashore all the useless and unwanted elements. On the other hand the sea may be seen as a fatherly figure that becomes severe in its actions and makes the poet feel insignificant and intimidated. Montale’s aim was to overcome the threshold between artistic expression and natural landscape through a dialogue with the Mediterranean Sea. This aim was not fulfilled. Montale tried hard to express artistically what the Mediterranean Sea meant but ended his poem humbly putting himself at a lower stage in comparison to the greatness of the Sea. Montale fills 15Massimo Lollini Il Mediterraneo della contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Ouest: 2009)
21 his poetry with a mixture of humility and paradoxes; two elements that keep on repeating themselves in the poetry concerning the MeditelTanean.
Furthennore, in Umberto Saba’s ‘Medite1Taneet16 we encounter the same
contrasts and paradoxes used by Montale to develop the figure of the
MeditetTanean Sea. Saba uses the microcosm of Trieste to explain a larger
macrocosm: The MeditetTanean. This technique renders his work more personal and gives it a deeper meaning. Saba and Montale both rely on the memory to express a feeling of deep ties with the element of the sea and the life of the MeditelTanean harbour. Saba’s MeditelTanean resides in his microcosm, personal encounters and experiences fonn his ideas about the region; a region he perceives as being full of fascinating contradictions.
‘Ebbri canti si levano e bestemmie
nell’Osteria suburbana. Qui pure
-penso- e Mediterraneo. E il mio pensiero
all’azzulTo s’inebbria di quel nome.’ 17
‘Drunken songs and curses rise up
in the suburban tavern. Here, too,
I think, is the Mediterranean. And my mind is
drunk with the azure of that name.’ 18
16 Umberto Saba, translated by George Hochfield: Song book the selected poems of Umberto Saba
\V\V\V. worldrepublicofletters.com/excerpts/songbook excerpt.pdf (accessed, July 2014)
17 Massimo Lollini fl Mediterraneo della contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Ouest: 2009) pp.358-372
22
Saba mingles his personal classicist fonnation expressed in the ‘all’azzurro’
with the poorest part of the Mediterranean harbour ‘l’osteria’. Both factors are intertwining, and so, the Mediterranean for Saba is the combination of both the richness of classicist thoughts that fonned in the Mediterranean as well as the meager elements that fonned in its po1is; yet they embellish and enrich the concept of the Mediterranean. Saba is searching for his personal identity through the search for a definition to the Mediterranean. In his art he attempts to portray the very heart of the MediteITanean which is found in his abyss of culture and knowledge with the everyday simple life of the harbours. 2.2 Instability vs. Stability in the Mediterranean Harbour In Saba and Montale’s works, the fascinating inconsistencies in the Mediterranean seem to find a suitable place in the ports and in the minds of each and every author and thinker who encounters it. The notion of stability and instability finds its apex in the port. The sea is the synonym of instability, especially in the Mediterranean, being depicted as dangerous and unpredictable. As in the recounts of the Odyssey, the sea, and the Mediterranean as a whole, is a synonym of instability and thus prone to natural catastrophes. The Homeric recounts of Ulysses’ journey explore the Mediterranean that was previously an unknown place. Although the places mentioned by Homer are fictitious, they now 18 Umberto Saba, translated by George Hochfield: Song book the selected poems of Umberto Saba
www.worldrepublicofletters.com/excerpts/song:book _excerpt.pdf (accessed, July 2014)
23
have a general consensus over the definition of the actual places. As time went by historians and authors went on confinning what Homer had depicted in his Odyssey – a Mediterranean that constantly poses a challenge, danger and fascination at the same time. Femand Braudel in his ‘Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip the II’ 19 sustains the view of a difficult Mediterranean, of a succession of events that have helped the success of the Mediterranean for a period of time. Its instability and complication have not aided the area in maintaining its ‘golden age’. This discourse was reinvented by Horden and Purcell in ‘The Corrupting Sea’20 where the Mediterranean meets geographically, historically and anthropologically. In ‘The Corrupting Sea’ the view of Femand Braudel is expanded into what the Mediterranean meant
