Metamorfosi di un racconto poco noto di Vincenzo Consolo

Giuseppe Traina

La Trezza è un breve testo di Vincenzo Consolo, di natura né propriamente narrativa né propriamente saggistica, compreso in Paesaggi italiani, un piccolo libro del 1989, curato da Maurizio Ciampa e Franco Marcoaldi e che uscì allegato a un fascicolo della rivista «Leggere», pubblicata a Milano dalla raffinata editrice Rosellina Archinto (La Trezza fu poi riproposto nel 2005 in un’edizione Oscar Mondadori de I Malavoglia di Verga).

Il raccontino è il resoconto di un ritorno dell’autore ad Acitrezza, molti anni dopo la prima visita, che risaliva alla fine degli anni Sessanta. E costituisce, d’altra parte, il cartone preparatorio della seconda parte del settimo capitolo de L’olivo e l’olivastro, secondo una prassi abbastanza abituale di riutilizzo nei suoi libri, in forma intera o per brani, di qualche testo precedente, soprattutto se d’occasione: nel libro, che uscirà nel 1994, le pagine su Trezza sono davvero poche, versione ancora più sintetica e stilizzata di quelle presenti in Paesaggi italiani.

Il piccolo paese di pescatori, Acitrezza ma qui semplicemente Trezza (come nel toponimo dialettale), che alla prima visita era apparso a Consolo tale e quale dovevano averlo visto prima il Verga di Storie del castello di Trezza e Fantasticheria (ma naturalmente anche dei Malavoglia)e poi il Luchino Visconti de La terra trema, ora, alla fine degli anni Ottanta, gli appare irriconoscibile, stravolto dalla siciliana modernizzazione senza sviluppo, che poi è il tema principale del nostos narrato ne L’olivo e l’olivastro.

In La Trezza il paese, da che era un «luogo di pura esistenza, di elementare eventologia, ai limiti dello spazio, del tempo: o fermo nel tempo, fissato in un dolore lontano, immemorabile» – insomma un luogo da tragedia greca, «luogo senza luce, Trezza, chiuso, circolare, labirintico; il luogo della Treccia, del nodo mai sciolto della tragedia» –, è stato contaminato dai segni del consumismo, della pasoliniana omologazione, ma anche della mescidanza multiculturale: in sintesi, «Aci Trezza non c’era più, era scomparsa». Quest’asciutta constatazione si trasforma, in L’olivo e l’olivastro, in un epicedio dai toni certamente più turgidi e melodrammatici: «Ora non è più Trezza. È la fine del dolore, morte dell’anima, sigillo d’ogni pianto, arresto del canto, fine del poema, turbinìo di parole, suoni privi di senso, di memoria».

Quella che poteva essere una mera, eppur dolorosa, constatazione sociologico-esistenziale si sviluppa poi, rapidamente, in una vertiginosa riflessione sulla fine della letteratura, senza che questo avvenga con altrettanta esplicitezza nel testo de L’olivo e l’olivastro, proprio alla fine del settimo capitolo. Conviene confrontare due brani che presentano somiglianze lessicali ma un significato radicalmente diverso: «La casa del nespolo non è mai esistita, certo, come non è mai esistita l’altra casa su “quel ramo del lago di Como”. E forse non è mai esistita nella realtà Aci Trezza, la Trezza. Ogni segno del paesaggio fisico e umano di oggi ci convince di questa inesistenza. Forse non è mai esistita neanche Vizzini, non è esistita Catania, Siracusa, Palermo, Racalmuto… Non è mai esistita la Sicilia. Forse una volta sono esistiti gli scrittori. Forse una volta è esistita la letteratura». (La Trezza). « – La casa del nespolo per la verità non è mai esistita – gli dice sottovoce come a svelargli un segreto. Non è mai esistita quella casa, non sono esistite tante altre case. Ma sono esistiti i personaggi, le persone, i Malavoglia di ogni Trezza del mondo» (conclusione del capitolo VII di L’olivo e l’olivastro).

            La fantasticheria iperletteraria, di oltranza quasi borgesiana, che troviamo nel raccontino dell’89 ha origine, sì, da una “cosa vista” ma anche da un nome, Trezza, che è, da un lato, per il Consolo sempre grecizzante, «il luogo della Treccia, del nodo mai sciolto della tragedia», ma diventa anche sinonimo di garbuglio: e dunque – a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, quando nello scrittore di Sant’Agata la cognizione del dolore personale e collettivo si acutizzerà – questa treccia-garbuglio-gnòmmero è come se siglasse il riemergere in filigrana dell’ombra di Gadda. Sull’influenza del quale Consolo ha scritto parole lucide ma che forse andrebbero rimesse, almeno un poco, in discussione: «In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo gran calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione. Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie […]. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerò l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana» (dalla Conversazione con Vincenzo Consolo realizzata da Anna Frabetti nel 1994, poi pubblicata in «Recherches», 21. Studi per Vincenzo Consolo. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, sous la direction de A. Frabetti & L. Toppan, automne 2018, p. 14).

Ma non è il caso di insistere qui su Gadda: è molto meglio tornare a Verga, all’inizio del settimo capitolo de L’olivo e l’olivastro.

Il capitolo termina, come abbiamo visto, con il parziale riuso de La Trezza, e dunque con il bilancio sconfortante di quello che l’ulisside Consolo ha visto nel suo viaggiodegli anni Ottanta. Ma lo stesso capitolo si era aperto con una pagina di contrastiva evocazione della barca della famiglia Malavoglia, commisurata alla barca di pietra che fa bella vista di sé a Catania, appunto in piazza Verga, di fronte, scrive Consolo, al «grigio palazzo di marmo», ovvero il Palazzo di Giustizia, sul cui frontone «si staglia nel cielo la cima del monte, il fumo, la neve, la nera possanza». E ogni lettore di Consolo sa che l’Etna, nel complesso della sua opera, evoca sempre il furore ctonio degli elementi, l’incontrastabile forza della natura alla quale la cultura non riesce a opporre nulla di paragonabile a una ginestra leopardiana. Rispetto al vulcano, alla forza del non coltivato olivo, c’è solo la via della fuga, come dice il titolo di quel libretto-intervista.

Ma dopo l’evocazione del vulcano, ecco che il discorso dell’ulisside ritorna sul romanzo di Verga, con una sinossi di mirabile capacità sintetica ed evocativa che si chiude, giustamente, sul profilo di padron ‘Ntoni, «il patriarca, cacciato dalla casa tempio, si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione: il suo salmodiare si fa sconnesso, i suoi proverbi sono ormai senza capo né coda. Muore, questo innocente, questo vinto dal fato, dalla vita, muore solo, ignorato in un tetro stanzone, all’albergo dei poveri».

E dopo queste parole di vera e propria compassione – un sentimento che nella pagina consoliana spesso cede il posto alla pena o alla disperazione –, ecco una bellissima valutazione de I Malavoglia in quanto romanzo, nella quale ritorna la treccia ma evolutasi in forma di intreccio narrativo: «Acitrezza, La Trezza, ‘A Trizza, la treccia, l’intreccio. Forse nessun romanzo moderno è così privo d’intreccio – v’è una ripetizione ossessiva di sciagure come per spietato gioco del caso, per accanimento divino –, nessuna narrazione è così priva di romanzesco come I Malavoglia. Un poema narrativo, un’epica popolana, un’odissea chiusa, circolare, che dà il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante, nei proverbi gravi e immutabili come sentenza giuridiche o versetti di sacre scritture, Bibbia, Talmud o Corano, dà il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo, suggerisce l’immagine della fissità: della predestinazione, della condanna, della pena senza rimedio».

Non so se Consolo abbia ragione quando nega così recisamente la presenza del romanzesco nel capolavoro verghiano; forse quel che di romanzesco c’è ne I Malavoglia può convivere con quel tanto che c’è di poematico e di cui giustamente Consolo sottolinea con forza la presenza.

Lo scrittore più verghiano della Sicilia novecentesca trova qui le parole giuste, le parole esatte e ammirate, per rendere la peculiare poematica ritualità del romanzo verghiano, ma parlando, così, anche di sé, del suo modo di concepire il romanzo e la crisi del romanzo, della sua opzione sempre più netta per lo “scrivere” rispetto al “narrare”, dimostrata, oltre ogni possibile dubbio, dal suo ultimo romanzo, Lo Spasimo di Palermo.

Nota dell’autore: il testo che precede riproduce, più o meno, quello che ho avuto modo di dire il 26 gennaio 2022, nel decimo anniversario della scomparsa di Consolo (ma anche nel centenario della morte di Verga), durante le Giornate dedicate a Vincenzo Consolo, organizzate dal Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Ringrazio di cuore Claudio Masetta Milone per aver voluto ospitare queste parole all’interno dell’importante sito web al quale dedica valorosamente le sue energie, preservando la diuturna memoria dello scrittore di Sant’Agata di Militello.

«E tu, e noi, chi siamo?». Meditazioni consoliane sulle rovine

Pubblicato il 10 gennaio 2025 da Comitato di Redazione

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di Ada Bellanova 

«Sembra retorico, ma non lo è: sono emozionato a vedere tutto questo. Quanta gente è passata di qui! […]  Sento il contatto con chi è passato di qui». Mentre tocca i massi e i cocci delle rovine di Eloro, con queste parole Consolo si rivolge a Sebastiano Burgaretta per dirgli la sua commozione [1]. Ma simili se non identici devono essere stati i toni tutte le volte che l’autore ha percorso e ripercorso i sentieri tra le rovine della Sicilia, nell’abitudine che, inaugurata precocemente, nell’adolescenza, è poi diventata passione, quasi ossessione dell’intera vita, e ha generato itinerari letterari significativi contagiando la stessa scrittura, rendendola cioè profondamente ‘archeologica’, votata allo scavo, all’indagine delle profondità della storia.

L’emozione di Consolo davanti ai resti delle epoche più antiche è consapevolezza del loro valore. Da qui nascono le pagine dense di indignazione nei confronti dell’incuria contemporanea. Al lettore de L’olivo e l’olivastro non può non venire in mente l’amarezza dell’anonimo viaggiatore per i resti di Megara Hyblea e la necropoli di Thapsos sfregiati dal fumo delle ciminiere, soffocati dalla Lestrigonia infernale del polo industriale siracusano [2].

