«E tu, e noi, chi siamo?». Meditazioni consoliane sulle rovine

Pubblicato il 10 gennaio 2025 da Comitato di Redazione

meridiano

di Ada Bellanova 

«Sembra retorico, ma non lo è: sono emozionato a vedere tutto questo. Quanta gente è passata di qui! […]  Sento il contatto con chi è passato di qui». Mentre tocca i massi e i cocci delle rovine di Eloro, con queste parole Consolo si rivolge a Sebastiano Burgaretta per dirgli la sua commozione [1]. Ma simili se non identici devono essere stati i toni tutte le volte che l’autore ha percorso e ripercorso i sentieri tra le rovine della Sicilia, nell’abitudine che, inaugurata precocemente, nell’adolescenza, è poi diventata passione, quasi ossessione dell’intera vita, e ha generato itinerari letterari significativi contagiando la stessa scrittura, rendendola cioè profondamente ‘archeologica’, votata allo scavo, all’indagine delle profondità della storia.

L’emozione di Consolo davanti ai resti delle epoche più antiche è consapevolezza del loro valore. Da qui nascono le pagine dense di indignazione nei confronti dell’incuria contemporanea. Al lettore de L’olivo e l’olivastro non può non venire in mente l’amarezza dell’anonimo viaggiatore per i resti di Megara Hyblea e la necropoli di Thapsos sfregiati dal fumo delle ciminiere, soffocati dalla Lestrigonia infernale del polo industriale siracusano [2].

Non è il tempo la causa maggiore del deteriorarsi delle rovine del passato, piuttosto lo sono gli esseri umani. Proprio questo dichiara Consolo in un articolo poco citato del 2006 scritto per l’area archeologica di Morgantina [3]: se la formula iniziale, che dà anche il titolo al testo, «Che non consumi tu, Tempo vorace», la stessa che – riporta l’autore – gli incisori romantici utilizzavano come didascalia alle loro raffigurazioni del passato, avvisa della voracità dello scorrere degli anni, anzi, dei secoli, che guastano ogni cosa, l’analisi lucida che segue individua la ragione principale delle cattive condizioni in cui versano i siti archeologici nelle responsabilità umane, ovvero incuria e scavi clandestini, spesso con coinvolgimento mafioso.

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Ciò che è accaduto con i reperti di Morgantina, ad esempio con la  dea, asportata illecitamente, finita dopo una vendita all’asta addirittura al Museo Paul Getty e tornata in Italia dopo la condanna del ricettatore e i necessari accertamenti solo nel 2011, quindi dopo la pubblicazione del testo. D’altra parte, il sentire comune non è estraneo alla logica dei ‘tombaroli’, che interpreta i resti del passato solo in chiave utilitaristica, quale mezzo di un possibile profitto. Per questo con amaro sarcasmo, nell’antifrastico racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas, Consolo sceglie come protagonista, e voce narrante, un detenuto per associazione mafiosa il quale, nella straniante confessione di attaccamento alla sua patria siciliana, auspica una maggiore resa delle rovine, ad esempio la vendita agli americani oppure a Berlusconi [4]. Così si tradisce e si corrompe ciò che è sacro. 

L’incontro con le rovine è per l’autore necessità: lo scavo è ricerca del passato per riacquistarne consapevolezza in un presente omologante e perennemente in corsa che non tollera attenzione per la memoria e per gli  esseri umani. Ciò rende i resti di antiche civiltà il rifugio ideale per molti personaggi consoliani, inquieti viaggiatori amareggiati o insoddisfatti dal presente. E proprio le rovine suscitano in loro riflessioni sulla fragilità dell’essere umano ma anche sul tempo e sull’infinito. 

L’infinito e non solo: riflessioni sulle rovine in Retablo

Retablo è percorso da una vibrante passione per i resti del passato, che scaturisce dall’abitudine e dall’interesse dell’autore ma anche dall’adozione dello schema dell’odeporica settecentesca. Infatti, nelle memorie di viaggiatori stranieri, che, attratti dall’Italia e dal Mediterraneo, si mossero fra i resti antichi abbandonandosi al godimento malinconico di un paesaggio fatto di natura e ruderi e ‘scoprirono’ la religione laica delle rovine, l’isola ha un posto privilegiato, e in Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia dove si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi [5].

Clerici viaggia, in fuga da un amaro presente, nel passato, e scopre architetture antiche, statue e reperti d’ogni sorta che gli procurano uno straordinario piacere, a tratti addirittura un’estasi. I resti archeologici restituiscono lo splendore del passato di Segesta, Selinunte e Mozia, ma essi appartengono anche alla dimensione dell’immaginario per la prospettiva idealizzante con cui il viaggiatore li osserva: realtà passata e sogno si fondono nella caratterizzazione di un’alternativa al presente in cui rifugiarsi.  

A rendere più viva l’esperienza del viaggio concorrono le frequenti descrizioni di antichità, pause ecfrastiche a cui si accompagna una ricca intertestualità fatta di riferimenti letterari, artistici e autocitazioni, e che permettono una più facile immedesimazione da parte del lettore in virtù del frequente corredo di suggestioni dell’esperienza sensibile. L’ambientazione settecentesca poi sposta la fruizione dei reperti in un altro tempo, togliendoli alle sale museali, ai percorsi espositivi attuali: templi, metope, statue emergono da un caos quasi armonioso, non toccato dalle chiassose comitive  della contemporaneità, e sono sacri perché testimonianza di un passato ancora più antico.

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Il racconto della tappa a Segesta è dominato dall’imponenza del tempio che appare a Clerici alto e solitario sul colle, circondato dal burrone [6], con un’immagine simile a quella reale che ancora oggi si presenta a chiunque guardi dal basso verso il sito archeologico, ripetuta nell’iconografia di guide e cartoline. La percezione visiva del paesaggio da parte del personaggio accoglie le suggestioni generate dalla stessa esperienza dell’autore e suscita un’immedesimazione e una partecipazione anche emotiva da parte del lettore, che, proiettatosi all’interno dello spazio narrato, lo percorre con il suo sguardo mentale, sulla base delle proprie esperienze, ed è portato a condividere lo stupore espresso dalla narrazione. Ma nella descrizione intervengono tratti onirici suscitati dalla prospettica classicheggiante di Clerici: il tempio è «come corona sul fronte d’un gran dio»; più avanti, diventa addirittura, nel disegno idealizzante del narratore, luogo arcadico, con pastorelle danzanti e musici [7]. La visione delle rovine è dunque un sogno perché chiama in causa, idealizzandola e vestendola di mito, l’antichità. Essa è però anche in grado di generare meditazioni sul tempo e sull’eternità.

La puntuale descrizione del tempio, corredata di informazioni molto precise, quasi tecniche, rompe lo slancio estatico [8] solo brevemente, per alludere probabilmente al testo di Goethe dove invece l’edificio è descritto con entusiasmo contenuto e osservazioni da profano, sigillate da «Un architetto potrebbe stabilirlo con esattezza» [9]. Ma non altezze, larghezze, volumi interessano davvero a Clerici: le osservazioni a proposito della posizione e a proposito dell’assenza di cella e copertura, della mancanza di scanalatura nelle colonne o scalpellatura nelle bugne dei lastroni si concludono con l’ipotesi suggestiva di un progetto ben preciso degli antichi che vollero il tempio, armonioso e imponente sul paesaggio pietroso, ma aperto verso il cielo, come porta o passaggio «verso l’ignoto, verso l’eternitate e l’infinito» [10].  

Nelle memorie di viaggio del personaggio allora si insinuano impressioni che solo all’autore possono appartenere, o al referente novecentesco dell’itinerario, il pittore Clerici. Don Fabrizio di fronte al tempio medita sull’eternità, diventa Leopardi davanti alla siepe [11]. Seduto sullo stilobate tra le colonne da cui pende una ‘siepe’ di cappero, rovo, euforbia, egli ammira l’immensità dello spazio che è al di là e si ritrae nel passato, sprofonda nella vertigine dell’infinita sequenza di civiltà evocate dalle rovine, lontano da un presente tumultuoso e tragico. Come ne L’infinito leopardiano, a cui rinvia la sequenza di gerundi «E sedendo e mirando, e ascoltando», vista e udito sono tutti impegnati nel confrontare il presente sensibile (il cappero che oscilla al vento, le gazze e i corvi che stridono, il verso delle cicale, il fluire del fiume) con l’eterno. Clerici di fronte al tempio di Segesta è capace di andare oltre Goethe, di varcare il limite, naufragare nell’infinito [12].

La stessa cosa capita all’anonimo viaggiatore di L’olivo e l’olivastro, che ha maggiori evidenze autobiograficheIn fuga dai resti di un incendio doloso e dal chiasso dissacrante di alcune comitive che sciamano attorno al tempio, reso più imponente dal deserto di carbone e ceneri, ma ancor di più per staccarsi dalla corruzione e dal massacro della Palermo mafiosa, egli sale sul colle e poi, supino, in mezzo alle colonne, mentre medita sull’incompiutezza che rende l’edificio mirabile, quasi quello si fosse fatto da sé, si lascia rapire dall’osservazione del cielo stellato inquadrato nel recinto del tempio: «Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti, nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero» [13]. L’ipotesto leopardiano ritorna nella costruzione dell’emozionante naufragio di Clerici nel mare di rovine di Selinunte. 

Nella smania di percorrere continuamente l’isola, la tappa si rivela per Consolo irrinunciabile, fin dall’adolescenza [14]. L’antica città è per lui estremamente affascinante: la sua fondazione ad opera dei migranti di Megara Iblea ha sapore epico, i suoi resti sono imponenti e misteriosi. Il racconto più suggestivo dell’incontro con le rovine è proprio in Retablo. L’avventura di Clerici ha il sapore di una scoperta: come un nuovo Fazello egli si trova di fronte a inattesi e abbondanti resti e la sua commozione mentre si immerge nel suggestivo labirinto di marmi e piante è contagiosa per il lettore. 

La meraviglia di fronte ai resti dell’antica città avvolti dalla vegetazione è espressa attraverso fitte enumerazioni che costruiscono narrativamente il mare di rovine [15]. In questa distesa di marmi Clerici trova anche le metope, in particolare quella che ritrae Zeus e Era: a Consolo, che in più di un’occasione si è espresso sul valore di questi «libri di pietra» [16], non sfugge l’opportunità di collocarle lì, in un ipotetico e verosimile caos settecentesco, prima della catalogazione museale, a dimostrarne, nel racconto della seduzione esercitata sul viaggiatore, persino in una collocazione per così dire selvatica, nell’abbandono della vegetazione, la forza narrativa.

Di fronte alle rovine, il pensiero della fragilità di Selinunte diventa meditazione sulla sacralità dei resti e l’estasi contemplativa che ne consegue, come nel caso del tempio di Segesta, ha i tratti dell’ebbrezza leopardiana di fronte all’infinito. Lo smarrimento di Clerici si traduce in un naufragio dei sensi nel mare dei resti, naufragio a cui concorrono gli effetti sonori, cioè le voci immaginate di altre epoche – le morte stagioni – e visivi, ovvero i reperti che, affastellati, ammonticchiati, in un incredibile caos, sbucano nella vegetazione [17]: «Là un altro mar di pietra m’attendeva e mi ghermiva, una tempesta solida di basamenti, di tamburi, d’architravi, di capitelli, di templi, di are, di celle, di nicchie, d’agorà, di case, di botteghe, e io dentro, su onde e avvallamenti, su per le scale e sotto in ipogei, ebbro vi natava» [18].

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A questa estasi segue la scoperta dell’area sacra dedicata a Demetra Malophoros che, come nel racconto autobiografico contenuto in Le pietre di Pantalica, ha i tratti di un percorso di iniziazione, quasi un incontro con l’Aldilà. Se la visita in compagnia di Ignazio Buttitta e Vincenzo Tusa del 1984 è un «procedere iniziatico o profanatorio» e le persone reali a un tratto vengono risucchiate nel pozzo di Ecate «nel mistero e nell’oscurità infinita del Tempo» [19], l’esperienza di Clerici, in un crescendo di particolari che evidenziano la consueta abbondanza archeologica e evocano il mistero del luogo, si chiude, proprio lì sulle rovine, davanti a un inatteso rito funebre dal sapore pagano, con tanto di epicedio, per una ragazza precocemente morta. Tra le nere donne che piangono e si lamentano con movenze da coro tragico, la «fanciulla d’impareggiabile bellezza che la luna nel cielo, nello splendore pieno, inargentava» allude a Murió la verdad, uno dei Desastres de la guerra diGoya, come sembrano confermare le parole del narratore: «Addio. Tu eri il pudore, la trepidazione, il sentimento, tu la verità [corsivo mio] del mondo. Ora non è che falsità, laidezza, brutalità e follia. Io un misero uomo, un nolente, un fuggitivo» [20].

L’apostrofe meditativa attribuisce al rito funebre e al corpo della ragazza un alto valore simbolico: diventa preghiera, lamento e compianto per un tempo che non esiste più, è pietas nei confronti delle realtà lontane, perdute di cui sono traccia tutti i resti osservati, le pietre calpestate o sfiorate, l’emozionante mare di resti di Selinunte, pietas tanto più necessaria di fronte all’incuria e alla superficialità contemporanee. Ma l’episodio è forse anche smemoramento, perdita di sé, in una sorta di contatto concesso con un altro tempo, un altro mondo, come sembra confermare il successivo «I’mi trovai disteso, e non so come» [21].

Ancora più misteriosa risulta, nel romanzo, Mozia, con gli abbondanti reperti archeologici affioranti dal terreno. E questo già nell’approdo, in cui, alla sorpresa di Clerici e Isidoro di fronte ai primi relitti che si affacciano dai fondali si accompagna una lunga nota dai toni meditativi, che è autocitazione da Paludi e naufragi, testo composto per la mostra di F. Mulas [22]. Agli occhi del viaggiatore Mozia emerge dal mare inondata di luce fenicia. Poi è «isola di spirti» [23] che genera spavento e attrazione in Isidoro mentre si rivela seminata di pignatte, ‘una grande trovatura’. Il suo tesoro sono le pietre, nocive e odiose, che i contadini dell’isola cercano di scansare per provare a coltivare la terra e che si rivelano al lettore rassegna di buona parte del patrimonio museale locale, in un procedimento ecfrastico originale che restituisce ancora una volta la natura delle antiche opere d’arte ipotizzandone la collocazione settecentesca, quindi lo stato d’abbandono e l’accumulo casuale.

Tra le pietre c’è anche la straordinaria statua dell’Efebo ed è proprio questa a suscitare le riflessioni del protagonista. Consolo vuole che i viaggiatori trovino l’opera per caso, nelle mani di alcuni contadini che non sanno che farsene e che anzi vogliono liberarsene, secondo lo stereotipo, comune nei resoconti di viaggi settecenteschi, del siciliano ospitale ma ignorante. Alla fine lavorazione che Clerici intravede nel marmo pur sotto le incrostature di terriccio fa da contraltare la fatica dei salinari, che appaiono neri sulla bianchezza dello Stagnone a lui che li contempla a distanza, commentata dall’osservazione del vecchio contadino dell’isola «Eh, la vita è dura, ma più per noi che la campiamo fidando solamente nelle braccia» [24]. Insomma la vita umana è decisamente un’altra cosa rispetto all’arte, ma lo stesso Clerici giungerà a questa conclusione, proprio partendo dallo strano destino della statua.

La lunga ecfrasi veicola l’immagine del Giovane di Mozia così come appare ai visitatori del Museo Whitaker e però il luogo è un altro. Dopo averlo fatto finire nelle mani di Clerici, che lo ha voluto caricare premurosamente sulla nave per portarselo via, l’autore vuole che l’Efebo ritorni all’oblio, nei flutti: durante il viaggio il marmo rompe i legami; un’onda più alta, sopraggiunta al levarsi dello scirocco, spinge la statua in mare. La reminiscenza di Morte per acqua di Eliot per dire il destino della «squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte» sostanzia la riflessione sui limiti della letteratura e dell’arte: «tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo» [25]. Attraverso le parole di Clerici Consolo sostiene così che la creazione artistica, pur pregevole, è poca cosa di fronte al valore della vita umana, che è – o dovrebbe essere –  sacra e inoffendibile, la vita di tutti quelli che si sono spenti in mare, sciolti nelle ossa alla maniera dell’eliotiano Phlebas il fenicio [26]. 

nottetempo

Tra i cocci e l’infinito a Filosofiana 

Sebbene l’apologo Filosofiana evidenzi la miseria e l’ignoranza dei personaggi e nell’amara conclusione che delude i sogni di tesori e ricchezze suscitati da una tomba antica racconti la tragedia dell’esistenza, anche al protagonista Vito Parlagreco capita di meditare sui resti antichi. Eppure i reperti in sé non gli interessano affatto, piuttosto vorrebbe toglierli di mezzo e coltivare una terra tutta sua, e, mentre si affatica a ‘spietrare’ sogna una casetta circondata da alberi e fiori. Ma la «distesa rossigna in groppa all’altopiano di cocci e di rantumi, pance culi manici di scifi, lemmi, di bombole e di giare» [27] e il pensiero delle favole sulla vicina Villa del Casale accompagnano la concretezza del suo pasto di pane e pecorino con inattese considerazioni sul destino degli esseri umani. Le riflessioni sono quelle del suo autore. «Ma che siamo noi, che siamo?» [28], si domanda. Egli accosta la vita degli uomini, la sua vita, a quella delle formiche: tanto affanno, tanto girare nel mondo che, in fondo, non è che un’aia. Piccola cosa, insomma, l’esistenza umana, di fronte all’eternità. Il tempo, riflette Vito, si porta via ogni cosa, lascia solo pochi segni «qualche fuso di pietra scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura come quelle dissepolte nella valle di Piazza» [29]. Per quanto liquidi i resti di antiche civiltà come capricci («certo la villa di un ricco capriccioso» a proposito della Villa del Casale e dei suoi mosaici; «Che capricci, che capricci si passavano gli antichi» a proposito dei cocci che emergono dalla terra) [30], egli vi riconosce il segno di un tempo lontanissimo: in questa vicinanza diventa un po’ filosofo, assaggia una forma di eternità. Prova subito a scacciare il pensiero come cosa da vecchi, per concentrarsi piuttosto su cose concrete, ma dalla terra non può evitare di passare «al cielo, al sole, alla luna, alle stelle», viene insomma risucchiato nella vertigine dell’infinito: «gli sembrava di scivolare dentro un pozzo senza fine» [31].

Agisce forse anche nella costruzione di questo personaggio la suggestione leopardiana de L’infinito. Vito, che guarda al di là del muro dove si è appoggiato per mangiare, è nella concretezza del suo mondo contadino ma i resti di epoche lontane affioranti lo trascinano verso altre dimensioni, i suoni a lui vicini come gli zoccoli della mula o il grido di qualche uccello scandiscono un silenzio immenso, enfatizzato dalla vista del pur immenso Etna all’orizzonte.      La sensazione di scivolamento in un pozzo senza fine, interrotta tra l’altro dall’apparizione dello sfuggente Tanu o Tanatu quasi essere leggendario o addirittura liminare, proprio accanto alla tomba antica, allude inoltre a una forma di contatto con l’aldilà.

