Che dolore grande vederlo sdraiato su quel divano del soggiorno di casa, con un plaid addosso, il volto sempre più segnato, la voce sempre più flebile. Agitava il braccio smagrito e la mano, addio, addio. Chissà se quel gesto era l’ultimo saluto, il segno amorevole della vita che si stava allontanando. Il vecchio sofferente era il ragazzetto che nel suo primo libro – autobiografico – La ferita dell’aprile, sprizzava allegria beffarda, un grillo saltellante dalla marina alla montagna siciliana, tra le piazze, i vicoletti, i bagli, l’oratorio, in mezzo ai carusi, ai bastasi, ai preti, alle vocianti donne di paese, alla baronessa secca e bianca, narrazione di un vivere che non può finire mai? Vincenzo Consolo è morto in corso Plebisciti a Milano, dove abitava, dopo un travaglio di mesi. «Mi sto riprendendo», diceva immancabilmente, e non si capiva se in quelle parole c’era soltanto la sua antica ironia o anche un pizzico di speranza. Perché Vincenzo ha intensamente amato la vita, anche nei momenti più difficili di dramma e di sofferenza. E Caterina, sua moglie, come quelle solide figure della mitologia greca che gli piaceva tanto, gli ha sempre dato la forza e il coraggio di cui aveva bisogno. È nato il 18 febbraio 1933 a Sant’Agata di Militello, nella piazza del paese, non lontano dal mare. Un paese del messinese, sulla costa del Val Démone, tra San Fratello e Capo d’Orlando. Da bambino, ricorda, era piccolo e magro, «con un toracino d’uccello. Zigaga era il soprannome che mi avevano appioppato i fratelli: zirlo, pìspola». La sua è una famiglia di commercianti, la ditta vendeva olio, zucchero, lenticchie, fave, cerea-li. Suo padre, su un camion Fiat 6211, consegnava la merce ai grossisti. Qualche volta il piccolo Vincenzo lo accompagnava. Studi in paese, il liceo Valla a Barcellona Pozzo di Gotto: dopo la maturità la scelta che decide la vita. Consolo non ha esitazioni, è Milano ad attirarlo. La cultura industriale, in quegli anni cinquanta, gli sembra tutto ciò che c’è di nuovo. Elio Vittorini è il primo dei suoi miti, lo conoscerà, anche se non riusciranno a parlare tra loro, paralizzati dalle timidezze reciproche. Vittorini e Sereni stanno riscoprendo il rapporto tra letteratura e industria, Ottieri e Volponi lavorano in fabbrica, i nomi delle grandi aziende, la Pirelli, l’Alfa Romeo, la Breda, affascinano, la città è ricca di energie intellettuali, vi abitano Quasimodo, Montale, gli scrittori, gli scienziati, gli editori. Consolo studia Legge all’Università Cattolica, non per ragioni religiose o ideologiche, semplicemente perché l’aveva preceduto un compaesano. Entra nel convitto universitario di via Necchi, vicino a Sant’Ambrogio, capisce in fretta. Ricorda padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, già vicino ai fascisti e avversario accanito del Modernismo e di tutto ciò che è nuovo: aveva la testa grossa e gli occhi fulminanti. Immobilizzato, veniva spinto su una sedia a rotelle nei chiostri dell’università e incuteva al suo passaggio timore e tremore soprattutto nelle studentesse che non indossavano l’obbligatorio grembiule nero. Ricorda anche il cardinale Schuster, «etereo e magico come una figura onirica, benedicente ricamato di venuzze». nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano Ricorda soprattutto i poliziotti del suo paese, nella vicina caserma della Celere e gli zolfatari siciliani che al Centro Orientamento Immigrati, lì vicino, venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina e fatti partire per le miniere del Belgio dove molti di loro, a Marcinelle e altrove, troveranno la morte. I diversi destini degli uomini. Vincenzo ha deciso di diventare scrittore. Ma Milano è straniera, non ne possiede la lingua, per lui essenziale, quel mondo industriale se l’era soltanto immaginato. Come raccontarlo? Torna in Sicilia, pensa di diventare uno scrittore di realtà viste e vissute, di tipo sociologico. Ma non fa i conti con la sua natura fantastica da archeologo delle parole. Si laurea all’Università di Messina, fa il professore, precario d’epoca, a Mistretta, a Caronia, insegna educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Nel 1963 pubblica La ferita dell’aprile, in una bella collana, «Il Tornasole», diretta da Niccolò Gallo e da Vittorio Sereni. Con i «Gettoni» di Vittorini è l’iniziativa editoriale più coraggiosa, aperta al futuro, che dà ai giovani talenti l’opportunità di esprimersi. Conosce Lucio Piccolo, il barone di Calanovella, che abita in una villa a Capo d’Orlando. Vincenzo è affascinato dal mondo visionario del coltissimo poeta scoperto da Montale, cugino dell’autore del Gattopardo, che viveva come un uomo del Settecento. Nel salone della villa – con il cimitero dei cani accanto – nel buio più assoluto recitava urlando le sue poesie Soteriche, tra vasi Ming, statuette orientali, cassettoni Luigi XVI, ritratti di viceré e di capitani dell’Inquisizione. Ma è Leonardo Sciascia il vero maestro. È lui a far da contrappeso al fantasioso mondo di Lucio Piccolo. Consolo ritrova con la sua razionalità e i suoi saperi storici, critici, politici, quella strada civile annusata nella prima avventura milanese. La Sicilia contadina cosi amata si e nel frattempo disgregata, la mafia ha riconquistato un potere assoluto, il candore dell’isola è stato macchiato dalla corruzione, dall’ossessione del denaro, più sporco che pulito, dagli assassinii. Il lavoro manca e dove c’è è un lavoro complice, sotto l’ombrello dei protettori della politica degenerata. Consolo decide di partire di nuovo. E il Sessantotto. Milano è incandescente, ricca di fervori. Vincenzo vince un concorso alla Rai, ma viene subito emarginato per le sue idee progressiste. I dirigenti di corso Sempione non si rendono conto, per motivi politici e di convenienza, di ciò che avrebbe potuto fare quel giovane arrivato dal Sud. Dal 1963 al 1976 Consolo non pubblica nulla, sta rimuginando, pensando, studiando. È convinto che la letteratura deve essere nemica del potere. Vuole legare la Sicilia alle idee di progresso sociale e civile della Milano di allora. Ma il linguaggio, come trovare il linguaggio adatto che sente gorgogliare nella testa? Legge Gadda, ma il suo amore per la metafora non lo accomuna allo scrittore dell’Adalgisa. È Manzoni, piuttosto, che gli dà paternità e sostegno: «Nel Manzoni dei Promessi Sposi e della Colonna infame, quello della necessità della metafora. …] L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile» (Fuga dall’Etna, La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli). Come spunta l’idea di un libro nella mente di uno scritto-re? Il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, del museo di Cefalù, fa da scintilla. È il fallimento del Risorgimento, la speranza tradita dei contadini di avere le terre dei feudatari, a povertà dei cavatori di pomice ammalati di silicosi – storia e società – ad accumularsi informi nella testa di Vincenzo. Nel 1976, pubblicato da Einaudi, esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, capolavoro di folgorante bellezza, che fa arrabbiare Roberto Longhi. I pittori non dipingevano i subalterni – un marinaio, poi – ma i doviziosi signori: si facevano infatti ben pagare. Ma l’arte, replica Consolo, e libera e il libro deve essere letto come un frutto dell’invenzione, senza vincoli. Nasce allora, si può dire, Vincenzo Consolo, il Vicè dei compagni di giochi, uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’unico italiano al quale la Sorbona, nel 2002, abbia dedicato un convegno, tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, conosciuto forse più in Europa che in Italia. Vince nel 1992 il Premio Strega con Nottetempo, casa per casa e, nel 1994, il Premio Internazionale Unione Latina, con L’olivo e l’olivastro. Per capire la meccanica del suo linguaggio basta leggere nelle Pietre di Pantalica la pagina su una piccola pastora, Amalia: «Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, feibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche». È Amalia la maestra del suo linguaggio, non inventato, risuscitato piuttosto dalle latomie della memoria. La Sicilia nel sangue. Vincenzo non è mai in pace; inquieto, sempre. Non ha di certo bisogno di quella nota di diario che Goethe scrisse nel suo Viaggio in Italia, il 13 aprile 1787: «’Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna immagine nell’anima: è qui la chiave di tutto». Appena poteva partiva, eterno migrante del ritorno. Non ha mai tradito la sua isola. Andava nel paese natale e nei paesi più minuti per vedere un’altra volta quel che aveva nel cuore. Non lo ritrovava. Ferito tornava al Nord, a Parigi, a Madrid. E poco dopo riprendeva la strada dell’eterno viaggio, riandava in Sicilia. È morto nella Milano della sua giovinezza. Nella grande stanza foderata dai libri degli scrittori amati di laggiù. Alle pareti un dipinto con una smisurata macchia arancione, il disegno di due ragazzi di Casarsa, di Pasolini, l’Ignoto marinaio di Guttuso, incisioni secentesche, ritratti, carte geografiche dell’isola stampate all’insù e all’ingiù. Tutto sa di Sicilia.
Corrado Stajano
Destini
Vite di un mondo perduto
Il Saggiatore – Milano 2023
Foto di Giovanna Borgese
Tag: Parigi
IL MAESTRO E IL GIOVANE ESORDIENTE La corrispondenza tra Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo
In copertina: Leonardo Sciascia con Vincenzo Consolo a Racalmuto, contrada La Noce, 1984 – Foto di Giuseppe Leone (su licenza dell’autore)
Di Rosalba Galvagno
Con una lettera d’accompagnamento datata Sant’Agata Militello 6 dicembre 1963, Vincenzo Consolo inviava a Leonardo Sciascia il suo primo romanzo La ferita dell’aprile. Viene così inaugurata una corrispondenza che si chiuderà il 21 aprile 1988 con una lunga lettera, sempre di Consolo, inviata questa volta all’amico Sciascia da Milano. Con la sua prima missiva lo scrittore esordiente desidera sottoporre alla lettura del «Conterraneo», il suo romanzo fresco di stampa: “Egregio signor Sciascia, mi permetto inviarle il mio libro La ferita dell’aprile. Ho chiesto il Suo indirizzo alla redazione de L’Ora di Palermo per compiere questo gesto che è dettato da due motivi: riconoscenza per la parte che hanno avuto i Suoi libri nella mia formazione e desiderio d’essere letto dal Conterraneo. Spero che questo primo contatto possa dare inizio a futuri colloqui. La ringrazio intanto per l’attenzione che vorrà prestarmi e Le porgo molti cordiali saluti.”
Sciascia reagisce a questa sollecitazione con tempestività, il 12 dicembre
1963, rispondendo con parole di stima nei confronti del
romanzo. Il grande scrittore di Racalmuto fa sapere al suo giovane
ammiratore di aver letto il testo con molta attenzione, in più chiede alcuni
«ragguagli», riguardanti specialmente la lingua utilizzata, con l’intenzione di
scriverne presto una recensione.
È così che, in breve tempo, si instaura un’autentica
e reciproca curiosità tra i due autori siciliani. Il più anziano,
nello stesso tempo in cui invita il più giovane a presentarsi ai premi
letterari di cui egli è giurato, non disdegna di apprezzarne il giudizio sulle
proprie opere, come ad esempio sul recente Morte dell’inquisitore,
un “libretto ora uscito (che è propriamente un libretto, ma mi è
costato molto lavoro)” (Caltanissetta, 18 marzo 1964). Consolo
si mostra sempre attento e sensibile ai suggerimenti dello scrittore
agrigentino e ricambia l’interesse capitale che quest’ultimo nutriva per il tema dell’Inquisizione e particolarmente per la
vicenda storica dell’Inquisizione in Sicilia. Lo stesso che gli fece scoprire e
notevolmente apprezzare un personaggio come il racalmutese Diego La Matina,
una “gigantesca figura” sulla quale Sciascia tornerà a
più riprese, specialmente dopo aver letto e riletto il romanzo di Luigi Natoli,
come scriverà in un bel saggio del 1967.
Sciascia, quindi, già all’inizio di questa frequentazione epistolare, propone a Consolo di presentarsi al premio Soverato con La ferita dell’aprile, appena pubblicato nella collana mondadoriana “Il Tornasole” diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Ma un curioso destino escluderà il giovane scrittore dalla vittoria sia di questo che di altri premi letterari cui l’amico scrittore, da giurato, lo invitava a partecipare. Caduta l’iniziale barriera formale ben presto ̶ già a partire dalle missive risalenti al 1964, i due corrispondenti abbandonano la terza persona per la seconda ̶ , subentra in queste lettere una confidenza diretta e spontanea, che non censura i problemi di salute o quelli legati alla famiglia e soprattutto al proprio lavoro. Insomma, la corrispondenza, in un primo momento prevalentemente letteraria, si fa anche biografia del quotidiano, come quando ad esempio Sciascia accenna ripetutamente all’acquisto e al pagamento di una certa quantità di olio, per sé e anche per l’amico Emilio Greco, dal fratello di Consolo, o alla noia che lo opprime, o ancora ai propri acciacchi fisici, o a certi obblighi familiari che si intrecciano con quelli del lavoro.