Non è il tempo la causa maggiore del deteriorarsi delle rovine del passato, piuttosto lo sono gli esseri umani. Proprio questo dichiara Consolo in un articolo poco citato del 2006 scritto per l’area archeologica di Morgantina [3]: se la formula iniziale, che dà anche il titolo al testo, «Che non consumi tu, Tempo vorace», la stessa che – riporta l’autore – gli incisori romantici utilizzavano come didascalia alle loro raffigurazioni del passato, avvisa della voracità dello scorrere degli anni, anzi, dei secoli, che guastano ogni cosa, l’analisi lucida che segue individua la ragione principale delle cattive condizioni in cui versano i siti archeologici nelle responsabilità umane, ovvero incuria e scavi clandestini, spesso con coinvolgimento mafioso.

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Ciò che è accaduto con i reperti di Morgantina, ad esempio con la  dea, asportata illecitamente, finita dopo una vendita all’asta addirittura al Museo Paul Getty e tornata in Italia dopo la condanna del ricettatore e i necessari accertamenti solo nel 2011, quindi dopo la pubblicazione del testo. D’altra parte, il sentire comune non è estraneo alla logica dei ‘tombaroli’, che interpreta i resti del passato solo in chiave utilitaristica, quale mezzo di un possibile profitto. Per questo con amaro sarcasmo, nell’antifrastico racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas, Consolo sceglie come protagonista, e voce narrante, un detenuto per associazione mafiosa il quale, nella straniante confessione di attaccamento alla sua patria siciliana, auspica una maggiore resa delle rovine, ad esempio la vendita agli americani oppure a Berlusconi [4]. Così si tradisce e si corrompe ciò che è sacro. 

L’incontro con le rovine è per l’autore necessità: lo scavo è ricerca del passato per riacquistarne consapevolezza in un presente omologante e perennemente in corsa che non tollera attenzione per la memoria e per gli  esseri umani. Ciò rende i resti di antiche civiltà il rifugio ideale per molti personaggi consoliani, inquieti viaggiatori amareggiati o insoddisfatti dal presente. E proprio le rovine suscitano in loro riflessioni sulla fragilità dell’essere umano ma anche sul tempo e sull’infinito. 

L’infinito e non solo: riflessioni sulle rovine in Retablo

Retablo è percorso da una vibrante passione per i resti del passato, che scaturisce dall’abitudine e dall’interesse dell’autore ma anche dall’adozione dello schema dell’odeporica settecentesca. Infatti, nelle memorie di viaggiatori stranieri, che, attratti dall’Italia e dal Mediterraneo, si mossero fra i resti antichi abbandonandosi al godimento malinconico di un paesaggio fatto di natura e ruderi e ‘scoprirono’ la religione laica delle rovine, l’isola ha un posto privilegiato, e in Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia dove si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi [5].

Clerici viaggia, in fuga da un amaro presente, nel passato, e scopre architetture antiche, statue e reperti d’ogni sorta che gli procurano uno straordinario piacere, a tratti addirittura un’estasi. I resti archeologici restituiscono lo splendore del passato di Segesta, Selinunte e Mozia, ma essi appartengono anche alla dimensione dell’immaginario per la prospettiva idealizzante con cui il viaggiatore li osserva: realtà passata e sogno si fondono nella caratterizzazione di un’alternativa al presente in cui rifugiarsi.  

A rendere più viva l’esperienza del viaggio concorrono le frequenti descrizioni di antichità, pause ecfrastiche a cui si accompagna una ricca intertestualità fatta di riferimenti letterari, artistici e autocitazioni, e che permettono una più facile immedesimazione da parte del lettore in virtù del frequente corredo di suggestioni dell’esperienza sensibile. L’ambientazione settecentesca poi sposta la fruizione dei reperti in un altro tempo, togliendoli alle sale museali, ai percorsi espositivi attuali: templi, metope, statue emergono da un caos quasi armonioso, non toccato dalle chiassose comitive  della contemporaneità, e sono sacri perché testimonianza di un passato ancora più antico.

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Il racconto della tappa a Segesta è dominato dall’imponenza del tempio che appare a Clerici alto e solitario sul colle, circondato dal burrone [6], con un’immagine simile a quella reale che ancora oggi si presenta a chiunque guardi dal basso verso il sito archeologico, ripetuta nell’iconografia di guide e cartoline. La percezione visiva del paesaggio da parte del personaggio accoglie le suggestioni generate dalla stessa esperienza dell’autore e suscita un’immedesimazione e una partecipazione anche emotiva da parte del lettore, che, proiettatosi all’interno dello spazio narrato, lo percorre con il suo sguardo mentale, sulla base delle proprie esperienze, ed è portato a condividere lo stupore espresso dalla narrazione. Ma nella descrizione intervengono tratti onirici suscitati dalla prospettica classicheggiante di Clerici: il tempio è «come corona sul fronte d’un gran dio»; più avanti, diventa addirittura, nel disegno idealizzante del narratore, luogo arcadico, con pastorelle danzanti e musici [7]. La visione delle rovine è dunque un sogno perché chiama in causa, idealizzandola e vestendola di mito, l’antichità. Essa è però anche in grado di generare meditazioni sul tempo e sull’eternità.

La puntuale descrizione del tempio, corredata di informazioni molto precise, quasi tecniche, rompe lo slancio estatico [8] solo brevemente, per alludere probabilmente al testo di Goethe dove invece l’edificio è descritto con entusiasmo contenuto e osservazioni da profano, sigillate da «Un architetto potrebbe stabilirlo con esattezza» [9]. Ma non altezze, larghezze, volumi interessano davvero a Clerici: le osservazioni a proposito della posizione e a proposito dell’assenza di cella e copertura, della mancanza di scanalatura nelle colonne o scalpellatura nelle bugne dei lastroni si concludono con l’ipotesi suggestiva di un progetto ben preciso degli antichi che vollero il tempio, armonioso e imponente sul paesaggio pietroso, ma aperto verso il cielo, come porta o passaggio «verso l’ignoto, verso l’eternitate e l’infinito» [10].  

Nelle memorie di viaggio del personaggio allora si insinuano impressioni che solo all’autore possono appartenere, o al referente novecentesco dell’itinerario, il pittore Clerici. Don Fabrizio di fronte al tempio medita sull’eternità, diventa Leopardi davanti alla siepe [11]. Seduto sullo stilobate tra le colonne da cui pende una ‘siepe’ di cappero, rovo, euforbia, egli ammira l’immensità dello spazio che è al di là e si ritrae nel passato, sprofonda nella vertigine dell’infinita sequenza di civiltà evocate dalle rovine, lontano da un presente tumultuoso e tragico. Come ne L’infinito leopardiano, a cui rinvia la sequenza di gerundi «E sedendo e mirando, e ascoltando», vista e udito sono tutti impegnati nel confrontare il presente sensibile (il cappero che oscilla al vento, le gazze e i corvi che stridono, il verso delle cicale, il fluire del fiume) con l’eterno. Clerici di fronte al tempio di Segesta è capace di andare oltre Goethe, di varcare il limite, naufragare nell’infinito [12].

La stessa cosa capita all’anonimo viaggiatore di L’olivo e l’olivastro, che ha maggiori evidenze autobiograficheIn fuga dai resti di un incendio doloso e dal chiasso dissacrante di alcune comitive che sciamano attorno al tempio, reso più imponente dal deserto di carbone e ceneri, ma ancor di più per staccarsi dalla corruzione e dal massacro della Palermo mafiosa, egli sale sul colle e poi, supino, in mezzo alle colonne, mentre medita sull’incompiutezza che rende l’edificio mirabile, quasi quello si fosse fatto da sé, si lascia rapire dall’osservazione del cielo stellato inquadrato nel recinto del tempio: «Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti, nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero» [13]. L’ipotesto leopardiano ritorna nella costruzione dell’emozionante naufragio di Clerici nel mare di rovine di Selinunte. 

Nella smania di percorrere continuamente l’isola, la tappa si rivela per Consolo irrinunciabile, fin dall’adolescenza [14]. L’antica città è per lui estremamente affascinante: la sua fondazione ad opera dei migranti di Megara Iblea ha sapore epico, i suoi resti sono imponenti e misteriosi. Il racconto più suggestivo dell’incontro con le rovine è proprio in Retablo. L’avventura di Clerici ha il sapore di una scoperta: come un nuovo Fazello egli si trova di fronte a inattesi e abbondanti resti e la sua commozione mentre si immerge nel suggestivo labirinto di marmi e piante è contagiosa per il lettore. 

La meraviglia di fronte ai resti dell’antica città avvolti dalla vegetazione è espressa attraverso fitte enumerazioni che costruiscono narrativamente il mare di rovine [15]. In questa distesa di marmi Clerici trova anche le metope, in particolare quella che ritrae Zeus e Era: a Consolo, che in più di un’occasione si è espresso sul valore di questi «libri di pietra» [16], non sfugge l’opportunità di collocarle lì, in un ipotetico e verosimile caos settecentesco, prima della catalogazione museale, a dimostrarne, nel racconto della seduzione esercitata sul viaggiatore, persino in una collocazione per così dire selvatica, nell’abbandono della vegetazione, la forza narrativa.

Di fronte alle rovine, il pensiero della fragilità di Selinunte diventa meditazione sulla sacralità dei resti e l’estasi contemplativa che ne consegue, come nel caso del tempio di Segesta, ha i tratti dell’ebbrezza leopardiana di fronte all’infinito. Lo smarrimento di Clerici si traduce in un naufragio dei sensi nel mare dei resti, naufragio a cui concorrono gli effetti sonori, cioè le voci immaginate di altre epoche – le morte stagioni – e visivi, ovvero i reperti che, affastellati, ammonticchiati, in un incredibile caos, sbucano nella vegetazione [17]: «Là un altro mar di pietra m’attendeva e mi ghermiva, una tempesta solida di basamenti, di tamburi, d’architravi, di capitelli, di templi, di are, di celle, di nicchie, d’agorà, di case, di botteghe, e io dentro, su onde e avvallamenti, su per le scale e sotto in ipogei, ebbro vi natava» [18].