Anche se il racconto si sviluppa e si conclude con modi da farsa – Vito è trascinato dal cavatesori Gregorio Nanfara in un bizzarro rituale proprio sui resti, e i sogni di ricchezza e fama  dell’uno e dell’altro vengono delusi dall’apparizione di un inutile mascherone comico – che sembrano sottolineare un’impossibile rigenerazione di valori e ideali antichi, le tracce liriche e meditative sono molto simili a quelle già incontrate in Retablo e esprimono la relazione di Consolo con le rovine.           

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«E tu, e noi chi siamo?» 

Anche Petro, in Nottetempo, casa per casa, bisognoso di cancellare un presente di sofferenza, trova conforto nelle rovine. La contemplazione piena di stupore delle figure del tempio distrutto di Cefalù, al chiarore di una lanterna, innesca una lunga meditazione dai toni lirici che riprende con minime varianti e qualche espunzione L’ora sospesa, testo per il catalogo della mostra di Ruggero Savinio a Sciacca nell’estate del 1989 [32]. Già qui le rovine richiamano l’espressione «Che non consumi tu Tempo vorace» [33], ripetuta e poi troncata nel prorompere di commosse allusioni al mistero di una comunicazione, di una conoscenza non perfettamente attingibile. I riferimenti al «grembo tenero di Cuma, del Lilibeo» [34] rinviano al contatto con un sapere oracolare, possibile attraverso un’esperienza iniziatica che prevede una discesa, uno sprofondamento, come per l’appunto nell’apertura del passo «per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati» [35]. Ma il testo parla anche di oblio di sé e di assunzione del lete, al confine, il che conferisce all’incontro con le rovine tratti da viaggio nell’aldilà ancora più evidenti rispetto agli altri passi analizzati. Eppure l’accostamento al mistero permette solo la domanda esitante  «E tu, e noi chi siamo?» [36].

Ecco allora cosa succede a questi personaggi di Consolo nel contatto con le pietre del passato: in fuga dal presente, vengono rapiti nel vortice del tempo – il tempo delle vite umane scomparse che hanno però lasciato traccia di sé, ma anche l’eterno, l’infinito – in una sorta di esperienza iniziatica che li avvicina a verità esistenziali per lasciarli poi esitanti, dubbiosi. Ma non è forse ciò che secondo Consolo succede anche nel processo della scrittura letteraria? La fuga verso realtà perdute rinvia per l’autore proprio al dovere di scrivere in maniera archeologica, ovvero discendendo ‘per gradi, per lenti processi a spazi inusitati’, tentando di rintracciare il mistero: iniziatico è lo sprofondamento, difficile, arduo il ridire. Eppure lo scrittore deve provare, ritrovando e risacralizzando parole perdute contro l’appiattimento della lingua d’uso quotidiana, recuperando frammenti, rovine, a ricostruire un mondo, anche in modo approssimativo. Perciò in La Sicilia passeggiata, a proposito di Selinunte, Consolo scrive che la tecnologia può sicuramente aiutare a sistemare le antiche pietre, a ricomporle, ma solo la fantasia, 

«il sentimento di noi viaggiatori in luoghi del passato, può resuscitare quelle pietre […] dare significato e parola alle pietre, dare, al di là della loro maggiore o minore monumentalità o bellezza, al di là delle grandi imprese che le rovine evocano, il significato dell’umile vita degli abitanti, della trama dei loro affetti, dei loro gesti, dei loro bisogni, delle loro pene e delle loro gioie; può immaginare, ricostruire insomma, tra quelle antiche pietre, il grande miracolo dell’umano vivere quotidiano che ci ha preceduto che dà senso e illumina il presente nostro» [37]. Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2027 

Note[1]     È Burgaretta a raccontarlo, attingendo a un suo diario personale, in Burgaretta S., Con Consolo per antiche pietre, in Galvagno R., L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Edizioni Milella, Lecce 2022: 272-273. [2]     L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa,a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015: 782-784. Ne ho parlato diffusamente in Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 237-241. [3]   Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, in Fontana F. (a cura di), Il tempo fissato. Pietre e colori a Morgantina, Edizioni Università Kore, Enna 2006: 11-13. [4]     La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012: 217. [5]     Viaggio in Sicilia, in Di qua dal faro, L’opera completa, cit.: 1219-1224. [6]     Retablo, in L’opera completa, cit.: 412-213. [7]     Ivi: 417. [8]     Ivi: 413-414. [9]     Goethe J. W., Viaggio in Sicilia, trad. e note a cura di P. Di Silvestro, Ediprint, Siracusa 1987: 76. [10]   Retablo, cit.: 414. [11]   Ivi: 414-415. [12]   Viaggio in Sicilia, cit.: 1220. [13]   L’olivo e l’olivastro, cit.: 856. [14]   Malophoros, in Le pietre di Pantalica, L’opera completa, cit.: 577; La grande vacanza occidentale orientale, in La mia isola è Las Vegas, cit.:167-169. [15]   Retablo, cit.: 433 e 436. [16]   In particolarein In lettere d’oro il romanzo di Selinunte, in L’Ora, 13 marzo 1984; La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991: 94-101. [17]   Retablo, cit.: 433-434. [18]   Ivi: 435. [19]   Malophoros, cit.: 581. [20]   Ibidem. [21]   Traina ravvisa nel passo uno smemoramento dai toni danteschi che induce a rileggere l’episodio di Selinunte come un vero viaggio iniziatico nell’aldilà. Traina G., Rilettura di Retablo, in Papa E. (a cura di), Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, Manni, San Cesario di Lecce 2004: 122. [22]   Retablo, cit.:442-443. Paludi e naufragi è ora raccolto in L’ora sospesa (L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di M.A. Cuevas, Le Farfalle, Valverde 2018: 33-36).  [23]   Retablo, cit.: 443-444. [24]   Ivi: 449-450. [25]   Ivi: 453. [26]   Sul passo si veda Turchetta G., Per toccare la vita che ci scorre per davanti: Retablo e l’arte come nostalgia,in Microprovincia, 48, gennaio-dicembre 2010: 18; Id., Il luogo della vita: una lettura di Retablo, in Lo Castro G.,  Porciani E., Verbano C.(a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Ets, Pisa 2014: 653: la statua viene gettata in mare a mò di zavorra a conferma del superiore valore della vita umana per Consolo; l’arte, dunque, può essere al comando della nostra esistenza se ci aiuta a vivere; quando entra in contrasto con la vita allora è il caso che soccomba. [27]   Le pietre di Pantalica, in L’opera completa, cit.: 539. [28]   Ivi: 541. [29]   Ibidem. [30]   Ivi: 541-542. [31]   Ivi: 542. [32]   Ruggero Savinio, catalogo della mostra a Sciacca, ex Convento di San Francesco, luglio-agosto 1989, Sellerio, Palermo 1989, ora nel volume omonimo (L’ora sospesa, cit.: 42-46). [33]   Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, cit.: 687. [34]   Ibidem. [35]   Ivi: 686. [36]   Ivi: 688. [37   La Sicilia passeggiata, cit.: 98. Riferimenti bibliografici

Testi di Vincenzo Consolo Consolo V., In lettere d’oro il romanzo di Selinunte, in L’Ora, 13 marzo 1984. Id., La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991. Id., Che non consumi tu tempo vorace, in F. Fontana (a cura di), Il tempo fissato. Pietre e colori a Morgantina, Edizioni Università Kore, Enna 2006: 11-13. Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012. Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015 (edizione di riferimento per Retablo, Le pietre di Pantalica, Nottetempo, casa per casa, L’olivo e l’olivastro, Di qua dal faro). Id., L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di M.A. Cuevas, Le Farfalle, Valverde 2018. Altri testi Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 237-241. Burgaretta S., Con Consolo per antiche pietre, in Galvagno R., L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Edizioni Milella, Lecce 2022: 272-273. Goethe J. W., Viaggio in Sicilia, trad. e note a cura di P. Di Silvestro, Ediprint, Siracusa 1987.Traina G., Rilettura di Retablo, in Papa E. (a cura di), Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, Manni, San Cesario di Lecce 2004: 113-132. Turchetta G., Per toccare la vita che ci scorre per davanti: Retablo e l’arte come nostalgia,in Microprovincia, 48, gennaio-dicembre 2010: 13-19. Id., Il luogo della vita: una lettura di Retablo, in Lo Castro G.,  Porciani E., Verbano C.(a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Ets, Pisa 2014: 647-655.

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Ada Bellanova, insegna lettere nei licei. Dopo essersi occupata per diversi anni della presenza dei classici greci e latini nel moderno e contemporaneo, in particolare nell’opera di J. L. Borges, è approdata da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021).  Si interessa di permanenza del mondo antico nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. 

Moniti per la contemporaneità dal palinsesto consoliano

Pubblicato il 1 luglio 2024 

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di Ada Bellanova

Nel 2008 Daragh O’Connell ha utilizzato il termine «palincestuoso» per definire Consolo evidenziando come, nell’imponente polifonia che caratterizza la sua scrittura, la voce letteraria acquisti un rilievo particolare e quanto intensa sia, rispetto ad altri autori pure attenti alla tradizione, la relazione con i testi anteriori. «La poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura»[1] che ne scaturisce è fortemente legata alla tensione etica dell’autore: la rottura che ne deriva nei confronti delle mode letterarie del momento è un tramite che concorre a definire la scelta dell’impegno. Ma questa modalità convive con la componente memoriale e autobiografica, con l’uso e il riuso dei propri testi, con le citazioni e le allusioni iconiche, in un’attenzione sempre presente per la Storia e per la contemporaneità. È allora arduo e perciò ancora più gratificante scavare alla ricerca del senso.

L’indagine in un’opera così densa di innesti può riservare sempre nuove sorprese, a seconda di dove si va a ‘scavare’. Ma è ancora più degno di interesse che i ‘reperti’ continuino a veicolare messaggi preziosi per il nostro tempo.  «Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) è l’ultimo libro di Giuseppe Traina su Vincenzo Consolo, pubblicato da Mimesis, nella collana Punti di vista diretta di Gianni Turchetta. La raccolta di saggi, in parte inediti in parte rielaborazione di interventi già pubblicati, si riallaccia alla monografia del 2001 (Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001). Pur uscendo, come ammette lo stesso studioso nella premessa, in una fase particolarmente fertile degli studi su Consolo e pur toccando questioni variamente dibattute dalla critica, queste pagine presentano un taglio nuovo, individuando come corpus di indagine l’ultima fase dell’opera dell’autore – i testi che vanno dagli anni Novanta alla morte, ovvero da L’olivo e l’olivastro del 1994 (ma con riferimenti anche ai precedenti Retablo e Le pietre di Pantalica) ai vari contributi parzialmente confluiti ne La mia isola è Las Vegas (2012) e nel postumo Cosa loro (2018) –, e riconoscendovi una netta presa di posizione, ancora preziosa e illuminante, in merito a questioni socio-culturali, ambientali e politiche dell’Italia e del mondo.

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Il primo saggio I molti volti dell’ulisside, tra Sicilia e Mediterraneo: Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, che rielabora quello già uscito su Recherches (Studi per Vincenzo Consolo. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, n. 21, automne 2018: 99-111) si sofferma su una questione già molto presente nella critica consoliana, ovvero sulla presenza di Ulisse. La mappatura delle ricorrenze tende all’esaustività perché, partendo dal bagaglio degli studi precedenti, in particolare quello di Massimo Lollini [2], Traina passa in rassegna una serie di aspetti, anche minori e in parte trascurati, componendo le tracce e guidando alla comprensione del senso.

La precocità del tema del viaggio già presente ne La ferita dell’aprile, sebbene non in maniera massiccia; la struttura ‘a stazioni’ non sempre programmate ma anche determinate da accidenti di varia natura in RetabloL’olivo e l’olivastro, Lo Spasimo di Palermo; le allusioni omeriche in episodi o motivi riconducibili all’Odissea; l’influsso epico nelle scelte stilistiche (l’imperfetto durativo come tempo della ciclicità e il passato remoto come traccia epica nei verbi di dire o in quelli di movimento); la predilezione per protagonisti sempre in movimento, come Fabrizio Clerici, l’io di Le Pietre di Pantalica e di L’olivo e l’olivastro e Chino Martinez: il rilievo dato a tutti questi aspetti è testimonianza del dialogo intenso con l’ipotesto. Traina inoltre non manca di sottolineare che a questa ricorrente scelta di intertestualità si legano elementi autobiografici o caratteriali dell’autore, come il gusto-ossessione per il viaggio periplo in Sicilia o l’esilio a Milano. Proprio del tema dell’erranza, così pervasivo, precisa l’ambivalenza: intanto perché, anche se è ‘in esilio’ a Nord e pur non essendo un privilegiato, Consolo, per sua stessa ammissione, non vive la condizione degli emigrati poveri e ammassati in transito verso altre destinazioni, e poi perché c’è l’autoesilio generato dall’invivibilità della Sicilia, in L’olivo e l’olivastro, ma, accanto all’erranza generata dalla tragedia civile della mafia, in Lo Spasimo di Palermo, c’è anche quella che scaturisce dalla propria vicenda personale. Né mi sembra «una piccola divagazione» la nota finale sulla possibile conoscenza dell’Ulisse di Tennyson per il rifiuto di un nostos compiuto che coinciderebbe con il regno su un’Itaca imbarbarita dalla logica economica e la scelta di un nuovo viaggio che lascerebbe il potere a un più accomodante Telemaco. D’altra parte questo particolare referente viene forse evocato ma per negazione anche ne Lo Spasimo perché l’esilio ora tocca al figlio – neppure per lui c’è posto in un’Itaca distorta – e al padre non resta che un’erranza senza pace, senza slanci di conoscenza.

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Traina non si lascia sfuggire neppure l’occasione di precisare quanto il «monito periodico» dell’eliotiano Morte per acqua sia profondamente legato alla tematica odissiaca per la paura antica del viaggio per mare e del rischio della morte senza seppellimento. Tutti i compagni di Ulisse perdono la vita durante il difficile viaggio di ritorno e l’epos incarna il sentimento degli antichi Greci, mentre i morti per acqua di oggi, i migranti, sono ulissidi alla ricerca di una patria ideale che mai vedranno. C’è in queste tracce odissiache un fortissimo monito alla contemporaneità per quanto riguarda i drammi del Mediterraneo ma anche, come giustamente mette in evidenza Traina, l’avviso della profonda ambivalenza del rapporto dell’essere umano con la Natura.

A questo si collega un’altra riflessione interessante, sebbene più rapida, contenuta in questo primo saggio, sulla techne. Consolo ha senza dubbio pagine polemiche nei confronti della cultura tecnico-scientifica nella sua versione tecnologica. I poli industriali siciliani in particolare sintetizzano ne L’olivo e l’olivastro un’idea di sviluppo deteriore, che nega l’identità dei luoghi, distrugge la civiltà preesistente [3]. Altra cosa è la techne non meccanizzata, nei confronti della quale l’autore nutre un notevole interesse, evidente ad esempio nell’attenzione per botanica e arboricoltura in Retablo o ne Lo Spasimo di Palermo. In ciò Traina coglie una traccia ulissiaca perché riconduce queste aperture alla dicotomia tra olivo e olivastro e vi riconosce la valorizzazione di «una forma tra le più alte dell’intelletto umano e di una misura umana del vivere». Un altro avviso urgente per il nostro tempo.

Anche il secondo saggio, Nottetempo casa per casa: il potere, la lingua, l’esilio, rielaborazione di un intervento precedente, costruito attorno al tema chiave ‘lingua’, soffermandosi su una questione estremamente viva nella riflessione consoliana ovvero sulla peculiarità dello strumento linguistico con le sue ambivalenze, evidenza l’attualità del messaggio dello scrittore. Nel romanzo oggetto di analisi attraverso la narrazione di fatti misti di storia e invenzione degli anni Venti – la vicenda di Pietro Marano in una Cefalù che ha rinunciato a ogni forma di razionalità, stravolta dall’avvento del satanista Aleister Crowley e dai suoi riti orgiastici seducenti per alcuni cefaludesi pronti poi a schierarsi con il nascente fascismo – Consolo allude, per sua stessa ammissione, agli anni Novanta, «anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…» [4], ovvero all’irrazionalismo della cultura di massa a lui contemporanea, alla caduta delle ideologie e alla deriva degli italiani pronti a sostenere nuove forze politiche, Lega Nord e Forza Italia, e quindi a consegnarsi a un sistema di potere illiberale.

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Ma la violenza sembra essere ben più profonda e enigmatica di quella storico-politica: ha genesi antropologica e probabilmente anche autobiografica la malattia dei Marano, ma è solo apparenza, come ha messo in evidenza Galvagno [5], il legame esclusivo con la famiglia del protagonista e le implicazioni sono molto più vaste e riguardano la soggettività dolorosa dell’essere umano. L’indagine di Traina consegna al lettore alcuni importanti ‘ritrovamenti’, ipotesti della tradizione solo in parte affioranti, per riflettere sul ruolo della lingua nel romanzo. La parola poetica è per Petro Marano una possibilità di resistenza al dolore, mentre è nociva la retorica del linguaggio della politica, fascismo o antifascismo poca importa, perché anche nella lingua del vate poetico dell’anarchico Schicchi, Rapisardi, è rivelabile l’impostura. «Petro, con la sua sensibilità linguistica […] coglie il rischio che il terremoto grande che sconvolge politicamente l’Italia implichi una corruzione della lingua, uno slittamento tra significanti e significati che solo in apparenza può apparire un buffo calembour», e, nella sua alternanza tra melanconia, male catubbo da una parte e tentativo di resistere ad essi attraverso la scrittura, rappresenta dunque proprio la posizione dello scrittore che è consapevole dell’agguato in atto nei confronti della cultura umanistica e della razionalità, ma ha ancora fiducia in esse.

Alla base di questa riflessione Traina pone alcune sollecitazioni: l’idea di funzione utopica della lingua di Barthes, il principio di vacuità del linguaggio di Foucault, ma soprattutto il valore della leggerezza nelle Lezioni americane di Calvino. L’apparente distanza delle considerazioni calviniane – forse quelle che sorprendono di più tra i riferimenti suggeriti – è superata nella sottolineatura della presenza nel romanzo della «rutilante vitalità del fascismo», che è aggressivo, rumoroso, quindi facilmente ascrivibile a quello che Calvino definisce «regno della morte» [6], ma anche della coscienza della necessità di una riappropriazione della concretezza delle cose da parte del linguaggio. Inoltre se la pietrificazione dei Marano si lega alla pesantezza di cui le Lezioni americane invocano il superamento, nella percezione da parte di Petro del dolore individuale e nella  possibilità di una risposta collettiva alla sofferenza del mondo, Traina individua l’intreccio tra riflessione calviniana e echi leopardiani, in particolare nel passo del capitolo VIII: «Una suprema forza misericordiosa potrebbe forse sciogliere l’incanto, il grumo dolorante, ricomporre lo scempio, far procedere il tempo umanamente. O invocare ognuno, il mondo intorno, a capire, assumere insieme l’enorme peso, renderlo comune, e lieve» [7].