Naturalmente non poteva mancare in questo carteggio la presenza di Lucio Piccolo, che viene nominato per la prima volta da Sciascia in un post-scriptum della lettera del 15 giugno1965: «Se vedi Lucio Piccolo, salutalo tanto da parte mia». In un racconto che rievoca la prima lettera del nostro epistolario, Consolo ricorda i due scrittori, «due archetipi per me», proprio da lui fatti incontrare: «Leonardo Sciascia […] a cui avevo mandato il libro con una lettera, mi rispose chiedendomi delucidazioni sulle particolarità linguistiche della mia scrittura, e invitandomi insieme ad andare a trovarlo a Caltanissetta, dove allora abitava. Così feci. E dopo, di tempo in tempo, cominciai a frequentare, oltre Piccolo, anche Sciascia. Mi diceva Piccolo, quando gli comunicavo che sarei andato a Caltanissetta, «Mi saluti il caro Sciascia». E Sciascia, a sua volta, quando mi congedavo da lui, «Salutami Piccolo». Così, alla fine, feci in modo di far incontrare il poeta e lo scrittore, così antitetici, così lontani l’uno dall’altro: due archetipi per me, due cifre letterarie che ho cercato, nella mia scrittura, di far conciliare. L’incontro avvenne una domenica, la domenica in cui per la prima volta si celebrava nelle chiese la messa in italiano. […]. Sciascia rimase affascinato dal personaggio e ne scrisse dopo, in Carte segrete e ne la Corda pazza. Scrisse: “Tutto quello che Piccolo dice è di un’acutezza che sempre, sia che giunga a verità semplici sia che attinga al paradossale, sorprende e incanta. È uno che sottilmente conosce l’arte del conversare; i giudizi, gli aneddoti, i calembours, gli epigrammi, le citazioni scorrono nella sua conversazione con limpida e incantevole fluidità”».
Oltre all’interesse letterario e storico per la Sicilia dei secoli XVII, XVIII e XIX Consolo e Sciascia dichiarano anche di condividere l’amore per Parigi, un mito incrollabile, com’è noto, per molti aristocratici e intellettuali siciliani a partire già dal Settecento, e che scandisce a più riprese, tra il 1976 e il 1988, questa corrispondenza. Sciascia intitolerà Parigi un singolare saggio autobiografico e storico-letterario al contempo, nel quale colpisce la scoperta di Parigi fatta attraverso la Sicilia, come se Parigi gli avesse consentito di riscoprire una certa immagine dell’isola.
Tra queste lettere sui «luoghi dell’anima», c’è anche quella in cui Sciascia nomina La Noce, la contrada di campagna dove egli soleva trascorrere le sue vacanze estive e amava ospitare gli amici, che è stata immortalata in alcuni celebri scatti degli amici fotografi Ferdinando Scianna e Giuseppe Leone.
Tra il fitto scambio di libri, di articoli e di recensioni, preme infine segnalare il ripetuto riferimento di Sciascia alla bella, e oggi un po’ dimenticata, antologia dei Narratori di Sicilia, nella quale, accanto ai testi dei più significativi scrittori siciliani, appare il racconto di Consolo Per un po’ d’erba al limite del feudo che Sciascia gli aveva caldamente richiesto.
Numerose altre curiosità letterarie e aneddoti biografici riserva naturalmente la lettura integrale di questo prezioso carteggio, che condensa la vita e il lavoro di poco meno di un trentennio di due fra i più grandi scrittori del Novecento, offrendo uno spaccato singolare del contesto non soltanto letterario ma più profondamente antropologico dei due corrispondenti, un contesto da un lato fortemente radicato nell’arcaismo della cultura siciliana, dall’altro incredibilmente aperto all’Europa (alla modernità). Ma questo apparente, fecondo e affascinante contrasto costituisce, com’è noto, l’originalissima cifra della grande letteratura siciliana classica.
Note
Rosalba Galvagno ha insegnato Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università di Catania.
Il testo per Ferraraitalia ripropone parzialmente l’Introduzione di Essere o no scrittore: Lettere 1963-1988. Libro di Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo , a cura di Rosalba Galvagno, Milano, Archinto, 2019
pubblicato il 16 febbraio 2021 sul quotidiano indipendente “FerraraItalia”
Poi
Poi,
quando sorge e sale nel cielo
pallido e regale il faro familiare,
lo schermo opalescente,
il sipario
consolante dell’infinito e dell’eterno,
torna incerta,
tremante la parola,
torna per dire
solo meraviglia …
Vincenzo Consolo
Sant’Agata di Militello 2007
Citazioni pittoriche e strategie ecfrastiche nell’opera di Vincenzo Consolo
L’articolo indaga l’intenso dialogo tra i romanzi consoliani e le arti figurative, in particolare la pittura. Un dialogo che si avvale di strategie molteplici, le icone autoriali annunciate spesso dai titoli tematici dei romanzi, il ricorso all’ekphrasis nascosta, gli inserti critici riferiti alle opere d’arte. Con particolare riferimento a Il sorriso dell’ignoto marinaio ed a Retablo prende in esame, per altro, l’uso che lo scrittore fa dell’ekphrasis, il suo valore metanarrativo e metadiegetico.
L’opera di Consolo riserva ampio spazio alle citazioni figurative.[1] Lo scrittore, intervistato da Giuseppe Traina, ha dato una spiegazione della ricchezza dei riferimenti pittorici riscontrabili nei suoi romanzi ricorrendo ad un assunto semiologico, affermando la volontà di superare la contrapposizione tra lo svolgimento temporale del linguaggio verbale e lo svolgimento spaziale dell’opera figurativa. Per Consolo la continua evocazione dell’immagine riscontrabile nella sua scrittura risponde all’esigenza di equilibrio tra temporalità e spazialità:
Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il “retablo” appartiene alla pittura ma è anche “teatro”, come nell’intermezzo di Cervantes.[2]
La stessa perigrafia dei romanzi consoliani rinvia spesso a suggestioni figurative o a palesi citazioni pittoriche, evidenti fin dai titoli: com’è noto Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento al dipinto di Antonello da Messina, il ritratto virile d’ignoto custodito nel Museo Mandralisca di Cefalù. Anche Retablo, romanzo pubblicato nel 1987 per i tipi Sellerio, evoca la pittura fin dal titolo. Il termine catalano retablo indica infatti una pala d’altare inquadrata architettonicamente: essa può articolarsi in diversi scomparti formando un dittico, un trittico o un polittico costituito da tavole dipinte, talvolta da sculture o dall’alternanza di dipinti e bassorilievi, tenendo insieme, in quest’ultimo caso, imagines pictae e fictae. Il titolo scelto da Consolo, facendo riferimento ai polittici iberici, denunzia in primo luogo la vocazione pittorica del libro. Ma retablo è inteso dall’autore come un significante polisemico, come un lessema evocativo di rara e remota sonorità che contiene, ad un tempo, riferimenti figurativi, teatrali e letterari: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum: il senso, per me, dietro o oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana».[3] Tra l’altro il lemma spagnolo rinvia alla memoria del Retablo de las meravillas di Miguel de Cervantes. L’evocazione cervantesiana può essere intesa anche come un riferimento al tratto illusorio dell’arte, motivo a cui il romanzo dedica più di una riflessione. Attraverso la scelta di un titolo di carattere tematico[4] l’autore allude, infine, all’organizzazione narrativa del libro, articolato per scene e quadri successivi che potrebbero essere considerati come delle tavole sovrapposte, pur mantenendo la loro autonomia narrativa. Il testo consoliano si configura dunque come un polittico, come una successione di quadri narrativi al centro dei quali sta il motivo odeporico, ovvero il viaggio del cavaliere Fabrizio Clerici nella Sicilia del XVIII secolo, e una tarsia di citazioni che ne fanno uno dei romanzi più complessi e levigati della letteratura italiana del secondo Novecento.
Per dare un titolo all’ampia intervista concessa all’IMES nel 1993, lo scrittore, ancora una volta, ha usato un riferimento pittorico evocando Fuga dall’Etna di Guttuso.[5] Consolo ha riproposto il nome che il pittore siciliano ha dato ad una tela di vaste dimensioni realizzata tra il 1938 e il 1939, la sua prima composizione corale, lungamente meditata e preparata attraverso studi, ritratti e paesaggi realizzati tra la Sicilia e la Sila.[6] Nel dipinto un’eruzione etnea assume un più ampio significato sociale e diventa l’occasione per rappresentare masse di contadini in fuga concitata, arditi scorci di cavalli che negli stilemi e nell’esemplificazione formale rivelano la memoria di Guernica di Picasso: un’allusione alla sofferenza del mondo contadino e al dramma della migrazione, anch’esso un vulnus iscritto nella storia del Novecento. Non è un caso che Consolo si sia ricordato del telero guttusiano: nell’intervista, infatti, l’autore ripercorre il suo itinerario biografico e intellettuale, parla dell’allontanamento dall’isola natale, della condizione di erranza, della metafora odissiaca che attraversa i suoi romanzi, del nostos impossibile e del trasferimento giovanile a Milano. La citazione di Fuga dall’Etna testimonia, tra l’altro, dell’amicizia tra lo scrittore e Guttuso che si traduce nelle argute allusioni presenti in diversi romanzi. Si veda, ad esempio, il cenno, incastonato nelle pagine di Retablo, al «pittore celebrato […] della Bagarìa», anacronisticamente collocato in un elenco di artisti siciliani d’epoca manierista o barocca: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo di Ganci, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa».[7] L’allusione consoliana, che qui assume le connotazioni di un ammiccante gioco a nascondere, non è dissimile dalla scelta di fare dell’amico Clerici, pittore lombardo inquieto e surreale, il protagonista del libro.
Anche l’ultimo romanzo di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, fa riferimento a un’opera pittorica, il dipinto di Raffaello un tempo custodito nella chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e oggi esposto nelle sale del Museo del Prado. Secondo la narrazione del Vasari la tavola dell’Urbinate sarebbe giunta in Sicilia per mare, attraverso fortunosi accadimenti.[8] La citazione dello Spasimo (ovvero della raffaellesca Andata al Calvario di Cristo) è usata per conferire una connotazione martirologica alla narrazione. Il romanzo, infatti, si confronta col tema dell’impotentia scribendi, con lo smarrimento del protagonista e, nelle pagine conclusive, allude alla strage di via D’Amelio, all’attentato che determinò la morte di Paolo Borsellino. Il simbolismo sotteso dal riferimento pittorico è intensificato dalla riproduzione di una pagina dello spartito del Dies irae del compositore augustese Manuele d’Astorga.[9] La citazione pittorica, il ricercato recupero di un testo musicale d’epoca barocca, i riferimenti cinematografici portano al massimo grado l’orchestrazione plurima dei codici, facendo culminare la narrazione in una successione di suggestioni sinestetiche che conferiscono forza al tragico explicit.
Oltre alla perigrafia, alle tarsie intertestuali ed alle note icone autoriali di Consolo, ovvero alle esplicite costruzioni ecfrastiche dedicate al ritratto virile di Antonello da Messina nel Sorriso dell’ignoto marinaio, all’oratorio serpottiano di San Lorenzo in Retablo, al caravaggesco Seppellimento di Santa Lucia ne L’olivo e l’olivastro ed alla tavola raffaellesca nello Spasimo, Miguel Ángel Cuevas ha messo in evidenza il ricorso, da parte dello scrittore, alla strategia dell’«ekphrasis nascosta».[10] Cuevas, attraverso lo studio variantistico delle opere consoliane, ha sottolineato come l’autore tenda all’occultamento dell’originario costrutto ecfrastico, restituendo al lettore non la descrizione di un’immagine, ma la sua immediatezza:
L’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenze, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire, in ogni caso, di una diversa voce narrante: che paradossalmente provoca effetti di denarrativizzazione.[11]
Se l’ekphrasis, figura di pensiero per aggiunzione che la retorica ha considerato da sempre il mediumtra la letteratura e le arti, è la descrizione verbale di una rappresentazione visuale, se, come ha affermato Mengaldo, la «descrizione verbale non mima l’opera, ma lo sguardo che percorre l’opera»,[12] la strategia di opacizzazione referenziale adottata da Consolo rende ancora più complessi i rapporti intercorrenti tra testo e immagine. Il ricercato equilibrio tra temporalità e spazialità, di cui lo scrittore ha parlato nell’intervista concessa a Traina, rivela risvolti assai complessi considerando che spesso, nelle narrazioni consoliane, la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata: «rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità».[13]
In sintesi il rapporto tra i romanzi di Consolo e la pittura si avvale di strategie molteplici: la retorica della citazione e le icone autoriali che spesso sono preannunciate dal titolo tematico dell’opera; le ekphrasis nascoste, incastonate in una scrittura sempre caratterizzata da forte pittorialità; inserti critici e metadiegetici riferiti alle opere d’arte che testimoniano la raffinata formazione dell’autore e contribuiscono ad accentuare l’antinarratività delle sue opere dalla densa struttura ‘palinsestica’.[14] Un’ulteriore riflessione, sulla scorta degli studi di Michele Cometa dedicati alla retorica visuale, si impone in rapporto alle diverse forme di integrazione dell’ekphrasis nelle opere consoliane.
1. Il sorriso dell’ignoto marinaio: la funzione metapoetica e metanarrativa dell’ekphrasis
Si è già notato che Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento, fin dal titolo, ad un dipinto antonelliano, il ritratto virile custodito al Museo Mandralisca di Cefalù. La tavola quattrocentesca, che una tradizione suggestiva ma infondata indicava come il ritratto di un marinaio, è alla base dell’ordine delle somiglianze che attraversa il romanzo. Fin dall’incipit il protagonista, barone Enrico Pirajno di Mandralisca, tiene la tavola dipinta sotto braccio, riportandola da Lipari, dove l’ha fortunosamente scoperta, al suo palazzo cefaludese. L’antefatto del primo capitolo fa da sintesi del viaggio dell’aristocratico collezionista e vi dà un’esatta collocazione cronotopica, datandolo 12 settembre 1852: «Viaggio in mare di Enrico Pirajno barone di Mandralisca da Lipari a Cefalù con la tavoletta del ritratto d’ignoto di Antonello recuperata da un riquadro dello stipo della bottega dello speziale Carnevale».[15]
Leggendo il romanzo si scopre che il volto effigiato nel dipinto è somigliante a quello del patriota Giovanni Interdonato, l’uomo che il barone ha scorto, travestito da marinaio per sfuggire alle rappresaglie borboniche, nell’imbarcazione che lo riportava alla sua dimora. L’Interdonato avrà un ruolo essenziale nel determinare la presa di coscienza politica del Mandralisca. Otto anni dopo il viaggio alle Eolie, infatti, nel crinale storico del 1860, il Pirajno abbandonerà i suoi studi eruditi, la passione per la malacologia, il suo interesse per il collezionismo di mirabilia naturalia et antiquaria perseguito secondo l’habitus aristocratico e, essendosi rispecchiato nel volto dell’amico, muoverà da un generico liberalismo ad una più profonda comprensione della questione sociale.