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A questa estasi segue la scoperta dell’area sacra dedicata a Demetra Malophoros che, come nel racconto autobiografico contenuto in Le pietre di Pantalica, ha i tratti di un percorso di iniziazione, quasi un incontro con l’Aldilà. Se la visita in compagnia di Ignazio Buttitta e Vincenzo Tusa del 1984 è un «procedere iniziatico o profanatorio» e le persone reali a un tratto vengono risucchiate nel pozzo di Ecate «nel mistero e nell’oscurità infinita del Tempo» [19], l’esperienza di Clerici, in un crescendo di particolari che evidenziano la consueta abbondanza archeologica e evocano il mistero del luogo, si chiude, proprio lì sulle rovine, davanti a un inatteso rito funebre dal sapore pagano, con tanto di epicedio, per una ragazza precocemente morta. Tra le nere donne che piangono e si lamentano con movenze da coro tragico, la «fanciulla d’impareggiabile bellezza che la luna nel cielo, nello splendore pieno, inargentava» allude a Murió la verdad, uno dei Desastres de la guerra diGoya, come sembrano confermare le parole del narratore: «Addio. Tu eri il pudore, la trepidazione, il sentimento, tu la verità [corsivo mio] del mondo. Ora non è che falsità, laidezza, brutalità e follia. Io un misero uomo, un nolente, un fuggitivo» [20].

L’apostrofe meditativa attribuisce al rito funebre e al corpo della ragazza un alto valore simbolico: diventa preghiera, lamento e compianto per un tempo che non esiste più, è pietas nei confronti delle realtà lontane, perdute di cui sono traccia tutti i resti osservati, le pietre calpestate o sfiorate, l’emozionante mare di resti di Selinunte, pietas tanto più necessaria di fronte all’incuria e alla superficialità contemporanee. Ma l’episodio è forse anche smemoramento, perdita di sé, in una sorta di contatto concesso con un altro tempo, un altro mondo, come sembra confermare il successivo «I’mi trovai disteso, e non so come» [21].

Ancora più misteriosa risulta, nel romanzo, Mozia, con gli abbondanti reperti archeologici affioranti dal terreno. E questo già nell’approdo, in cui, alla sorpresa di Clerici e Isidoro di fronte ai primi relitti che si affacciano dai fondali si accompagna una lunga nota dai toni meditativi, che è autocitazione da Paludi e naufragi, testo composto per la mostra di F. Mulas [22]. Agli occhi del viaggiatore Mozia emerge dal mare inondata di luce fenicia. Poi è «isola di spirti» [23] che genera spavento e attrazione in Isidoro mentre si rivela seminata di pignatte, ‘una grande trovatura’. Il suo tesoro sono le pietre, nocive e odiose, che i contadini dell’isola cercano di scansare per provare a coltivare la terra e che si rivelano al lettore rassegna di buona parte del patrimonio museale locale, in un procedimento ecfrastico originale che restituisce ancora una volta la natura delle antiche opere d’arte ipotizzandone la collocazione settecentesca, quindi lo stato d’abbandono e l’accumulo casuale.

Tra le pietre c’è anche la straordinaria statua dell’Efebo ed è proprio questa a suscitare le riflessioni del protagonista. Consolo vuole che i viaggiatori trovino l’opera per caso, nelle mani di alcuni contadini che non sanno che farsene e che anzi vogliono liberarsene, secondo lo stereotipo, comune nei resoconti di viaggi settecenteschi, del siciliano ospitale ma ignorante. Alla fine lavorazione che Clerici intravede nel marmo pur sotto le incrostature di terriccio fa da contraltare la fatica dei salinari, che appaiono neri sulla bianchezza dello Stagnone a lui che li contempla a distanza, commentata dall’osservazione del vecchio contadino dell’isola «Eh, la vita è dura, ma più per noi che la campiamo fidando solamente nelle braccia» [24]. Insomma la vita umana è decisamente un’altra cosa rispetto all’arte, ma lo stesso Clerici giungerà a questa conclusione, proprio partendo dallo strano destino della statua.

La lunga ecfrasi veicola l’immagine del Giovane di Mozia così come appare ai visitatori del Museo Whitaker e però il luogo è un altro. Dopo averlo fatto finire nelle mani di Clerici, che lo ha voluto caricare premurosamente sulla nave per portarselo via, l’autore vuole che l’Efebo ritorni all’oblio, nei flutti: durante il viaggio il marmo rompe i legami; un’onda più alta, sopraggiunta al levarsi dello scirocco, spinge la statua in mare. La reminiscenza di Morte per acqua di Eliot per dire il destino della «squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte» sostanzia la riflessione sui limiti della letteratura e dell’arte: «tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo» [25]. Attraverso le parole di Clerici Consolo sostiene così che la creazione artistica, pur pregevole, è poca cosa di fronte al valore della vita umana, che è – o dovrebbe essere –  sacra e inoffendibile, la vita di tutti quelli che si sono spenti in mare, sciolti nelle ossa alla maniera dell’eliotiano Phlebas il fenicio [26]. 

nottetempo

Tra i cocci e l’infinito a Filosofiana 

Sebbene l’apologo Filosofiana evidenzi la miseria e l’ignoranza dei personaggi e nell’amara conclusione che delude i sogni di tesori e ricchezze suscitati da una tomba antica racconti la tragedia dell’esistenza, anche al protagonista Vito Parlagreco capita di meditare sui resti antichi. Eppure i reperti in sé non gli interessano affatto, piuttosto vorrebbe toglierli di mezzo e coltivare una terra tutta sua, e, mentre si affatica a ‘spietrare’ sogna una casetta circondata da alberi e fiori. Ma la «distesa rossigna in groppa all’altopiano di cocci e di rantumi, pance culi manici di scifi, lemmi, di bombole e di giare» [27] e il pensiero delle favole sulla vicina Villa del Casale accompagnano la concretezza del suo pasto di pane e pecorino con inattese considerazioni sul destino degli esseri umani. Le riflessioni sono quelle del suo autore. «Ma che siamo noi, che siamo?» [28], si domanda. Egli accosta la vita degli uomini, la sua vita, a quella delle formiche: tanto affanno, tanto girare nel mondo che, in fondo, non è che un’aia. Piccola cosa, insomma, l’esistenza umana, di fronte all’eternità. Il tempo, riflette Vito, si porta via ogni cosa, lascia solo pochi segni «qualche fuso di pietra scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura come quelle dissepolte nella valle di Piazza» [29]. Per quanto liquidi i resti di antiche civiltà come capricci («certo la villa di un ricco capriccioso» a proposito della Villa del Casale e dei suoi mosaici; «Che capricci, che capricci si passavano gli antichi» a proposito dei cocci che emergono dalla terra) [30], egli vi riconosce il segno di un tempo lontanissimo: in questa vicinanza diventa un po’ filosofo, assaggia una forma di eternità. Prova subito a scacciare il pensiero come cosa da vecchi, per concentrarsi piuttosto su cose concrete, ma dalla terra non può evitare di passare «al cielo, al sole, alla luna, alle stelle», viene insomma risucchiato nella vertigine dell’infinito: «gli sembrava di scivolare dentro un pozzo senza fine» [31].

Agisce forse anche nella costruzione di questo personaggio la suggestione leopardiana de L’infinito. Vito, che guarda al di là del muro dove si è appoggiato per mangiare, è nella concretezza del suo mondo contadino ma i resti di epoche lontane affioranti lo trascinano verso altre dimensioni, i suoni a lui vicini come gli zoccoli della mula o il grido di qualche uccello scandiscono un silenzio immenso, enfatizzato dalla vista del pur immenso Etna all’orizzonte.      La sensazione di scivolamento in un pozzo senza fine, interrotta tra l’altro dall’apparizione dello sfuggente Tanu o Tanatu quasi essere leggendario o addirittura liminare, proprio accanto alla tomba antica, allude inoltre a una forma di contatto con l’aldilà.

Anche se il racconto si sviluppa e si conclude con modi da farsa – Vito è trascinato dal cavatesori Gregorio Nanfara in un bizzarro rituale proprio sui resti, e i sogni di ricchezza e fama  dell’uno e dell’altro vengono delusi dall’apparizione di un inutile mascherone comico – che sembrano sottolineare un’impossibile rigenerazione di valori e ideali antichi, le tracce liriche e meditative sono molto simili a quelle già incontrate in Retablo e esprimono la relazione di Consolo con le rovine.           

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«E tu, e noi chi siamo?» 

Anche Petro, in Nottetempo, casa per casa, bisognoso di cancellare un presente di sofferenza, trova conforto nelle rovine. La contemplazione piena di stupore delle figure del tempio distrutto di Cefalù, al chiarore di una lanterna, innesca una lunga meditazione dai toni lirici che riprende con minime varianti e qualche espunzione L’ora sospesa, testo per il catalogo della mostra di Ruggero Savinio a Sciacca nell’estate del 1989 [32]. Già qui le rovine richiamano l’espressione «Che non consumi tu Tempo vorace» [33], ripetuta e poi troncata nel prorompere di commosse allusioni al mistero di una comunicazione, di una conoscenza non perfettamente attingibile. I riferimenti al «grembo tenero di Cuma, del Lilibeo» [34] rinviano al contatto con un sapere oracolare, possibile attraverso un’esperienza iniziatica che prevede una discesa, uno sprofondamento, come per l’appunto nell’apertura del passo «per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati» [35]. Ma il testo parla anche di oblio di sé e di assunzione del lete, al confine, il che conferisce all’incontro con le rovine tratti da viaggio nell’aldilà ancora più evidenti rispetto agli altri passi analizzati. Eppure l’accostamento al mistero permette solo la domanda esitante  «E tu, e noi chi siamo?» [36].