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Il terzo saggio, finora inedito, cala il lettore nel mistero del marabutto (Nel marabutto: Lo Spasimo di Palermo) e dell’ultimo dei romanzi consoliani, portando alla luce, attraverso considerazioni sui molti significati del termine, anche il senso sepolto (inabissato) della narrazione. Il termine è di per sé polisenso – eremita, tomba mausoleo, cisterna sotterranea – ma a contare sono i significati che esso assume per Chino Martinez. Dapprima luogo sotterraneo, scoperto nell’infanzia con l’amico Filippino, il marabutto prelude forse al difficile destino di scrittore che deve impegnarsi a trovare ‘il motto giusto’. Ma diventa subito anche ricovero per sfuggire alla collera paterna e sarebbe segreto da condividere con Lucia, la sola che possa godere della bellezza delle pitture murali, ma i gemiti del padre e della siracusana lì rifugiatisi per fare l’amore lo rendono emblema del rimosso. Chino infatti, spinto da molteplici sentimenti, non ultimi odio e rivalsa, contribuisce suo malgrado alla morte del genitore e della sua amante per mano dei tedeschi e ciò diventa per lui causa di rimorso perenne e radice della futura pazzia per la ragazzina che è l’unica a vedere i cadaveri di sua madre e del padre del protagonista.

Così il marabutto è l’aleph, il punto di partenza e, nel senso borgesiano, il luogo in cui sono riassunti tutti i luoghi, la storia che le riassume tutte. Ma indica anche l’eremita e, se – è la premessa di Traina – nell’opera di Consolo questa figura è ricorrente e significativa e spesso ridotta all’afasia o ad un’ecolalia che non comunica, come nel caso del frate belga di L’olivo e l’olivastro, questa accezione è valorizzata nell’ultimo romanzo in vari modi. Innanzitutto Chino Martinez «opta per una sorta di romitaggio laico» che è illusorio nel caos di Palermo, ma soprattutto sceglie un’afasia di scrittore che diventa anche afasia nei rapporti umani, persino nei confronti del figlio. Inoltre l’auspicio «T’assista l’eremita» che chiude il proemio, ricondotto da Traina proprio all’incontro con il frate belga, va inteso in relazione con l’effetto del marabutto sulla vicenda di Chino e va collegato al motto del fioraio che precede l’esplosione letale alla fine del romanzo, «Ddiu ti scanza di marabutta». Ma lo studioso, provando a indagare tutte le accezioni della parola marabutto, suggerisce che forse eremita è anche il giudice obiettivo dell’attentato mafioso e la sua condizione rinvia alla vera solitudine sperimentata da Paolo Borsellino la cui vita si è svolta tra l’aleph della farmacia di famiglia di quel quartiere poverissimo che è la Kalsa, di cui Consolo si ricorda in Le macerie di Palermo, e il tremendo isolamento finale da cui nessuno l’ha protetto.

Il saggio successivo si concentra sulla scrittura d’intervento e sui testi confluiti in La mia isola è Las Vegas e Cosa loro verificando analogie e specificità di questi rispetto a quelli confluiti nel Meridiano curato da Turchetta. In particolare Traina si sofferma sull’uso dell’ironia costruita attraverso l’elencazione nominale, la deformazione onomastica, la scelta del dialetto o di forme regionali anche sul modello gaddiano, i rifacimenti mimetici ancora gaddiani, o con la prospettiva dell’io narrante, straniante e eticamente indifendibile come nel racconto La mia isola è Las Vegas. Inoltre in tutta la scrittura d’intervento, che si tratti di interventi sulla mafia o di articoli di politica internazionale, è riscontrabile un grande scrupolo documentario. Infine Traina segnala nella produzione estrema di Consolo una tendenza ad analizzare fenomeni di portata mondiale, a partire dal tema delle migrazioni del Mediterraneo e, a tal proposito, si sofferma sull’interessante ma poco noto Civiltà sepolta [8], articolo che nel richiamo del titolo all’archeologico Civiltà sepolte di C. W. Ceram allude antifrasticamente al «seppellimento morale della nostra attuale civiltà, emblematizzato dal perdurante ricorso alla tortura». Nel testo lo scrittore si sofferma sulle tante violazioni dei diritti umani, a partire da quelle compiute da fascisti e comunisti per arrivare alle moderne torture statunitensi. Traina vi rileva un ricorso preciso a toponomastica e onomastica – per citarne alcuni, Abu Ghraib, Baghdad, Nassiriya, Maurizio Quattrocchi, Nicholas Berg – fondato sulla convinzione che il nome possa facilmente, fissato sulla pagina, diventare emblema per tutti, in un crescendo apocalittico che l’ecfrasi finale del monumento ispirato alla fotografia di Lunchtime può, compensando la voragine angosciante di Ground Zero moltiplicata nelle immagini televisive dell’11 settembre 2001, riscattare con un moto di speranza – la profezia di una ricostruzione nella particolare scelta iconica che si riallaccia alle modalità dei grandi romanzi – la logica della guerra.

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L’ultimo saggio, Consolo e il Mediterraneo arabo: «tra un mare di catarro e un mare di sperma», rielabora un precedente intervento su «Italianistica» (n1, gennaio-aprile 2020). Vi si collega, per l’attenzione rivolta al tema del mare e alle modalità con cui si manifesta la presenza araba, l’appendice sciasciana, del tutto inedita. Ma in Consolo la componente araba mediterranea non esiste da sola, bensì mescolata con l’identità greca, ebraica, spagnola, con individuazione dell’arricchimento che nasce proprio dalla fusione di civiltà e culture diverse. Traina passa in rassegna le differenti forme della presenza araba nell’opera dell’autore: quella geografico-artistica che valorizza l’eredità monumentale, soprattutto a Palermo e a Trapani, e la valenza civilizzatrice della dominazione araba in Sicilia non senza mettere in risalto in controcanto la distruttiva barbarie mafiosa contemporanea; quella storico-sociologica che, partendo dall’arrivo degli arabi in Sicilia, sulla scorta di Michele Amari, giunge ad analizzare la doppia migrazione tra l’isola e il Nord Africa e gli esiti tragici delle traversate dei nostri giorni; quella letteraria che dalla conoscenza di Ibn Giubayr e degli altri antichi scrittori arabi siciliani giunge all’interesse per autori contemporanei palestinesi o maghrebini; infine quella politica con le riflessioni sulle guerre del Mediterraneo, su eventi come l’11 settembre, e, ancora una volta, sulle migrazioni.

Il saggio mette in luce un aspetto, secondo me, fondamentale nella riflessione consoliana, ovvero la forza vivificatrice della mescolanza tra popoli. La stessa rappresentazione, entusiastica, della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine elime, greche, puniche testimonia nell’opera dell’autore il valore degli incontri, degli scambi tra popoli di culture diverse, ciò che è, da sempre, motivo del cammino della civiltà.

Le considerazioni di Traina per l’interesse di Consolo nei confronti di Tahar Ben Jelloun, che evidenziano tra l’altro una comune predilezione per la dimensione dell’oralità, permettono di cogliere un auspicio di meticciato anche sul piano letterario. La soluzione alla crisi linguistica e letteraria – in particolare del romanzo, minacciato dalla comunicazione del potere in virtù della sua valenza comunicativa – risiederebbe in un incontro straordinario tra lingua della memoria e lingua scelta per comunicare, proprio come nel caso dello scrittore marocchino che pur scegliendo il francese – la lingua degli ex colonizzatori – per scrivere non ha rinunciato alla sua identità maghrebina. Ma il meticciato dovrebbe essere l’esito anche sul piano biopolitico: l’Europa vecchia – «un mare di catarro» – ha bisogno della vitalità giovane che possono portare i migranti. In consonanza con l’aforisma zanzottiano [9], Consolo evidenzia la necessità e la positività della mescolanza, non tanto o non solo per spirito umanitario ma per evidenti ragioni politiche e economiche: si tratta, d’altra parte, di riconoscere il cammino della Storia, tanto più della Storia di un siciliano, segnata da così tanti popoli e commistioni.

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In un Mediterraneo dilaniato da guerre e morte la speranza risiede, a sorpresa, in San Benedetto, nel santo nero di origini popolari. Soffermandosi in chiusura sull’analisi del racconto Il miracolo, che, con tono sarcastico e grottesco, narra di come una ragazza semplice e chiusa nella fede in un vicolo del centro storico di Palermo si convince di essere stata messa incinta da San Benedetto e non da un migrante nero che ha bussato alla sua porta, e sugli articoli dedicati al santo – con la proposta di eleggerlo copatrono accanto alla bianca e aristocratica Santa Rosalia proprio in virtù della presenza significativa di immigrati – Traina mette evidenzia la forza del simbolo che Consolo ci lascia in eredità: a Palermo, nell’isola e in tutto il Mediterraneo dovrebbe essere finita l’epoca delle madri sofferenti che piangono i loro figli, dovrebbe esserci invece «un nuovo tipo di padri, non legati all’atavica cultura mafiosa ma capaci di tenere in braccio un bambino, come il santo nero nell’allucinata narrazione della ragazza del Miracolo».

Resta, alla fine della lettura di questi saggi, oltre ad una rinnovata vertigine di fronte alla ricchezza del palinsesto consoliano, l’apprezzamento per la pregevole opera di scavo operata da Traina il cui denso resoconto testimonia una cura attenta e consapevole dell’eredità dell’autore. Questa è percepita come propria nell’atto dell’indagine ma, nella scelta di uno specifico corpus di indagine e nel focus su questioni care a Consolo e assolutamente non risolte, come le migrazioni, la violenza, la violazione dei diritti umani, l’uso distorto della lingua, il rapporto tra uomo e natura, è proposta anche, ancora e urgentemente, a tutti.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1]   D. O’Connell, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italià», 13, 2008: 161-184 (:163).
[2]   M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in «Italica», LXXXII, I, 2005: 24-43.
[3]  Ne ho diffusamente parlato in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021, in particolare: 230-245.
[4]  V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e la Milano, la memoria e la storia, a cura di Renato Nisticò, Donzelli, Roma, 1993: 47.
[5]  R. Galvagno, L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Milella, Lecce, 2022: 199.
[6]   I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano,2023: 16.
[7] V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano, 2015: 712.
[8] V. Consolo, Civiltà sepolta, in L’Unità, 15 maggio 2004. L’articolo è reperibile per intero online https://vincenzoconsolo.it/?p=2928
[9]  A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69.
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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo

– Storia di un lungo viaggio dal procedimento memorialistico intrecciato con la coscienza civile di un personaggio-scrittore siciliano che acquista coscienza del fallimento generazionale e della pervasività del potere mafioso.

Federico Guastella

Lo spasimo di Palermo, romanzo dal tono elevato e dotto dalle ardite scelte stilistiche scritto da Vincenzo Consolo e pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1998, ha il primo capitoletto caratterizzato dal segno del corsivo e senza denominazione. In merito, Giuseppe Traina in Da paesi di mala sorte e storia (Mimesis, 2023), ha scritto che lo stile è: Misterioso, oracolare, zeppo di criptocitazioni e presenta una voce – più evocante ed esortante che narrante – che invita un interlocutore ad “andare”: questi acquista quasi subito i connotati di Ulisse, grazie a diverse allusioni alla materia ulissiaca. Un “proemio”, dunque, da potersi intendere come un “invito al viaggio” da fare insieme. Vi si legge un’affermazione che fa riflettere sul tempo identico nel suo scorrere: “la storia è sempre uguale”, cui segue un invito alla maniera di Eliot: Ora la calma ti aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. Inizia così l’oscuro tragitto che è ricerca d’identità: Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadire, angoscia è il deserto, la pista che la sabbia ha ricoperto. T’assista l’eremita l’esule il recluso, ti guidi la fiamma di lucerna, il suono della sera, t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento. Ramificato l’intreccio che costringe il lettore alla ripresa delle pagine già lette e ad un procedere con tanti interrogativi. Il capitolo che segue, denominato I, introduce in un piccolo albergo di Parigi denominato “La dixième muse”, dove lo scrittore Gioacchino Martinez, Chino, mentre aspetta d’incontrare il figlio esule per terrorismo, rievoca la sua infanzia in Sicilia, da cui affiora un trauma: Fluttuava nel fondo dell’acqua catramosa il nome della remota visione, dell’oblunga sagoma implacabile. Si domandava da quale muffito sotterraneo, da quali strati dimentichi del tempo poteva esser sorto, nel tempo dell’infanzia, quell’arcaico incunabolo. Il brano è psicoanalitico; segna la riappropriazione dell’inconscio dal cui abisso si profila la visione d’un film con un personaggio chiamato Judex, il gran giustiziere e vendicatore. L’aveva visto quel film all’oratorio proprio quando un bombardamento incuteva terrore e seminava morte in paese. Da qui la decisione del padre di Chino di rifugiarsi in campagna, a Rassalemi, dove li raggiunge “La siracusana” con la figlia Lucia: la sua amante, dato che era rimasto vedovo. Suggestiona l’inventività a proposito della scoperta d’una tana effettuata col compagnetto Filippo: Filippo gli mostrò l’entrata ad arco, schermata dalle frasche, d’una cisterna o marabutto sepolto dal terriccio. Dentro era una stanza vasta, la lama d’una luce che per lo spacco nella cuba colpiva il suolo muffo, schiariva i muschi sopra i muri, e le strame, i nòzzoli di capre presso i canti. In una nicchia, sopra la malta liscia, era la figura d’un uomo accovacciato, un gran turbante, gli occhi a calamaro, che pizzicava le corde d’un liuto, d’una donna allato fra viticchi e uccelli che ballava. Chiarisce Traina: Il nome “marabutto”, dunque, indica qui una cisterna sotterranea, utilizzata forse per accumularvi acqua (lo farebbero pensare la presenza di muschi e il suolo muffito) oppure come rifugio per capre: usi recenti e degradati, rispetto alla destinazione primitiva a tomba o mausoleo, testimoniata dalle decorazioni murarie. Il dialogo fra i due ragazzini corrobora la consistenza di “altrove siciliano” in un’arcaica magia: – C’è qui la trovatura – disse Filippo – Ci vuole il motto giusto, e appaiono pignatte, cafisi di tarì. Sai uno strammotto, una rima per spegnare? E a Chino viene in mente una canzone appresa all’oratorio. Da allora il “marabutto” diventa il luogo privilegiato, “autoreclusivo” e nascosto, incognito e segreto, un piccolo eremo dove rifugiarsi in solitudine per sfuggire all’ira paterna e contemplare, incantato, le pitture murali che gli evocano le figure femminili a lui familiari. Lo condivide con Lucia e le mostra il boschetto curato dallo zio (conoscitore della botanica e amante dell’arboricoltura), conducendola fino alla grotta dei Beati Paoli dal cammino “oscuro e tortuoso” verso il regno ctonio; sull’arco d’ingresso l’incisione: PER ARTE E PER INGANNO Chiaramente alludeva all’artificio e all’inganno che sono di ostacolo a chi vuole agire per giustizia a favore del popolo siciliano. Dal “marabutto” a Nico giungono gemiti erotici da cui riconosce la presenza del padre intento a fare all’amore con la siracusana. Da qui il sorgere del rapporto ostile con lui fino a denunciarlo ai tedeschi. Intanto il marabutto diventa rifugio nel corso dei bombardamenti. E in quel rifugio, il piano architettato da Chino, favorito dalle circostanze, causa la morte del padre e della siracusana: un trauma per il ragazzo che rimuove l’accaduto al punto di non ricordarlo più. Di vicenda in vicenda, si susseguono le sue scoperte nel corso della devastante guerra. Poi il difficoltoso dopoguerra e Chino, ormai orfano, si ritrova con lo zio in città, a Palermo. Chino e Lucia: lui libero di muoversi e di andare in gita coi compagni; lei reclusa in un collegio di suore, privata di visite e di vacanze. Chino, preso da rammarico e da pena, ottiene, per intercessione dello zio, che Lucia trascorra un periodo nella loro casa. La passeggiata al mare si ramifica in vari episodi, in altri itinerari. Dinanzi alla grotta di Santa Rosalia, Lucia, pallida e tremante, fugge: Non so, non so, mi prende sempre il tremito, il terrore sulle porte del buio, dell’umidore… io… io ricordò tutto, Rassalèmi, il marabutto, rivedo sempre mia madre, quei corpi insanguinati sul carretto… Piange lei stretta forte a Gioacchino: Lui no, non aveva visto, era fuggito, una fuga era stata la sua vita. Vale ora la pena di accennare alla nascita di Mauro, figlio di Chino e di Lucia, lei tenerissima destinata alla follia. Anni dopo avviene lo scoppio d’una bomba: un attentato nell’ingresso della loro villa, ereditata dallo zio. L’investigatore, un commissario di polizia, così gli si rivolge: Professore, qui c’è una guerra, non la sente? Spari per le strade, kalashinikov nei cantieri. Mai tanta furia insieme. Si sterminano tra loro. La posta ora in gioco sono i terreni, gli appalti, le licenze… Ha mai sentito di un certo Scirotta Gaspare? […]. Uno stracciaiolo divenuto il più grosso costruttore, prestanome di politici potenti… Ha capito adesso? Chiaro l’avvertimento della mafia: impossessarsi a bassissimo costo del terreno su cui sorge la villa per affari loschi di speculazione edilizia. Mauro, che ormai studia filosofia, convince il padre a trasferirsi in una città lontana: Fuggire dal pantano, dal luogo infetto, salvare forse così la madre, lasciare quella terra priva ormai di speranza, nel dominio della mafia. All’arresto di Mauro, che all’università ha elaborato la sua filosofia e politica, segue la perquisizione della casa. Ecco la coincidenza. Nico stava scrivendo un racconto “La perquisizione” e aveva lasciato i fogli sopra il tavolo. Il borghese li nota e scorge rapido l’inizio, soffermandosi sulla scena in cui fa irruzione la polizia che butta a terra i libri e scruta dietro gli scaffali. Legge dunque ciò che stanno facendo i gendarmi: “Mi sembra di sognare”, disse. Lei sapeva, prevedeva. Avviene la scarcerazione prima del processo, poi la latitanza a Parigi per sfuggire alla repressione politica. Da qui l’accorato addio di Nico a Milano e il ritorno da vedovo in Sicilia col pensiero del figlio e “Lo confortava saperlo con Daniela, quella donna generosa, intelligente” (abile mediatrice fra padre e figlio). Egli, dunque: Tornava nell’isola, il porto da cui era partito, in cui si sarebbe conclusa la sua avventura, la sua vita. Si ritrova non più nella lussuosa villa d’allora, ma in un brutto appartamento condominiale. È l’uomo colto e scrittore civilmente impegnato Martinez (“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”); forse per l’esigenza di una mappatura culturale, oltre che topografica, del territorio, legge libri anche in lingua spagnola e si ritrova nella Biblioteca Comunale di Casa Professa; compie il giro per la città, pensando alla povera signora, sua dirimpettaia, che attende l’arrivo del figlio magistrato. Rari i contatti con le persone, l’unico con cui si intrattiene è il fioraio mastr’Erasmo. Siamo nel capitolo X, dal tenero inizio, dove si parla dell’incontro di Martinez con Borsellino (Judex, il giustiziere antimafia), che accenna ad uno dei suoi libri, riportando la frase dello scritto ne “Le pietre di Pantalica”: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino… Il pessimismo è totale: – Sono passati da allora un po’ di anni… – disse Gioacchino. – Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio. Dalla profonda crisi di Nico la decisione di scrivere al figlio, spinto dal bisogno di confessare e di chiarire (un consuntivo potrebbe dirsi personale e intellettuale): … Non sono mai riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch’io credevo di odiare in quel momento mio padre, per la sua autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli che cominciano a sentire nel padre l’avversario. Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna s’è rimarginata grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello screziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s’è rimarginata, ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con l’assenza della madre e con la presenza odiosa di quello che formalmente era il padre. È questo il brano d’una lunga lettera dove confessa al figlio il fallimento della sua generazione, il bisogno della rivolta nell’ambito della scrittura, il profondo sentimento per Lucia, nonché il senso della sconfitta a seguito degli attentati contro i giudici Falcone e Borsellino. Si conclude il romanzo con il gran boato a seguito del gesto del giudice che preme il campanello del condominio in cui abita la madre. È il 19 luglio 1992. Evidente il fallimento d’ogni speranza nell’Italia degli anni Ottanta-Novanta, sotto il segno della sconfitta, di fronte alla pervasività del sistema mafioso, si conclude la storia d’un lungo, terrificante viaggio.