geographically and historically, therefore Horden and Purcell explain that the inconsistencies and natural features in the Mediterranean really contributed to bring the ‘golden age’ to an end, but they were the same features that brought on the rich culture around the Mediterranean countries in the first place. Where literature is concerned, the inconsistencies and natural features served as an inspiration to various authors who went on fonning the collective imagination around the Mediterranean. Therefore, it could be argued that the geographical
complexity of the region is in fact the tying point to the ‘Mediterranean’ itself that resides in the unconscious and that otherwise would have died with its economical shift towards other areas of interest. The problematic identity and the challenging 19 Femand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (Fontana press: 1986)
20 Peregring Horden, Nicholas Purcell The Corrupting sea, a study of the Mediterranean histmy (Blackwell publishing: 2011)
24
natural enviromnent brought by an ongomg sense of curiosity and attraction towards the Mediterranean region. The port is the first encounter with stability after a journey that is characterized by instability, at the surprise of the inexperienced traveler. However, the port does not always covey immovability. The p01i gives a sense of limbo to the traveller that has just arrived. It is a safe place on the one hand but on the other hand due to its vicinity to the sea, it is as unpredictable as the sea itself The sailor is a frequent traveler who knows and embraces the sea. He chose or has been forced to love the sea, to accept the sea as his second home. The sailor is in fact the figure that can help us understand the fascination around the Mediterranean and its ports. It is not an unknown factor that sailors and their voyages have captured the attention of many authors that tried extensively to understand the affinity sailors have to the sea. The sailor21 is a man defined by his relation with the sea and is a recurrent figure in a number of literature works all over Europe and the rest of the world. The sailor is the incarnation of the concept of human marginality, he lives in the margin of life and he embraces the marginality of the harbour with the different aspects of the port. The thresholds present in the port are represented by the sailor; a figure that lives between the sea and land, between betrayal and pure love,
between truth and lie. Like the portrayal of Odysseus, the concept of a sailor has 21 Nora Moll Marinai Ignoti,perduti (e nascosti). fl Mediterraneo di Vincenzo Consolo, JeanClaude Izzo e Waciny Lare} (Roma: Bulzoni 2008) pp.94-95
25
infidelic properties. He carnally betrays his loved one, but he is psychologically anchored to one women for his whole life; a women who is always present in various thoughts but at the same time she is always physically distant. As we will see in various works, the sailor is in constant search of knowledge – the very same knowledge that brought him to love and embrace the sea. The knowledge that is conveyed through the action of travelling itself is another question that would require a deep analysis, but for the sake of our study the fact that knowledge is transmitted through the depth of the sea is enough to make a com1ection with the purpose by which the sailor travels. The sailor fluctuates between sea and land, between danger and security, between knowledge and inexperience. The thresholds are constantly overcome by the curious and free spirited sailor that embarks in this voyage to the discovery of his inner-self. The literary voyage of the sailor in the Mediterranean takes a circular route while it goes deep in ancient history and ties it to modem ideas. Since the sailor is not a new character but a recurring one in literature and culture it has the ability to transfonn and create ideas giving new life to the Mediterranean harbours. While the seamen are the link between the high literature and the popular culture, the sailor does not have a specific theme in literature but the archetype of ‘the sailor’ has a deep resonance in many literary themes. As Nora Moll states in one of her studies about the image of the sailor, she puts forward a list of common themes associated with the image of the sailor:
26
‘Tra i complessi tematici, a cm m parte ho gia accem1ato,si
annoverano l’avventura, il viaggio, l’eros, l’adulterio, il ritorno, il
superamento di limiti (interiori) e di sfide ( esterne ), la liberta, la vita
come “navigatio” e come intrigo conflittuale di esperienze. ’22
‘Amongst the complex themes, which I partly already mentioned, we
find adventure, travel, Eros, adultery, the return, the overcoming of
limits (interior) and challenges (exterior), freedom, life as “navigatio”
and as a conflictual intrigue (or scheme) of experiences.’