Ecco allora cosa succede a questi personaggi di Consolo nel contatto con le pietre del passato: in fuga dal presente, vengono rapiti nel vortice del tempo – il tempo delle vite umane scomparse che hanno però lasciato traccia di sé, ma anche l’eterno, l’infinito – in una sorta di esperienza iniziatica che li avvicina a verità esistenziali per lasciarli poi esitanti, dubbiosi. Ma non è forse ciò che secondo Consolo succede anche nel processo della scrittura letteraria? La fuga verso realtà perdute rinvia per l’autore proprio al dovere di scrivere in maniera archeologica, ovvero discendendo ‘per gradi, per lenti processi a spazi inusitati’, tentando di rintracciare il mistero: iniziatico è lo sprofondamento, difficile, arduo il ridire. Eppure lo scrittore deve provare, ritrovando e risacralizzando parole perdute contro l’appiattimento della lingua d’uso quotidiana, recuperando frammenti, rovine, a ricostruire un mondo, anche in modo approssimativo. Perciò in La Sicilia passeggiata, a proposito di Selinunte, Consolo scrive che la tecnologia può sicuramente aiutare a sistemare le antiche pietre, a ricomporle, ma solo la fantasia, 

«il sentimento di noi viaggiatori in luoghi del passato, può resuscitare quelle pietre […] dare significato e parola alle pietre, dare, al di là della loro maggiore o minore monumentalità o bellezza, al di là delle grandi imprese che le rovine evocano, il significato dell’umile vita degli abitanti, della trama dei loro affetti, dei loro gesti, dei loro bisogni, delle loro pene e delle loro gioie; può immaginare, ricostruire insomma, tra quelle antiche pietre, il grande miracolo dell’umano vivere quotidiano che ci ha preceduto che dà senso e illumina il presente nostro» [37]. Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2027 

Note[1]     È Burgaretta a raccontarlo, attingendo a un suo diario personale, in Burgaretta S., Con Consolo per antiche pietre, in Galvagno R., L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Edizioni Milella, Lecce 2022: 272-273. [2]     L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa,a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015: 782-784. Ne ho parlato diffusamente in Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 237-241. [3]   Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, in Fontana F. (a cura di), Il tempo fissato. Pietre e colori a Morgantina, Edizioni Università Kore, Enna 2006: 11-13. [4]     La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012: 217. [5]     Viaggio in Sicilia, in Di qua dal faro, L’opera completa, cit.: 1219-1224. [6]     Retablo, in L’opera completa, cit.: 412-213. [7]     Ivi: 417. [8]     Ivi: 413-414. [9]     Goethe J. W., Viaggio in Sicilia, trad. e note a cura di P. Di Silvestro, Ediprint, Siracusa 1987: 76. [10]   Retablo, cit.: 414. [11]   Ivi: 414-415. [12]   Viaggio in Sicilia, cit.: 1220. [13]   L’olivo e l’olivastro, cit.: 856. [14]   Malophoros, in Le pietre di Pantalica, L’opera completa, cit.: 577; La grande vacanza occidentale orientale, in La mia isola è Las Vegas, cit.:167-169. [15]   Retablo, cit.: 433 e 436. [16]   In particolarein In lettere d’oro il romanzo di Selinunte, in L’Ora, 13 marzo 1984; La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991: 94-101. [17]   Retablo, cit.: 433-434. [18]   Ivi: 435. [19]   Malophoros, cit.: 581. [20]   Ibidem. [21]   Traina ravvisa nel passo uno smemoramento dai toni danteschi che induce a rileggere l’episodio di Selinunte come un vero viaggio iniziatico nell’aldilà. Traina G., Rilettura di Retablo, in Papa E. (a cura di), Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, Manni, San Cesario di Lecce 2004: 122. [22]   Retablo, cit.:442-443. Paludi e naufragi è ora raccolto in L’ora sospesa (L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di M.A. Cuevas, Le Farfalle, Valverde 2018: 33-36).  [23]   Retablo, cit.: 443-444. [24]   Ivi: 449-450. [25]   Ivi: 453. [26]   Sul passo si veda Turchetta G., Per toccare la vita che ci scorre per davanti: Retablo e l’arte come nostalgia,in Microprovincia, 48, gennaio-dicembre 2010: 18; Id., Il luogo della vita: una lettura di Retablo, in Lo Castro G.,  Porciani E., Verbano C.(a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Ets, Pisa 2014: 653: la statua viene gettata in mare a mò di zavorra a conferma del superiore valore della vita umana per Consolo; l’arte, dunque, può essere al comando della nostra esistenza se ci aiuta a vivere; quando entra in contrasto con la vita allora è il caso che soccomba. [27]   Le pietre di Pantalica, in L’opera completa, cit.: 539. [28]   Ivi: 541. [29]   Ibidem. [30]   Ivi: 541-542. [31]   Ivi: 542. [32]   Ruggero Savinio, catalogo della mostra a Sciacca, ex Convento di San Francesco, luglio-agosto 1989, Sellerio, Palermo 1989, ora nel volume omonimo (L’ora sospesa, cit.: 42-46). [33]   Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, cit.: 687. [34]   Ibidem. [35]   Ivi: 686. [36]   Ivi: 688. [37   La Sicilia passeggiata, cit.: 98. Riferimenti bibliografici

Testi di Vincenzo Consolo Consolo V., In lettere d’oro il romanzo di Selinunte, in L’Ora, 13 marzo 1984. Id., La Sicilia passeggiata, con fotografie di G. Leone, Nuova Eri, Torino, 1991. Id., Che non consumi tu tempo vorace, in F. Fontana (a cura di), Il tempo fissato. Pietre e colori a Morgantina, Edizioni Università Kore, Enna 2006: 11-13. Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012. Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015 (edizione di riferimento per Retablo, Le pietre di Pantalica, Nottetempo, casa per casa, L’olivo e l’olivastro, Di qua dal faro). Id., L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di M.A. Cuevas, Le Farfalle, Valverde 2018. Altri testi Bellanova A., Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021: 237-241. Burgaretta S., Con Consolo per antiche pietre, in Galvagno R., L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Edizioni Milella, Lecce 2022: 272-273. Goethe J. W., Viaggio in Sicilia, trad. e note a cura di P. Di Silvestro, Ediprint, Siracusa 1987.Traina G., Rilettura di Retablo, in Papa E. (a cura di), Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, Manni, San Cesario di Lecce 2004: 113-132. Turchetta G., Per toccare la vita che ci scorre per davanti: Retablo e l’arte come nostalgia,in Microprovincia, 48, gennaio-dicembre 2010: 13-19. Id., Il luogo della vita: una lettura di Retablo, in Lo Castro G.,  Porciani E., Verbano C.(a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Ets, Pisa 2014: 647-655.

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Ada Bellanova, insegna lettere nei licei. Dopo essersi occupata per diversi anni della presenza dei classici greci e latini nel moderno e contemporaneo, in particolare nell’opera di J. L. Borges, è approdata da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021).  Si interessa di permanenza del mondo antico nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. 

Retablo di Vincenzo Consolo

Circola nell’intero, avvincente racconto di Vincenzo Consolo il melodioso canto di una Sicilia luminosa e al tempo stesso attraversata da una condizione di arretratezza sociale in pieno secolo dei lumi; un’alternanza, a dirla con Traina, “di inferno e paradiso”.

Federico Guastella
Pubblicato il 21-10-2024

Retablo

Retablo

Nella quarta di copertina dell’edizione Sellerio del 1987, Leonardo Sciascia scrive:

“Retablo” – dice uno dei più sintetici e usuali dizionari della lingua castigliana – “è conjunto de figura que rapresentan la serie de una historia ò suceso”: e la scegliamo questa definizione, che può sembrare angusta […]. Perché “retablo” è questo racconto non soltanto per il suo alludere alla pittura e, con quasi medianico gioco à rebours, a un pittore; ma per il suo svolgersi in figure di incantata e incantevole fissità, pur circonfuse di un movimento, di un cangiare e trepidare di linee, di colori, di eventi luministici che si direbbe aspirino, al di là delle parole, ma restando certa ogni parola, a una più ineffabile condizione.

E così conclude:

Con questo racconto Vincenzo Consolo […] raggiunge una sua perfezione e compie, nella tradizione della narrativa siciliana, una specie di “rovesciamento della praxis” realistica che a questa tradizione è peculiare.

L’attenzione viene dunque rivolta al titolo dell’opera con la precisazione che il termine “retablo” in catalano indica la successione di “quadri” di una storia figurata: singole scene che, divise da una cornice, sono corrispondenti alle varie sequenze della storia.

Giuseppe Traina in Vincenzo Consolo (Fiesole, 2001), afferma che Retablo è

una narrazione che scommette se stessa nel gioco dialettico fra movimento e fissità, tra metafora del viaggio come conoscenza e metafisica immobilità rispetto alla storia.

La struttura del libro a tre pannelli, uscito pochi anni dopo l’assassinio di Pio La Torre e di Carlo Alberto della Chiesa, è fondata sull’intreccio di letteratura e arti figurative: un omaggio al pittore Fabrizio Clerici, rappresentante del surrealismo degli anni Cinquanta che, amico di Vincenzo Consolo, è il protagonista del viaggio settecentesco in una porzione della Sicilia occidentale, dedicato a dona Teresa Blasco. Alcuni disegni del Clerici impreziosiscono il libro in cui, di pagina in pagina, s’avverte l’onda poetica della grecità: dunque, un giornale di viaggio “in quest’isola lontana, in questa terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e dei disastrosi avanzi”.
Ad accompagnarlo è Isidoro, un ragazzo siciliano svestitosi di fraticello questuante per amore di Rosalia. Ed è la loro storia a farsi racconto nei racconti, a rivelarsi a più riprese da vivaci sorprese. È in “Oratorio”, il primo dei tre, che proprio Isidoro racconta le sue vicende che introducono a quel che nel libro si svolge. Al porto di Palermo, dove cerca lavoro, vede giungere il packet-boat “Aurora”, dove viaggia il

gentiluomo di Milano, il cavaliere Clerici […] che sbarcò in Palermo con la fortuna mia, per viaggiare l’isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate.

Il viaggio, narrato nel secondo portello, è intitolato “Peregrinazione”; l’itinerario, che è quello dei viaggiatori del “Gran Tour”, comincia con la voce del protagonista: lo dedica all’amata Teresa Blasco per narrarle la terra originaria, “quella materna e cara”, ma in realtà va in Sicilia

per lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ere trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo come sostanza de’ nostri desideri.

Mostrando la Sicilia del Settecento, severo è il giudizio di Consolo sulla decadenza di Milano e dell’Italia degli anni Ottanta anche se il viaggio si svolge secoli prima. Più piani di finzione espressiva s’intrecciano intanto che scorrono le immagini del paesaggio siciliano a partire dal portello “Oratorio” in cui la descrizione attiene a vagabondi e ruffiani, parassiti e camorristi entro il racconto di Isidoro sulla storia d’amore con Rosalia.
Nel porto di Palermo regna il caos: lo caratterizzano scaricatori, casse, carriole, barili, bestemmie e sgradevoli olezzi, “sciarre di pugni e sfide di coltelli”, “il brulicare d’òmini, animali, carrette e mercanzie”. Ma l’immagine della città, all’arrivo di Clerici, è luminosa di luce chiarissima:

Il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittate, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’inno della notte.