Pubblicato il 30-05-2024

«Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) di Giuseppe Traina (Mimesis, 2023).

Dalla Premessa al volume:

Questo libro scommette sull’ipotesi che […] le opere di Consolo comprese tra gli anni Novanta e la morte (2012) siano dotate di una peculiare capacità di parlare al lettore di oggi con intatta veridicità e particolare efficacia per il presente.

Ciò non vuol dire che le sue prime opere abbiano perduto valore: tutt’altro! La ferita dell’aprile (1963),romanzo d’esordio, rimane, a mio (e non solo mio) avviso,un’opera ancora da riscoprire e da sottrarre al coté tardo-neorealista nel quale è stata impropriamente arruolata; Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) è un capolavoro indiscusso che seppe rimettere in discussione e positivamente decostruire la tradizione del romanzo storico italiano; Lunaria (1985) è un’opera che, al di là delle apparenze rococò, rivela una notevole forza espressiva, da rileggere nell’àmbito di un’altra peculiare mitografia, per l’appunto di argomento lunare, alla quale ha apportato un contributo non sottovalutabile; Retablo (1987) è un altro capolavoro (forse non troppo amato dal suo autore e forse per questo un po’ trascurato da taluni studiosi) che andrebbe letto, oltre che per il suo specifico valore di testo perfettamente in bilico tra espressività linguistica e iconografica, inserendolo ai piani alti della breve stagione postmoderna della letteratura italiana (ipotesi storiografica per alcuni studiosi risibile ma per me molto seria, eppure da verificare con rigorosi supplementi d’indagine); Le pietre di Pantalica (1988) è una tappa importantissima, che rivela ormai la sua natura ancipite di raccolta di racconti ma anche di rielaborazione di un romanzo mancato, e che, forse proprio per questo, traghetta l’autore verso una stagione nuova che si apre, se la mia ipotesi è corretta, con gli anni Novanta.

Rimandando alle pagine successive per la parte analitica del mio ragionamento, si può qui alla svelta ricordare che, dagli anni Novanta in poi, testi come L’olivo e l’olivastro,del 1994(ma con anticipazioni significative presenti in Retablo e Le pietre di Pantalica), Nottetempo, casa per casa (1992), Lo Spasimo di Palermo (1998) e la costellazione di raccontini, articoli, brevi saggi e testi memoriali che sono stati, in parte, raccolti in Di qua dal faro (1999), La mia isola è Las Vegas (2012) e Cosa loro (2018), hanno consentito a Consolo di porsi in posizione di tempestiva e “militante” presenza, quando non di acutissima anticipazione, rispetto a fenomeni sociali di indiscutibile centralità, non soltanto nella vita pubblica italiana ma anche in quella internazionale (Consolo ha dimostrato un’attenzione agli scenari politici e culturali internazionali che, dopo la morte di Sciascia e Calvino, trova soltanto in Claudio Magris un possibile termine di paragone nella letteratura italiana di fine secolo): l’opzione netta per uno “sviluppo senza progresso” e le conseguenze visibili soprattutto in campo economico e ambientale, non disgiunte, talvolta, dal ritorno, o rigurgito, di facili soluzioni politiche affidate all’“uomo forte” di turno; l’oblio sistematico della memoria storica e della sensibilità linguistica che l’appiattimento sul presente della comunicazione telematica e la diffusione di basici e asettici linguaggi transnazionali hanno irrimediabilmente innescato; il picco di violenza raggiunto dal potere di Cosa Nostra e poi la sua non meno pericolosa sommersione, che implica il non mollare mai la presa rispetto ai gangli del potere politico ed economico; l’aumento esponenziale delle migrazioni in àmbito mediterraneo e la tragica diversità delle risposte che i governi hanno dato al dilagare del fenomeno.

Se la trattazione di tali temi fosse stata affrontata da Consolo con piglio meramente testimoniale, staremmo parlando di risultati non troppo diversi da quelli raggiunti da scrittori-giornalisti importanti come Alessandro Leogrande e Roberto Saviano; ma importa non dimenticare che mai, o quasi mai, il Consolo di questo ventennio estremo ha dismesso la sua inconfondibile vocazione a una scrittura che non soltanto si distaccasse sistematicamente dalla lingua d’uso ma che, per la sua natura “palinsestica”, si collocasse anche in una posizione critica e autocritica di continua rimessa in discussione dei fondamenti (stili, generi letterari, collocazione dell’intellettuale) che la tradizione letteraria italiana ha codificato.

In questo atteggiamento sta la fedeltà di Consolo a sé stesso, alle sue opere degli anni Sessanta-Ottanta e alla sua caparbia collocazione intellettuale “di opposizione”; ma è anche vero che, rispetto a quelle prime opere, in alcuni testi del suo ventennio estremo Consolo è riuscito, con difficoltà e con sofferenza, a dischiudere, sempre in letteratissima forma, talune significative feritoie su uno strato “rimosso” della sua storia personale e familiare. Se ne hanno cospicue testimonianze, che vanno interpretate con misura e sensibilità, soprattutto nei due romanzi Nottetempo, casa per casa e Lo Spasimo di Palermo. […]

Ho cercato di mettere in relazione tali componenti riconducibili al “rimosso” con […] una problematica rielaborazione del mito ulissiaco: anche nella riscoperta del poema omerico Consolo si è collocato in significativa sintonia con altri importanti esponenti della letteratura mondiale a cavallo dei due secoli.

Vincenzo Consolo, “Di qua dal faro”

Alfio Pelleriti
10 gennaio 2024

In “Di qua dal faro” Vincenzo Consolo veste i panni del critico letterario conservando tuttavia la prosa ammaliante e piena di vibrazioni emotive, regalando ai lettori un saggio ineludibile per cogliere sentimenti, contraddizioni, tragicità e poesia nell’universo siciliano nel quale l’autore conduce il lettore in una esplorazione culturale, storica, antropologica. Della Sicilia presenta gli elementi costitutivi della sua storia e delle sue tradizioni, oltre che le più importanti produzioni letterarie, non tralasciando informazioni che attengono i settori produttivi: la pesca del tonno, le miniere di zolfo, gli eventi tragici relativi ai terremoti del 1693 in Val di Noto e a quello di Messina del 1908; il mondo dei vinti nella produzione verghiana; lo smarrimento dell’identità personale nelle opere di Pirandello; l’analisi socio-politica della Sicilia pessimistica e scettica nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o nei romanzi di Leonardo Sciascia, fino alle “Parole come pietre” di Carlo Levi.

In “Di qua dal faro”, come in tutte le opere di Consolo, da Retablo al Sorriso dell’ignoto marinaio, alle “Pietre di Pantalica”, anche il paesaggio sembra indissolubilmente legato all’analisi delle caratteristiche comportamentali dei siciliani: “nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… e sopra vi volteggiano i neri corvi… sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disumana, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei tauri.”[1]

Un elemento che accomuna buona parte della letteratura siciliana, dice il Nostro, è il Nòstos, il ritorno in patria dopo esperienze in altri mondi, in altre culture, per riscoprire un legame forte e profondo con la cultura della propria terra, che si rivela unica, prodotto di molteplici influssi linguistici, storici e culturali. Alcuni intellettuali hanno negato tale peculiarità, in nome di un’apertura alla modernità e al progresso, chiudendo con lo stereotipo di una Sicilia contadina, chiusa alle novità e rassegnata ad una subalternità culturale, orgogliosa e velleitaria nel volersi isolare in nome di una unicità ormai inesistente. Fu questa la posizione di Elio Vittorini, dice Consolo, antesignano del neorealismo e dello sperimentalismo in letteratura, aperto alla cultura anglosassone e alla letteratura americana in particolare, convinto assertore della posizione gramsciana dell’intellettuale organico per approdare ad una egemonia culturale che potesse aprire le porte alla nuova società democratica, moderna e liberale. Era questa una posizione molto critica col dialetto, pur vivendo in un periodo di sperimentalismo linguistico come quello di Gadda, di Pasolini, di Stefano D’Arrigo, di Ignazio Buttitta. D’Arrigo, in particolare, viene presentato da Consolo come un autore appassionato e originale con il suo splendido “Horcynus orca”, pubblicato poi in una nuova edizione con il titolo di “I fatti della fera”, un romanzo straordinario che si colloca nella scia dei Malavoglia di Verga, che adopera una lingua aperta a vari innesti culturali ma al cui fondo c’è comunque il dialetto. Nel romanzo di D’Arrigo emerge una visione rassegnata e pessimistica sulla possibilità di riscatto della Sicilia in un’opera monumentale e affascinante, dalla scrittura affabulatoria e poetica che si può accostare, senza false modestie, all’Ulisse di Joyce, quanto a ricerca di nuovi canoni espressivi.

Vincenzo Consolo

Consolo, in questo suo viaggio nella produzione letteraria siciliana, non poteva tralasciare la presentazione di Pirandello, lo scrittore che cerca di uscire dalla “prigione” isolana e dai confini linguistici segnati dal dialetto con i riferimenti ad una tradizione piegata spesso ad anti valori, rassegnata al prevalere del male, all’inutilità dell’impegno politico. Pirandello è voluto uscire da tali confini, da lui percepiti come solide sbarre d’un carcere, per approdare ad una riflessione sull’uomo inserito in un mondo dai più vasti orizzonti e con uno sguardo volto al futuro, alla ricerca di soluzioni nuove. I risultati, tuttavia, saranno quelli tipici di un approdo allo smarrimento e all’angoscia esistenziale, alla necessità dell’isolamento rispetto a un contesto sociale che annulla e reifica.

Altre pagine interessanti sono quelle dedicate a Zola e al tema del rapporto tra intellettuale e scrittore. Afferma Consolo che lo scrittore francese col suo J’accuse contro i giudici che avevano condannato il capitano Dreyfus, ha vestito i panni di un intellettuale prestato alla politica e tuttavia egli avverte che quello non è il suo ruolo, poiché più che dalla politica e dall’impegno sociale egli è attirato da “altro”, cioè da quella dimensione del reale in cui lo scrittore indaga sull’uomo cercando le risposte al senso della vita.

E a proposito dell’impegno sociale degli scrittori italiani emerge in Consolo una certa amarezza dopo aver constatato che spesso preferiscono non accostarsi a problematiche sociali e politiche che porterebbero a scontrarsi con chi s’è assunto la responsabilità di amministrare quegli ambiti. Dice Consolo: “Gli scrittori italiani, i letterati, considerati dal potere superflui o esornativi, hanno da sempre stabilito col potere stesso un patto di silenziosa servitù e di convenienza per ricevere protezione ed emolumenti. Solo pochi scrittori, isolati, ‘non protetti’, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia. Pasolini, tra gli ultimi, è stato uno di questi: da poeta s’era fatto intellettuale, polemista, lanciando dalle prime pagine dei giornali i suoi j’accuse, processando il palazzo per farsi processare… e Leonardo Sciascia. Scrittori isolati.[2]

Il saggio di Vincenzo Consolo è essenziale per la comprensione del contesto culturale nel quale si inscrive la produzione letteraria italiana e siciliana in particolare. Non manca niente e nessuno in questa sua analisi e, a ragione, essa può definirsi completa, esaustiva, con uno stile elegante e leggero, qui e là venato dal rosso della passione, perché della sua terra egli parla e dei suoi amici scrittori, di quelli con cui s’è accompagnato, come Sciascia, e di quelli che ha apprezzato leggendone le opere, sulle quali s’è formata la sua sensibilità e la sua peculiarità creativa. Costoro si ritrovano in questo suo lavoro, insieme ad autori che, sbrigativamente, sono considerati “minori”, come lo storico Michele Amari, di cui parla nel capitolo “La Sicilia e la cultura araba”[3], davvero illuminante per cogliere il profondo apporto dato da quella cultura alla lingua, all’architettura, alla letteratura, all’economia, all’agricoltura con l’inserimento di colture che diventeranno fondamentali in tale settore economico: l’ulivo, la vite, il limone, l’arancio, il cotone. E ancora, grazie a quello scambio culturale e commerciale, la pesca divenne un importante settore economico, soprattutto con la lavorazione del tonno. Ma la presenza araba in Sicilia fece registrare anche un miglioramento della macchina amministrativa: fu in quel periodo che si introdusse la divisione dell’isola in tre valli: Val di Mazara, Val Demone, Val di Noto e si affermò un nuovo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza tra popoli di cultura, razza e religione diverse.

Del resto, tutti gli interventi di Consolo in questo suo prezioso viaggio nella storia e nella cultura siciliana, sono chiarificatori e illuminanti per capire le radici di quella che viene definita “sicilianità”, ma qualcuno dei suoi capitoli risulta davvero interessante oltre che elegante come, ad esempio, quello sul rapporto tra spazio fisico e produzione letteraria. Esso presenta un percorso che ha inizio con i poemi omerici, in particolare con l’Odissea seguendo il Nòstos di Ulisse, ma anche il viaggio di Telemaco alla ricerca del padre e della sua iniziazione e maturazione, e continua con l’Eneide di Virgilio, “seconda grande Odissea”, e ancora l’Odissea di Dante, La Divina Commedia, con i luoghi adibiti alla condanna dei peccatori, all’espiazione delle colpe nel Purgatorio e ai premi nel Paradiso celeste. E presenta ancora lo spazio vasto (Europa, Africa, Asia) in cui si svolgono le vicende dell’Orlando furioso di Ariosto, e poi segue La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il cui spazio tocca Gerusalemme, l’Egitto e Costantinopoli, e ancora il Don Chisciotte di Cervantes, la letteratura anglosassone con Robinson Crusoe, Moby Dick, L’isola del tesoro.

Infine, afferma Consolo, per ciò che riguarda la letteratura italiana moderna, gli spazi riguardano soprattutto la provincia e qualche città, ma si tratta sempre di spazi ristretti, dai Promessi sposi di Manzoni, ai Malavoglia di Verga, per giungere a Pirandello, che restringe ulteriormente gli spazi dove si muovono i suoi personaggi. Con lui si passa alla “stanza” come luogo in cui si svolgono le sue storie e spesso diventano “stanze di tortura”, lì “dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento in quella storia è solo verbale.[4] L’analisi del tema del rapporto tra spazio e letteratura si chiude con “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, dove il protagonista, Silvestro, ritorna dopo tanti anni in Sicilia, nei luoghi della sua infanzia e lì ritrova la sua casa, la madre, che da Torino avevano assunto l’aura del mito ma che si rivelavano adesso senza più quei riferimenti ideali che aveva custodito nella lontananza. Col ritorno si dipana ogni velo e la realtà appare povera, esangue, banale perfino. Riferendosi ad una successiva pubblicazione di Vittorini, “L’olivo e l’olivastro”, Consolo chiude il capitolo con un’amara considerazione che riguarda anche la sua condizione di esule: “Noi oggi, esuli, erranti, non aneliamo che a ritornare ad Itaca, a ritrovare l’olivo. Lo scacco consiste nel fatto che sull’olivo ha prevalso l’olivastro, l’olivo selvatico.[5]


[1] Ibidem, pag. 12

[2] Ibidem. Pag. 197

[3] Dall’827 al 1072 si colloca la dominazione araba in Sicilia. Ad essa succederà quella normanna.