Incastonata nel primo capitolo del Sorriso è la celebre ekphrasis del quadro di Antonello, ospitato tra le collezioni del Mandralisca:
Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diventerà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.[16]
La descrizione del ritratto è anche una sua interpretazione oscillante tra etopea e prosopografia, ricca di connotazioni fisiognomiche che verranno riproposte per stabilire il complesso gioco di rifrazioni e proiezioni identificative tra i personaggi del romanzo.
La giusta età della ragione, l’ironia che si pone come tertium tra l’eccesso di severità e il riso aperto, sarcastico o spietato, anticipa il percorso di maturazione politica ed esistenziale del protagonista. Consolo piega così a particolare partitura quella vocazione fisiognomica presente nei romanzi di molti scrittori siciliani, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Sciascia ad Addamo. Del resto a indirizzare il lettore verso un’attenta interpretazione del testo è la citazione in esergo, tratta dall’Ordine delle somiglianze di Sciascia: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza […]. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché della somiglianza […]. A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».[17] Nell’economia narrativa del Sorriso sono diverse le ipostasi del riconoscimento e del rispecchiamento che stabiliscono la tensione speculare tra i personaggi principali. Significativamente il momento in cui l’aristocratico individua nell’Interdonato il marinaio già scorto nel viaggio del 1852 è anche il momento in cui egli si accorge della straordinaria somiglianza tra il patriota e l’uomo effigiato nella tavola antonelliana.[18]
Il ritratto di Antonello, nella Memoria che il Mandralisca invia all’Interdonato sui fatti di Alcàra Li Fusi, vero e proprio nucleo ideologico del romanzo, diventa anche l’emblema di una ragione distaccata, condizionata dalla nascita, dalla posizione di casta o dalle necessità di carriera. Rispecchiandosi nel ritratto antonelliano, in altre parole, il Mandralisca pone una spietata critica a se stesso, alla sua classe sociale, alle sue «imposture»,[19] alla stessa intellettualità progressista che concepisce comodi ideologemi e interessate teleologie, a partire dalla stessa retorica risorgimentale.
Cuore di molteplici tensioni narrative, simboliche e proiettive, la tavola di Antonello assolve dunque ad un ruolo capitale nel romanzo, ben lontana dall’essere una semplice citazione iconica. Usando il linguaggio di Cometa è utile indagare, in quest’opera consoliana, l’«integrazione per trasposizione»[20] dell’ekphrasis.La riflessione dello studioso, sulla scorta della rilettura di un testo classico come le Immagini di Filostrato, categorizza diverse forme di integrazione ecfrastica, da intendersi come integrazione da parte del lettore nel suo repertorio.[21] Scrive Cometa: «Il lettore è dunque invitato non solo a penetrare con lo sguardo nell’immagine ma anche a integrarla con le proprie preconoscenze e con la propria esperienza pregressa».[22] Naturalmente nel Sorriso si possono riconoscere forme molteplici di integrazione dell’ekphrasis, e tra esse l’«integrazione ermeneutica»,[23] forse il procedimento più ricercato alla base del patto ecfrastico: nel Sorriso la descrizione dell’opera d’arte si avvale delle consapevolezze critiche, iconografiche e iconologiche di Consolo, in dialogo con quel lettore colto che le possieda e le sappia intendere. Come vedremo in seguito gli inserti critici e metadiscorsivi hanno una parte significativa nel Sorriso. Ma il romanzo del 1976 rimane un caso esemplare in cui l’opera d’arte assume un vero e proprio ruolo genetico, al punto che l’intero plot è stato concepito attraverso costanti rinvii ad essa. È parimenti evidente che la descrizione del ritratto antonelliano assolve alle funzioni metapoetica e metanarrativa, nel senso postulato da Cometa che ha recuperato motivi propri della poetologia schlegeliana e romantica, secondo cui l’ekphrasis permette di prefigurare ed anticipare il senso di un romanzo, costituendo un dispositivo in cui l’opera letteraria si «rispecchia», una lente in cui si scorge un’«immagine unitaria della narrazione».[24]
Oltre al caso dell’icona antonelliana, si possono individuare nel Sorriso molteplici esempi di ekphrasis nascosta; per tutti la descrizione, incastonata nel primo capitolo, di un cavatore di pomice liparitano sofferente, osservato dal Mandralisca durante il viaggio da Lipari a Cefalù. Come ha messo in evidenza Cuevas, nella descrizione dell’uomo si riconosce un dettaglio della Crocefissione di Anversa, una tavola antonelliana in cui il ladrone di sinistra si attorce in un ultimo spasimo che precede la morte.[25] Vi è nel Sorriso un’essenziale e ben nota triangolazione di riferimenti figurativi: il ritratto antonelliano, la Crocefissione di Anversa e Los desastres de la Guerra di Goya, i cui titoli scandiscono la narrazione del settimo capitolo, dedicato alla sanguinosa rivolta contadina di Alcàra Li Fusi ed alla sua repressione.[26] Come ha sottolineato Rosalba Galvagno alcune ekphrasis del Sorriso possono essere ricondotte alle incisioni de Los desastres.[27] Ma il novero dei rinvii meno evidenti alle arti plastiche e figurative è molto ampio. Non manca chi ha individuato nella rappresentazione dello studiolo del Mandralisca un probabile riferimento al San Gerolamo di Vittore Carpaccio, alle opere di Filippino Lippi o a quelle del ceroplasta siracusano Matteo Durante.[28]
Tra i tanti riferimenti espliciti alle arti sono riscontrabili cenni alla statuaria ed alla produzione ceramica greca, all’icona marmorea del Giovane con la tunica del Museo Whitaker di Mozia ed al cratere del Pittore di Lipari rappresentante la vendita del tonno. Altri riferimenti evocano il Trionfo della morte di Palermo (l’affresco tardogotico di Palazzo Sclafani che ha ispirato Guernica di Picasso, citato spesso anche da Sciascia e Bufalino), le sculture rinascimentali di Francesco Laurana ed Antonello Gagini, le tele del secentista Pietro Novelli. La descrizione delle collezioni messe insieme dal Mandralisca restituisce una fitta successione di citazioni pittoriche:
Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone Mandralisca, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del Novelli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena della scuola del Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse, così sazie, che sembrava quella sì un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i napoletani e gli spagnoli, fino a quello della giovane formosa che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo rosa d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.[29]
Nella rappresentazione dei dipinti non mancano increspature ironiche, come nel rapporto che viene stabilito, con un improvviso abbassamento del tono della narrazione, tra il motivo iconografico dell’Ultima cena e le «portate continue di maccheroni al sugo»: un’allusione al succulento banchetto che è probabilmente l’unico motivo per cui gli ospiti hanno accettato l’invito del barone a recarsi nella sua dimora e «godere la visione di una nuova opera unitasi alla loro collezione».[30] La stessa capacità rovesciante è rivelata nella descrizione di un dipinto che fa riferimento alla lactatio, tradizionale emblema di una delle Virtù Teologali, la Carità. Lo statuto iconografico che, nella tradizione figurativa barocca era l’occasione per rappresentare la nudità e la procacità femminili, esplicita qui il suo sottointeso erotico e diventa un’allusione alla ben poco edificante brama di un «vecchio rinsecchito»,[31] con un evidente riferimento alle Sette opere di Misericordia di Caravaggio.
Consolo, nel Sorriso, recupera un motivo letterario e parodico, quello dell’antiquario, della sua greve erudizione, della sua mania collezionistica che ha un archetipo nella goldoniana Famiglia dell’antiquario e conosce significative riprese anche nei romanzi di Capuana e De Roberto.[32] Non è un caso che, scorgendo una statua classica tra i marmi accatastati in un’imbarcazione, immaginando di accaparrarsela, il Pirajno si ponga in fantasiosa competizione con altri aristocratici dediti alla raccolta di nobilia opera del passato. Rappresentando la brama del Mandralisca, lo scrittore incastona nella narrazione un elenco dei maggiori collezionisti siciliani realmente esistiti ed attivi tra il XVIII e il XIX secolo:
Uh, ah, cazzo, le bellezze! Ma dove si dirigeva quella ladra speronara, alla volta di Siracusa, bianca, euriala e petrosa, o di Palermo, rossa, ràisa e palmosa? Pirata, pirata avrebbe voluto essere il barone, e assaltare con ciurma grifagna quella barca, tirarsela fino all’amato porto sotto alla rocca […]. Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina.[33]
L’ironia consoliana raggiunge il culmine nella descrizione dei crateri attici radunati nella collezione Mandralisca, con le loro scene erotiche ed altre raffigurazioni ispirate ai baccanalia, certamente non confacenti alla morale del XIX secolo:
Oltre al Venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che le aiutavano a fare toilette, i vasi neri e rossi mostravano fauni impudichi e sporcaccioni, con tutta l’evidenza dritta della infoiatura, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovanotti inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, facevano ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della provenienza di quelle antichità.[34]
Concependo il suo romanzo come un «antiromanzo storico»,[35] sullo sfondo di un Risorgimento gramscianamente inteso come mancata rivoluzione, Consolo ha usato la sua conoscenza della storia dell’arte per fare il verso al barone collezionista, per rappresentare la vacuità della sua classe sociale. L’integrazione ermeneutica dei costrutti ecfrastici vuole il concorso esegetico del lettore, la sua comprensione dei passaggi ironici. La «plurivocità» del Sorriso,[36] oltre che nei processi parodici, è ravvisabile nella stessa contraddittorietà e complessità di un personaggio come il Mandralisca che, in ultimo, riuscirà ad allontanarsi dalla concezione erudita ed esornativa della cultura propria della sua classe sociale, destinata ad un ineluttabile declino, acquisendo un’acuta e demistificante consapevolezza politica.
2. Retablo, o delle rifrazioni ad infinitum
Consolo ha fatto del pittore milanese Clerici il protagonista di Retablo. Le allusioni a Clerici e Guttuso non sono casuali. Ad ispirare il romanzo, infatti, è stato un viaggio in compagnia dei due artisti nella Sicilia orientale, un’occasione in cui lo scrittore ha rivisto i templi dorici di Segesta, Selinunte e Agrigento percorrendo alcune delle tappe canoniche del Grand Tour d’Italie.[37] Consolo, dunque, ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, ha dato un doppio letterario al suo amico. A complicare il gioco di allusioni vi è la perigrafia, la scelta di illustrare la prima di copertina della prima edizione del libro con un dettaglio di un dipinto di Clerici,[38] ed ancora la scelta di incastonare nel testo diverse ekphrasis ispirate all’opera dello stesso artista. Non sembra un caso che il pittore milanese sia stato anche il protagonista di un romanzo di Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, ed abbia fatto conoscere a Sciascia La tentazione di Sant’Antonio, la tela del manierista Rutilio Manetti in cui è effigiato il diavolo con gli occhiali, investito di forti valori simbolici nel romanzo Todo modo.[39]Le vertiginose rifrazioni del libro consoliano sono degne della teoria di rispecchiamenti de Las Meninas di Velázquez, dipinto emblematico della temperie barocca.
La rappresentazione di un viaggio in Sicilia nel XVIII secolo, la ricchezza di riferimenti figurativi e la diffusa retorica dello sguardo fanno di Retablo l’opera consoliana in cui il rapporto tra letteratura e pittura si fa più intenso e insistito.[40] I rimandi figurativi, per altro, agiscono in profondità, fino a dare forma alla stessa architettura ed alla focalizzazione del racconto. Il romanzo, infatti, è ripartito in tre capitoli o tavole: Oratorio, Peregrinazione e Veritas. A ciascuna di queste parti corrisponde una diversa voce narrante, quella di Isidoro in Oratorio, quella di Clerici in Peregrinazione e quella di Rosalia in Veritas. Un intreccio di voci che restituisce al lettore gli stessi accadimenti osservati da angolazioni diverse, moltiplicando prismaticamente le visioni e le possibili interpretazioni della realtà.
Ad incipitdi Oratorio è posto il celebre inno che Isidoro innalza a Rosalia: una petitio amorosa, una laica preghiera, una litania o un delirio in cui la scomposizione del nome dell’amata in Rosa e Lia, il moltiplicarsi delle figure fonetiche ed etimologiche, l’intertestualità non priva di echi danteschi e petrarcheschi, l’investimento ambiguo ed ambivalente della donna si spingono ad un parossistico virtuosismo. Subito dopo Isidoro, dedito alla questua e alla vendita delle bolle, narra in prima persona l’amore concepito per la giovane che, quotidianamente, gli appariva alla finestra insieme alla madre. Le due donne hanno ordito il raggiro dell’inesperto questuante facendogli credere di poter sposare la ragazza e, fattesi consegnare il denaro delle bolle, sono scomparse nel nulla. Cacciato dunque dal convento, il fraticello è ridotto alla condizione di facchino alla Cala di Palermo. Qui, finalmente, gli appare il cavaliere Clerici, sceso da una nave che ha il nome simbolico di Aurora.[41] L’aristocratico viaggiatore prende con sé Isidoro, lo allontana dalla vita dura ed ambigua del porto e ne fa il suo accompagnatore nel viaggio in Sicilia volto all’osservazione e alla riproduzione dei monumenti antichi. Quando Clerici fa conoscere al fraticello il cavaliere Serpotta e gli mostra l’oratorio palermitano di San Lorenzo, questi scorge nella statua della Veritas il sembiante dell’amata Rosalia, va in escandescenze e sviene.