A interessarlo è la ricerca della Sicilia classica, greca e arcadica per ricavarne sensazioni e sentimenti di atarassia, di distacco dalle pene d’amore. Lo suggestiona la terra fertile, una natura tanto rigogliosamente gentile che si apre allo sguardo passando per Monreale, Burghetto e Partinico, ma le strade sono insicure e accidentate, asperrime e colme d’ogni insidia tra cui l’incontro con i ladri.

Ad Alcamo, ricca d’abbondante natura, il comportamento degli uomini è maschilisticamente contrapposto alle donne: i primi sono “scuri, guardinghi e sospettosi, immobili ai lati della strada” che scrutano il passare del convoglio, parlando tra loro “sommessi e concitati”; le seconde si presentano talmente “intabarrate” di cui non si scorge il viso “o il dito d’una mano”, pronte a “scivolare svelte”, “al richiamo d’uno scampanio, nell’antro d’una chiesa”.
Vistoso il barocchismo nel comportamento dei signorotti che si configura in una vivacità esasperata, nell’opulenza e nella nauseante boriosità in stridente contrasto con la miseria di vecchi e bambini. Chiara la denuncia sociale di Consolo nel rilevare le disuguaglianze: sotto stanno coloro che faticano lavorando “senza inizio e fine”, sopra quelli che oziano “ben armati di trombe e lame, in stivaloni, casacca e cappellaccio”. La condizione d’una miseria ingiusta si tocca poi con mano quando Isidoro e Clerici scorgono “innumerevoli fanciulli, cenciosi e magri” e un’orda “di mendichi, ciechi, storpi, nani, malformati, sconciati sulla pelle di ripugnanti mali”.

Non manca la violenza della prepotenza. Da qui il contrasto tra la bellezza della Sicilia e la vita miserabile della povera gente.

C’è una doppia realtà nell’isola: di una bellezza assoluta di quest’isola, che è al centro del Mediterraneo, che è ricca di cultura, per tutte le stratificazioni culturali che ci sono state lì […] E penso anche alla violenza che c’è.

È la violenza esercitata da chi possiede e dalle categorie intermedie al servizio del potere economico:

Non parliamo poi della mafia. E poi taglieggiano e opprimono i sottomessi.

Sono le donne “impotenti, sottomesse, vittime” in un quadro a fosche tinte. Ma è la meravigliosa natura a favorire l’abbandono al sogno. Anche la generosità siciliana spicca: quella dell’accoglienza dell’ospite derivante sicuramente dai greci. Dinanzi al granitico tempio di Segesta, Clerici resta estasiato; ne descrive ogni dettaglio che esprime un’aura di sacralità agli antipodi dell’imbarbarimento e del degrado. E ci sarebbe da soffermarsi sui “Bagni Segestani” o sull’incontro con i briganti o col pastore don Nino che li accoglie dopo essere stati derubati d’ogni bene. Avvincente la storia del brigante in cui si parla della fanciulla Rosalia, avente lo stesso nome della donna amata da Isidoro.

Incantano le descrizioni delle tappe del viaggio; sono delicatamente visive nell’intrecciarsi di narrazioni d’incontri e mostrano il pullulare immaginoso relativo al paesaggio della Selinunte greca:

Io scesi da cavallo e baciai la terra del Selìno, sacra per tanta vita e tanta morte umana. E come richiamato da voci che solamente a me si rivelavano, voci antiche e sepolte, di sacerdoti, vergini e fanciulli, dentro le pietre immense dei tumuli dei templi, e suscitate, quali suoni dalle corde d’una cetra o arpa, per la forma evocante e per l’amore mio di pellegrino, e per l’aere sciamanti […] m’inoltrai mezzo le pietre […] e tutte come in un grande gorgo vorticando attorno a un’unica colonna che ritta al centro, possente e alta, era rimasta a simbolo del grande, del santo monumento, come preghiera estrema e duratura a un dio ignoto, come meridiana o sosta alla sua ombra in questa ignuda vastità e assolata, come segnale e guida per le carovane che dall’interno si portavano agli empori della costa.

La costruzione del tempio sacro, commenta Vincenzo Consolo, è speranza che va verso il cielo, “oltre il confine misero dell’uomo”, mentre la vista nel “mar di pietra” di metopi e di sculture gli fa sorgere interrogativi esistenziali.

Cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?

Le descrizioni incalzano e affascinano per l’ampio sguardo rapace che fissa plurimi dettagli in un linguaggio scorrevolmente rapido e colto. A Mothia ridono i villani “con gran diverimento”, essendo stati informati che i viaggiatori cercavano “l’antichitate” e li invitano a pigliarsi tutto per liberare il campo. Quasi a far dimenticare la strage sacrificale di innocenti, fa luce di splendida bellezza la statua greca del cosiddetto “Auriga” (o “il Giovinetto di Mozia”), trovata dagli archeologi nell’ottobre del 1979 presso il forno di un vasaio. Sicuramente l’artefice dovette essere un esperto scultore conoscitore dell’arte di Fidia e forse era stata comprata da qualche ricco signore del luogo. Nulla si sa di certo. Chissà dove fosse stata scolpita (forse in una città greca della Sicilia, Selinunte o Agrigento). Lo stile e il secolo in cui si possa collocare sono ignoti. Permangono i dilemmi, gli interrogativi, le ricerche. Il V secolo a.C la datazione possibile, probabilmente la prima metà. Ecco un brano di come Consolo ne parla:

Era la statua, poco più grande della misura naturale, d’un giovine robusto, atleta o auriga, che, pur coperto d’una tunica o chitone a fitte pieghe come rivoli d’acqua scivolanti fino ai piedi, si leggea in trasparenza in corpo sano. Il quale, gravando su una gamba e portando avanti l’altra, parea offrirsi in posa dopo la conquista d’una vittoria. E il viso ancora, incorniciato di ricci sulla fronte, era quello fiero e lontano d’ogni vincitore. Privo di braccia, il residuo d’una mano era attaccato a un fianco, mentre l’altra, sicuramente protesa, dovea reggere in alto il premio o la palma della sua conquista.

Finita in mare la statua, lungo il tragitto per Trapani, che Clerici aveva portato con sé, questi rassegnato dice: “Tutto viene dal mare e tutto nel mare si riduce”.
Trapani, “quella città bianca di marmore e di sale”, ha il porto ricco di commercio e di merci; nella bella cittadina “agile e sciroccosa”, ”attiva e sensuale”, dove la grazia greca s’incrocia “con la carnalità ubertosa e ambrata d’un harem saracino”, poteva fiorire l’arte della pesca e della lavorazione del corallo.
Pagana e apparente la religiosità; folclorica e divertente la venuta a pranzo nella casa ospitale di don Sciaverio, esperta guida della città che, dopo un breve terremoto, pronuncia una frase crudele:

Andate, andate via subito, signor maestro Clerici, andate don Fabrizio. Quest’è terra insicura, traballante.

A Palermo incontrano lo scultore Giacomo Serpotta; prima di lasciare la Sicilia, da alcuni mercanti lombardi il Clerici apprende che donna Teresa, la sua amata,

è appena convolata a nozze […] con l’intraprendente Cesare Beccaria.

Riconoscendo le profonde stratificazioni della Sicilia e i contrasti di povertà e di ricchezza, Clerici non ignora la variegata e complessa umanità che la popola. Certo, le sue aspettative vengono incrinate. Di naufragio parla Traina. Ma a rimanere è un senso di meraviglia insieme ad uno sguardo illuministico.

Il terzo portello, “Veritas”, attiene al racconto di Rosalia dalle cui vicende balzano in primo piano le violenze subite dopo la partenza di Isidoro. È il giuramento di fedeltà ad essere l’epilogo della loro storia d’amore.

E io monaca sono, Isidoro mio, monaca per amore del ricordo più bello e interrotto, monaca per amore dell’amore, in clausura d’anima per te, fino alla morte

invitandolo a rientrare nel convento:

Saperti ancora monaco mi dona contentezza. Monaco tu e monaca io, nel voto e nel ricordo del nostro grande amore.

In definitiva, con questo racconto Vincenzo Consolo descrive storie come isole di un arcipelago, l’una all’altra rinviando personaggi, incanti e disincanti a far giungere il melodioso canto d’una Sicilia luminosa e al tempo stesso attraversata da una condizione di arretratezza sociale in pieno secolo dei lumi.
Federico Guastella per Sololibri.net

Moniti per la contemporaneità dal palinsesto consoliano

Pubblicato il 1 luglio 2024 

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di Ada Bellanova

Nel 2008 Daragh O’Connell ha utilizzato il termine «palincestuoso» per definire Consolo evidenziando come, nell’imponente polifonia che caratterizza la sua scrittura, la voce letteraria acquisti un rilievo particolare e quanto intensa sia, rispetto ad altri autori pure attenti alla tradizione, la relazione con i testi anteriori. «La poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura»[1] che ne scaturisce è fortemente legata alla tensione etica dell’autore: la rottura che ne deriva nei confronti delle mode letterarie del momento è un tramite che concorre a definire la scelta dell’impegno. Ma questa modalità convive con la componente memoriale e autobiografica, con l’uso e il riuso dei propri testi, con le citazioni e le allusioni iconiche, in un’attenzione sempre presente per la Storia e per la contemporaneità. È allora arduo e perciò ancora più gratificante scavare alla ricerca del senso.

L’indagine in un’opera così densa di innesti può riservare sempre nuove sorprese, a seconda di dove si va a ‘scavare’. Ma è ancora più degno di interesse che i ‘reperti’ continuino a veicolare messaggi preziosi per il nostro tempo.  «Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) è l’ultimo libro di Giuseppe Traina su Vincenzo Consolo, pubblicato da Mimesis, nella collana Punti di vista diretta di Gianni Turchetta. La raccolta di saggi, in parte inediti in parte rielaborazione di interventi già pubblicati, si riallaccia alla monografia del 2001 (Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001). Pur uscendo, come ammette lo stesso studioso nella premessa, in una fase particolarmente fertile degli studi su Consolo e pur toccando questioni variamente dibattute dalla critica, queste pagine presentano un taglio nuovo, individuando come corpus di indagine l’ultima fase dell’opera dell’autore – i testi che vanno dagli anni Novanta alla morte, ovvero da L’olivo e l’olivastro del 1994 (ma con riferimenti anche ai precedenti Retablo e Le pietre di Pantalica) ai vari contributi parzialmente confluiti ne La mia isola è Las Vegas (2012) e nel postumo Cosa loro (2018) –, e riconoscendovi una netta presa di posizione, ancora preziosa e illuminante, in merito a questioni socio-culturali, ambientali e politiche dell’Italia e del mondo.