[4] Ibidem, pag. 269

[5] Ibidem, pag. 270
foto postate di Giuseppe Leone e Claudio Masetta Milone

Addio Addio


Che dolore grande vederlo sdraiato su quel divano del soggiorno di casa, con un plaid addosso, il volto sempre più segnato, la voce sempre più flebile. Agitava il braccio smagrito e la mano, addio, addio. Chissà se quel gesto era l’ultimo saluto, il segno amorevole della vita che si stava allontanando. Il vecchio sofferente era il ragazzetto che nel suo primo libro – autobiografico – La ferita dell’aprile, sprizzava allegria beffarda, un grillo saltellante dalla marina alla montagna siciliana, tra le piazze, i vicoletti, i bagli, l’oratorio, in mezzo ai carusi, ai bastasi, ai preti, alle vocianti donne di paese, alla baronessa secca e bianca, narrazione di un vivere che non può finire mai? Vincenzo Consolo è morto in corso Plebisciti a Milano, dove abitava, dopo un travaglio di mesi. «Mi sto riprendendo», diceva immancabilmente, e non si capiva se in quelle parole c’era soltanto la sua antica ironia o anche un pizzico di speranza. Perché Vincenzo ha intensamente amato la vita, anche nei momenti più difficili di dramma e di sofferenza. E Caterina, sua moglie, come quelle solide figure della mitologia greca che gli piaceva tanto, gli ha sempre dato la forza e il coraggio di cui aveva bisogno. È nato il 18 febbraio 1933 a Sant’Agata di Militello, nella piazza del paese, non lontano dal mare. Un paese del messinese, sulla costa del Val Démone, tra San Fratello e Capo d’Orlando. Da bambino, ricorda, era piccolo e magro, «con un toracino d’uccello. Zigaga era il soprannome che mi avevano appioppato i fratelli: zirlo, pìspola». La sua è una famiglia di commercianti, la ditta vendeva olio, zucchero, lenticchie, fave, cerea-li. Suo padre, su un camion Fiat 6211, consegnava la merce ai grossisti. Qualche volta il piccolo Vincenzo lo accompagnava. Studi in paese, il liceo Valla a Barcellona Pozzo di Gotto: dopo la maturità la scelta che decide la vita. Consolo non ha esitazioni, è Milano ad attirarlo. La cultura industriale, in quegli anni cinquanta, gli sembra tutto ciò che c’è di nuovo. Elio Vittorini è il primo dei suoi miti, lo conoscerà, anche se non riusciranno a parlare tra loro, paralizzati dalle timidezze reciproche. Vittorini e Sereni stanno riscoprendo il rapporto tra letteratura e industria, Ottieri e Volponi lavorano in fabbrica, i nomi delle grandi aziende, la Pirelli, l’Alfa Romeo, la Breda, affascinano, la città è ricca di energie intellettuali, vi abitano Quasimodo, Montale, gli scrittori, gli scienziati, gli editori. Consolo studia Legge all’Università Cattolica, non per ragioni religiose o ideologiche, semplicemente perché l’aveva preceduto un compaesano. Entra nel convitto universitario di via Necchi, vicino a Sant’Ambrogio, capisce in fretta. Ricorda padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, già vicino ai fascisti e avversario accanito del Modernismo e di tutto ciò che è nuovo: aveva la testa grossa e gli occhi fulminanti. Immobilizzato, veniva spinto su una sedia a rotelle nei chiostri dell’università e incuteva al suo passaggio timore e tremore soprattutto nelle studentesse che non indossavano l’obbligatorio grembiule nero. Ricorda anche il cardinale Schuster, «etereo e magico come una figura onirica, benedicente ricamato di venuzze». nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano Ricorda soprattutto i poliziotti del suo paese, nella vicina caserma della Celere e gli zolfatari siciliani che al Centro Orientamento Immigrati, lì vicino, venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina e fatti partire per le miniere del Belgio dove molti di loro, a Marcinelle e altrove, troveranno la morte. I diversi destini degli uomini. Vincenzo ha deciso di diventare scrittore. Ma Milano è straniera, non ne possiede la lingua, per lui essenziale, quel mondo industriale se l’era soltanto immaginato. Come raccontarlo? Torna in Sicilia, pensa di diventare uno scrittore di realtà viste e vissute, di tipo sociologico. Ma non fa i conti con la sua natura fantastica da archeologo delle parole. Si laurea all’Università di Messina, fa il professore, precario d’epoca, a Mistretta, a Caronia, insegna educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Nel 1963 pubblica La ferita dell’aprile, in una bella collana, «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e da Vittorio Sereni. Con i «Gettoni» di Vittorini è l’iniziativa editoriale più coraggiosa, aperta al futuro, che dà ai giovani talenti l’opportunità di esprimersi. Conosce Lucio Piccolo, il barone di Calanovella, che abita in una villa a Capo d’Orlando. Vincenzo è affascinato dal mondo visionario del coltissimo poeta scoperto da Montale, cugino dell’autore del Gattopardo, che viveva come un uomo del Settecento. Nel salone della villa – con il cimitero dei cani accanto – nel buio più assoluto recitava urlando le sue poesie Soteriche, tra vasi Ming, statuette orientali, cassettoni Luigi XVI, ritratti di viceré e di capitani dell’Inquisizione. Ma è Leonardo Sciascia il vero maestro. È lui a far da contrappeso al fantasioso mondo di Lucio Piccolo. Consolo ritrova con la sua razionalità e i suoi saperi storici, critici, politici, quella strada civile annusata nella prima avventura milanese. La Sicilia contadina cosi amata si e nel frattempo disgregata, la mafia ha riconquistato un potere assoluto, il candore dell’isola è stato macchiato dalla corruzione, dall’ossessione del denaro, più sporco che pulito, dagli assassinii. Il lavoro manca e dove c’è è un lavoro complice, sotto l’ombrello dei protettori della politica degenerata. Consolo decide di partire di nuovo. E il Sessantotto. Milano è incandescente, ricca di fervori. Vincenzo vince un concorso alla Rai, ma viene subito emarginato per le sue idee progressiste. I dirigenti di corso Sempione non si rendono conto, per motivi politici e di convenienza, di ciò che avrebbe potuto fare quel giovane arrivato dal Sud. Dal 1963 al 1976 Consolo non pubblica nulla, sta rimuginando, pensando, studiando. È convinto che la letteratura deve essere nemica del potere. Vuole legare la Sicilia alle idee di progresso sociale e civile della Milano di allora. Ma il linguaggio, come trovare il linguaggio adatto che sente gorgogliare nella testa? Legge Gadda, ma il suo amore per la metafora non lo accomuna allo scrittore dell’Adalgisa. È Manzoni, piuttosto, che gli dà paternità e sostegno: «Nel Manzoni dei Promessi Sposi e della Colonna infame, quello della necessità della metafora. …] L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile» (Fuga dall’Etna, La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli). Come spunta l’idea di un libro nella mente di uno scritto-re? Il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, del museo di Cefalù, fa da scintilla. È il fallimento del Risorgimento, la speranza tradita dei contadini di avere le terre dei feudatari, a povertà dei cavatori di pomice ammalati di silicosi – storia e società – ad accumularsi informi nella testa di Vincenzo. Nel 1976, pubblicato da Einaudi, esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, capolavoro di folgorante bellezza, che fa arrabbiare Roberto Longhi. I pittori non dipingevano i subalterni – un marinaio, poi – ma i doviziosi signori: si facevano infatti ben pagare. Ma l’arte, replica Consolo, e libera e il libro deve essere letto come un frutto dell’invenzione, senza vincoli. Nasce allora, si può dire, Vincenzo Consolo, il Vicè dei compagni di giochi, uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’unico italiano al quale la Sorbona, nel 2002, abbia dedicato un convegno, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, conosciuto forse più in Europa che in Italia. Vince nel 1992 il Premio Strega con Nottetempo, casa per casa e, nel 1994, il Premio Internazionale Unione Latina, con L’olivo e l’olivastro. Per capire la meccanica del suo linguaggio basta leggere nelle Pietre di Pantalica la pagina su una piccola pastora, Amalia: «Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, feibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche». È Amalia la maestra del suo linguaggio, non inventato, risuscitato piuttosto dalle latomie della memoria. La Sicilia nel sangue. Vincenzo non è mai in pace; inquieto, sempre. Non ha di certo bisogno di quella nota di diario che Goethe scrisse nel suo Viaggio in Italia, il 13 aprile 1787: «’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: è qui la chiave di tutto». Appena poteva partiva, eterno migrante del ritorno. Non ha mai tradito la sua isola. Andava nel paese natale e nei paesi più minuti per vedere un’altra volta quel che aveva nel cuore. Non lo ritrovava. Ferito tornava al Nord, a Parigi, a Madrid. E poco dopo riprendeva la strada dell’eterno viaggio, riandava in Sicilia. È morto nella Milano della sua giovinezza. Nella grande stanza foderata dai libri degli scrittori amati di laggiù. Alle pareti un dipinto con una smisurata macchia arancione, il disegno di due ragazzi di Casarsa, di Pasolini, l’Ignoto marinaio di Guttuso, incisioni secentesche, ritratti, carte geografiche dell’isola stampate all’insù e all’ingiù. Tutto sa di Sicilia.

Corrado Stajano
Destini
Vite di un mondo perduto

Il Saggiatore – Milano 2023
Foto di Giovanna Borgese

Vincenzo Consolo si racconta: un contributo autobiografico inedito

Il 18 febbraio 1933 ricorre la nascita di questo autore centrale nella storia della letteratura italiana del Novecento. Attraverso le sue stesse parole ne ripercorriamo la biografia e il senso della sua opera.
Un articolo di Giulia Mozzato

Vincenzo Consolo è stato un autore centrale nella storia letteraria italiana del Novecento. In modo particolare per lo studio sistematico della lingua e della sua evoluzione, per il recupero della forma narrativa poetica, per la raffinatezza della scrittura, per le tematiche sociali che sono state al centro del suo lavoro.
Un uomo fisicamente non alto, non imponente, ma che entrando in una stanza portava con sé una presenza carismatica molto forte, pur con un atteggiamento di estrema disponibilità.

Nel 2004 fu protagonista di una lezione nell’ambito del corso di scrittura creativa che organizzammo. Abbiamo sempre conservato la registrazione di quella lezione, sapendo che si trattava di un contenuto importante, unico.

In quelle parole ritroviamo oggi la sua biografia e il senso della sua opera.

Un contributo prezioso che in occasione dei 90 anni dalla nascita (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933 ed è purtroppo scomparso nel 2012) vogliamo condividere con i nostri lettori.

Non ho mai creduto all’innocenza, innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica… certo ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Quando si intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quanto sia importante ciò che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

Sono nato in Sicilia, ma volevo vivere a Milano

Sono nato in Sicilia e ho fatto i miei studi a Milano, la Milano degli Anni ’50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni.
In piazza Sant’Ambrogio ho frequentato l’Università Cattolica, non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; in questa piazza vedevo arrivare la sera un tram, senza numero, pieno di migranti provenienti dal meridione. Lì c’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, in parte destinato alla caserma della celere, e in parte a un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, o in Svizzera o in Francia. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa stesse succedendo; mi ricordo però queste persone già equipaggiate con la mantellina cerata, il casco e la lanterna.
Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere dello zolfo perché la crisi ne aveva causato la chiusura, e quindi passavano a quelle di carbone; poi sapete che a Marcinelle ci fu quella grande tragedia con numerosi italiani morti… Osservavo questa realtà, mentre in quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore pur frequentando la facoltà di giurisprudenza.
Milano per me era la città dove era stato Verga, dove c’erano Vittorini e Quasimodo, quindi per me era la città giusta dove approdare. Ho insistito coi miei per spostarmi a Milano, specie perché avevo il desiderio di incontrare Vittorini: Conversazione in Sicilia per me era una sorta di vangelo che mi accompagnava da tempo. Ma insieme a Conversazione in Sicilia, dal punto di vista essenzialmente letterario e narrativo, c’era stato tutto un bagaglio di letture che mi aveva formato in quegli anni, ed era tutta la letteratura meridionalista, come Gramsci o Salvemini sino a Carlo Doglio, a Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.

Tutte letture non propriamente letterarie ma di ordine storico-sociologico sulla questione meridionale.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia.
Tornato in Sicilia dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare il notaio o l’avvocato o il magistrato e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, perché era questo il mondo che volevo conoscere: i paesi sperduti di montagna. La mia curiosità e la mia felice voracità di lettore – non c’era la televisione a quell’epoca e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri – mi portava verso letture di riviste, dibattiti culturali. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, come l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni”, una collana di ricerca dove sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani o lo stesso Sciascia; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”.

Non c’era l’affollamento che c’è oggi di un’enorme quantità di libri pubblicati, all’epoca i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva come collocarli, l’importanza che potevano avere. Comunque, quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era di restituire la realtà contadina in forma sociologica, mettendomi sul coté “leviano” di Sciascia, invece poi sia l’istinto sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria e narrativa, narrativa però nel senso più ampio della parola.
Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali, che non erano dei temi assoluti, ma erano dei temi relativi. Questo mi permetteva di svolgere attraverso la scrittura quella che era la mia visione del mondo, quella che era la mia visione storico-sociale, non esistenziale, che era poi il bagaglio di cui mi ero nutrito.

Scrittura e tematiche

Il problema principale era scrivere sì del mondo che conoscevo, del mondo che avevo praticato, di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura?
In quegli anni si esauriva una stagione letteraria che è andata sotto il nome di “neorealismo”, tutta la letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, una scrittura nobilissima, certamente, ma una scrittura assolutamente referenziale, comunicativa.
Ho riflettuto: gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, ma neanche, con lo scarto di dieci anni (e parlo di scrittori autentici, grandi, come per esempio Moravia, o Elsa Morante, o Calvino, o lo stesso SciasciaBassani e tanti altri) avevano vissuto il periodo del fascismo e della guerra, e avevano continuato a scrivere anche nel secondo dopoguerra in uno stile assolutamente comunicativo, in uno stile razionalista o illuminista che dir si voglia.
Non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua. Mi sono convinto che questi scrittori, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che con l’avvento della democrazia potesse nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica con la quale poter comunicare.
Avevano un po’ lo schema della Francia dell’Illuminismo, la Francia del Razionalismo, dove una società si era già compiuta, già formata all’epoca di Luigi XIV, ma poi, con le istanze della rivoluzione, era avvenuta quella novità di riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Pur avendo vissuto l’esperienza della guerra, ai tempi ero un bambino, mi sono formato nel secondo dopoguerra e ho visto che la speranza che questi scrittori avevano nutrito non c’era più. C’erano state le prime elezioni in Sicilia del ’47, con la vittoria del blocco del popolo, la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale, ed erano seguite le intimidazioni. C’era stata la strage di Portella della Ginestra, e poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC; io osservavo, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, che si sperava e a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie e molti problemi ereditati dal passato.
Quindi per me la scelta di quella lingua, di quello stile comunicativo, era assolutamente impensabile, io non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico “centrale”, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia… anzi di Moravia si diceva che scrivesse con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera. A Moravia interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un tale mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare; e quindi la mia scelta fatalmente andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma fatalmente mi collocavo in una linea stilistica che partiva nella letteratura moderna, che partiva da Verga, e arrivava agli ultimi epigoni: GaddaPasoliniMastronardiMeneghello. Sperimentatori o espressivi che dir si voglia, una linea che ha sempre convissuto nella letteratura italiana con l’altra.
Però le tecniche degli sperimentatori-espressivi naturalmente sono personali, variano da autore ad autore; per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni. Manzoni voleva “sciacquare i panni in Arno”, cioè riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una lingua unica, e così, dopo aver scritto Fermo e Lucia  ha scritto I promessi sposi nella lingua “centrale” toscana, ma pure lui i panni li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche con l’illuminismo francese.

Verga è stato il primo che ha rivoluzionato questo assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai stata scritta, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto) ed era una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, in primo grado, diciamo, quella che Dante, nel De vulgari Eloquentia chiama “la lingua di primo grado”; Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”.
Verga rappresenta i contadini di Vizzini oppure i pescatori di Aci Trezza che non avrebbero mai potuto parlare in toscano, sarebbe stata un’incongruenza.
Io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale milanese del 1872, e arrivava, man mano negli anni, al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era simile perché partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana; sennonché in Gadda c’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre al romanesco gli altri dialetti italiani; invece in Pasolini troviamo la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano; in Meneghello ci sono altre implicazioni, in Mastronardi altre, e potrei fare il nome di un altro scrittore siciliano come D’Arrigo autore di quell’opera enorme che si chiama Horcynus Orca.

La tecnica che mi sono imposto è stata la tecnica dell’innesto. Ho trovato a mia disposizione un giacimento linguistico ricchissimo, quello della mia terra, la Sicilia. Senza mitizzare, enfatizzare questa mia terribile terra, c’è in essa una stratificazione linguistica enorme. Oltre ai templi greci o arabo-normanni, vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dal greco, poi l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese… Ho pensato che bisognava reimmettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, che avevano una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere.
Non era il cammino inverso, cioè la corruzione dell’italiano che diviene dialetto, ma era l’opposto cioè la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire che venivano reimmessi da queste antichità nel codice centrale, ubbidendo a un’esigenza di significato, perché il vocabolo greco, il vocabolo arabo o spagnolo, mi dava una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, era più pregno di significato e portatore di una storia più autentica.
Ecco: la ricerca era proprio in questo senso e poi l’organizzazione della frase e della prosa, in senso ritmico e prosodico.

Struttura e lingua

Dal primo libro – La ferita dell’Aprile -, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, provando ad accostare quella che è la prosa illuministica, comunicativa, in cui l’autore “autorevole” alla Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione e riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre un ragionamento di tipo filosofico.
Nietzsche fa una divisione parlando della nascita della tragedia greca: il passaggio dalla tragedia antica, di Eschilo e di Sofocle, alla tragedia moderna di Euripide. Dice che nella tragedia di Euripide, che lui chiama la tragedia moderna, c’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, dove usciva l’”anghelos”, che era il messaggero che si rivolgeva al pubblico e narrava l’antefatto, quello che era avvenuto in un altro momento e in un altro luogo; da quel momento poteva iniziare la tragedia, cioè i personaggi iniziavano ad agire, a parlare.. poi c’era il coro che commentava e lamentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche dice che nella tragedia antica c’è lo spirito dionisiaco, musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna prevale lo spirito socratico, cioè la filosofia e la riflessione.


Può apparire eccessivo da parte mia ricorrere a paragoni talmente aulici, ma in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa, con la rivoluzione tecnologica, sulla scena non può più apparire l’”anghelos”, il messaggero non può più usare quel linguaggio della comunicazione con cui fare iniziare la tragedia perché l’autore non sa più a chi si rivolge. Quindi ho spostato la prosa verso la forma del coro, del coro greco, dandole un ritmo di tipo poetico, eliminando la parte autorevole dell’autore e quella della riflessione. La prosa si presenta così come un poema narrativo, come quello che praticavano nel Mediterraneo i famosi Aedi di omerica memoria. Penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, perché si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il conteso, quello che si chiama il contesto “situazionale”. Non c’è più rapporto, a meno che non si vogliano praticare le forme mediatiche e quindi si scriva nell’italiano più corrente, più corrivo, quello che non denuncia la profondità della lingua, una lingua che è portatrice di storia, memoria anche collettiva.


La  mia ricerca è proseguita negli anni con gli altri libri, dal primo libro sino all’ultimo Lo spasimo di Palermo, in modo sempre più accentuato. Non solo ho organizzato la frase in forma metrica, ritmica, ma nel contesto della narrazione invece di inserire riflessioni di tipo filosofico, di immettere la scrittura saggistica dentro alla scrittura narrativa – come teorizzato da Kundera, il quale, nella sua teoria del romanzo, sostiene la necessità di interrompere la narrazione e d’inserire delle parti riflessive-saggistiche –  interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, in una forma ancora più poetica, un po’ come se subentrasse il coro della tragedia greca: sono parti corali che fanno da commento all’azione che sto raccontando, alla narrazione che sto svolgendo, alle vicende che sto narrando.

Le opere

Torno al mio primo libro che parla del secondo dopoguerra in Sicilia, un libro scritto con un io-narrante adolescente, dove parlo della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni, del ’48. Lì ho scelto questo stile, usando anche nell’organizzazione della frase le rime e le assonanze, ma in senso comico-sarcastico, come parodia della società degli adulti che l’adolescente che scrive critica e non condivide.
Il mio primo libro è in prima persona, come spesso accade agli esordi perché si attinge a quelli che sono i ricordi: il primo libro è una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale.
Credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna invece trattare quello che è il proprio progetto letterario, cioè cercare la propria identità: che cosa sono, dove voglio arrivare, chi voglio essere.

Il secondo mio libro si chiama Il sorriso dell’ignoto marinaio, e qui devo fare un‘altra digressione autobiografica: dal primo al secondo libro sono passati quasi 13 anni in cui venivo considerato quasi un latitante dalla scrittura letteraria. Ma questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968, dopo essermi reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile perché il mondo contadino era finito, come aveva osservato Pasolini.
Milano mi sembrava la città più interessante -, che io tra l’altro già conoscevo – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, cioè tra gli imprenditori e gli operai. Mi sembrava importante e interessante approdare non a Roma o a Firenze ma a Milano, sollecitato, allora, dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, proprio in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, studiando la grande trasformazione italiana perché il mondo contadino era finito sostituito da un nuovo paese che bisognava narrare, che bisognava rappresentare.

Così mi trovai qui nel ’68, ma spaesato e spiazzato perché di fronte a una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e di cui mi mancava il linguaggio: se posso permettermi di fare un paragone, la stessa sorte l’ha avuta Verga, approdato a Milano nel 1872 nel momento della prima rivoluzione industriale, una città che si ingrandiva, aprendo nuove fabbriche: la Pirelli era nata proprio nel 1872 per la lavorazione della gomma… dove vi erano stati i primi scontri, i primi scioperi dei lavoratori per richiedere diritti. Pure il signor Verga rimase spiazzato e qui a Milano avvenne la sua famosa conversione: non riuscendo a capire questo nuovo mondo lui, come scrive Natalino Sapegno, ritornò con la memoria alla Sicilia “intatta e solida” della sua infanzia; iniziò il nuovo ciclo di Verga con Le novelle rusticane e poi con il suo capolavoro I Malavoglia.