Come si vede da questa veloce sintesi il primo capitolo di Retablo consegna subito al lettore una pluralità di toni: l’incipitlirico, la seduzione e il raggiro di Isidoro che rinvia all’archetipo novellistico di Boccaccio, la rappresentazione della baraonda della Cala, non priva di dettagli bassi, spuri e scatologici, la descrizione dettagliata dell’oratorio serpottiano. Il primo apparire di Rosalia tra i vicoli di Palermo è una delle tante ekphrasis nascoste che costellano la narrazione, annunciata da un preciso riferimento al «riquadro», ovvero alla finestra da cui si sporge la ragazza in compagnia della madre:
Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei.[42]
La scena, più che un generico riferimento all’Annunciata antonelliana di palazzo Abatellis, rinvia ad un’opera di Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, ovvero Due donne galiziane alla finestra, custodita alla National Gallery di Londra: un riferimento fino ad oggi non evidenziato dalla letteratura critica, tuttavia ricco di impliciti che contribuiscono a connotare la figura di Rosalia. Nel dipinto appaiono due donne, una giovane e una matura, che affacciandosi alla finestra ammiccano al passante-spettatore: un espediente che, attraverso lo sguardo muliebre, tende ad oltrepassare lo spazio della tela, come spesso accade nelle opere del secentista spagnolo. Si tratta di un dipinto di genere popolaresco, una scena di seduzione in cui è forse raffigurata una giovane prostituta con la sua mezzana. Il dettaglio della mantellina fermata con la mano sotto il mento è puntualmente riscontrabile nella descrizione di Retablo e si fa indice dell’esatta referenzialità del testo consoliano. L’ekphrasis delinea dunque l’immagine ambivalente della giovane, il cui atteggiamento, in apparenza pudico, dissimula una capacità seduttiva rivelata dallo sguardo che, «sotto il velario delle ciglia», emana, secondo una significativa sinestesia, «lampi d’un fuoco di smeraldo».[43]
Fin dalla prima apparizione, dunque, Rosalia è rappresentata secondo le valenze ambigue della donna levatrice e sprofondatrice, una duplicità iscritta nel suo stesso nome composto che rinvia alla patrona palermitana, quella Santa Rosalia nella cui iconografia, inventata nei primi decenni del Seicento, confluiscono non pochi statuti rappresentativi della Maddalena.[44] Un percorso iconografico certo non ignoto a Consolo che, nell’inno di Isidoro, si avvale dell’oscillazione tra la figura laica e quella profana di Rosalia, facendo riferimento alla statua marmorea della santa venerata nel santuario di Monte Pellegrino.[45]
Già in Oratorio, dunque, la giovane donna appare ad una finestra, tecnema della visione non dissimile dalla cornice di un dipinto,[46] viene ricordata attraverso il simulacro marmoreo della santa, la si immagina rappresentata in una delle figure in stucco dell’oratorio serpottiano, è evocata ripetutamente nelle catene paronomastiche e nella dimensione ecoica dell’inno incipitario che scompone e richiama ripetutamente il suo nome: tutti simulacra del sentimento amoroso concepito da Isidoro, espressione dell’ossessione del fraticello e dell’intangibilità di uno sfuggente oggetto del desiderio.[47] Per altro, nella rappresentazione laico-profana di Rosalia e nelle reduplicazioni della sua immagine, è facile scorgere la suggestione de Gli elisir del diavolo di Hoffmann.
Tra le statue che ritraggono Rosalia vi è l’allegoria serpottiana della Verità che, secondo lo statuto iconografico, è rappresentata come Nuda Veritas. La descrizione del teatro plastico settecentesco è una delle più note icone autoriali incastonate nel libro che nasconde, nella stessa rappresentazione degli stucchi rischiarati da un raggio di sole, l’ekphrasis di un dipinto di Clerici. Il raggio che penetra nell’aula, che colpisce una ninfa di cristallo e, rifrangendosi, illumina le statue, è lo stesso che si può scorgere in una tela del pittore milanese, La grande confessione palermitana: il chiarore diffuso dal raggio solare, consustanziale al «bianco puro»[48] dell’oratorio, rivela nel dipinto una natura luttuosa che lega le candide statue all’immagine funerea dei corpi imbalsamati delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Ecco che il testo consoliano, in una vertiginosa sovrapposizione, include in una descriptio un’altra ekphrasis. Come ha rilevato Maria Rizzarelli: «L’ordine delle somiglianze che nel Sorriso costituiva il principio gnoseologico della conversione ideologico-sociale del Mandralisca, diviene qui ordine delle apparenze, da fondamento conoscitivo si trasforma, attraverso l’esasperante trionfo della figura del doppio, in ordine dell’illusione con cui s’identifica l’arte».[49]
La rappresentazione dell’oratorio è il punto culminante del capitolo iniziale di Retablo. Se in questa prima parte del romanzo si incontrano alcuni grandi pittori e artisti (un rapido cenno è dedicato anche al dipinto palermitano di Caravaggio, la Natività), il secondo capitolo, Peregrinazione, è totalmente incentrato sulla figura di Clerici che, accompagnato da Isidoro, intraprende il suo viaggio e la sua esplorazione della Sicilia.
Anche Clerici viaggia per l’isola con l’intento di dimenticare la donna amata, Teresa Blasco, futura sposa di Cesare Beccaria e dunque futura nonna di Alessandro Manzoni.[50] Alla nobildonna milanese, il cui padre ha origine spagnola e la madre siciliana, il cavaliere dedica il suo diario di viaggio. Fin dalla Dedicatoria, indirizzata a Teresa, Clerici si dice intenzionato a illustrare e a narrare la patria materna della donna, rivelando così l’intenzione di avvalersi sia della parola che dell’immagine, di usare entrambi i codici per rappresentare la Sicilia.[51] Del resto, già in Oratorio, l’aristocratico viaggiatore è stato presentato da Isidoro in virtù della sua abilità di disegnatore: «Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’Isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate».[52] Lo stesso cavaliere, ben presto, sente l’esigenza di porre sotto gli occhi di donna Teresa non solo le immagini del mondo classico, i monumenti antichi, ma anche le brutture della società contemporanea. Clerici si rivela, dunque, un viaggiatore assai lontano da compiacimenti arcadici e vagheggiamenti idilliaci, dall’eterno archetipo della pastorale teocritea e dalle sue riprese settecentesche. Le sue intenzioni e il suo sguardo disilluso preannunciano un motivo che diventerà dominante nei successivi romanzi consoliani, il contrasto tra la memoria del passato e un presente di rovina, immemore e degradato.
Il percorso di Clerici ricalca parzialmente quello del Grand Tour nella Sicilia occidentale: Palermo, la vicina Monreale, Alcamo, Segesta, Selinunte, Mozia e Trapani. Retablo rimodula dunque, attraverso una complessa trama intertestuale, temi e motivi propri dell’odeporica settecentesca, configurandosi come un Voyage pittoresque, un Conte philosophique e un romanzo picaresco. Lo sguardo di Clerici è quello straniante del pittore, aduso a scrutare le fisionomie, a indovinare l’animo di chi gli sta di fronte. La sua visione è arguta e disincantata, in altre parole è quella di uno smaliziato e inquieto viaggiatore novecentesco, anche se le illusioni, gli apparati effimeri, le rifrazioni, le quinte teatrali e i retabli ingannevoli appaiono ad ogni passo del suo viaggio, adatte a rappresentare le oltranze immaginative di pittori, scultori e architetti della Sicilia barocca o tardobarocca. Il trionfo della teatralità e la voglia di destare meraviglia trovano il culmine nella descrizione di Alcamo, la patria del Soldano Lodovico, il luogo dove si riunisce l’Accademia de’ Ciulli Ardenti che, con la sua poesia edulcorata e pretenziosa, non rende onore all’autore del Contrasto. È qui che, in occasione della festa del paese, appare il Retablo de las meravillas, un apparato aniconico e illusorio in cui ogni spettatore può proiettare e scorgere i suoi fantasmi.
Nell’ultimo capitolo di Retablo, Veritas, Rosalia racconta finalmente la sua verità: realmente innamorata di Isidoro, è divenuta una cantante che si appresta a debuttare in una rappresentazione della Vergine del Sole di Cimarosa. Ospite nel palazzo di un munifico marchese, è stata educata al bel canto da don Gennaro Affronti, un artista castrato che le ha fatto da «padre» e da «madre».[53] Rosalia si è dunque mantenuta fedele ad Isidoro, convinta che per preservare un amore sia necessaria la sua cristallizzazione. Per questo esorta l’amato a ritornare alla vita passata ed alla sicurezza claustrale.
Ogni aspetto della vita e dell’arte, in Retablo, si rivela illusorio: l’amore di Isidoro e Rosalia verrà preservato solo a costo di una monacazione spirituale; l’amore concepito da Clerici per donna Teresa Blasco non è ricambiato. Frequenti sono i dubbi, espressi dallo stesso Clerici, sulla possibilità di rappresentare quant’egli ha osservato nel suo viaggio: l’impotenza dell’arte è metaforizzata dalla condizione del castrato don Gennaro, ovvero dalla sua impotentia generandi. L’uso sapiente dei costrutti ecfrastici e delle rifrazioni che sembrano riproporsi ad infinitum allude all’intangibilità della realtà. Motivi che percorrono in modo insistito l’opera di Consolo e, dopo essersi affacciati in Retablo, passando per un testo capitale come Catarsi, giungono alle pagine intensamente patemiche dello Spasimo. Ma anche per viam negationis l’autore, col vertiginoso spessore palinsestico della sua opera, ha riaffermato la necessità dell’arte e della scrittura, del nesso intimo tra parola e immagine, del loro irrinunciabile valore tetico.
1 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 63-77.
2 G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), Cadmo, 2001, p. 130.
3 La citazione è tratta da S. Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, p. 207.
4 Cfr. G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.
5 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Roma, Donzelli, 1993.
6 Per le immagini di Fuga dall’Etna e dei suoi bozzetti cfr. F. Carapezza Guttuso (a cura di), Guttuso. Capolavori dai musei, Milano, Mondadori Electa, 2005, pp. 60-61.
7 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987, ora in Id., L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, p. 417. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione.
8 Cfr. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 630-631.
9 Per uno studio della fitta intertestualità de Lo Spasimo di Palermo mi permetto di rinviare a D. Stazzone, ‘Testi e intertesti in Vincenzo Consolo: Lo Spasimo di Palermo’, in F. Cattani, D. Meneghelli (a cura di), La rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, premessa di S. Albertazzi, M. Cometa, M. Fusillo, Roma, Meltemi, 2008, pp. 185-201.
10 Adotto qui le definizioni di «icona autoriale» ed «ekphrasis nascosta» proposte in M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole. Intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo’, in R. Galvagno (a cura di), «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di A. Di Grado, Avellino, Biblioteca di Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Di notevole valore teorico è l’introduzione alla raccolta degli scritti per artisti di Consolo: M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole’, in V. Consolo, L’ora sospesa ed altri scritti per artisti, Valverde (CT), Le Farfalle, 2018, pp. 9-16.
11 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 29.
12 P. V. Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 38.
13 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 30.
14 Quanto al palinsesto consoliano cfr. D. O’ Connell, ‘Consolo narratore e scrittore palincestuoso’, Quaderns d’Italià, 13, 2008, pp. 161-185; D. O’ Connell, ‘Furor melancholicus: poetica pittorica nella narrativa di Vincenzo Consolo’, in D. Perrone, N. Tedesco (a cura di), Letteratura, musica e arti figurative tra Settecento e Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, pp. 147-160.
15 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, ora in Id., L’opera completa, p. 127. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione. Per una storia critico-genetica ed alcune valutazioni filologiche sul Sorriso cfr. N. Messina, ‘«Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo. Un approccio a III Morti sacrata’, in J. Eynaud (a cura di), Interferenze di sistemi linguistici e culturali nell’italiano, Atti del X Congresso AIPI (Università di Malta, La Valletta, 3-6 settembre 1992), Zabbar (Malta), Gutemberg Press, 1993, pp. 141-163; N. Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo «Il sorriso dell’ignoto marinaio», tesi di Dottorato, Universitad Complutense, Madrid, 2007, [accessed 17 February 2020]; D. O’ Connell, ‘“And he a face still forming”: Genesis Gestation and Variation in Vincenzo Consolo’s Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Italian Studies, 1, 2008, pp. 119-140.
16 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 143-144.
17 Sul rapporto tra Consolo e Sciascia cfr. C. Madrignani, ‘Dopo Sciascia’, La rivista dei libri, novembre 2001, pp. 26-29; M. Á. Cuevas, ‘Parole incrociate: Sciascia e Consolo’, in L. Trapassi, Leonardo Sciascia, un testimone del secolo XIX, Acireale-Roma, Bonnanno, 2012, pp. 195-206. Quanto alla funzione delle epigrafi nell’opera consoliana mi permetto di citare D. Stazzone, ‘Tra palinsesto e paratesto: le epigrafi di Consolo’, Quaderns d’Italià, 21, 2016, pp. 183-192.
18 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 161.
19 Ivi, p. 219.
20 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 135.
21 Si fa cenno alla nozione di «repertorio» elaborata da W. Iser, L’atto di lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987.