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Il primo saggio I molti volti dell’ulisside, tra Sicilia e Mediterraneo: Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, che rielabora quello già uscito su Recherches (Studi per Vincenzo Consolo. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, n. 21, automne 2018: 99-111) si sofferma su una questione già molto presente nella critica consoliana, ovvero sulla presenza di Ulisse. La mappatura delle ricorrenze tende all’esaustività perché, partendo dal bagaglio degli studi precedenti, in particolare quello di Massimo Lollini [2], Traina passa in rassegna una serie di aspetti, anche minori e in parte trascurati, componendo le tracce e guidando alla comprensione del senso.

La precocità del tema del viaggio già presente ne La ferita dell’aprile, sebbene non in maniera massiccia; la struttura ‘a stazioni’ non sempre programmate ma anche determinate da accidenti di varia natura in RetabloL’olivo e l’olivastro, Lo Spasimo di Palermo; le allusioni omeriche in episodi o motivi riconducibili all’Odissea; l’influsso epico nelle scelte stilistiche (l’imperfetto durativo come tempo della ciclicità e il passato remoto come traccia epica nei verbi di dire o in quelli di movimento); la predilezione per protagonisti sempre in movimento, come Fabrizio Clerici, l’io di Le Pietre di Pantalica e di L’olivo e l’olivastro e Chino Martinez: il rilievo dato a tutti questi aspetti è testimonianza del dialogo intenso con l’ipotesto. Traina inoltre non manca di sottolineare che a questa ricorrente scelta di intertestualità si legano elementi autobiografici o caratteriali dell’autore, come il gusto-ossessione per il viaggio periplo in Sicilia o l’esilio a Milano. Proprio del tema dell’erranza, così pervasivo, precisa l’ambivalenza: intanto perché, anche se è ‘in esilio’ a Nord e pur non essendo un privilegiato, Consolo, per sua stessa ammissione, non vive la condizione degli emigrati poveri e ammassati in transito verso altre destinazioni, e poi perché c’è l’autoesilio generato dall’invivibilità della Sicilia, in L’olivo e l’olivastro, ma, accanto all’erranza generata dalla tragedia civile della mafia, in Lo Spasimo di Palermo, c’è anche quella che scaturisce dalla propria vicenda personale. Né mi sembra «una piccola divagazione» la nota finale sulla possibile conoscenza dell’Ulisse di Tennyson per il rifiuto di un nostos compiuto che coinciderebbe con il regno su un’Itaca imbarbarita dalla logica economica e la scelta di un nuovo viaggio che lascerebbe il potere a un più accomodante Telemaco. D’altra parte questo particolare referente viene forse evocato ma per negazione anche ne Lo Spasimo perché l’esilio ora tocca al figlio – neppure per lui c’è posto in un’Itaca distorta – e al padre non resta che un’erranza senza pace, senza slanci di conoscenza.

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Traina non si lascia sfuggire neppure l’occasione di precisare quanto il «monito periodico» dell’eliotiano Morte per acqua sia profondamente legato alla tematica odissiaca per la paura antica del viaggio per mare e del rischio della morte senza seppellimento. Tutti i compagni di Ulisse perdono la vita durante il difficile viaggio di ritorno e l’epos incarna il sentimento degli antichi Greci, mentre i morti per acqua di oggi, i migranti, sono ulissidi alla ricerca di una patria ideale che mai vedranno. C’è in queste tracce odissiache un fortissimo monito alla contemporaneità per quanto riguarda i drammi del Mediterraneo ma anche, come giustamente mette in evidenza Traina, l’avviso della profonda ambivalenza del rapporto dell’essere umano con la Natura.

A questo si collega un’altra riflessione interessante, sebbene più rapida, contenuta in questo primo saggio, sulla techne. Consolo ha senza dubbio pagine polemiche nei confronti della cultura tecnico-scientifica nella sua versione tecnologica. I poli industriali siciliani in particolare sintetizzano ne L’olivo e l’olivastro un’idea di sviluppo deteriore, che nega l’identità dei luoghi, distrugge la civiltà preesistente [3]. Altra cosa è la techne non meccanizzata, nei confronti della quale l’autore nutre un notevole interesse, evidente ad esempio nell’attenzione per botanica e arboricoltura in Retablo o ne Lo Spasimo di Palermo. In ciò Traina coglie una traccia ulissiaca perché riconduce queste aperture alla dicotomia tra olivo e olivastro e vi riconosce la valorizzazione di «una forma tra le più alte dell’intelletto umano e di una misura umana del vivere». Un altro avviso urgente per il nostro tempo.

Anche il secondo saggio, Nottetempo casa per casa: il potere, la lingua, l’esilio, rielaborazione di un intervento precedente, costruito attorno al tema chiave ‘lingua’, soffermandosi su una questione estremamente viva nella riflessione consoliana ovvero sulla peculiarità dello strumento linguistico con le sue ambivalenze, evidenza l’attualità del messaggio dello scrittore. Nel romanzo oggetto di analisi attraverso la narrazione di fatti misti di storia e invenzione degli anni Venti – la vicenda di Pietro Marano in una Cefalù che ha rinunciato a ogni forma di razionalità, stravolta dall’avvento del satanista Aleister Crowley e dai suoi riti orgiastici seducenti per alcuni cefaludesi pronti poi a schierarsi con il nascente fascismo – Consolo allude, per sua stessa ammissione, agli anni Novanta, «anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…» [4], ovvero all’irrazionalismo della cultura di massa a lui contemporanea, alla caduta delle ideologie e alla deriva degli italiani pronti a sostenere nuove forze politiche, Lega Nord e Forza Italia, e quindi a consegnarsi a un sistema di potere illiberale.

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Ma la violenza sembra essere ben più profonda e enigmatica di quella storico-politica: ha genesi antropologica e probabilmente anche autobiografica la malattia dei Marano, ma è solo apparenza, come ha messo in evidenza Galvagno [5], il legame esclusivo con la famiglia del protagonista e le implicazioni sono molto più vaste e riguardano la soggettività dolorosa dell’essere umano. L’indagine di Traina consegna al lettore alcuni importanti ‘ritrovamenti’, ipotesti della tradizione solo in parte affioranti, per riflettere sul ruolo della lingua nel romanzo. La parola poetica è per Petro Marano una possibilità di resistenza al dolore, mentre è nociva la retorica del linguaggio della politica, fascismo o antifascismo poca importa, perché anche nella lingua del vate poetico dell’anarchico Schicchi, Rapisardi, è rivelabile l’impostura. «Petro, con la sua sensibilità linguistica […] coglie il rischio che il terremoto grande che sconvolge politicamente l’Italia implichi una corruzione della lingua, uno slittamento tra significanti e significati che solo in apparenza può apparire un buffo calembour», e, nella sua alternanza tra melanconia, male catubbo da una parte e tentativo di resistere ad essi attraverso la scrittura, rappresenta dunque proprio la posizione dello scrittore che è consapevole dell’agguato in atto nei confronti della cultura umanistica e della razionalità, ma ha ancora fiducia in esse.

Alla base di questa riflessione Traina pone alcune sollecitazioni: l’idea di funzione utopica della lingua di Barthes, il principio di vacuità del linguaggio di Foucault, ma soprattutto il valore della leggerezza nelle Lezioni americane di Calvino. L’apparente distanza delle considerazioni calviniane – forse quelle che sorprendono di più tra i riferimenti suggeriti – è superata nella sottolineatura della presenza nel romanzo della «rutilante vitalità del fascismo», che è aggressivo, rumoroso, quindi facilmente ascrivibile a quello che Calvino definisce «regno della morte» [6], ma anche della coscienza della necessità di una riappropriazione della concretezza delle cose da parte del linguaggio. Inoltre se la pietrificazione dei Marano si lega alla pesantezza di cui le Lezioni americane invocano il superamento, nella percezione da parte di Petro del dolore individuale e nella  possibilità di una risposta collettiva alla sofferenza del mondo, Traina individua l’intreccio tra riflessione calviniana e echi leopardiani, in particolare nel passo del capitolo VIII: «Una suprema forza misericordiosa potrebbe forse sciogliere l’incanto, il grumo dolorante, ricomporre lo scempio, far procedere il tempo umanamente. O invocare ognuno, il mondo intorno, a capire, assumere insieme l’enorme peso, renderlo comune, e lieve» [7].

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Il terzo saggio, finora inedito, cala il lettore nel mistero del marabutto (Nel marabutto: Lo Spasimo di Palermo) e dell’ultimo dei romanzi consoliani, portando alla luce, attraverso considerazioni sui molti significati del termine, anche il senso sepolto (inabissato) della narrazione. Il termine è di per sé polisenso – eremita, tomba mausoleo, cisterna sotterranea – ma a contare sono i significati che esso assume per Chino Martinez. Dapprima luogo sotterraneo, scoperto nell’infanzia con l’amico Filippino, il marabutto prelude forse al difficile destino di scrittore che deve impegnarsi a trovare ‘il motto giusto’. Ma diventa subito anche ricovero per sfuggire alla collera paterna e sarebbe segreto da condividere con Lucia, la sola che possa godere della bellezza delle pitture murali, ma i gemiti del padre e della siracusana lì rifugiatisi per fare l’amore lo rendono emblema del rimosso. Chino infatti, spinto da molteplici sentimenti, non ultimi odio e rivalsa, contribuisce suo malgrado alla morte del genitore e della sua amante per mano dei tedeschi e ciò diventa per lui causa di rimorso perenne e radice della futura pazzia per la ragazzina che è l’unica a vedere i cadaveri di sua madre e del padre del protagonista.