Anch’io rimasi spiazzato, ma non feci la stessa scelta di Verga. Credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenite nella storia; non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ma ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto Milano di quegli anni, le grandi istanze, le grandi richieste di mutamento di questa nostra società, dovevo assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia, scegliendo un topos storico qual è il 1860 che mi pareva somigliante al 1968 in Italia, e non solo. Ho pensato appunto di scrivere un romanzo storico – Il sorriso dell’ignoto marinaio -, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia con le speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani all’arrivo di Garibaldi, concependo il Risorgimento e l’unità d’Italia come un mutamento anche politico e sociale. Speranze deluse dell’unità che ha compiuto il progetto politico dell’unione ma senza mutare le condizioni degli strati popolari.

Da qui poi è nata tutta quella letteratura di tipo sociale di cui vi dicevo: la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma anche una letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, fatta da Verga, sia nei Malavoglia che in Mastro don Gesualdo, o da De Roberto con I ViceréPirandello con I vecchi e i giovani, fino ad arrivare a Lampedusa.
Naturalmente la letteratura sul Risorgimento è espressa in maniera diversa: in Lampedusa si trova una visione scettica e deterministica. Lui veniva da una classe nobile, Il Gattopardo è il libro di uno scettico che pensa che le classi sociali si avvicendano nella storia con una determinazione quasi fisica, come succede con il principe di Salina, uno studioso delle stelle: come accade alle stelle che prima si accendono e poi si spengono e finiscono, così le classi sociali. Però le classi alte, quelle nobiliari, vengono da lui assolte perché attraverso la ricchezza l’uomo si raffina e dà il meglio di sé, producendo poesia e bellezza. Per ciò che mi riguarda posso dire che me ne frego della poesia e della bellezza, mentre esigo più giustizia e più equità tra gli strati che formano una società.

Ho concepito partendo da Il sorriso dell’ignoto marinaio un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia. Il secondo è Notte tempo, casa per casa, che parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni venti con la nascita del fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia che si chiama Cefalù, parlando delle crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, l’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, le sette religiose, di segno bianco e di segno nero. L’ultimo della trilogia, è Lo spasimo di Palermo, che parla della contemporaneità, degli anni’90 e si svolge sempre in Sicilia però con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino. Naturalmente non faccio nomi, ma si capisce che il tema è la tragedia di questi magistrati che sono massacrati dalla mafia.
Poi sono usciti altri libri che potrei definire collaterali, per esempio Retablo oppure L’oliva e l’olivastrodove ho cercato di praticare la riflessione sulla realtàL’oliva e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia dove non c’è la finzione letteraria, ma un viaggio nell’isola degli anni ’80 e ’90, con tutte le perdite e sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse, che non ritrova più la sua Itaca, o meglio la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