2.3 The Prototypical Sailor The interesting fact about the study conducted by Nora Moll is that the sailor in her vision is not merely a figure tied to a specific social class, but as we can see the themes listed are themes that can be tied also to the figure of Ulysses. It is difficult to say that Ulysses or the image of the sailor own a predestined set of themes, and in fact they do not necessarily do so. Ulysses is a character that comprehends certain themes, but these change and shift in accordance to space, time and circumstances. What does not change is the thresholds that are always present in the life of a sailor, the limits that are constantly there to be overcome and the external challenges that need to be confronted. The harbour conveys a 22 Nora Moll Marinai Jgnoti,perduti (e nascosti). I! Mediterraneo di Vincenzo Consolo, JeanClaude Izzo e Waciny Larej (Roma: Bulzoni 2008) pp.94-95
27
number of thresholds; as we have seen these are embodied in the figure of the manner. Jean Claude Izzo in his Les Marins Perdus23 wrote about the discomfort of sailors having to forcedly stay on land and their relationship with the harbor, a passing place that has a special meaning. The harbor is in fact a special place for the mariner, as it is the only place where they can have human contact beyond that of the crew. The mariner in Jean Clause Izzo does not feel that he belongs to any nation or country. He belongs to the sea; a sea that managed to give meaning to his life but at the same time managed to destroy it. Jean Claude Izzo uses strong images of the port to describe the tie the sailor has to the harbour itself, he uses sexual and erotic images and ties them to legends and popular culture expedients. The story is interesting because of the way Jean Claude Izzo reverses the way sailors live. In fact he recreates a story where the sailor is trapped in the harbour and so he is forced to view the sea from land and not the other way round as he usually does. The psychological discomfort that Jean Claude Izzo creates portrays the Mediterranean archetypes and the life in the ports from a reverse point of view. Everyday life in the harbour is analyzed through a succession of tragedies that on one hand recall the classicist view of the Mediterranean, and on the other hand, due to references to everyday life elements, may be easily connected to the modem conception of the Mediterranean port. The links created by Jean Claude Izzo are made on purpose to create an ongoing bond between the classic Homeric 23 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) pp.238
28
Mediterranean and the modem Mediterranean. In fact, Diamantis -the mam character of the novel- is portrayed as a modem Ulysses trying to cope with ongoing temptations and with the constant drive for knowledge. The Odyssey is for Diamantis a point of anchorage. He reads the Odyssey while attempting to define himself: ‘In effetti l’Odissea non ha mai smesso di essere raccontata, da una taverna all’altra,di bar in bar: … e Ulisse e sempre fra noi. La sua eterna giovinezza e nelle storie che continuiamo a raccontarci anche oggi se abbiamo ancora un avvenire nel Mediterraneo e di sicuro li. [ … ]I porti del Mediterraneo … sono delle strade. ’24 ‘Yes … In fact, the Odyssey has constantly been retold, in every tavern
or bar … And Odysseus is still alive among us. Eternally young, in the
stories we tell, even now. If we have a future in the Mediterranean,
that’s where it lies.” [ … ] “The Mediterranean means … routes. Sea
routes and land routes. All joined together. Connecting cities. Large
and small. Cities holding each other by the hand.’ In this quote we see the continuous threshold between space and time being overcome, that serves to keep alive the Mediterranean itself. It is clear that the classic Homeric recount is always reinterpreted and reinvented. The Odyssey
is not the only point of reflection for Diamantis. In fact the protagonist is seen as a 24 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) pp.238
29
deep character that reflects on the various incidents in his life and it could be argued that Diamantis is the expression of Jean Claude Izzo’s thoughts. The sailors in Jean Claude Izzo’s novel chose to be Mediterranean; naval commerce exists beyond the enclosed sea, but these men chose to sail with inadequate ships in a region where geographical beauty and historical richness meet. The port for Izzo, has multiple meanings and he defines the Mediterranean harbours as differing from other harbours, because of the way they are accessed. Izzo uses the image of the harbour as a representation of love: ‘Vedi, e’ il modo in cui puo essere avvicinato a detenninare la natura di un porto. A detenninarlo veramente [ … ] Il Mediterraneo e’ un mare di prossimita’. ’25
‘You see, it’s the way it can be approached that detennines the nature of
a port. Really detennines it. [ … ] The Mediterranean, a sea of closeness.’