Così il marabutto è l’aleph, il punto di partenza e, nel senso borgesiano, il luogo in cui sono riassunti tutti i luoghi, la storia che le riassume tutte. Ma indica anche l’eremita e, se – è la premessa di Traina – nell’opera di Consolo questa figura è ricorrente e significativa e spesso ridotta all’afasia o ad un’ecolalia che non comunica, come nel caso del frate belga di L’olivo e l’olivastro, questa accezione è valorizzata nell’ultimo romanzo in vari modi. Innanzitutto Chino Martinez «opta per una sorta di romitaggio laico» che è illusorio nel caos di Palermo, ma soprattutto sceglie un’afasia di scrittore che diventa anche afasia nei rapporti umani, persino nei confronti del figlio. Inoltre l’auspicio «T’assista l’eremita» che chiude il proemio, ricondotto da Traina proprio all’incontro con il frate belga, va inteso in relazione con l’effetto del marabutto sulla vicenda di Chino e va collegato al motto del fioraio che precede l’esplosione letale alla fine del romanzo, «Ddiu ti scanza di marabutta». Ma lo studioso, provando a indagare tutte le accezioni della parola marabutto, suggerisce che forse eremita è anche il giudice obiettivo dell’attentato mafioso e la sua condizione rinvia alla vera solitudine sperimentata da Paolo Borsellino la cui vita si è svolta tra l’aleph della farmacia di famiglia di quel quartiere poverissimo che è la Kalsa, di cui Consolo si ricorda in Le macerie di Palermo, e il tremendo isolamento finale da cui nessuno l’ha protetto.

Il saggio successivo si concentra sulla scrittura d’intervento e sui testi confluiti in La mia isola è Las Vegas e Cosa loro verificando analogie e specificità di questi rispetto a quelli confluiti nel Meridiano curato da Turchetta. In particolare Traina si sofferma sull’uso dell’ironia costruita attraverso l’elencazione nominale, la deformazione onomastica, la scelta del dialetto o di forme regionali anche sul modello gaddiano, i rifacimenti mimetici ancora gaddiani, o con la prospettiva dell’io narrante, straniante e eticamente indifendibile come nel racconto La mia isola è Las Vegas. Inoltre in tutta la scrittura d’intervento, che si tratti di interventi sulla mafia o di articoli di politica internazionale, è riscontrabile un grande scrupolo documentario. Infine Traina segnala nella produzione estrema di Consolo una tendenza ad analizzare fenomeni di portata mondiale, a partire dal tema delle migrazioni del Mediterraneo e, a tal proposito, si sofferma sull’interessante ma poco noto Civiltà sepolta [8], articolo che nel richiamo del titolo all’archeologico Civiltà sepolte di C. W. Ceram allude antifrasticamente al «seppellimento morale della nostra attuale civiltà, emblematizzato dal perdurante ricorso alla tortura». Nel testo lo scrittore si sofferma sulle tante violazioni dei diritti umani, a partire da quelle compiute da fascisti e comunisti per arrivare alle moderne torture statunitensi. Traina vi rileva un ricorso preciso a toponomastica e onomastica – per citarne alcuni, Abu Ghraib, Baghdad, Nassiriya, Maurizio Quattrocchi, Nicholas Berg – fondato sulla convinzione che il nome possa facilmente, fissato sulla pagina, diventare emblema per tutti, in un crescendo apocalittico che l’ecfrasi finale del monumento ispirato alla fotografia di Lunchtime può, compensando la voragine angosciante di Ground Zero moltiplicata nelle immagini televisive dell’11 settembre 2001, riscattare con un moto di speranza – la profezia di una ricostruzione nella particolare scelta iconica che si riallaccia alle modalità dei grandi romanzi – la logica della guerra.

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L’ultimo saggio, Consolo e il Mediterraneo arabo: «tra un mare di catarro e un mare di sperma», rielabora un precedente intervento su «Italianistica» (n1, gennaio-aprile 2020). Vi si collega, per l’attenzione rivolta al tema del mare e alle modalità con cui si manifesta la presenza araba, l’appendice sciasciana, del tutto inedita. Ma in Consolo la componente araba mediterranea non esiste da sola, bensì mescolata con l’identità greca, ebraica, spagnola, con individuazione dell’arricchimento che nasce proprio dalla fusione di civiltà e culture diverse. Traina passa in rassegna le differenti forme della presenza araba nell’opera dell’autore: quella geografico-artistica che valorizza l’eredità monumentale, soprattutto a Palermo e a Trapani, e la valenza civilizzatrice della dominazione araba in Sicilia non senza mettere in risalto in controcanto la distruttiva barbarie mafiosa contemporanea; quella storico-sociologica che, partendo dall’arrivo degli arabi in Sicilia, sulla scorta di Michele Amari, giunge ad analizzare la doppia migrazione tra l’isola e il Nord Africa e gli esiti tragici delle traversate dei nostri giorni; quella letteraria che dalla conoscenza di Ibn Giubayr e degli altri antichi scrittori arabi siciliani giunge all’interesse per autori contemporanei palestinesi o maghrebini; infine quella politica con le riflessioni sulle guerre del Mediterraneo, su eventi come l’11 settembre, e, ancora una volta, sulle migrazioni.

Il saggio mette in luce un aspetto, secondo me, fondamentale nella riflessione consoliana, ovvero la forza vivificatrice della mescolanza tra popoli. La stessa rappresentazione, entusiastica, della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine elime, greche, puniche testimonia nell’opera dell’autore il valore degli incontri, degli scambi tra popoli di culture diverse, ciò che è, da sempre, motivo del cammino della civiltà.

Le considerazioni di Traina per l’interesse di Consolo nei confronti di Tahar Ben Jelloun, che evidenziano tra l’altro una comune predilezione per la dimensione dell’oralità, permettono di cogliere un auspicio di meticciato anche sul piano letterario. La soluzione alla crisi linguistica e letteraria – in particolare del romanzo, minacciato dalla comunicazione del potere in virtù della sua valenza comunicativa – risiederebbe in un incontro straordinario tra lingua della memoria e lingua scelta per comunicare, proprio come nel caso dello scrittore marocchino che pur scegliendo il francese – la lingua degli ex colonizzatori – per scrivere non ha rinunciato alla sua identità maghrebina. Ma il meticciato dovrebbe essere l’esito anche sul piano biopolitico: l’Europa vecchia – «un mare di catarro» – ha bisogno della vitalità giovane che possono portare i migranti. In consonanza con l’aforisma zanzottiano [9], Consolo evidenzia la necessità e la positività della mescolanza, non tanto o non solo per spirito umanitario ma per evidenti ragioni politiche e economiche: si tratta, d’altra parte, di riconoscere il cammino della Storia, tanto più della Storia di un siciliano, segnata da così tanti popoli e commistioni.

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In un Mediterraneo dilaniato da guerre e morte la speranza risiede, a sorpresa, in San Benedetto, nel santo nero di origini popolari. Soffermandosi in chiusura sull’analisi del racconto Il miracolo, che, con tono sarcastico e grottesco, narra di come una ragazza semplice e chiusa nella fede in un vicolo del centro storico di Palermo si convince di essere stata messa incinta da San Benedetto e non da un migrante nero che ha bussato alla sua porta, e sugli articoli dedicati al santo – con la proposta di eleggerlo copatrono accanto alla bianca e aristocratica Santa Rosalia proprio in virtù della presenza significativa di immigrati – Traina mette evidenzia la forza del simbolo che Consolo ci lascia in eredità: a Palermo, nell’isola e in tutto il Mediterraneo dovrebbe essere finita l’epoca delle madri sofferenti che piangono i loro figli, dovrebbe esserci invece «un nuovo tipo di padri, non legati all’atavica cultura mafiosa ma capaci di tenere in braccio un bambino, come il santo nero nell’allucinata narrazione della ragazza del Miracolo».

Resta, alla fine della lettura di questi saggi, oltre ad una rinnovata vertigine di fronte alla ricchezza del palinsesto consoliano, l’apprezzamento per la pregevole opera di scavo operata da Traina il cui denso resoconto testimonia una cura attenta e consapevole dell’eredità dell’autore. Questa è percepita come propria nell’atto dell’indagine ma, nella scelta di uno specifico corpus di indagine e nel focus su questioni care a Consolo e assolutamente non risolte, come le migrazioni, la violenza, la violazione dei diritti umani, l’uso distorto della lingua, il rapporto tra uomo e natura, è proposta anche, ancora e urgentemente, a tutti.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1]   D. O’Connell, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italià», 13, 2008: 161-184 (:163).
[2]   M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in «Italica», LXXXII, I, 2005: 24-43.
[3]  Ne ho diffusamente parlato in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021, in particolare: 230-245.
[4]  V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e la Milano, la memoria e la storia, a cura di Renato Nisticò, Donzelli, Roma, 1993: 47.
[5]  R. Galvagno, L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Milella, Lecce, 2022: 199.
[6]   I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano,2023: 16.
[7] V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano, 2015: 712.
[8] V. Consolo, Civiltà sepolta, in L’Unità, 15 maggio 2004. L’articolo è reperibile per intero online https://vincenzoconsolo.it/?p=2928
[9]  A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69.
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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo

– Storia di un lungo viaggio dal procedimento memorialistico intrecciato con la coscienza civile di un personaggio-scrittore siciliano che acquista coscienza del fallimento generazionale e della pervasività del potere mafioso.