Giulia Mozzato, per MaremossoMagazine – La Feltrinelli
17 febbraio 2023



Consolo poeta. foto di Giovanna Borgese


Vincenzo Consolo e la metrica della memoria

Sara de Franchis

  1. La funzione testimoniale del linguaggio

    Da due grandi autori, Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo trae rispettivamente l’interesse per la poesia europea, a lungo studiata e consultata dall’uomo rinchiuso nella sua villa a Capo d’Orlando, e la volontà di una scrittura impegnata. Egli ricerca una svolta stilistica e contenutistica, d’impegno sociale e storico ma che abbia una forma poetica, ed è questa apparente contraddizione a
    rendere i suoi testi estremamente affascinanti, nonché unici e senza precedenti.
    Cesare Segre lo accosta anche a Giuseppe Tomasi di Lampedusa, indicandolo come la sua antitesi: «plurilingue Consolo quanto è monolingue Tomasi, espressionista l’uno quanto è elegantemente classico l’altro».1 Egli fa notare come l’autore abbia assimilato dalla cultura milanese l’ammirazione per Gadda, in cui vedeva un’esplosione polifonica del barocco e con cui ha in comune la tecnica del pastiche.2 Consolo stesso definisce la sua una «scrittura di tipo progressivo, nel senso che partivo da quelli che erano i giacimenti linguistici nel dialetto siciliano, di tutti i retaggi sepolti, mentre cercavo d’immetterli nella lingua centrale ma con un’organizzazione della frase in senso ritmico, poetico»3 e ne spiega anche il motivo: «in questo nostro tempo di cancellazione della memoria, in questo nostro contesto mi sembrava che la letteratura, che è memoria, doveva recuperare anche la memoria linguistica oltre che la memoria storica».4 Cesare Segre indica proprio questo come punto di forza della sua scrittura: L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici: e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco, è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la «vera» storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi. Consolo mostra infatti che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato.5 Si è espresso a proposito anche Gianni Turchetta nell’introduzione a Le pietre di Pantalica, esplicitando un paio di interessanti passaggi interni alla poetica e più in generale alla scrittura dell’autore: La legge fondamentale della lingua consoliana sembra essere la tensione verso la differenziazione [una tensione che dipende anche da quanto Harold Bloom ha definito “l’angoscia dell’influenza” […] La pluralità di lingue e di toni implica poi, altra caratteristica fondamentale, pluralità di prospettive. […] Lo stesso tessuto verbale fatto di molte lingue sta proprio a significare il tentativo di dar voce a molte prospettive diverse, alla visione del mondo di chi parla o parlava in quel determinato linguaggio […] Consolo cerca di far sopravvivere le parole morte o morenti o marginalizzate, e con esse le visioni del mondo di uomini e culture altrimenti condannati al silenzio. Come egli stesso ha dichiarato in una bella intervista curata da Marino Sinibaldi: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. (…) Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.6 Vale la pena citare a riguardo anche Margherita Ganeri, che ha sintetizzato
    l’opera di Consolo in tal modo: «affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio, con la sua sedimentazione e stratificazione altamente connotata»,7 e che ha mostrato in che modo egli sia riuscito nella ricerca di una forma poetica: «attraverso la mescolanza della più aulica ed erudita tradizione letteraria con il dialetto siciliano, la lingua di Consolo acquisisce una patina di barocca arcaicità straniata improntata alla ricerca di effetti lirici».8 Riporto infine un passo tratto da un articolo di Giulio Ferroni, intitolato Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha saputo raccontare il respiro della Sicilia: Scrittore che è sceso fino in fondo nel cuore del presente, nei molteplici volti della realtà, nella loro densità sociale e antropologica; scrittore che ha insistentemente interrogato gli sforzi della vita nello spazio nel tempo, tutto ciò che la storia addensato e che, trasformato, continua a scorrerci davanti, si muove e vibra mentre lo consideriamo e lo tocchiamo. […] E naturalmente come scrittore non ha mai cessato di dialogare con tutti i grandi scrittori siciliani, con le forme diverse con cui essi hanno dato voce al carattere, al mistero, all’essere dell’isola. […] La sua è una sfida continuamente ai limiti del linguaggio, strenua ricerca della fisicità della parola, ostinata cura per un lessico legato all’evidenza delle cose, alla loro traccia concreta, alla loro consistenza biologica e materica. La sua prosa si avvolge sugli oggetti, sui nomi, sul muoversi stesso della realtà, sul ritmo e il respiro del tempo, come ad estrarne l’anima, la vibrazione, la traccia dello sforzo, del movimento umano, della passione e del dolore, del voler essere e di ciò che lo ostacola. La speranza e il desiderio, la resistenza e l’oppressione, l’aggressione e la difesa, tutto viene espresso attraverso la sofferta densità della parola, con un lessico tocca i livelli più diversi: forme dialettali più vicine all’espressione della vita materiale, alla realtà contadina o al lavoro artigianale, forme arcaiche o preziose, che fanno balenare echi di tempi lontani, di remota storicità, lingue straniere che rivelano strati nascosti dell’esperienza, rapporti, interferenze, intrecci e conflitti tra mondi. Nomi comuni e nomi propri si susseguono ritmicamente in questa prosa, che costeggia la poesia, come a catturare e a apprendere in sé lo spazio e il tempo, lo scorrere della vita, l’aspetto degli oggetti, i gesti degli esseri umani e di tutto ciò che è animato, l’immagine dell’arte […] L’originalità di consolo sta nel suo mirare, grazie al suo espressionismo, il cuore profondo della Sicilia, grande corpo brulicante di vita, esuberante, malsano, appassionato, lacerato. cerca di comprenderne il senso afferrandole ogni squarcio che ne riveli la densità, la fascinazione e la tremenda rovinosa disgregazione del tutto, di un insieme di corpi che vi annaspano, vi soffrono, vi si espandono, vi si mostrano. Di contro alle rovine cerca ritrova tante presenze vitali, appartata e figure umane che ostinatamente resisto, che continuano, nonostante tutto, a cercare una luce.9 Riflessioni metalinguistiche sono presenti anche all’interno dei testi stessi di Consolo, ne è un esempio il racconto Il linguaggio del bosco tratto da Le pietre 9 di Pantalica: «mi rivelava il nome di ogni cosa […] e appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale […] e salire con lei su una quercia, un faggio o un acero, restare a cavalcioni su un ramo e sentire immobile e muto il linguaggio del bosco».10 Nelle opere degli altri autori trattati, il nome ha una potente funzione evocatrice e, nel caso di Bufalino, addirittura esistenziale. Nel passo citato queste funzioni vengono confessate, rivelate attraverso la voce sincera e immediata – intesa nel senso di priva di mediazione – di un giovane ragazzino, conquistato dal semplice e naturale linguaggio inventato da Amalia. Si vedrà inoltre più avanti, in particolare durante la trattazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, come la natura stessa possieda un suo linguaggio. L’approccio filologico della letteratura nei confronti della storia Della filologia è detto che sia la scienza delle minuzie, poiché prende programmaticamente in considerazione ogni particolare; il suo studio concerne il confronto di numerosi testimoni, che si tratti di manoscritti o di descritti, ovvero di trascrizioni di testi perduti. È una disciplina che, attraverso la consultazione d’ogni traccia e verifica della sua attendibilità – dunque della sua verità – tenta di risalire all’origine, alla prima volontà. Un procedimento simile è quello attuato da Consolo, che ha portato alla titolazione di questo paragrafo e che può essere riassunto nella sua ricerca della memoria storica. Anche in quest’ambito sono importanti le parole di Ganeri: «la ricostruzione memoriale è vissuta come un’alternativa intellettuale alla violenta e sistematica uccisione del passato operata dal potere, un’alternativa che si compie perlustrando le crepe, gli interstizi della storia, alla ricerca di ciò che è stato nascosto o perduto».11 Nella prima opera di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963, si ritrovano già i motivi e gli elementi stilistici ricorrenti della produzione successiva: il citazionismo, la connotazione siciliana tramite non soltanto la descrizione estremamente caratteristica – «è tempo di scirocco e, s’egli attacca brucia gemme 54 di fiori di mandorlo e limone»12 – ma anche attraverso la sua iconologia,13 infine la coscienza della scrittura già come inscindibile dalla memoria – «e questa storia che m’intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare»14 e il tema della caduta della luna, trapassata dal faro di Cefalù e raccolta dal mare.15 Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio la memoria pervade l’opera, essa è ovunque ed espressa con ogni mezzo: è nella vicenda aspra e appassionata del Risorgimento siciliano vissuto nei piccoli paesi, nel riecheggio della tradizione letteraria antecedente16 e nei documenti citati che lo rendono a tutti gli effetti un metaromanzo e denunciano la storia richiamando le sue stesse parole dall’Archivio di Stato di Palermo del 1857.17 Sono significativi la messa in evidenza delle condizioni dei cavatori di pomice e l’incontro con un giovane prigioniero, passi che hanno la funzione di mettere in discussione il carattere della società. Nessun’opera presenta un tale studio e una così devota ricerca all’insegna della verità e della testimonianza. L’autore opera un salvataggio nei confronti delle piccole storie che hanno composto la storia di un dato tempo e di un dato luogo. Innumerevoli sono gli aspetti che tessono il romanzo, ruotando intorno alla figura del protagonista: l’arte richiamata dal celebre dipinto di Antonello da Messina come l’amore nei confronti delle Madonie dove «le facoltà dell’anima si rendono sommamente estese, vivaci, acute, e sublimi»18 e che possiedono un proprio linguaggio: E questo linguaggio, che pur è quello eloquente dello amore, ripercosso dalle cave rocce nelle buie foreste, riempiendo lo spirito di una dolce malinconia lo riconcentra e invitandolo a deporre ogni frivolezza dell’umana società, lo eleva all’idea di sublime.19
    16 Ne è un esempio l’espressione «Eccellenza sì» tre volte ripetuta all’inizio del romanzo, p. 11, e che ricorda la medesima ripetizione presente in Federico De Roberto, I Vicerè, Garzanti, Milano, 1976, p. 5. Riecheggiano inoltre versi petrarcheschi («all’aria sparsa», 55 Questo passaggio, che ricorda quello de Il Gattopardo durante l’allontanamento di Don Fabrizio dal palazzo, prova che ogni cosa che venga anche soltanto nominata all’interno del romanzo sia degna di parole che possano ricordarla, perché forse nemmeno la natura è eterna. Andrea Camilleri lamenta ne Il Gattopardo la rappresentazione della nobiltà come la forza frenante di un qualsiasi sviluppo, dovuta al fatto che l’autore fosse bloccato in una concezione astorica.20 In questo senso l’opera di Consolo sembra quasi un riscatto, grazie alla diversa caratterizzazione della figura del barone Enrico Pirajno di Mandralisca, veicolo delle più importanti riflessioni scaturite nell’opera: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori d’Alcàra […] quali in catene e quali latitanti, hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori, o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’noti fatti. Or io invoco l’Essere Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel rasare que’fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa uno di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe dei civili e quindi sapientemente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Siena inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe e le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria degli imputati: sarà possibile questo scarto di voce o persona? No, no! Che per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizî ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura ma è sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci sono le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico e strumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a interpretare quei discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’ io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni della parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati di un moderno codice volgare. S’ aggiunga ch’ oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’ essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del diritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i diritti più sacri elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi e, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che si possa fare è quella di gettare via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare.21 Questo passo, che sembra quasi essere il calco della conversazione tra il Principe di Salina e Chevalley, 22 non riflette soltanto la tensione civile del contenuto dell’opera ma si sofferma anche sulla lingua come strumento indispensabile all’uomo, materia d’ogni concetto. Anche Tano Grasso confronta le due opere, ricordando subito che i due protagonisti sono entrambi due studiosi, ma il primo osserva il cielo, il secondo conosce la terra.23 La lettera prosegue con 21 un’apparente rinuncia a tutto e il racconto – la cui drammaticità è incrementata dalla veste lirica – degli eventi cui ha assistito e in particolare della loro conclusione: Ho visto imprigionar costoro, le signorine Botta in uno con la madre veneranda, le cui gentili mani aveano intessuto i fili d’oro della speranza sopra quel drappo insegna della fede… Ho visto le palle soldatesche rompere il petto del povero Spinuzza, impassibile e fiero, biondo come un Manfredi di sveva discendenza… “Offri a Dio la tua vita” così il carnefice non potrà gloriarsi di avertela tolta”, gli suggeriva il prete corvo, restivo, dandogli da baciare il crocifisso. Respinse, il valoroso, il consiglio e il segno di Passione, “Offro all’Italia” dice “la mia vita”. E al silenzio che seguì alla sparatoria, lancinante, disumano echeggiò nell’aria, proveniente da un balcone sulla piazza, Giovanna Oddo, l’innamorata dell’uomo appena morto.24 Sono le sorti delle singole vite che muovono i pensieri del romanzo, poiché la storia è stata fatta per mano degli uomini, ma anche semplicemente attraverso di loro, e osservarli è il modo migliore per comprenderla e dunque per poterla raccontare. La fine della missiva non termina con una vile rassegnazione, «non è una dichiarazione di resa, ma una sfida inedita, un rilancio»:25 la donazione dei libri e delle opere d’arte al museo e alla scuola di Cefalù è una promessa per il futuro, poiché scrittura è memoria, ma spesso memoria falsificata, e questo è l’unico modo di cambiare davvero le cose: «si che, com’io spero, la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, o voi».26 La differenza principale fra Il Gattopardo e quest’opera, da molti definita un’anti-Gattopardo, è che al finale del racconto è stata donata una speranza nata dalla compresenza di voci diverse, che si oppongono all’isolamento sentenzioso e altero del principe di Salina. La storia ricordata da Consolo riesce infatti a contenere ogni esistenza la cui umile origine ha condannato all’oblio, a spiegare come conoscenza sia comprensione e infine a superare moralmente e intellettualmente Il Gattopardo sovrapponendo ai monologhi moraleggianti le dubbiose tensioni: «la contraddizione infine nel ritrovarmi a dire, com’io dissi, dell’impossibilità di scrivere se non si vuol tradire, creare l’impostura, e la necessità insieme e l’impellenza a farlo».27 A concludere l’opera non sono le parole del barone ma quelle trascritte da un muro dove erano state tracciate con del carbone le «testimonianze personali de’ protagonisti, d’alcuni d’essi poscia moschettati».28 Vent’anni dopo l’uscita del libro, Vincenzo Consolo si esprime in uno scritto che confessa e spiega le ragioni dell’opera, parla a riguardo del confronto con Il Gattopardo e con la rilettura del Risorgimento da parte della letteratura siciliana, rivela le influenze e le ispirazioni ricevute: E passarono anni per definire il progetto, convincermi della sua consonanza con il tempo, con la realtà, con le nuove etiche e nuove estetiche che essa imponeva, assicurarmi della sua plausibilità. Assicurarmi anzitutto che il romanzo storico, in specie in tema risorgimentale, passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani, era per me l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze e le sue problematiche culturali (l’intellettuale di fronte alla storia, il valore della scrittura storiografica e letteraria, la “voce” di chi non ha il potere della scrittura, per accennarne solo alcune) e insieme utilizzare la mia memoria, consolidare e sviluppare la mia scelta stilistica, linguisticamente originaria, che m’aveva posto e mi poneva, sotto la lunga ombra verghiana, nel filone dei più recenti sperimentatori, fra cui spiccavano Gadda e Pasolini. La struttura poi del romanzo, la cui organicità è spezzata, intervallata da inserti documentari o da allusive, ironiche citazioni, lo connotava come un metaromanzo o antiromanzo storico. “Antigattopardo” fu detto Il Sorriso con riferimento alla più vicina e ingombrante cifra, ma per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative, dei romanzi di intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini […] E la risposta che posso ora darmi è che un senso il romanzo può ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo.29
  2. L’intuizione dell’antico Un’opera in cui si erge con maggior individualismo il protagonista, omonimo di quello de Il Gattopardo, è Retablo. Tatiana Bisanti ha fatto notare, facendo riferimento a quest’opera in particolare, il legame fra esperienza estetica ed estasi amorosa: È attraverso il procedimento dell’ekphrasis, familiare alla tradizione letteraria medievale, che si realizza nella scrittura di Consolo quel legame fra seduzione amorosa e seduzione artistica. Come hanno rilevato molti critici, in Consolo scrittura e arti figurative sono strettamente collegate fra loro.30 Sembra in effetti che Consolo perpetui una sfida nei confronti dell’arte e della sua capacità di rappresentazione e, aggiungerei, di fissazione nel tempo. Con ekphrasis s’intende infatti una descrizione in grado di rendere visivamente l’oggetto trattato. Il titolo stesso dell’opera rimanda ad una particolare forma d’arte spagnola, una pala d’altare spesso costituita da degli scompartimenti. I retablos raggiungono il periodo di maggior splendore durante il barocco, corrente con la quale la scrittura di Consolo è stata spesso comparata. L’obiettivo di Retablo è manifesto all’inizio del testo: Nel modo più piacevole e acconcio, giusto gli consente l’ingegno suo modesto, sì che spera voi possiate leggendolo vivere secolui il breve tempo del viaggio in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e disastrosi avanzi.31 Poco più avanti prosegue con la presentazione del reale contenuto del romanzo, reso attraverso una lunga e sentita lettera, e risponde alla principale domanda che sorge nell’accostarsi al libro: 30 Perché viaggiamo, perché veniamo fino in quest’isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di taccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato.32 In questo importante passo, in questa quasi dichiarazione poetica, Vincenzo Consolo concede una risposta diversa sulla ragione che lo spinge a scrivere del passato, rispetto a quella comunemente fornita, secondo cui l’approccio alla storia avviene sempre in modo metaforico. 33 Il viaggio è trasposizione, un distacco concreto che rispecchia quello interiore del protagonista. È un ambiente aperto dal quale non può difendersi o sottrarsi, che lo colpisce nei sensi e nell’intelletto. La memoria è «volontate»34 e «ragione»,35 la sua assenza comporta «l’abbandono completo del mio essere a ogni più varia istanza, dura inesistenza».36 Fra le righe di Retablo domina il sentimento acuto e prorompente attraverso cui l’attenta descrizione della vicenda, dalla parvenza di sogno, prosegue. Le parole s’inseguono freneticamente, come se l’autore non volesse trascurare nulla, come se si fermasse ad osservare per poter concedere alla memoria qualcosa in più. Il protagonista si reca in Sicilia per rinvenire la nobiltà dell’oggetto del suo amore, e vi trova l’arte e la storia, poiché questo luogo è «riflesso degli astri in cielo nella notte e nel contempo immagine di vita e di poesia»37 che sembra svelarsi a egli soltanto. Nelle tracce dei secoli passati ritrova la bellezza e in essa il profilo della sua donna, tratteggiato dai ricordi. Le percezioni intime e universali s’intrecciano, concedendogli d’innalzarsi dalla sua condizione umana, di liberarsene seguendo frammenti d’esistenza tangibili a lui che è «come richiamato da voci che solamente a me si rivelavano, voci antiche e sepolte». 38 È la memoria che giunge al protagonista, all’artista «sempre lontano dalla vita, dalla gente»,39 che grazie alla sua essenza, rinunciando a quanto altri anelano, raggiunge qualcosa di remoto, infinitamente distante ma presente «che ritornò d’allora, per la parola sua, al celeste raggio e alla memoria».40Allora perde se stesso «rapito e dimentico di tutto»41 e ritrova un sentimento antico ed eterno: O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, maravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, perché mi pare di toccare il cuor della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, d’amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d’ogni uomo, d’amare voi, e disperatamente…Voi o la vita? O me medesimo che vivo? Com’è ambiguo, com’è incomprensivo questo molesto impulso, questo sentire intenso che chiamiamo amore!42
    Le parole si vestono d’arcaicità, la poesia diviene lo strumento del pensiero e il suo concretizzarsi: la metafora che cela la vita. In questo attimo di moment of being alla Woolf, di sublime leopardiano, dopo aver rinnegato il «secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto»,43 giunge alla comprensione che si può ricevere soltanto se lungi da sé stessi. Il tempo dei morti e dei vivi, il loro ricordo che sopravvive quasi senza memoria, e l’arte e la poesia in cui s’abbandona e cerca ascolto, tutto riconduce all’amore. Alla fine l’esistenza si mostra nel suo significato più profondo ed egli pare vedere ogni cosa nella sua verità universale, così una fanciulla appena tolta alla vita diviene «il pudore, la trepidazione, il sentimento, la verità del mondo». 44 Don Fabrizio è quindi l’incarnazione della figura, cara alla tradizione, che riceve qualcosa del passato, che «voci udiva vagando di qua, di là, e grida, risa, urla di òmini di donne di vecchi di fanciulli, preghiere, canti, lamenti, frasi m’avvolgevano la testa in lingue sconosciute, parole greche, puniche, sicane o elìme, o ancora più antiche».45 Si fa egli stesso poesia, mediatore, ponendosi fra la coscienza degli uomini e ciò che essa ha obliato. Ogni sua percezione o sentimento appare distante, e il suo ritorno, il suo richiamo, giunge ineffabile, carico di una profonda nostalgia. Tutto contiene qualcos’altro, «viaggio si fa dentro il viaggio, ignoto nell’ignoto»46 ed è la fecondità della mente, l’eterno processo di significazione, che non concede uno sviluppo sistematico della trama o una divisione in capitoli, soltanto i luoghi emergono dal flusso prevalentemente descrittivo. La fuga dall’amore conduce ad un viaggio che porta all’esperienza di numerosi livelli d’esistenza, gravidi dell’unione inestricabile di pensiero e sensazione. In questo senso di perdizione e turbamento, di caos, vi è un punto fermo, il destinatario di tutto ciò che è contenuto nell’opera, e la fedeltà a questo è riassunta in queste umili parole: «e mi sembrano nella memoria un unico giardino, unico e sognato, tutti i giardini che ho conosciuto».47 Soltanto verso la fine dell’opera, il protagonista conferisce una definizione di sé stesso e del suo ruolo: Ma antichi e ricorrenti sono i naufraghi, sono d’ogni epoca, d’ogni avventura, sogno, d’ogni frontiera elusa, noi naufraghi d’ogni storia infranta, simboli d’un epilogo, involontarie comparse attoniti spettatori di questa metafisica. Di cui non conosciamo i confini, dimenticammo l’inizio, ignoriamo la fine, ma riferiamo incauti il vario apparire nelle luci e nei tempi irriferibili.48 La memoria è l’unica salvezza al silenzio e al vuoto e, in queste pagine del romanzo ambientate nella palude, essa si trascina a stento, priva di una connessione con il passato o con il futuro. Soltanto di fronte ai resti concreti di una civiltà perduta, impone una sofferta riflessione storica e antropologica. Qui s’intravede la differenza fra la memoria percepita dai sensi e quella cui le tracce dell’epoche passate concedono una base concreta. Il puro sentire della memoria porta amarezza e abbattimento, la consapevolezza di essa causa rabbia e lucida critica. Verso la fine dell’opera viene svelato il suo nesso, nel momento in cui la vita dell’uomo più miserevole supera d’importanza l’arte, «il fiore d’estrema civiltà»,49 otteniamo la prova di ciò che lentamente il testo ha cercato di farci comprendere: la poesia e la memoria sono gli strumenti per il rinvenimento della vita stessa, nella sua forma più sincera. Simile a Il sorriso e Retablo è la successiva Le pietre di Pantalica, una raccolta di racconti, di ritratti di personaggi ed epoche. Con quest’opera e con Lo spasimo di Palermo, Consolo ritorna alla complessa narrazione del ’900. Il fotografo tratta della permanenza in Sicilia di Robert Capa ed eleva il suo pensiero contro gli eventi della Guerra civile spagnola e della Seconda Guerra mondiale: «la guerra era quel ragazzo morto contro un muro a secco […] la guerra era la sua Garda, l’intrepida compagna, morta schiacciata sotto un carrarmato sul fronte di Brunete».50 Attraverso l’espediente di queste due guerre, Consolo si sofferma su una guerra eterna e universalmente sentita: Fotografava pastori e contadini […] indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo.51 Il principale motore di questa guerra viene discusso nei capitoli successivi e sintetizzato dalla seguente espressione: «la roba cc’è, ma è mala spartuta».52 Consolo s’insidia all’interno della storia, raccontando ad esempio le circostanze durante le quali fu scattato uno dei capolavori di Capa per poi restituirlo: Ecco, questa figurina densa di significato, figurina che d’ora in poi vedrai riprodotta dappertutto, su riviste e su libri, finanche sui testi di storia dei tuoi figli, io regalo a te, lettore, sperando che il fotografo ungherese, saltato su una mina a Thai Binh, in Indocina, un pomeriggio di maggio del ’54, approvi dal suo cielo, col suo sguardo ironico, il mio gesto. […] incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature sofferenti. 53 Il capitolo intitolato Il barone magico racconta Lucio Piccolo, a partire dalla pubblicazione di 9 liriche fino alla morte, così come era stato per Robert Capa, attraverso un’attenta e quanto più possibile ricostruzione storica. Le parole espresse da Piccolo nel racconto sono infatti le stesse che vennero registrate da una videocamera durante una delle poche interviste concesse,54 la stessa Villa Piccolo è descritta nei suoi particolari, i fratelli nei modi e nelle attitudini che tuttora vengono ricordati. Lucio Piccolo viene riconosciuto, fin dal primo incontro, come incarnazione della figura del poeta: «capii che la nobiltà diversa del barone era la poesia, in lui doppiamente magica. E fastosa sognante maliosa, di preziosa favola, di canto mai sentito».55 Il rapporto fra il protagonista del capitolo e l’autore si basa su questa comunanza d’interessi: «ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando».56 Viene riportato in seguito l’incontro con Sciascia e il monito che gli mosse: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali»;57 infine la morte dell’autore – «così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»58 – e, quasi come ultimo omaggio al poeta, propone un’incantevole – poiché estremamente realistica – descrizione del paesaggio di Capo d’Orlando, così com’era un tempo. In Malophòros torna il motivo caro delle rovine: Mi chiedo cosa avranno provato questi viaggiatori di un’epoca ormai remota a trovarsi in mezzo a queste rovine, ai templi dell’acropoli, in vista di quel mare. E mi chiedo cosa avrà mai provato l’abate Fazello quando, a dorso del suo mulo o a cavallo, si trovò per primo a scoprire Selinunte, invasa d’erbe e di rovi, di serpi e uccelli, resa deserta dalla malaria, sepolta da secoli nell’oblìo. Quale terribile emozione, quale estraniamento, quale panico di fronte al titanico caos, all’affastellamento delle enormi rovine di quel tempo di Zeus nel cui centro restava diritta una sola colonna, sfida al tempo e alle furie telluriche […] Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tindari […] l’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio […] mi ricordai del tempo – tempo remotissimo, arcaico – in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico; del tempo dei miei viaggi alla scoperta dell’archeologia, in cui la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli, latomìe, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dèi ed eroi graffiti, con templi teatri agorai di città morte in luoghi remoti, deserti, incontaminati.59 Le righe riportate condensano il fascino subìto dalle tracce dell’antichità, da quelli che potremmo chiamare i correlativi oggettivi, le metonimie delle epoche passate. La caduta nell’antro del tempo viene solitamente percepita in solitudine, come avviene nel capitolo Selinunte greca contenuto in Retablo. In questo caso invece la forza motrice e rammemoratrice è in grado di trascinare a sé ogni cosa: Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità invita del Tempo.60 Il capitolo più interessante e significativo è La casa di Icaro, il racconto di Uccello che s’impegna a salvare quanti più oggetti possibili e a custodirli nel suo museo etnologico a Palazzolo «che non era il solito museo morto, polveroso […] ο freddamente scientificizzato, sotto vetro, illuminato da faresti, didascalizzato […] ma una casa viva»:61 E non raccoglie solo cose, oggetti, ma canti, racconti, leggende, tradizioni popolari. Con frenesia, con forza, con accanimento, in lotta con gli speculatori, con i nuovi piccoloborghesi che, nelle case fresche di cemento […] volevano anche il pezzo di carretto, il pupo paladino, il vaso di terracotta, il dipinto su vetro, cose che il giorno prima avevano distrutto o dato al rigattiere. In lotta con il seppellimento e con l’oblio.62 La riflessione che attraversa il capitolo s’intreccia con la letteratura, quasi essa potesse rappresentare un mondo a parte, esistito in qualche tempo: Cominciano a spuntare le ciminiere col pennacchio di fuoco delle raffinerie lungo quel litorale di miti, quella costa tra Augusta e Siracusa, a ridosso di quel mare in cui il professor La Ciura incontra la sirena Lighea del Lampedusa. E Vittorini […] girava in quel periodo su per gli Iblei, Erei, Madonie, lungo itinerari lombardo-siculi, d’attivismo e industria per l’uomo, incontrando città belle, gente felice e bella, ragazzi e fanciulli allegri fuggiti da vecchi mondi statici, camionisti febbrili in viaggio per le costruzioni di speranze, contadini cavalieri in marcia per cospirazioni contro ingiustizie della storia.63 Il riferimento a Vittorini riconduce a due opere in particolare: Le città del mondo, nella quale è presente una riflessione secondo cui nei luoghi belli vi sia gente buona, 64 e Le donne di Messina, i cui protagonisti sono contadini che viaggiano su dei camion, ognuno nella ricerca di qualcosa. La conclusione del capitolo riporta quasi un’investitura poetica: E ora che sei migrato per sempre, caro Uccello, io rispondo a quella tua richiesta di fare tutto il possibile… E il possibile è questo, di ricordarti, dagli spazi chiusi di questa nostra frigida vita, con affetto e rimpianto, dolce e feroce, cantore e predatore di memorie, di reliquie del mondo trapassato di fatica e di dolore, vero, umano, per il quale non nutrivi nostalgia, ma desiderio, speranza di riscatto.65 L’opera si conclude con un viaggio, il tema del nostos in fondo attraversa l’intera produzione consoliana, dai viaggi per mare ne Il sorriso a Lo spasimo di Palermo: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.66 L’autore si ferma nella Siracusa di Vittorini, deturpata e sconsacrata dalle raffinerie, nella Comiso di Bufalino e infine nella Palermo incrostata del sangue dei delitti di mafia. Lo squallore e il disincanto portano ad una condizione disperata che si risolve in un’unica promessa incorruttibile: Ah Ifigenia, ah Oreste, ah Pilade, ah ancelle della sacerdotessa d’Artemide, quale disinganno, quale altro dolore per voi che tanto avete bramato la patria lontana! V’auguro, mentre eleggiate felici verso la Grecia, che venti e tempeste vi sospingano altrove, che mai possiate vedere Argo, distrutta durante il vostro esilio, ridotta a rovine, a barbara terra, più barbara della Tauride che avete lasciato. Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città.67 Il rapporto fra scrittura e memoria è ribadito poco più avanti: «non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro parola». 68 La particolarità dell’opera è il suo essere popolata di verità storiche: come era avvenuto per Il sorriso, Consolo riprende personaggi realmente esistiti e ne rievoca le storie, facendole proprie. La stessa vicenda della casa museo è tratta dall’attività di recupero e conservazione perpetuata da Antonio Uccello.69 L’olivo e l’olivastro si apre accostando sempre «sogno, ricordo e nostalgia»,70 invocando l’antichità, «tracce, prove d’una storia frantumata, d’una civiltà distrutta, d’uno stile umano cancellato»,71 «un mondo separato, remoto e ignoto»,72 e ricordando così la dipendenza fra storia, arte e umanità. Il personaggio di Ulisse, il particolare e sentito racconto non di un eroe ma di un naufrago – figura ricorrente nel testo – riporta un interessante riferimento: «rimorsi che lo spingono a varcare la soglia dell’umano, a spingersi, vivo, nel regno dei morti, a dialogare, per lenire le ferite del suo animo, con le ombre dei trapassati»,73 qui sembrano tornare le ragioni del viaggio espresse in Retablo. Come avviene in uest’ultima, l’autore definisce il suo ruolo: «io sono il messaggero, l’ànghelos, sono il vostro medium, a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio».74 Per la prima volta, rispetto alle opere trattate, viene riconosciuta l’importanza della scrittura e dei suoi metodi, svelando in un Consolo – riprendendo l’espressione usata da Elvira Sellerio nei confronti di Gesualdo Bufalino – un vero «padrone della lingua».75
    Soggetto del libro è il passato, storico e mitologico, della Sicilia, i cui autori si muovono come personaggi: Verga, Pirandello, De Roberto. Le riflessioni e gli atteggiamenti di questi risentono del tempo e dello spazio in cui si muovono e da cui provengono: Verga inforcò gli occhiali, spiegò i fogli e si mise a leggere. Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna riconoscenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore.76 Sono citati anche Sciascia e Vittorini, il quale introduce l’ansia della fuga e del ritorno: «comincio a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: mi sembra di essere imprigionato nella forma di “quello che resta in Sicilia”… E questo Vittorini mi prediceva».77 L’amara contraddizione tra bellezza e noncuranza, tra antichità e ignoranza, tra olivo e olivastro dunque tra colto e selvatico è fortemente sentita dagli autori siciliani, eppure sono loro, a volte dopo essere andati via, come nel caso di Consolo e Vittorini vissuti a Milano, a farvi fedelmente ritorno con la scrittura e a ricordarla: In Siracusa è scritta, come in ogni città d’antica gloria, la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto. […] sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne d’Ifigenìa, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove ad essa va.78 E prosegue poco più avanti: «in un luogo di magherie, memorie, rimpianti, nostalgie viviamo, noi qui rimasti».79 Un senso simile si coglie in Nottetempo, casa per casa: «a volte sono inquieti i morti, si negano alla pace, s’impuntano alle soglie, dimoran nei paraggi, lamentano il distacco, dolorano come i vivi di memoria, di rimpianto».80 La trama del romanzo si muove su luoghi antichi e fa affiorare un livello di coscienza più profondo: In nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte ove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile.81
    Così le vicende narrate vengono interrotte da pensieri provenienti da troppo lontano perché possano essere identificati: «e il suo dolore sembrò a Petro sorto […] da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?».82 Il sentimento che si fa universale ricorda
    le opere di Elio Vittorini, così come lo sguardo rivolto ai personaggi:
    E giù nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padri figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’essere legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pien soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro.83 L’accostamento fra l’umanità e il linguaggio testimonia ancora una volta il nesso inscindibile che li lega e che l’attenzione operata da Consolo nei confronti della lingua derivi da un profondo senso di appartenenza e dipendenza riconosciuto tra i due. Infine Lo spasimo di Palermo, ultimo romanzo, rappresenta cronologicamente la ripresa della conclusione de Le pietre di Pantalica, non si perde mai ma registra lucidamente gli scempi della seconda metà del secolo, di cui sono protagonisti i delitti di mafia e il cosiddetto “sacco di Palermo”, che fa riferimento al boom edilizio che stravolse il panorama architettonico e paesaggistico della città. L’opera disperata racconta la distruzione – «s’aprì subito il cantiere, sventrarono il giardino»84 – dopo molto tempo e con rammarico, poiché consapevole della funzione e delle possibilità della letteratura: «aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima e poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso».85 L’autore si svela protagonista, dal momento che riferisce, come frammento di un libro del protagonista, dello scrittore Gioacchino, una citazione da Le pietre di Pantalica, 86 e rivela così la veridicità delle immagini contenute nel romanzo, manifestandosi non più come ideatore di esse, ma semplicemente come testimone. L’ultima opera dell’autore, pubblicata due anni prima della morte, è Il teatro del sole, il titolo allude alla Piazza dei Quattro Canti di Palermo: «là era il libro di storia più chiaro, il nuovo libro che i viceré avevano scritto sopra un altro più antico e consunto».87 Si tratta di un vero e proprio teatro, nel quale è la storia ad andare in scena, con tutti i suoi protagonisti: Mezzogiorno, l’ora sacra, il tempo dell’arresto, della luce sospesa, delle apparizioni […] Non fauni e ninfe apparivano, ma fantasmi per via Toledo, invadevano il Teatro del Sole […] Che rimescolio di razze, di lingue, in questa turba vitale, invadente, in questi dominatori venuti dal mare, dai deserti lontani, in questi guerrieri audaci e sereni coltivatori di palme, d’ulivi, di cedri! Sono insieme arabi, persiani, egizi, libici, sudanesi, berberi, spagnoli, tutti uniti nella fede in Allah. Sono rudi, incolti, feroci e sapienti, dottissimi, cultori di numeri, astronomie, raffinati poeti […] Ruggeri e Guglielmi d’Altavilla seguivano, in ancor più sontuosa parata […] Svanisce lo screziato bagliore normanno ed è la volta dello Stupore del Mondo, del “Vento di Soave”, del rosso Federico, del grande imperatore. Viene al galoppo sul bianco destriero, in mantello di porpora, la mano del guanto di cuoio su cui affondano gli artigli del falco. Gli fanno corteggio vassalli, cancellieri, notari, poeti della nuova lingua volgare, Pier delle Vigne, Iacopo da Lentini […] vengono ora i cattolici potenti di Spagna.88 Tutto questo si mostra all’autore che si ferma ad osservare nel Teatro del sole e che al fine tenta di liberarsi da questa vertigine: «smuovo le mani nell’aria per frugare l’affanno, frantumare allucinazioni, fantasmi. Cerco di muovere i passi, fuggire dall’incantesimo, da quello spazio stregato, dalla lunga storia angosciosa di questa superba città, dell’incantevole isola, che in figure, in ossessione mi viene».89 Quest’ultima riga, che riecheggia il verso di Piccolo «la vita in figure mi viene»,90 riassume l’intera produzione consoliana, nella quale la narrazione si nutre di immagini giunte da lontano, da un tempo ricordato o semplicemente riconosciuto nelle tracce che ne sono sopravvissute.