22 M. Cometa, La scrittura delle immagini,p. 116.
23 Ivi, p. 121. 24 Ivi, p. 140.
25 La Crocefissione, custodita al Koninklijk Museum voor Schone Kunstern di Anversa, è un olio su tavola realizzato da Antonello nel 1475, durante la sua permanenza a Venezia. Cfr. M. Lucco (a cura di), Antonello da Messina. L’opera completa, Cinisiello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2006, pp. 216-221.
26 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ancora su Antonello’, Testo, 59, 2010, pp. 117-124.
27 Cfr. R. Galvagno, ‘«Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo’, in Ead. (a cura di), «Diverso è lo scrivere»,pp. 39-64.
28 Cfr. S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio», Palermo, Sellerio, 2011, p. 44. Per l’iconografia di San Gerolamo cfr. H. Friedmann, A Bestiary for Saint Jerome. Animal Symbolism in European Religious Art, Washington D.C., Smithsonian Institution Press, 1980, pp. 291-293. Per l’iconografia di San Gerolamo nelle opere consoliane cfr. S. S. Nigro, ‘Gerolamo e Agrippino’, La Sicilia, 15 novembre 1988.
29 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 141-142.
30 Ivi, p. 135. 31 Ivi, p. 142.
32 Si pensi al don Eugenio Uzeda dei Vicerè di De Roberto o al don Tindaro del Marchese di Roccaverdina di Capuana.
33 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 134-135.
34 Ivi, p. 142. 35 V. Consolo, Fuga dall’Etna, p. 45.
36 C. Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo’, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi,1991, p. 83.
37 Cfr. V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di M. Á. Cuevas, Caltagirone (CT), Lettera da Qalat, 2016, pp. 45-46.
38 Si tratta di un dettaglio de La grande confessione palermitana, riprodotto nella prima copertina di V. Consolo, Retablo, Torino, Sellerio, 1987.
39 Il racconto della scoperta sciasciana del dipinto di Manetti è in F. Clerici, ‘L’eremo, l’abate e il diavolo’, in Id., Di profilo, a cura di M. Carapezza, Milano, Novecento, 1989, pp. 267-271.
40 Per alcune valutazioni complessive su Retablo cfr. N. Zago, ‘C’era una volta la Sicilia. Su «Retablo» e altre cose di Consolo…’, in Id., L’ombra del moderno, da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992; G. Turchetta, ‘Il luogo della vita: una lettura di «Retablo»’, in M. Lanzillotta, G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro (a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Pisa, 2014, ETS, pp. 647-656.
41 È evidente il simbolismo onomastico adottato da Consolo: il cavaliere Clerici, infatti, approdando a Palermo, salva Isidoro, lo trae dall’abisso in cui era sprofondato e gli permette di rinascere a nuova vita. Ma il nome del «pacchetto Aurora», nel continuo gioco di allusioni che caratterizza la scrittura consoliana, rinvia anche all’incrociatore russo che, nel dicembre 1908, portò soccorso alla popolazione di Messina dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città siciliana e Reggio Calabria. L’Aurora, per altro, ebbe un ruolo di primo piano nella rivoluzione d’Ottobre, sparando il primo colpo d’arma da fuoco dal castello di prua, segnale dell’inizio della rivoluzione.
42 V. Consolo, Retablo, p. 371. 43 Ibidem.
44 Per l’iconografia della patrona palermitana Santa Rosalia cfr. M. Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E. T. A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005.
45 V. Consolo, Retablo, p. 369.
46 Quanto alla finestra, alla sua funzione di tecnema della visione e al suo ruolo nelle descrizioni letterarie cfr. P. Hamon, Imagerie. Littérature et imageau XIX e siècle, Paris, Édition José Corti, 2001.
47 Cfr. il saggio di R. Galvagno, «Bella la verità», pp. 39-64.
48Ibidem.
49 M. Rizzarelli, ‘Un Retablo come uno specchio. Le voyage pittoresque del cavaliere Fabrizio Clerici’, in A. Ottieri (a cura di), Ai margini della letteratura. Le “scritture contaminate”, Sinestesie, IV, 2006, p. 92.
50 Per i rapporti tra Retablo e l’Illuminismo lombardo cfr. G. Albertocchi, ‘Dietro il Retablo. «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria». Leggere Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 95-111, ora in G. Albertocchi, «Non vedo l’ora di vederti». Legami, affetti, ritrosie nei carteggi di Porta, Grossi e Manzoni, Firenze, Clinamen, 2011, pp. 141-159.
51 Cfr. V. Consolo, Retablo, p. 379. 52 Ivi, p. 370. 53 Ivi, p. 473.
da Arabeschi n. 15
Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione
data 12/04/2018
LETTERATURA E MUSICA / INCONTRO CONCERTO-RECITAL
Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione
In lingua italiana con sottotitoli in francese, 70’.
Con Gianni Turchetta (voce), Etta Scollo (voce e chitarra) e Susanne Paul (violoncello e voce)
Questo concerto-recital, che rende omaggio allo scrittore Vincenzo Consolo, è stato creato a partire dal racconto eponimo di Consolo. L’opera si svolge in una Sicilia fiabesca, contemplata attraverso un caleidoscopio che mescola tutte le sfumature del barocco mediterraneo. Il protagonista, il viceré dell’isola, è un personaggio cupo e malinconico. Una notte, questo atipico sovrano sogna che la luna sia caduta dal cielo. Quello che sembra un incubo è in realtà una premonizione: in uno sperduto villaggio del regno, inesistente perfino sulle carte geografiche, la luna è veramente caduta dal cielo… Tra narrazione e peosia, il racconto scivola dall’inizio alla fine come la musica di uno spartito, scorrendo come un fiume carsico e comparendo qua e là alla luce del sole (o della luna) in occasione di veri e propri exploit melodici e coreografici: canzoni, balli, poesie la cui tensione musicale viene esaltata dalle parole dell’autore, che raccoglie le più antiche espressioni delle diverse lingue regionali.
Lo spettacolo sarà preceduto da un intervento di Gianni Turchetta, professore di letteratura all’Università di Milano e specialista della scrittura di Vincenzo Consolo, del quale ha curato l’opera completa per i Meridiani Mondadori.
https://iicparigi.esteri.it/iic_parigi/it/gli_eventi/calendario/2018/04/hommage-a-vincenzo-consolo-lunaria.html
Sciascia e Parigi. Lo scrittore nella città
La tua Parigi è sempre quella che hai scoperto attraverso gli occhi di Sciascia?
Il primo libro di Sciascia francese è stato Il paradosso dell’attore di Diderot. Il mio primo romanzo francese, quando lo lessi avrò avuto 10-11 anni, è stato I miserabili di Victor Hugo. Siamo stati segnati da due matrici assolutamente diverse. Una romantica, l’altra settecentesca illuminista. Io amo moltissimo Parigi, ma non ci vado con lo spirito con cui ci andava Leonardo. Vedo Parigi molto letteraria, senz’altro; un giorno mi sono imbattuto in una targa che diceva che lì aveva abitato Hemingway; a ogni piè sospinto ti trovi pagine di letteratura; non c’è solo Voltaire, c’è anche Proust. Ho cercato di andare oltre questa geometria cartesiana, mi sento più romantico… che illuminista. Ma Parigi la trovo veramente la città ideale, al di là della letteratura al di fuori della letteratura, per il suo essere tante città; cosa che non credo sia neanche New York.
Forse perché in Italia siamo abituati alle piccole città. Anche la nostra letteratura è una letteratura di piccole città, a partire da Manzoni in poi, una letteratura della piazza, del villaggio. E lì invece appena giri l’angolo trovi una città assolutamente diversa. Ritrovi questa varietà di paesaggi anche umani. Una volta camminando, credo a Barbès, con Sciascia abbiamo incrociato una schiera di arabi e Sciascia mi disse «guarda che belle faccie di siciliani…», anche se sapeva benissimo che si trattava di arabi; lui aveva un grande amore per le matrici arabe della Sicilia, e ritrovarle a Parigi… credo lo affascinasse. Però questa mediterraneità, che lui vedeva a Parigi, ma anche il côté sudamericano, questa varietà di umanità lo affascinava; perché i nostri orizzonti sono monoculturali; solo adesso per la prima volta ci ritroviamo di fronte a degli estranei con le immigrazioni recenti. La Francia ha avuto da sempre la multi-cultura… credo che Leonardo fosse affascinato da questo; perché appunto conoscendo la storia siciliana, sapeva cos’era stata Palermo sotto i normanni, come ci racconta l’Amari; varie lingue, culture, religioni che convivevano insieme. Per lui era dunque l’ideale della reciproca conoscenza, dell’arricchimento reciproco, credo fossero tutte queste cose che lo affascinavano…
Un remoto e un recente presepe
Lise Bossi L’olivo e l’olivastro de Vincenzo Consolo : pour une odysée du désastre
14 (2012)
Les années quatre-vingt et le cas italien
Lise Bossi
L’olivo e l’olivastro de Vincenzo
Consolo : pour une odysée du désastre
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Lise Bossi, « L’olivo e l’olivastro de Vincenzo Consolo : pour une odysée du désastre », Cahiers d’études
italiennes [En ligne], 14 | 2012, mis en ligne le 15 septembre 2013, consulté le 15 septembre 2013. URL :
Cahiers d’études italiennes, n° 14, 2012, p. 201-212. 201
Sulla scena ci sembra sia rimasto solo il coro
che in tono alto, poetico, in una lingua non più
comunicabile, commenta e lamenta la tragedia
senza soluzione, il dolore senza catarsi 1.
Publié en 1994, L’olivo e l’olivastro de Vincenzo Consolo 2 reconstitue les
étapes d’une nouvelle Odyssée, entendue à la fois comme voyage de retour,
comme nostos dans l’espace réel, et comme voyage fantastique dans l’espace
de la littérature et de la poésie, pour l’un de « ceux qui sont nés par
hasard dans l’île aux trois angles » (OO, p. 22). Mais cette Odyssée, largement
autobiographique, rêvée initialement comme un retour vers une
sicilienne Ithaque d’affection et de mémoire, se transforme bientôt en un
voyage dans le désastre qui s’est consommé pendant cette époque atroce
qu’a été, pour la Sicile comme pour l’Italie tout entière, la période des
années quatre-vingt.
Et nous sommes conviés à suivre le voyageur, à travers « une île perdue,
une Ithaque damnée » (OO, p. 80), où tout ce qui subsiste de ce qu’il a
connu et aimé est conservé par des érudits et des poètes, qui combattent
les prétendants à coup de chantiers de fouilles et de mots écrits noir sur
noir, ou par des sortes de gardiens de cimetières verghiens qui ont arrêté le
temps en régressant vers une illusoire Troie retrouvée (p. 53).
- La citation en exergue est extraite de Di qua dal faro, Milan, Mondadori, 1999, p. 262.
- V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Milan, Mondadori, 1994 ; ci-après, OO. La pagination renvoie à l’édition
de poche : V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Oscar Scrittori del Novecento, Milan, Mondadori, 1999.
C’est justement cette Troie, « lieu de pure existence, de simple hasard »
(OO, p. 49), celle du fallacieux âge d’or à laquelle s’accrochent les
Malavoglia, que le narrateur a voulu fuir lorsqu’il a quitté la Sicile à la fin
des années soixante pour aller vers ce qu’il appelle les lieux de l’histoire.
Vers Palerme, d’abord, « le lieu où se croisent les cultures et les idiomes les
plus divers » (p. 123) ; puis, lorsqu’il a eu le sentiment que toute la Sicile
n’était plus qu’un désert historique et social, vers Milan, « dans un contexte
urbain dont il ne possédait ni la mémoire, ni le langage » (SIM, p. 176 3). Et
lorsque Milan est devenu l’emblème de « la triste, aliénée et féroce nouvelle
Italie du massacre de la mémoire, de l’identité, de la décence et de la civilisation,
l’Italie corrompue, barbare, de la mise à sac, des spéculations, de la
mafia, des attentats, de la drogue, des voitures, du football, de la télévision
et des lotos, du tapage et des poisons » (OO, p. 71), alors, celui qui écrit a
eu le désir de réduire la fracture qui déchirait sa vie en accomplissant une
sorte de « voyage pénitentiel » (p. 20) afin de revenir, après plus de vingt
ans, au point de départ (p. 120).
À ceci près qu’il ne s’agit pas, pour « l’éternel Ulysse, le voyageur errant
à travers l’île qui fut autrefois son Ithaque » (OO, p. 141), de se laisser réabsorber
« par cette nature et cette histoire suspendues, par cette ensorcelante
immobilité » (p. 122) qu’il a quittées jadis en se bornant à constater, sur
le mode nostalgique et plaintif, qu’il ne retrouve que quelques vestiges de
la Sicile qu’il a aimée. Il s’agit d’abord et surtout d’affronter « les ennemis
réels, les ennemis historiques qui se sont installés dans sa maison » (p. 20),
en dénonçant ce qu’ils ont fait de son Ithaque et, métaphoriquement 4,
de toute l’Italie, au cours des deux dernières décennies, celles des années
soixante-dix et quatre-vingt.
Pour cette double tâche d’évocation et de dénonciation, Consolo fait
un choix poétique difficile car il prend consciemment le risque mortel « de
sortir du récit, de nier la fiction » (OO, p. 77), contrairement à certains
de ses compatriotes, tel son ami Sciascia en particulier, qui ont cru pou-
- V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Turin, Einaudi, 1976 ; ci-après, SIM. Ce texte sera à nouveau
publié avec une postface intitulée : « nota dell’autore, vent’anni dopo », Milan, Mondadori, 1997. La pagination
renvoie à l’édition de poche : V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Oscar Scrittori del Novecento, Milan,
Mondadori, 2002. Le texte de la postface que nous citons ici et auquel nous reviendrons plus loin est paru
aussi dans Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, ouvr. cité ; ci-après, DQDF. La pagination renvoie à l’édition de
poche : V. Consolo, Di qua dal faro, Oscar Scrittori del Novecento, Milan, Mondadori, 2001.