This passage shows the influence of thought, Izzo inherited from
Matvej evic. In fact the approach used to describe the harbour and to depict the nature is very similar to the one used by Matvejevic in his ‘Breviario Mediterraneo’. 26 We perceive that the harbour is substantially a vehicle of devotion, love, passion and Eros, though we may also observe the threshold between the love and passion found in the port and the insecurity and natural brutality that the sea may convey. In this novel, the port is transfonned in a secure 25 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) ppl22 26 Predrag Matvejevic Breviario Mediterraneo (Garzanti:2010)
30
place whilst the sea is a synonym of tragedy. At the same time the port is seen as a filthy and conupt place. While for Izzo the past is used as a background to tie with the present and moreover to show a link with the future, Consolo uses a different technique. He goes deep in one focal historical point to highlight certain Mediterranean features and problematic issues. Consolo uses the period of time where Sicily was undergoing various political changes. He describes the revolution and the Italian unification, and portrays real events and characters tied to Sicilian history. In Vincenzo Consolo, the image of the sailor is used as a metaphor through the work of Antonello ‘il Sorriso dell’Ignoto Marinaio’.27 The title itself gives us a hint of the tie between art and everyday life. The voices that intertwine and form the discourse around the Mediterranean are hard to distinguish as they have fanned the discourse itself to a point where a voice or an echo is part of another. The work of Consolo28 goes through a particular historical period in Sicily to describe present situations and ongoing paradoxes in the Mediterranean region. It is difficult to resume and give a name and specific allocation to the works on the Mediterranean as the multiple faces and voices have consequently fanned a variety of literature and artistic works. The beauty behind works on the Mediterranean is that archetypes such as the concept of a ‘sailor’ or the ‘harbour’ are revisited and reinterpreted, thus acquiring a deeper meaning and at the same time enriching the meaning of ‘the Mediterranean’ itself.
27 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012)
28 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’lgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012)
31
Consolo focuses on the microcosm of Sicily and he portrays a fluctuation
between sea and land. He locates Sicily in an ideal sphere where the thresholds are nonexistent: ‘La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, me era l’isola santa! ’29 ‘Sicily! Sicily! It seemed something vaporous down there in the blue between sea and sky, but it was the holy island!’ Sicily is placed in an ideal sphere where beautiful natural elements coexist with famine, degradation and war. The imagery created around the island of Sicily may be comparable to the imagery around the Mediterranean region. As for the harbour it is described by Consolo as a place of contradictions, comparable to the ones found in the whole Mediterranean. The detail given to the life in the port is extremely in depth and the type of sentences used expresses the frenetic lifestyle of the port itself: ‘Il San Cristofaro entrava dentro il porto mentre ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai rami alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti con voce urale e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati [ … ].’30 29 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012) pp:56
30 Vincenzo Consolo fl so1-riso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012) pp:29
32
‘The San Cristoforo sailed into the harbour whilst the boats, caiques
and other fishing boats, sailed out with the fishennen holding the
ropes sails nets tallow oakum lee, traffickers beckoning with an ural
voice, inside the boat, from one boat to another, from one boat to the
quay, crowded with the elderly, women and children, screaming
equally and agitated’ [ … ] The tension around the port is well transmitted in the explanation given by Consolo, there seems to be a point of nothingness and a point of departure at the same time. We perceive that there is plenty of life in the port but at the same time confusion reigns, therefore we could argue that people in ports are not really conscious of life and that they are letting things turn. Nevertheless, the port is the starting point of life that develops either in the sea or inland. Both by Consolo and in Izzo we are made aware of the importance of life at the ‘starting point’, therefore the port in the works of both authors acquires the title of a ‘threshold’ between life and death, consciousness and unconsciousness, love and hatred, nature and artifice, aridity and fertility. In the microcosm described by Consolo, the Sicilian nature and its contradictions seem to recall the ones in the rest of the region. For example, the painting ‘Ignoto Marinaio’ is described as a contradictory painting. In fact, the sailor is seen as an ironic figure that smiles notwithstanding the tragedies he has encountered. The ‘Ignoto Marinaio’ has seen the culture and history of the Mediterranean unveil, he has therefore a strange smile that 33 expresses the deep knowledge acquired through his experience and a deep look that convey all the suffering he has come upon. In the novel by Consolo, the painting serves as a point of reference and in fact, the ‘Ignoto Marinio’ resembles another important character in the novel; Intemodato. Both figures share the ironic and poignant smile and the profound look. Intemodato is seen as a typical Sicilian revolutionary who embraces the sea but at the same time is not psychologically unattached to the situations that happened on land. He is part of the revolution and integral part of the Sicilian history.