    ***

    1 CESARE SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in Consolo L’opera completa, Mondadori, Milano, 2015 p. XVI. 2 Cfr. ivi, p. XVII.
  3. 3 VINCENZO CONSOLO, Intervista di Isabella Donfrancesco, «Scrittori per un anno», 23 gennaio 2012, https://youtu.be/Yo7lllJ9Az0.
  4. 4 Ibidem 51 5 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, cit., p. XX.
  5. 6 V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, cit., pp. VIII-X.
  6. 7 MARGHERITA GANERI, Postmodernismo, Editrice Bibliografica, Milano, 1998, p. 55. 8 Ivi, p. 56 52 GIULIO FERRONI, Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha saputo raccontare il respiro della
  7. Sicilia, L’Espresso, 9 gennaio 2022, pp.68-69, ttp://vincenzoconsolo.it/?cat=4 53 10 Ivi, p. 56. 11 Ivi, p. 55. 12 Ivi, p. 66. 13 Cfr. ibidem
  8. 14 Ivi, p. 96. 15 VINCENZO CONSOLO, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 2013, p. 28. p. 107 cfr. F. Petrarca,
  9. Canzoniere, Mondadori, Milano, 2018, p. 443, v.1, «erano i capei d’oro a l’aura sparsi») e leopardiani. 17 Cfr. VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 2019, p. 55 18 Ivi, p. 55.
  10. 19 Ivi, p. 26. 20 Cfr. ANDREA CAMILLERI, Leonardo Sciascia, le opere raccontate da Pif e Andrea
  11. Camilleri, BIF&ST, 2014, https://youtu.be/MDYR9npqhnc.
    V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., pp. 98-100.
  12. 22 Cfr. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, cit., pp. 204-219.
  13. 23 TANO GRASSO, Dentro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa due modi di essere siciliani. Opposti, in «L’Espresso», 9 gennaio 2022, p. 70
  14. http://vincenzoconsolo.it/?cat=4.
    24 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 101.
  15. 25 T. GRASSO, Dentro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e nel romanzo di Tomasi di Lampedusa
  16. due modi di essere siciliani. Opposti, cit., p. 71.
  17. 26 Ivi, p. 102. 27 Ivi, p. 105.
  18. 28 Ivi, p. 106.
  19. 29 VINCENZO CONSOLO, Nota dell’autore, vent’anni dopo, in Il sorriso dell’ignoto marinaio,
  20. Mondadori, Milano, 2019, pp. 153-154.
  21. TATIANA BISANTI, Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo, in «Open Edition Journal», Images littéraries de la societé contemporaine, 2006,
  22. https://doi.org/10.4000/cei.813.
  23. 31 V. CONSOLO, Retablo, cit., p. 19.
  24. 32 Ivi, p. 53
  25. 33 V. CONSOLO, Intervista di Isabella Donfrancesco, in «Scrittori per un anno», 23 gennaio 2012,
  26. https://youtu.be/Yo7lllJ9Az0.
  27. 34 V. CONSOLO, Retablo cit. p. 60.
  28. 35 Ibidem 36 Ibidem 37 Ivi, p. 68.
  29. 38 Ivi, p. 74. 39 Ivi, p. 72.
  30. 40 Ivi, p. 74. Il passo richiama Leopardi, La ginestra, «torna al celeste raggio / dopo l’antica
  31. obblivion», Canti, Mondadori, Milano, 2016, p. 231, vv. 269-270.
  32. 41 Ivi, p. 76. 42 Ivi, p. 77.
  33. 43 Ivi, p. 73. Altro riferimento a Leopardi, La ginestra, «secol superbo e sciocco», v. 53.
  34. 44 Ivi, p. 78. 45 Ivi, p. 76.
  35. 46 Ivi, p. 80. 47 Ivi, p. 68.
  36. 48 Ivi, p. 83. 49 Ivi, p. 94.
  37. 50 Le pietre di Pantalica, cit., p. 22.
  38. 51 Ibidem 52 Ivi, p. 52.
  39. 53 Ivi, p. 23. 54 Cfr. p. 109.
  40. 55 Ivi, p. 105. 56 Ivi, p. 109.
  41. 57 Ivi, p. 111. 58 Ivi, p. 112.
  42. 53 Ivi, p. 23. 54 Cfr. p. 109.
  43. 55 Ivi, p. 105. 56 Ivi, p. 109.
  44. 57 Ivi, p. 111. 58 Ivi, p. 112.
  45. 59 Ivi, pp. 88-9.1 60 Ivi, p 94. 61 Ivi, p 99.
  46. 62 Ivi, p 98. 63 Ivi, p 97.
  47. 64 Cfr. ELIO VITTORINI, Le città del mondo, Bompiani, Milano, 2021, p. 93. 65 Le pietre di Pantalica, cit., p 101.
  48. 66 Ivi, p. 139. 67 Ivi, p 130.
  49. 68 Ivi, p. 132. 69 Cfr. http://www.casa-museo.it/
  50. 70 V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 6.
  51. 71 Ivi, p. 7. 72 Ivi, p. 25.
  52. 73 Ivi, p. 16. 74 Ivi, p. 33.
  53. 75 ELVIRA SELLERIO, Gesualdo Bufalino – L’altro 900 – Documentario, 2020,
  54. https://youtu.be/1ql9eG8wG3k.
  55. 76 V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, cit., pp. 59-60.
  56. 77 Ivi, p. 11.
  57. 78 Ivi, cit. pp. 73-74.
  58. 79 Ivi, cit. p. 94.
  59. 80 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, cit., p. 17.
  60. 81 Ivi, p. 54.
  61. 85 Ivi, p. 44. 86 Cfr. V. CONSOLO, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 97.
  62. 87 VINCENZO CONSOLO, Il teatro del sole, Interlinea, Novara, 1999, p. 7. 88 Ivi, pp. 9-11.
  63. 89 Ivi, p. 13.
  64. 90 L. PICCOLO, Gioco a nascondere, Canti barocchi e altre liriche, cit., p. 19.

Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Lettere e culture moderne
Corso di laurea in Lettere moderne
relatore Giorgio Nisini
A.A. 2021-2022

Leonardo Sciascia, Lucio Piccolo, Vincenzo Consolo.
Villa Piccolo

La necropoli di Pantalica

Oggi Vincenzo Consolo avrebbe compiuto 89 anni. Lo ricordiamo con affetto. E anche da Berlino lo scrittore e poeta Joachim Sartorius, che a Siracusa torna come si torna a casa, gli dedica due poesie nella traduzione di Anna Maria Carpi.
su suggerimento di Etta Scollo

da Joachim Sartorius | Feb 16, 2022

Quattro poesie nella traduzione inedita di Anna Maria Carpi.

Auf der Terrasse, piazza del Precursore

für (und nach) Vincenzo Consolo

Sulla terrazza, piazza del precursore

a (e a la maniera di) Vincenzo Consolo

Davanti a noi il mare, all’altezza dei nostri occhi,

lenti vanno i pescherecci, domani

avremo sardine, sebastes o il grosso pescespada.

Lui, solo lui, al mercato avrà due garofani negli occhi,

il muso colmo di melissa al limone, le squame di basilico,

e il mercante taglierà, oh, oh, col coltellaccio

taglierà il pescespada finché non restano che testa e spada

e sangue sull’uncino. E qui io penso ai razzi colorati

che ieri al matrimonio

a San Giovannello si spararono in aria

e caddero in acqua, friggendo come pesci, friggendo

come il pescespada nella nostra cucina – domani.

Domani, al pranzo, negli odori di mirra e melissa

penseremo a Mitilene, di fronte alla costa dell’Asia Minore,

la capitale di Lesbo. E’ vero quello che diceva Cicerone,

che hanno messo una statua di Saffo nel salone cittadino di Siracusa?

Di porfido? Non sappiamo come ricomporre i frammenti,

le voci dei navigli in pezzi.

*

Die Nekropole von Pantalica

La necropoli di Pantalica

L’airone vola nei boschi e si colma le ali di spezie.

Il cielo è teso come una pelle, grigio chiaro.

Io sono il pastore che spacca i fichi.

Mi diffondo a parlare delle pecore grigie.

E ancora più bello è sopra le tombe scure.

La prima farfalla, bruna e nevosa.

Aperto in cima al monte c’è il libro

che decide  le forme del suo volo.

*

Téléphone arabe

Telefono arabo

alla memoria di Ibn Hamdis

1

Ci sono due copie del suo Divan, scritto da lui

in accurata agile calligrafia.

Un esemplare impolverato nella Biblioteca Vaticana.

L’altro nel Museo Asiatico di S. Pietroburgo.

Come ci sono pervenuti? Le poesie tarde

parlano dell’invecchiare.  Lui è morto a Palma di Mallorca,

dopo qualche peregrinazione, a settantasette anni.

2

Sino alla fine la sua chioma era riccia e scura.

Ma agli amici della corte di Siviglia pareva che si fosse cinto

il capo di un’aura bianca. Così lo chiamavano il Bianco (o il Robusto o il Saggio).

Nelle sue poesie la sua fragilità era tutt’uno col declino degli Arabi in Sicilia e Andalusia.

Da Siracusa era fuggito in nave a Sfax.

3

Fuggito alla venuta dei Normanni. La sua nave si arenò.  Nessuno

scrive della perdita del suo cuore. Lui scrive

sulla perdita di Jawhara, annegata,

delle belle nostalgiche elegie. Ancor oggi giacciono

come pelli di serpente al bordo della nostra strada.

Téléphone arabe, posta crepitante fino alle Baleari,

lungi dal Vaticano e ancora di più da S. Pietroburgo.

*

Replik

Replica

Io voglio ammirare l’estate d’estate.

Io voglio ammirare in mare il mio mare.

Voglio portare tre delfini ad Arethusa.

Siamo in quattro ad ammirare il loro dorso d’argento.

Ma sulle monete non c’è il dorso.

Solo testa e collo, in un alone d’argento.

Pound e Yeats al Museo Archeologico avevano

studiato accuratamente le collezioni.

Questa moneta è la più bella

del mondo antico, scrisse Yeats ai suoi.

Arrivarono alla conclusione cui erano arrivati già tutti.

Pound comprò una replica.

JOACHIM SARTORIUS

Joachim Sartorius, nato nel 1946 a Fürth, è cresciuto a Tunisi e vive fra Berlino e Siracusa. Poeta e traduttore di poesia americana, soprattutto di John Ashbery e Wallace Stevens. Ha pubblicato molti libri di poesia e prosa. Ha anche lavorato a diverse antologie. Il suo lavoro poetico è tradotto in quattordici lingue ed è l’editor delle versioni tedesche delle opere di Malcom Lowry e William Carlos Williams. La sua ultima pubblicazione è “Wohin mit den Augen. Gedichte” (2021). Membro del PEN per la Germania e della Deutschen Akademie für Sprache und Dichtung.

Consolo sdoppiato tra fuga e ritorno

Domani rintoccheranno i dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, il quale era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio del 1933: il paese sul mare sotto i Nebrodi con cui ebbe, per tutta la vita, un rapporto conflittuale, di quasi rabbioso amore: lo stesso, del resto, che patì per l’Italia tutta. Morì infatti a Milano: ove era approdato inseguendo un sogno vittoriniano di emancipazione, città che, negli ultimi anni, voleva abbandonare, consegnata come gli sembrava a un processo di preoccupante involuzione politica. Di lettura ardua, Consolo è stato però uno scrittore consacrato presto dai lettori e dalla critica. Basterebbe ricordare che, quando uscì il suo libro forse più bello, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Sciascia gli dedicò un intenso saggio ora raccolto in Cruciverba (1983). Senza dire di Nottetempo, casa per casa (1992), il romanzo con cui vinse il Premio Strega. Epperò, io che gli ho voluto bene non sono mai riuscito a vederlo smemoratamente sereno e soddisfatto per quanto aveva ottenuto, se non raramente accanto alla moglie Caterina, perché un tarlo lo rodeva sempre: si fa fatica, in effetti, a non pensare al suo rapporto difficile con altri due scrittori siciliani di successo, Gesualdo Bufalino e Andrea Camilleri. Ho detto della sua disposizione politica, che viveva con un certo animoso risentimento, ma che connotava in profondità la sua scrittura, in un modo tutt’altro che esornativo. Non si capirà mai fino in fondo che tipo di scrittore sia, se non si riconoscerà un fatto: che quella civile sia stata sempre, e talvolta parossisticamente, il rovescio esatto e perfetto d’una oltranza della forma: sino al punto da non poter capire noi se fosse più importante per lui -seppure nella declinazione d’un disincanto sempre più feroce- un progetto di contestazione sociale o il sabotaggio d’una lingua sciattamente comunicativa e globalizzata, del tutto coerente con la grammatica semplificata e feroce del Potere, poco importa se, in questo suo antagonismo, Consolo abbia lavorato per incielarsi nella lingua letteraria o per discendere nel ventre del dialetto.

Per questo decennale gli si rende giustamente onore con alcune pregevoli iniziative: a cominciare dalla ripubblicazione per Mimesis, con la nuova prefazione di Gianni Turchetta, dell’ormai introvabile La Sicilia passeggiata (pp. 176, euro 16.00), stampata nel 1990 con un corredo fotografico di Giuseppe Leone, che ritorna ora con altri scatti dell’artista: un testo «conosciuto quasi solo dagli specialisti», ma -per dirla con lo stesso Turchetta- capace di esercitare «sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione». Turchetta -uno degli studiosi a Consolo più fedele negli anni (fu lui a predisporre nel 2015, con un notevole saggio, il Meridiano dedicatogli)- è anche il curatore sempre per Mimesis del volume che raccoglie gli atti d’un convegno internazionale che si tenne tra il 6 e il 7 marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano, ovvero “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione (pp. 236, euro 20.00). Tra i relatori mi piace ricordare il francese Dominique Budor, lo spagnolo Miguel Ángel Cuevas, che indaga il rapporto tra il nostro e il «tempestosissimo» Stefano D’Arrigo (l’aggettivo è di Consolo stesso), l’irlandese Daragh O’ Connell, concentrato -attraverso Nottetempo, casa per casa– sul grande tema della «notte della ragione» e sui già accennati rapporti tra poetica e politica. Ma non posso non nominare, tra gli italiani, Corrado Stajano, uno dei nostri più importanti intellettuali civili (che a Consolo era legato da forte amicizia), Carla Riccardi, che si misura con la questione fondamentale della Storia tra fughe e ritorni (su un arco cronologico che va da Lunaria alle Pietre di Pantalica), e infine Giuseppe Traina, il quale disquisisce intorno all’affascinante tema dell’influenza arabo-mediterranea. Ha ragione Turchetta, nella sua introduzione, a sottolineare il nesso tra sperimentalismo e eticità e a ricordarci che in Consolo la letteratura, nella sua «missione insieme impossibile e necessaria», resta sempre un «linguaggio speciale, tanto denso da sfidare la concretezza stessa del reale».

 Non manca per il decennale il contributo dei più giovani. Mi riferisco al libro Al di qua del faro. Consolo, il viaggio, l’odeporica di Dario Stazzone, dottore di ricerca in Italianistica ma già assiduo frequentatore della letteratura dell’Otto-Novecento non solo siciliana, pubblicato da Leo S. Olschki Editore (pp. XVIII-114, euro 18.00). Il titolo rievoca evidentemente quello della raccolta di scritti di Consolo del 1999, ma con una variazione che ne svela il movimento, conducendoci al senso profondo del libro: «in luogo della relativa staticità della locuzione Di qua dal faro si è preferito l’uso del moto a luogo, per rendere l’idea del movimento dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour d’Italie che si spingevano fino alle estreme propaggini meridionali d’Italia, fino alla Sicilia». Il che individua da subito anche la fitta trama di rimandi tra testi consoliani e contesto odeporico, obiettivo primo delle pagine di Stazzone: a documentare l’importanza del rapporto che tutta l’opera di Consolo, non solo quella di vocazione esplicitamente saggistica, ha con la letteratura di viaggio. Stazzone, del resto, accoglie in pieno la definizione che dello scrittore aveva dato Stajano, «eterno migrante del ritorno», convinto com’è che Consolo sia vissuto «sempre in bilico tra il desiderio di rivedere i luoghi natali e la delusione che scaturiva, volta per volta, nell’osservarli violentati da gretto interesse economico, arroganza criminale e complicità politica», sdoppiato com’era nel simultaneo punto di vista di nativo e di viaggiatore che arrivava da Nord. E sempre la Sicilia come questione cruciale: per lui e per tutti i grandi siciliani, Sciascia in primis, che lo avevano preceduto.

                                                                           Massimo Onofri
Avvenire del 20 gennaio 2022