- Outre que par Consolo, le fait que la Sicile et la situation sicilienne soient devenues une métaphore de ce
qui se passe dans l’Italie tout entière après la seconde guerre mondiale et la trahison des idéaux de la Résistance,
est illustré par Sciascia, en particulier dans son ouvrage intitulé la Sicilia come metafora, Milan, Mondadori,
1979, ouvrage qui présente la caractéristique très significative d’avoir été d’abord publié en France sous le titre
La Sicile comme métaphore, conversations en italien avec Marcelle Padovani, Paris, Stock, 1979.
voir se servir des instruments de la littérature de masse pour dénoncer les
dérives de la société dont la littérature de masse est le produit 5. Il choisit
en outre, comme un autre Ulysse sicilien, comme Verga, d’inventer une
langue. Mais, alors que la langue de Verga « a comme imprimé le positif
italien sur un négatif lexical et syntaxique dialectal » (DQDF, p. 119), celle
de Consolo est prise dans l’épaisseur de toutes les langues de toutes les
cultures qui se sont succédées et imbriquées dans l’île, pour mieux en dire
et en préserver la réalité, au risque d’être, comme Verga, « détesté à cause
de sa langue extrême » (OO, p. 58) et de devoir un jour se réfugier dans la
solitude, dans l’aphasie, ce qui signifierait, ce qui signifie peut-être déjà,
que les monstres ne sont plus des fruits du sommeil ou du remords mais
« de vraies menaces, des catastrophes réelles et imminentes » (p. 58).
Ce n’est donc pas la thématique existentielle de l’exil et du retour qui
justifie, à elle seule, la référence constamment explicite au voyage initiatique
et expiatoire d’Ulysse, c’est aussi que l’Odyssée est d’abord et avant
tout un poème et que Consolo entend, dans le droit fil de l’expérimentation
littéraire qu’il conduit depuis des années déjà 6, défendre et illustrer
un nouvel épos et un nouveau logos, tissés, comme la toile de Pénélope,
avec tous les fils de la mémoire rassemblés pour résister aux usurpateurs et
à leurs créatures monstrueuses.
« Ora non può narrare 7 ». Tels sont les mots qui ouvrent un texte qui refuse
effectivement la linéarité du récit, son développement sur un axe temporel
unique et la hiérarchie qui régit les rapports entre le narrateur et ceux qui
devraient rester des personnages, entre sa voix dominante et leurs voix
secondaires.
À une seule exception près, à laquelle nous reviendrons, celui qui écrit
le fait à la troisième personne, en se définissant justement comme « celui
qui écrit » (OO, p. 77) ou comme le voyageur. Un voyageur écrivant dont
l’existence pourrait relier, et relie parfois, anecdotiquement, les fragments
- Nous faisons en particulier allusion ici aux quatre grands romans où Sciascia a utilisé, en les subvertissant,
les règles et les modalités narratives du genre policier pour dénoncer la subversion de l’État de droit par les
représentants de l’État ; romans que l’on peut donc considérer comme les ouvrages fondateurs de ce que l’on
appelle aujourd’hui “il noir mediterraneo” ou “noir d’inchiesta” : Il giorno della civetta, Turin, Einaudi, 1961 ;
A ciascuno il suo, Turin, Einaudi, 1966 ; Il contesto, Turin, Einaudi, 1971 ; Todo modo, Turin, Einaudi, 1974 ;
auxquels on peut ajouter son tout dernier roman : Una storia semplice, Milan, Adelphi, 1989.
- Outre que dans la postface à Il sorriso dell’ignoto marinaio précédemment citée, Consolo développe les
axes principaux de sa poétique plurilingue et multiculturelle dans un certain nombre des articles du recueil Di
qua dal faro ; particulièrement dans la section « Sicilia e oltre », p. 211-248.
- Dans cette partie de notre étude, consacrée à l’écriture et à la langue de Consolo, nous avons choisi de
conserver le texte original pour certaines citations particulièrement représentatives du rythme et du caractère
“mistilingue” de sa prose.
de ce qui ne peut pas et ne veut pas devenir un récit, pour la bonne raison
que son voyage personnel dans l’espace circonscrit de l’île est aussi un
voyage à travers d’autres vies et dans d’autres temps, voire dans le non-lieu
et le non-temps, dans l’utopie et l’uchronie littéraires.
L’ouvrage est en effet conçu comme une succession de tranches de vie
que chacun de ceux qui les ont vécues vient exposer tour à tour. Beaucoup
d’entre elles sont issues de la réalité, qu’il s’agisse de la vie ordinaire des
émigrants anonymes poussés par les caprices de la nature ou par la misère
à quitter une terre ébranlée par les tremblements de terre et ravagée par
les éruptions volcaniques ou saignée par la corruption et les exactions
mafieuses ; ou bien qu’il s’agisse de la vie, dédoublée ou redoublée par leurs
oeuvres, d’artistes et d’écrivains emblématiques : Antonello da Messina (OO,
- 10) et le Caravage dont les tableaux proposent des paysages d’amour et
de mémoire sur lesquels plane déjà l’ombre de la corruption et de la mort
(p. 86-97) ; mais aussi Verga, qui a vécu l’exil et le retour « in un’isola che
non era l’Itaca dell’infanzia, la Trezza della memoria, ma la Catania pietrosa
e inospitale, emblema d’ogni luogo fermo o imbarbarito, che mai lo
riconobbe come l’esule che torna, come il figlio » (p. 58) et Sciascia, à qui
Vittorini avait prédit qu’il serait emprisonné dans la forme de celui qui
reste en Sicile (p. 16). Ou encore Pirandello qui pensait, au début du siècle
dernier, que « quel presente burrascoso e incerto […], ebbro d’eloquio osceno,
poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante,
con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, della struttura »
(p. 67).
Et c’est bien parce que Consolo est convaincu de vivre, lui aussi, un
présent tempétueux qu’il rompt à son tour les structures du récit en intercalant
entre ces tranches de vie, et en résonance avec elles, des moments
de sa propre vie, mais aussi des tranches de vie empruntées à ces oeuvres
et à ces textes littéraires, sous forme d’évocations presque incantatoires ou
de citations ; en entremêlant aux passages de l’Odyssée, origine de toutes
les odyssées du monde, des fragments de I Malavoglia, par exemple, parce
que même si « la “casa del nespolo” n’a jamais existé […] les personnages,
les personnes, les Malavoglia de toutes les Trezza du monde ont existé »
(OO, p. 50).
Tous ces fragments d’être, capturés dans toutes les époques et tous les
milieux, habitent et animent chaque lieu visité par le voyageur. Toutes
ces voix se mêlent dans une polyphonie où chaque personnage de la nouvelle
épopée, du nouvel épos qui nous est proposé, peut se faire entendre
et continuer à exister dans une sorte d’éternel présent qui est celui de la
mémoire personnelle et littéraire. Et celui qui écrit peut dire qu’il est à la
fois « l’astuto inventore degli inganni, il guerriero spietato, l’ambiguo indovino,
il re privato dell’onore, il folle massacratore degli armenti […], l’assassino
di […] sua figlia » (OO , p. 1) ; il peut dire la peine de Maruzza qui,
« madre ammantata, immobile avanti al mare, ai marosi, priva di lacrime,
lamento, parola […], si porta le mani nei capelli, urla nera nel cuore (p. 47) ;
il peut dire qu’il est né à Gibellina et « ha lasciato nelle baracche la madre e
la sorella […]. La sorella più non parla, sì e no con la testa è il massimo che
dice » (p. 9-10). Ainsi, coryphée à la voix plurielle, il redonne une voix à
chacun des membres de cette humanité multiple, littéraire ou réelle, pour
que les hommes du temps présent les entendent et se souviennent d’eux.
C’est pourquoi il ne veut pas être seulement un nouvel Ulysse qui en
racontant « diventa l’aedo e il poema, il cantore e il canto, il narrante e il narrato,
l’artefice e il giudice […], l’inventore di ogni fola, menzogna, l’espositore
impudico e coatto d’ogni suo terrore, delitto, rimorso » (OO, p. 19). Car, tel
Ulysse avec son bagage de remords et de peine, il a atteint « le point le plus
bas de l’impuissance humaine, de la vulnérabilité » et il va devoir choisir
entre « la perte de soi, l’anéantissement dans la nature et le salut au sein
d’une société, d’une culture » (p. 17-18), entre l’oléastre et l’olivier. Car,
comme l’inventeur du « monstre technologique » (p. 20), qui du meilleur
peut faire le pire, de l’instrument de la victoire l’instrument du désastre,
du progrès la barbarie, il fait lui aussi partie de cette humanité ambiguë
dont Ulysse, le plus humain des héros grecs, est le plus parfait représentant.
C’est justement contre ce désastre et cette barbarie dont il découvre
les plaies à chaque étape de son périple autour de l’île que le voyageur
Consolo, devenu bâtisseur d’épopée, a voulu dresser le rempart de toutes
les vies et de toutes les voix stratifiées qu’il a convoquées dans son Odyssée
moderne, un fragment après l’autre, un mot après l’autre. Un rempart à
l’image de l’histoire de la Sicile, condamnée par la géographie à subir l’histoire
8, et qui a connu au cours des siècles une infinité de maux, qu’il s’agisse
des tremblements de terre ou des éruptions de l’Etna, des rivalités entre
colonies voisines ou des invasions constantes, mais dont les villes détruites
par les secousses ou les coulées de lave ont été relevées, à l’instar de Catane
dont les habitants sont revenus « a ricostruire mura, rialzare colonne, portali,
recuperare torsi, rilievi, mescolando epoche, stili, epigrafi, idoli, in una babele,
in una sfida spavalda e irridente » (OO, p. 57). Et Syracuse a su devenir,
malgré les invasions ou grâce à elles, « la molteplice città, di cinque nomi,
d’antico fasto, di potenza, d’ineguagliabile bellezza, di re sapienti e di tiranni
- Expression empruntée à L. Sciascia, Cruciverba, Turin, Einaudi, 1983, p. 176.
ciechi, di lunghe paci e rovinose guerre, di barbarici assalti e di saccheggi: in
Siracusa è scritta come in ogni città d’antica gloria, la storia dell’umana civiltà
e del suo tramonto » (p. 83-84).
Et c’est justement à Syracuse que celui qui écrit mesure l’abîme qui
sépare la ville de ses souvenirs, l’île où, « voyageur solitaire le long d’un
itinéraire de connaissance et d’amour, par les sentiers de l’Histoire, il vagabonda
pendant un lointain été » (OO, p. 143), et la ville présente, l’île
damnée, métaphore de l’Italie fascisante des années quatre-vingt (p. 140).
C’est de part et d’autre de l’omphalos d’Ortygie que les deux réalités, la
passée et la présente, se distinguent l’une de l’autre, c’est « dans l’espace
en forme d’oeil, dans la pupille de la nymphe, sur la place où règne la maîtresse
de la lumière et de la vue » (p. 83), que, à l’instar du Caravage sur le
visage de son page, le coryphée voit, comme dans un miroir déformant,
fleurir « la vermeille, la noire tache de la peste, de la corruption et de la
fin » (p. 92).
Bien sûr le voyageur pourrait, au risque de se comporter comme « un
presbite di mente che guarda al remoto ormai perduto, si ritrae in continuo
dal presente, sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della
memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che
conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura » (OO,
- 84). Mais il ne veut pas de ce repli sur un hypothétique âge d’or : « Odia
ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro » (p. 105).
Car désormais, non seulement ce que les caprices de la nature détruisent
n’est plus reconstruit mais, de surcroît, la spéculation immobilière et
l’industrialisation sauvage achèvent de faire disparaître, en les recouvrant
d’une dernière strate mortifère, les témoignages d’une culture millénaire et
les beautés d’un patrimoine naturel incomparable. Comme à Augusta « che
gli appare nella luce cinerea, nella tristezza di un’Ilio espugnata e distrutta,
nella consunzione dell’abbandono, nell’avvelenamento di cielo, mare, suolo »
(p. 34). Comme à Milazzo où « sulla piana dove pascolavano gli armenti del
Sole, dove si coltivava il gelsomino, è sorta una vasta e fitta città di silos, di
tralicci, di ciminiere che perennamente vomitano fiamme e fumo » (p. 28).
Et le cancer qui ronge les lieux se propage et corrompt aussi les habitants
(p. 117). Comme à Gela où est née non seulement la ville « dell’edilizia
selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango
e all’immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal
mare grasso d’oli, dai frangiflutti di cemento [ma anche] la Gela della perdita
d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia » (p. 79). Comme à
Avola dont la place géométrique et lumineuse est
vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra, rotta nel silenzio dal rombare delle
motociclette che l’attraversano nel centro per le sue strade ortogonali, occupata […] da
mucchi di giovani […] che fumano, muti e vacui fissano la vacuità della piazza come in
attesa di qualcuno, di qualcosa che li salvi. O li uccida. Cosa è successo in questa vasta
solare piazza d’Avola? Cos’è successo nella piazza di Nicosia, Scicli, Ispica, Modica, Noto,
Palazzolo, Ferla, Floridia, Ibla? Cos’è successo in tutte le belle piazze di Sicilia, nelle piazze
di quest’Italia d’assenza, ansia, di nuovo metafisiche, invase dalla notte, dalle nebbie, dai
lucori elettronici dei video della morte? (OO, p. 112)
Cos’è successo, dio mio, cos’è successo a Gela, nell’isola, nel paese in questo atroce tempo?
Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assasssino? Cos’è
successo a te che stai leggendo? (OO, p. 81)
Que s’est-il passé, effectivement, pour que celui qui écrit se prenne
lui-même à partie dans une sorte de dédoublement où sa voix semble se
dissocier de sa plume et lance ce « Dio mio » qui n’est pas une exclamation
vide de sens mais un véritable cri de douleur ; un cri de douleur à travers
lequel Consolo, car c’est bien de lui qu’il s’agit ici, trahit, pour la seule et
unique fois tout au long de cette Odyssée polyphonique, l’engagement
qu’il s’est fixé de n’être que le porte-voix et le porte-plume, de ne jamais
dire, contrairement à Pausanias, « Io sono il messaggero, l’anghelos, sono il
vostro medium, a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi,
le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio » (OO, p. 39). Pausanias
qui représente, dans le texte de Consolo, les Proci, les prétendants de la
naissante littérature postmoderne qui se font les complices, à moins qu’ils
n’en soient les fauteurs, de l’assassinat de la culture et de la mémoire par
le pouvoir politico-médiatique déjà tout-puissant depuis un certain décret
de 1983. Pausanias à qui Empédocle, dont Consolo reprend à son compte
l’approche sensorielle et poétique de la connaissance et la philosophie du
savoir révélé par le logos, rétorque :
Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! È proprio il degno figlio di
quest’orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo gran teatro compromesso,
di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di
poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto.
(OO, p. 40)
Que s’est-il passé pour que, après avoir engagé directement sa responsabilité
en tant qu’écrivant, celui qui écrit apostrophe ainsi le lecteur et
l’accuse d’être le complice de l’assassinat du logos par les Proci de la littérature
de masse ?
Peut-être la réponse se trouve-t-elle dans ce qu’ils ont tous en commun :
le langage, l’écriture, les mots en somme ?
Peut-être tout cela a-t-il commencé dans les mots, par les mots ?
C’est en tout cas ce que Consolo entend démontrer, comme Sciascia
l’avait fait, en 1978, à l’occasion de sa magistrale enquête philologique sur
les documents relatifs à l’Affaire Moro 9. Une enquête où il donnait raison
à Pasolini qui, dans son célèbre article de 1975, dit “l’article des lucioles”,
affirmait déjà que « comme toujours, ce n’est que dans la langue que sont
apparus les premiers symptômes ». « Les symptômes, commente Sciascia,
de la course vers le vide de ce pouvoir démocrate-chrétien qui avait été,
jusqu’à dix ans auparavant, la continuation pure et simple du régime fasciste.
» (AM, p. 15)
Les mêmes symptômes s’étaient justement manifestés dans les années
qui avaient précédé la montée du fascisme, et la transformation du langage
en gesticulation oratoire, en rhétorique patriotarde 10, avait déjà été
un signe avant-coureur, une préfiguration de la corruption du corps social
et de la vie publique par la peste fasciste. Alors, la langue que Verga avait
forgée pour son poème narratif, son « épopée populaire » (OO, p. 48),
s’était abîmée dans « la retorica sicilianista, l’equivoco, l’alibi regressivo e
dialettale dei mafiosi, dei baroni e dei poetastri » (p. 77), ou s’était perdue
dans l’aphasie et le silence, devant « l’eloquio vano, prezioso e abbagliante di
D’Annunzio, […] i giochi spacconi e insensati dei futuristi » (p. 59).
De la même façon, les malheurs de Gela ont commencé lorsque, au lieu
d’encourager, après l’unanimisme fasciste, ce qui aurait pu être un nouveau
Risorgimento culturel et linguistique, la plupart des intellectuels italiens,
pour des raisons largement idéologiques, ont préféré, comme Visconti,
tourner des films tels que La terra trema, où « la lingua inventata da Verga
regrediva in dialetto, in suono incomprensivo, in murmure di fondo » (OO,
- 50) ou bien considérer, comme Vittorini, que la découverte de pétrole
dans les tombes grecques et les citernes sarrasines de ce petit village de
pêcheurs et la naissance de Gela 1, Gela 2, Gela 3 et de la Gulf Italia
Company méritaient d’être célébrées à grand renfort de « volenterosa poesia,
retorica industriale, lombarda e progressiva » (p. 78).
Le résultat de ces choix esthétiques et politiques, dont Consolo n’exclut
pas, comme on l’a vu, que lui-même et le lecteur aient pu être les
complices, s’affichent sur le visage de la Gela des années quatre-vingt et
la misère culturelle et morale dans laquelle vivent ses habitants se reflète
dans le spectacle de désolation qu’elle offre au voyageur. La misère des plus
jeunes, en particulier, qui n’ont eu pour seuls repères que ceux qui leur
- L. Sciascia, L’affaire Moro, Palermo, Sellerio, 1978 ; ci-après AM.
- Sciascia avait analysé les raisons politiques et sociologiques de ce qu’il considérait, déjà, comme une dérive
irréversible de la langue et de la littérature vers la confusion et le vide dans 1912+1, Milan, Adelphi, 1986, p. 13-16.
ont été fournis par « la furbastra e volgare letteratura sulla degradazione e la
marginalità sociale, sul male di Gela, di Licata, di Palma di Montecchiaro,
di Canicattì o di Palermo servito in serials televisivi, in Piovra 1, Piovra 2,
Piovra 3 [e nei] libri di vuote chiacchiere, di stanca ecolalia sui mali di Sicilia »
(OO, p. 80). Quant à ceux qui n’ont même plus ces repères-là, il ne leur
reste que « il linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa
e del tritolo » (p. 79).Si, effectivement, tout s’est d’abord joué dans
la langue du fait d’une funeste trahison des clercs, Consolo semble penser
que ce n’est qu’avec la langue que l’on peut reconstruire ce que la langue
du non-dire politique et la non-langue de la culture de masse ont détruit 11.
Et pour qu’on ne puisse pas dire de tous les villages de Sicile, de tous
les villages d’Italie, ce que, à la fin des années quatre-vingt, il dit d’Acitrezza
qui n’est plus que « morte dell’anima, sigillo d’ogni pianto, arresto del
canto, fine del poema, turbinio di parole, suoni privi di senso » (OO, p. 49),
il proclame que
Trova solo senso il dire o ridire il male, nel mondo invaso in ogni piega e piaga dal diluvio
melmoso e indifferente di parole atone e consunte, con parole antiche o nuove, con diverso
accento, di diverso cuore, intelligenza. Dirlo nel greco d’Eschilo, in un volgare vergine
come quello di Giacomo o di Cielo o nella lingua pietrosa e aspra d’Acitrezza. (OO, p. 77)
Il ne s’agit pas là d’une simple déclaration de poétique mais d’une
véritable déclaration de guerre contre la langue corruptrice du pouvoir,
dénoncée précédemment par Pasolini et Sciascia, de la même façon que
le refus du récit était une déclaration de guerre contre la pensée unique
incarnée par le tout-puissant narrateur, le roman étant le genre littéraire le
plus menacé par l’une et par l’autre car, « dès lors qu’il doit nécessairement
contenir une valeur communicative, il risque d’être envahi par la communication
du pouvoir, il risque d’être entièrement possédé par sa langue »
(DQDF, p. 235).
Pour ne pas être possédé par la langue uniformisante de ce pouvoir destructeur
de culture et de mémoire dont la disparition des lucioles marque
métaphoriquement la naissance, par la langue de la nouvelle société de
masse, Consolo entend donc, comme Verga autrefois, inventer un nouveau
logos, capable d’aller au-delà de l’idéologie dominante, au-delà de la signification
historique et politique, « dans le sens d’une condition humaine
- À propos de la langue du non-dire inventée par les hommes politiques italiens à l’aube des années quatrevingt,
voir la réflexion de Sciascia dans L’affaire Moro, explicitement énoncée p. 15-16 et développée tout au long
de son enquête sur les documents de l’enquête. Quant à la non-langue de la culture de masse ici dénoncée, elle
fait l’objet d’une analyse critique plus approfondie de la part de Consolo dans la dernière section de Di qua dal
faro intitulée Parole come pietre.
générale et éternelle. Un langage qui, en allant de la communication vers
l’expression, rejoint donc la poésie » (DQDF, p. 229 et p. 282).
De fait, à l’instar de la construction polyphonique qu’il a élaborée en
atomisant le récit en une succession horizontale de tranches de vie qui
trouvent leur cohérence dans les rapports psychologiques et physiques qui
lient les uns aux autres ceux qui les ont vécues et les relient aux lieux où
ils ont vécu, Consolo forge une langue multiple en creusant verticalement
dans l’épaisseur des stratifications linguistico-culturelles accumulées dans
le creuset sicilien. Ainsi, dans le même paragraphe et parfois dans la même
phrase, se succèdent des mots d’autrefois et des mots d’aujourd’hui, des
mots d’ici et des mots d’ailleurs, dans une infinité de combinaisons qui
permet à la fois de capturer au mieux la vraie réalité et d’échapper aux tentatives
de récupération par la langue plate et vide du discours dominant,
grâce à un “mistilinguisme” que nous avons analysé de façon plus systématique
dans d’autres travaux 12 et dont les citations que nous donnons ici
en langue originale donnent un aperçu.
Cependant, cette langue hybride, ce cheval qui recèle dans ses flancs
les troupes bigarrées de toutes les langues du bassin méditerranéen à travers
les âges et qui est destiné à faire tomber la nouvelle Troie de la kermesse
médiatico-littéraire afin qu’Ulysse-Consolo puisse rentrer dans une
Ithaque débarrassée des usurpateurs, n’est-elle pas l’un de ses monstres
artificiels capables de réveiller les vrais monstres que l’on voit lorsqu’on
s’approche de Gela, de vrais monstres à la double nature, issus eux aussi de
strates multiples, capables eux aussi de tromper sur leurs origines et leurs
fins, et qui ressemblent à s’y méprendre aux Cyclopes et aux Lestrygons qui
entravèrent jadis le retour d’Ulysse et annoncèrent naguère le fascisme ?
Sono ancora lì sparsi i fortini, le casematte della difesa costiera, sembrano, affioranti dalle
dune, dai macconi, bianchi di fresca scialbatura, le coperture a calotta, i neri occhi delle
feritoie, le teste di giganti, d’arcaici guerrieri che stanno per risorgere o mostri, robot di calcestruzzo,
che emergono da ipogei, caserme sotterrranee, avanzano, marciano, distruggono
[…] Più avanti, nella vasta landa saudita, sono le teste d’ariete, i lunghi colli delle pompe
che vanno su e giù come in un movimento vano e inarrestabile, gli astratti metafisici
ingranggi di cui nessuno sa l’origine e il fine. Qui è il teatro dell’abbaglio e dell’inganno,
del petrolio favoloso […] qui il Gela 1, Gela 2, Gela 3 [che] accesero Mattei di forza e di
- Voir, en particulier, L. Bossi, La voix de la Sicile, entre idiolecte et mistilinguisme (actes du colloque international
« Les enjeux du plurilinguisme dans la littérature italienne », CIRILLIS de l’université de Toulouse-Le
Mirail, 11-13 mai 2006). Collection de l’ECRIT, CIRILLIS/IL LABORATORIO, Presses de l’université de
Toulouse-Le Mirail, 2007. Ead., De Verga à Camilleri : entre sicilitude et sicilianité, les auteurs siciliens font-ils du
genre ? (actes du Séminaire « Identité(s), langage et modes de pensée », CERCLI de l’université de Saint-Étienne,
7 novembre 2003), dans Identité, langage(s) et modes de pensée, études réunies par Agnès Morini, Publications
de l’université de Saint-Étienne, 2004.
speranza, lo spinsero alla sfida dell’ENI statuale al duro capitalismo dei privati, al Gulf
Italia Company, alla Montecatini […], posero sopra le facce malariche dei contadini i
bianchi caschi di plastica operaia.
Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d’ammassi
di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall’acropoli sul colle difesa
da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero e obliato partì il
terremoto, lo sconvolgimento, partì l’inferno d’oggi (OO, p. 78-79).
Comme l’auraient dit Manzoni, et Sciascia après lui, ainsi allaient les
choses en 1994.
Pour avoir trop bien manipulé la technique de ce sous-produit littéraire
de la culture de masse qu’était le roman policier dans les années soixantedix,
Sciascia, justement, avait été accusé d’avoir, avec ces préfigurations que
sont Il contesto et Todo modo, provoqué en quelque sorte « l’affaire Moro »
alors même que son but était de dénoncer les énigmatiques corrélations
dont Moro a été l’acteur et la victime, ainsi que le langage du non-dire
qu’il a si bien su utiliser et qui l’a ensuite empêché de se faire comprendre 13.
Mais depuis, le roman policier et sa structure sont devenus une sorte de
schéma narratif unique utilisé non seulement par ceux qui veulent, à la
suite de Sciascia, dénoncer les dérives du pouvoir politico-médiatique 14,
mais aussi et surtout par les suppôts de ce même pouvoir dont les ouvrages
produits à la chaîne étouffent et excluent toute tentative de subversion et se
bornent à entretenir les peurs ataviques et les comportements paranoïaques
que le pouvoir a toujours su utiliser à son profit.
De la même façon, alors que Consolo espérait encore, à la fin des années
quatre-vingt, pouvoir opposer au déferlement de la communication standardisée,
son épos à la structure polyphonique, composée de tout le substrat
mythopoétique méditerranéen, et son nouveau logos, sa langue plurielle,
faite de toutes les langues d’histoire et de mémoire fondues dans le creuset
sicilien, ses tentatives et celles de ceux qui, comme lui, s’efforçaient de faire
entendre des voix marginales, ont été noyées dans un multiculturalisme
et un communautarisme institutionnels grâce auxquels ces voix ont été
récupérées et canalisées.