2.4 The Harbour as a Metaphorical Door Consolo and Izzo with their accounts of sailors and the life in Mediterranean harbours brought us to the interpretation of the harbour as a metaphorical door. As in the seminal work of Predrag Matvejevic ‘Breviario Mediterraneo’,31 the harbour is tied to the concept of a metaphorical door. In Latin both ‘porto’ and ‘porta’ have the same root and etymological derivation. A harbour in fact is a metaphorical and physical entryway to a country. In the Roman period, the god Portunos was the deity of the harbour who facilitated the marine commerce and the life in the port in general. The various deities related to the sea in the Roman 31 Predrag Matvejevic II Mediterraneo e I ‘Europa, lezioni al college de France e altri saggi (Garzanti elefanti:2008)
34
and Greek traditions are an indication of a deep relation between the figure of the harbour and the physical and geographical figure of the door or entryway. The door may have many different shapes and may divide different spaces but it always signifies a threshold from one point to another. In literature the harbour signifies a metaphorical door between fantasy and reality, history and fiction, love and hatred, war and peace, safety and danger. The image of the door is concretized through the various border controls, visas and migration issues and in this regard the entryway becomes a question of membership. A piece of paper in this case detennines the access through that doorway, but from a cultural and
identity point of view the Mediterranean threshold is overcome through the encounter with history and fiction. Thierry Fabre in his contribution to the book series ‘Rappresentare ii Mediterraneo’; 32 in relation to the Mediterranean identity he states; ” … Non si situa forse proprio nel punto di incorcio tra la storia vera e i testi letterari che danno origine all’immaginario Mediterraneo?”33 ‘ Isn’t perhaps situated exactly at the meeting point between the real stories and the literature texts that give birth to the Mediterranean imagination?’ Fabre is conscious of the fact that the discourse about the Mediterranean limits itself to a constructed imaginary, the poet or artist in general that enters this metaphorical door is expected to conceive the Mediterranean imaginary; blending reality with fiction. The door is not always a static figure but is sometimes blurred and does not 32 Jean Claude Izzo, Thierry Fabre Rappresentare il Mediterraneo, lo sguardo fiwicese (Mesogea: 2000) 33 Ibid (Mesogea: 2000) pp.25
35
clearly divide and distinguish. The Mediterranean itself is a region of unclear lines the fonnation of a port and of a nation itself is sometimes not that clear. In Matvejevic’s ‘Il Mediterraneao e l’Europa’34 literature blends with facts and culture so does the geography around the Mediterranean region: ‘Tra terra e mare, in molti luoghi vi sono dei limiti: un inizio o una
fine, l’immagine o 1 ‘idea che li uniscono o li separano. Numerosi sono
i tratti in cui la terra e il mare s’incontrano senza irregolarita ne rotture,
al punto che non si puo detenninare dove comincia uno o finisce
l’altro.Queste relazioni multiple e reversibili, danno fonna alla costa. ’35
‘Between land and sea, there are limits in many places: a start or a
finish, the image or the idea that joins or separates them. The places
where sea meets land without any irregularities or breaks are
numerous, to the extent that it’s not possible to detennine where one
starts or the other finishes. These multiple and reversible links that
give shape to the coast.’ The coast in this sense is made up of a set of relations between figures and fonns that meet without touching each other, the door is not always present; it sometimes disappears to give room to imagination and the fonnation of literature.
34 Predrag Matvejevic Il Mediterraneo e !’Europa, Lezioni al College de France e Altri Saggi
(Garzanti elefanti: 2008)
35 Ibid (Garzanti: 2008) pp.53
36
The concept of literature allows the analysis of culture and the way it 1s
envisioned and spread through Mediterranean harbours. The fluctuations of varied thoughts that have shaped the Mediterranean imagery through its harbours have no ties with everyday life, if not by the transmission of culture and the means of popular culture that served as a point of anchorage and sometimes as a point of departure for the fonnation of a deeply rooted but also enriching and contested collective imagination.
37
3 The Port as a Cultural Lighthouse The harbour for many centuries has been an anchorage point and a safe place for sailors and travellers that navigate the Mediterranean. We perceive the safety of the harbour as something that is sometimes naturally part of its very makeup, as on such occasions where we encounter natural harbours. In other cases, to suit their needs, people have built around the shores and transfonned paii of the land into an artificial harbour which is able to welcome the foreigner and trade and at the same time to defend if needed the inland. Femand Braudel36 in his The Afediterranean and the Mediterranean World in thP AgP nf Philip TT <liscusse<l the importance of the Mediterranean shores for the traveller in an age when people were already able to explore the outer sea, but yet found it reassuring to travel in a sea where the shore was always in sight. The Mediterranean Sea has always instilled a sense of uncertainty in the traveller, because of its natural instability. Nevertheless, the fact that the shores and ts are always in the vicinity, the Mediterranean traveller is reassured that he can seek refuge whenever needed. The fascinating thing is that the ports in the age delineated by Femand Braudel were not only a means of safety but most of all of communication – a type of economic and cultural c01mnunication that went beyond 36 Fernand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (Fontana press: 19 8 6)