En démultipliant et en divisant ainsi les enracinements culturels au
nom d’une diversité de façade, les serviteurs du pouvoir ont réussi à affaiblir
les racines de l’olivier dans lequel Ulysse avait taillé sa couche nuptiale,
- Voir AM, p. 16 et p. 27. Consolo a lui-même fait une analyse des choix narratifs de Sciascia dans la section
de Di qua dal faro intitulée Intorno a Leonardo Sciascia, p. 185-208, dans laquelle on lira avec profit les articles
Letteratura e potere et Le epigrafi, en particulier p. 199.
- Massimo Carlotto ou le collectif Wu Ming, entre autres représentants du genre noir d’inchiesta, exploitent
aujourd’hui cette veine et se substituent aux journalistes et aux historiens défaillants.
Lise Bossi
qui est aussi le berceau de toute notre civilisation, et, par myopie ou de
propos idéologique délibéré, à ne préserver que cette partie du tronc sur
laquelle prospère l’oléastre, l’olivier sauvage.
Encore quelques années et la langue de Consolo, dont la complexité
sémantique et la richesse lexicale défient déjà la traduction, sera devenue
incompréhensible pour la plus grande partie de ses compatriotes ; encore
quelques années et plus personne ne saura pourquoi Ulysse voulait tant
revenir à Ithaque. Et alors, qui dira le mal et dans quelle langue ?
A Scuola per recuperare l’identità
La domenica, Arabo
a lezione di arabo in una scuola media statale del nordest:
dall’integrazione al recupero delle radici
Nella zona a sud est di Verona, che comprende il Comune di Legnago e altri limitrofi, c’è una forte presenza di immigrati marocchini, occupati nei comparti del mobile, dell’edilizia e dell’industria meccanica e dell’agricoltura: è un’immigrazione che risale agli ultimi anni 80 e ha ormai prodotto una discreta integrazione e condizioni economiche abbastanza confortevoli. I figli frequentano regolarmente la scuola dell’obbligo. Ma l’integrazione anche linguistica non cancella il bisogno di mantenere viva la parola tradizionale, la comunicazione in arabo con i parenti rimasti in Marocco, la possibilità di accedere ai testi della patria e particolarmente al Corano.
La scuola media statale Frattini di Legnago, complice la passione di alcuni insegnanti italiani e la sensibilità dell’amministrazione comunale, ospita, la domenica mattina, tre insegnanti marocchini, che tengono un corso di lingua araba in tre classi per un totale di circa 60 iscritti di varie età dai 5-6 ai 13-14 anni.
Vincenzo Cottinelli ha lavorato in queste classi per due domeniche mettendo in risalto anzitutto le personalità degli insegnanti.
Ilham Mayate scomparsa in un tragico incidente, era operaia in una ditta di confezioni; di bellezza spigliata e quasi veneta, insegnava con entusiasmo e tenerezza, faceva da mamma ai più piccoli e con abilità suggeriva la tecnica di produzione dei complessi suoni della lingua araba.
Fatiha Tauriri (già bracciante in campagna) sembra una maestra di stile più tradizionale e pacato: veste secondo le regole tradizionali marocchine (porta il velo) ed è molto accurata nell’insegnamento della grafia.
Mustapha Benchiha (saldatore in una officina meccanica) è energico e appassionato, anche quando, come gli altri due, al termine della lezione insegna il Corano, di cui sottolinea anche i valori testuali e letterari.
Il racconto di Cottinelli è poi rivolto agli allievi, che sono vivaci, disciplinati, attenti (soprattutto le femmine, delle quali solo due o tre portano il velo tradizionale: le altre vestono in modi sobri ma perfettamente integrati); usano dei bellissimi sillabari e quaderni figurati, da riempire con le parole, che sono quelli ufficiali delle scuole marocchine.
Le immagini di Cottinelli mostrano tipiche aule di una scuola media italiana, con il classico crocefisso sopra la cattedra e le grandi carte geografiche fisiche di Italia, o Europa, o Africa. Ma la lavagna si riempie dei segni misteriosi e affascinanti dell’arabo classico del Corano, mentre insegnanti e allievi sono impegnati, appassionati, attenti. E’ un messaggio di pacificazione e integrazione, nel rispetto per l’identità e la cultura di origine di un popolo.
Cottinelli da questo suo lavoro ha prodotto un libro (appunto “La Domenica, Arabo”) e una mostra, presentati nel 2005 al Teatro Salieri di Legnago, con l’On. Livia Turco, il Prof. Claudio Marra e Vincenzo Consolo, che aveva scritto come introduzione il testo che segue.
https://www.vincenzocottinelli.it/
Vincenzo Consolo
A Scuola per recuperare l’identità
Ottobre / Novembre 2005
Antiche e frequenti erano le emigrazioni che avvenivano, attraverso il Canale di Sicilia, dal Meridione d’Italia nel Maghreb, nelle ricche terre degli “in fedeli’. Erano, quelle, delle emigrazioni di contadini, muratori, “tonnaroti” (lavoratori delle tonnare), pescatori di spugne e di coralli. Nel Decamerone Boccaccio ce ne dà un’immagine nella Novella Seconda della giornata quinta, in cui una giovane dell’isola di Lipari, Costanza, alla ricerca del suo innamorato Martuccio, sbarca a Susa di Barberia e s’imbatte in una donna che parlava la “favella latina”. La donna, Carapresa, spiega allora a Costanza che era là a servire “certi pescatori cristiani”.
Finì questa emigrazione con quella che lo storico spagnolo Américo Castro chiama L’età dei conflitti, con la dominazione ottomana sulle coste africane e quella castigliana sulla Spagna e la Sicilia, con l’insorgere della guerra corsara: lunga e feroce guerra tra Musulmani e Cristiani. Scrive Fernand Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”.
Finisce questa guerra nel 1830 con la conquista di Algeri da parte dei Francesi. E riprende quindi l’emigrazione italiana nel Maghreb.
Prima è, negli anni Quaranta dell’Ottocento, un’emigrazione politica di fuorusciti: liberali, giacobini e carbonari che si rifugiano in Tunisia, Algeria, Marocco. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuorusciti”.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento riprende l’emigrazione di bracciantato nel Maghreb a causa di una grave crisi economica che investe soprattutto il nostro Meridione. Tra quegli emigrati c’è h povera famiglia Scalesi di Trapani, che si stabilisce a Tunisi.
Un figlio di questa famiglia, Mario, frequenta le scuole gratuite francesi (il trattato del Bardo del 1881 stabiliva il protettorato francese sulla Tunisia) e così non ha possibilità di imparare l’italiano (le scuole italiane erano solo private e a pagamento). Mario Scalesi, divenuto poeta, il primo poeta francofono dal Maghreb, scrive le sue opere in francese, fra cui Les poemes d’un maudit, e finanche il suo nome viene francesizzato: diviene Marius Scalesi. Scrive Pasolini in un articolo su Il Giorno del 3 marzo1965: “Sono andato l’altro ieri, domenica, a ‘visitare’ un campo profughi, ex campo di concentramento, vicino ad Alatri: un luogo tremendo (.,.) dove vive un gruppo di italiani espatriati dalla Tunisia. Ebbene, ho avuto modo di accorgermi come la loro ‘francesizzazione’ non consistesse solo in una francofonia abbastanza ortodossa (.,.), ma in una commovente francesizzazione culturale.,.”
È un esempio questo di migrazione linguistica, di cancellazione delle origini linguistiche e culturali del Paese da cui si proviene.
Sorte che tocca spesso ai figli e ai nipoti degli emigrati da un Paese a un altro. Un caso ce lo racconta Tahar Ben Jelloun in A occhi bassi, un romanzo del distacco e della lontananza, dell’emigrazione, dello sradicamento da una cultura, profonda, arcaica, religiosa, che mutila e separa, e del reinserimento di un’altra, laica, moderna, superficiale, che violenta, omologa e annienta ogni diversità. La pastorella berbera Fatima, emigrata dal Marocco a Parigi con la famiglia, frequenta qui la scuola ed ha un sogno-incubo. “Ci fu una breve guerra, ma efficace, tra le parole berbere e quelle francesi, lo fui difesa con fermezza e coraggio. Le parole berbere non si lasciavano mettere sotto. Avevano costituito una linea di difesa contro gli invasori. La battaglia fu rude (…) Le rare parole arabe che sapevo si erano buttate nella battaglia. Rinforzando la linea di difesa…”
Ma non tutti, tutti i bambini emigrati qui nel nostro Paese hanno avuto, come Fatima, questa linea di difesa, ma sono stati vinti dalla nostra lingua, dalla nostra cultura, cancellando in loro ogni cognizione, ogni memoria della cultura, della lingua del loro Paese d’origine.
Abbiamo detto sopra dell’emigrazione italiana nel Maghreb. A metà degli anni Sessanta del secolo passato comincia invece l’emigrazione di Maghrebini nel nostro Paese. E sono per primi i Tunisini che attraversano quel breve braccio di mare che separa la Tunisia dalla Sicilia, Tunisi da Trapani, i si stabiliscono a Mazara del Vallo abitando quel quartiere della cittadina, abbandonato dai mazaresi, chiamato Casbah, il quartiere dei loro antenati arabi, quelli che erano sbarcati in Sicilia nell’827 d.C. e avevano conquistato l’Isola. Il ritorno felice ha intitolato il suo libro su questa prima emigrazione “extracomunitaria” lo studioso mazarese Antonino Cusimano. Da quegli anni Sessanta sappiamo quanto massiccia e varia sia stata e sia ancora oggi l’immigrazione nel nostro Paese, quanto avventuroso, spesso atroce, tragico l’attraversamento, da parte dei cosiddetti “clandestini”, di quel fatale Canale di Sicilia divenuto equorea tomba di morti annegati. E ancora questa estate appena trascorsa, questo tempo della vacanza, dopo l’inverno del nostro scontento, per dirla con Shakespeare, è stata turbata dalle notizie e dalle immagini che i media ci riversano addosso di guerre, guerriglie, terrorismo, devastanti uragani, carestie e fame, di morti annegati, come quei poveri undici africani che il mare ha gettato sulla spiaggia di Gela in mezzo ai bagnanti, ultime vittime dello scialo di questo nostro Occidente insensato.
Abbiamo un po’ divagato, ma ci è sembrato giusto farlo, prima di giungere all’argomento che qui vogliamo trattare. Dicendo subito che non per tutti i maghrebini il “ritorno” nel nostro Paese è stato infelice. Che molti, giunti in Italia da tempo, prima che il nostro Parlamento votasse quell’infausta legge sull’immigrazione che va sotto il nome di Bossi-Fini, molti hanno trovato da noi accoglienza, lavoro e speranza per il futuro dei loro figli: si sono, come si dice, integrati. Un chiaro, luminoso esempio, è quello della comunità marocchina del comune di Legnago nel Veronese, i cui bambini hanno frequentato e frequentano la scuola statale italiana. Hanno imparato naturalmente l’italiano, questi scolari, ma hanno ignorato la lingua dei loro padri e dei loro nonni, e, con la lingua, la storia, la cultura, la religione del Marocco, il Paese delle loro origini. Hanno rischiato di divenire, loro, immigrati senza passato, senza memoria, così come è accaduto al poeta Mario Scalesi.
E già dal 1997, nel paese di Legnago, nella scuola media Frattini, la domenica mattina, i figli di operai i braccianti marocchini frequentano il corso di lingua araba tenuto da tre insegnanti volontari, imparano la lingua dei loro padri. Il fotografo Vincenzo Cottinelli, attento e appassionato documentarista di eventi sociali, ha fissato in magnifiche, toccanti immagini ciò che avviene in quell’aula scolastica: avviene di anticipazione e di esempio, alla luce della recente chiusura della scuola islamica di via Quaranta a Milano e delle polemiche che ne sono seguite.
Ci colpisce subito, fin dalle prime foto. l’insegnante llham Mayate con la sua lunga treccia di capelli, che Lalla Romano, ne La treccia di Tatiana, avrebbe letto come segno e aforisma. La bella Ilham, ora rimpianta per la sua inopinata e prematura scomparsa, la vediamo quindi nell’aula contro la nera lavagna con i bianchi segni dell’ornata scrittura araba, il crocefisso, le carte geografiche, Ilham che, si capisce dai gesti, insegna la pronuncia di quella lingua “altra”, piena di aspirate e gutturali. Un’insegnante, lei, amorosa e materna, che guida con la sua la mano del bambino che scrive, bacia la bambina che ha saputo leggere bene le parole sulla lavagna. I bambini sono allegri, vivaci. Ci n’è uno chi si gira verso Cottinelli che fotografa e scherzosamente lo mima portando davanti agli occhi il suo astuccio per le penne.
Fatiha Taouriri, l’altra maestra (bracciante agricola) insegna la giusta e bella grafia delle parole arabe. Gli alunni la seguono e scrivono sulla lavagna e sui loro quaderni figurati. Mustapha Benchiha (saldatore in una officina meccanica) è il terzo insegnante, il quale, al termine della lezione, insegna il Corano, la lingua aulica, classica di questo libro sacro, come la lingua attica dei greci e il latino di Tacito o di Virgilio per i romani. In una foto, Mustapha tiene in mano il libro del Corano e si staglia contro il nero della lavagna con i segni arabi; sopra, vi è il crocefisso; a destra, la carta geografica della penisola italiana con in basso l’isola di Sicilia, il mare Mediterraneo e il capo Bon della Tunisia. E ci sembra, questa fotografia di Cottinelli, la sintesi del discorso che qui abbiamo voluto svolgere; e la metafora, ci sembra, di ciò che dovrebbe essere, come è stato sempre nel cammino della storia, il riconoscimento, il rispetto, lo scambio e l’arricchimento di civiltà e culture diverse tra loro. Rispetto e scambio di cui la scuola di arabo di Legnago è un bellissimo esempio.