Federico Guastella

Lo spasimo di Palermo, romanzo dal tono elevato e dotto dalle ardite scelte stilistiche scritto da Vincenzo Consolo e pubblicato per la prima volta da Mondadori nel 1998, ha il primo capitoletto caratterizzato dal segno del corsivo e senza denominazione. In merito, Giuseppe Traina in Da paesi di mala sorte e storia (Mimesis, 2023), ha scritto che lo stile è: Misterioso, oracolare, zeppo di criptocitazioni e presenta una voce – più evocante ed esortante che narrante – che invita un interlocutore ad “andare”: questi acquista quasi subito i connotati di Ulisse, grazie a diverse allusioni alla materia ulissiaca. Un “proemio”, dunque, da potersi intendere come un “invito al viaggio” da fare insieme. Vi si legge un’affermazione che fa riflettere sul tempo identico nel suo scorrere: “la storia è sempre uguale”, cui segue un invito alla maniera di Eliot: Ora la calma ti aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. Inizia così l’oscuro tragitto che è ricerca d’identità: Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadire, angoscia è il deserto, la pista che la sabbia ha ricoperto. T’assista l’eremita l’esule il recluso, ti guidi la fiamma di lucerna, il suono della sera, t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento. Ramificato l’intreccio che costringe il lettore alla ripresa delle pagine già lette e ad un procedere con tanti interrogativi. Il capitolo che segue, denominato I, introduce in un piccolo albergo di Parigi denominato “La dixième muse”, dove lo scrittore Gioacchino Martinez, Chino, mentre aspetta d’incontrare il figlio esule per terrorismo, rievoca la sua infanzia in Sicilia, da cui affiora un trauma: Fluttuava nel fondo dell’acqua catramosa il nome della remota visione, dell’oblunga sagoma implacabile. Si domandava da quale muffito sotterraneo, da quali strati dimentichi del tempo poteva esser sorto, nel tempo dell’infanzia, quell’arcaico incunabolo. Il brano è psicoanalitico; segna la riappropriazione dell’inconscio dal cui abisso si profila la visione d’un film con un personaggio chiamato Judex, il gran giustiziere e vendicatore. L’aveva visto quel film all’oratorio proprio quando un bombardamento incuteva terrore e seminava morte in paese. Da qui la decisione del padre di Chino di rifugiarsi in campagna, a Rassalemi, dove li raggiunge “La siracusana” con la figlia Lucia: la sua amante, dato che era rimasto vedovo. Suggestiona l’inventività a proposito della scoperta d’una tana effettuata col compagnetto Filippo: Filippo gli mostrò l’entrata ad arco, schermata dalle frasche, d’una cisterna o marabutto sepolto dal terriccio. Dentro era una stanza vasta, la lama d’una luce che per lo spacco nella cuba colpiva il suolo muffo, schiariva i muschi sopra i muri, e le strame, i nòzzoli di capre presso i canti. In una nicchia, sopra la malta liscia, era la figura d’un uomo accovacciato, un gran turbante, gli occhi a calamaro, che pizzicava le corde d’un liuto, d’una donna allato fra viticchi e uccelli che ballava. Chiarisce Traina: Il nome “marabutto”, dunque, indica qui una cisterna sotterranea, utilizzata forse per accumularvi acqua (lo farebbero pensare la presenza di muschi e il suolo muffito) oppure come rifugio per capre: usi recenti e degradati, rispetto alla destinazione primitiva a tomba o mausoleo, testimoniata dalle decorazioni murarie. Il dialogo fra i due ragazzini corrobora la consistenza di “altrove siciliano” in un’arcaica magia: – C’è qui la trovatura – disse Filippo – Ci vuole il motto giusto, e appaiono pignatte, cafisi di tarì. Sai uno strammotto, una rima per spegnare? E a Chino viene in mente una canzone appresa all’oratorio. Da allora il “marabutto” diventa il luogo privilegiato, “autoreclusivo” e nascosto, incognito e segreto, un piccolo eremo dove rifugiarsi in solitudine per sfuggire all’ira paterna e contemplare, incantato, le pitture murali che gli evocano le figure femminili a lui familiari. Lo condivide con Lucia e le mostra il boschetto curato dallo zio (conoscitore della botanica e amante dell’arboricoltura), conducendola fino alla grotta dei Beati Paoli dal cammino “oscuro e tortuoso” verso il regno ctonio; sull’arco d’ingresso l’incisione: PER ARTE E PER INGANNO Chiaramente alludeva all’artificio e all’inganno che sono di ostacolo a chi vuole agire per giustizia a favore del popolo siciliano. Dal “marabutto” a Nico giungono gemiti erotici da cui riconosce la presenza del padre intento a fare all’amore con la siracusana. Da qui il sorgere del rapporto ostile con lui fino a denunciarlo ai tedeschi. Intanto il marabutto diventa rifugio nel corso dei bombardamenti. E in quel rifugio, il piano architettato da Chino, favorito dalle circostanze, causa la morte del padre e della siracusana: un trauma per il ragazzo che rimuove l’accaduto al punto di non ricordarlo più. Di vicenda in vicenda, si susseguono le sue scoperte nel corso della devastante guerra. Poi il difficoltoso dopoguerra e Chino, ormai orfano, si ritrova con lo zio in città, a Palermo. Chino e Lucia: lui libero di muoversi e di andare in gita coi compagni; lei reclusa in un collegio di suore, privata di visite e di vacanze. Chino, preso da rammarico e da pena, ottiene, per intercessione dello zio, che Lucia trascorra un periodo nella loro casa. La passeggiata al mare si ramifica in vari episodi, in altri itinerari. Dinanzi alla grotta di Santa Rosalia, Lucia, pallida e tremante, fugge: Non so, non so, mi prende sempre il tremito, il terrore sulle porte del buio, dell’umidore… io… io ricordò tutto, Rassalèmi, il marabutto, rivedo sempre mia madre, quei corpi insanguinati sul carretto… Piange lei stretta forte a Gioacchino: Lui no, non aveva visto, era fuggito, una fuga era stata la sua vita. Vale ora la pena di accennare alla nascita di Mauro, figlio di Chino e di Lucia, lei tenerissima destinata alla follia. Anni dopo avviene lo scoppio d’una bomba: un attentato nell’ingresso della loro villa, ereditata dallo zio. L’investigatore, un commissario di polizia, così gli si rivolge: Professore, qui c’è una guerra, non la sente? Spari per le strade, kalashinikov nei cantieri. Mai tanta furia insieme. Si sterminano tra loro. La posta ora in gioco sono i terreni, gli appalti, le licenze… Ha mai sentito di un certo Scirotta Gaspare? […]. Uno stracciaiolo divenuto il più grosso costruttore, prestanome di politici potenti… Ha capito adesso? Chiaro l’avvertimento della mafia: impossessarsi a bassissimo costo del terreno su cui sorge la villa per affari loschi di speculazione edilizia. Mauro, che ormai studia filosofia, convince il padre a trasferirsi in una città lontana: Fuggire dal pantano, dal luogo infetto, salvare forse così la madre, lasciare quella terra priva ormai di speranza, nel dominio della mafia. All’arresto di Mauro, che all’università ha elaborato la sua filosofia e politica, segue la perquisizione della casa. Ecco la coincidenza. Nico stava scrivendo un racconto “La perquisizione” e aveva lasciato i fogli sopra il tavolo. Il borghese li nota e scorge rapido l’inizio, soffermandosi sulla scena in cui fa irruzione la polizia che butta a terra i libri e scruta dietro gli scaffali. Legge dunque ciò che stanno facendo i gendarmi: “Mi sembra di sognare”, disse. Lei sapeva, prevedeva. Avviene la scarcerazione prima del processo, poi la latitanza a Parigi per sfuggire alla repressione politica. Da qui l’accorato addio di Nico a Milano e il ritorno da vedovo in Sicilia col pensiero del figlio e “Lo confortava saperlo con Daniela, quella donna generosa, intelligente” (abile mediatrice fra padre e figlio). Egli, dunque: Tornava nell’isola, il porto da cui era partito, in cui si sarebbe conclusa la sua avventura, la sua vita. Si ritrova non più nella lussuosa villa d’allora, ma in un brutto appartamento condominiale. È l’uomo colto e scrittore civilmente impegnato Martinez (“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”); forse per l’esigenza di una mappatura culturale, oltre che topografica, del territorio, legge libri anche in lingua spagnola e si ritrova nella Biblioteca Comunale di Casa Professa; compie il giro per la città, pensando alla povera signora, sua dirimpettaia, che attende l’arrivo del figlio magistrato. Rari i contatti con le persone, l’unico con cui si intrattiene è il fioraio mastr’Erasmo. Siamo nel capitolo X, dal tenero inizio, dove si parla dell’incontro di Martinez con Borsellino (Judex, il giustiziere antimafia), che accenna ad uno dei suoi libri, riportando la frase dello scritto ne “Le pietre di Pantalica”: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino… Il pessimismo è totale: – Sono passati da allora un po’ di anni… – disse Gioacchino. – Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio. Dalla profonda crisi di Nico la decisione di scrivere al figlio, spinto dal bisogno di confessare e di chiarire (un consuntivo potrebbe dirsi personale e intellettuale): … Non sono mai riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch’io credevo di odiare in quel momento mio padre, per la sua autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli che cominciano a sentire nel padre l’avversario. Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna s’è rimarginata grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello screziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s’è rimarginata, ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con l’assenza della madre e con la presenza odiosa di quello che formalmente era il padre. È questo il brano d’una lunga lettera dove confessa al figlio il fallimento della sua generazione, il bisogno della rivolta nell’ambito della scrittura, il profondo sentimento per Lucia, nonché il senso della sconfitta a seguito degli attentati contro i giudici Falcone e Borsellino. Si conclude il romanzo con il gran boato a seguito del gesto del giudice che preme il campanello del condominio in cui abita la madre. È il 19 luglio 1992. Evidente il fallimento d’ogni speranza nell’Italia degli anni Ottanta-Novanta, sotto il segno della sconfitta, di fronte alla pervasività del sistema mafioso, si conclude la storia d’un lungo, terrificante viaggio.

Pubblicato il 30-05-2024

«Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) di Giuseppe Traina (Mimesis, 2023).

Dalla Premessa al volume:

Questo libro scommette sull’ipotesi che […] le opere di Consolo comprese tra gli anni Novanta e la morte (2012) siano dotate di una peculiare capacità di parlare al lettore di oggi con intatta veridicità e particolare efficacia per il presente.

Ciò non vuol dire che le sue prime opere abbiano perduto valore: tutt’altro! La ferita dell’aprile (1963),romanzo d’esordio, rimane, a mio (e non solo mio) avviso,un’opera ancora da riscoprire e da sottrarre al coté tardo-neorealista nel quale è stata impropriamente arruolata; Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) è un capolavoro indiscusso che seppe rimettere in discussione e positivamente decostruire la tradizione del romanzo storico italiano; Lunaria (1985) è un’opera che, al di là delle apparenze rococò, rivela una notevole forza espressiva, da rileggere nell’àmbito di un’altra peculiare mitografia, per l’appunto di argomento lunare, alla quale ha apportato un contributo non sottovalutabile; Retablo (1987) è un altro capolavoro (forse non troppo amato dal suo autore e forse per questo un po’ trascurato da taluni studiosi) che andrebbe letto, oltre che per il suo specifico valore di testo perfettamente in bilico tra espressività linguistica e iconografica, inserendolo ai piani alti della breve stagione postmoderna della letteratura italiana (ipotesi storiografica per alcuni studiosi risibile ma per me molto seria, eppure da verificare con rigorosi supplementi d’indagine); Le pietre di Pantalica (1988) è una tappa importantissima, che rivela ormai la sua natura ancipite di raccolta di racconti ma anche di rielaborazione di un romanzo mancato, e che, forse proprio per questo, traghetta l’autore verso una stagione nuova che si apre, se la mia ipotesi è corretta, con gli anni Novanta.

Rimandando alle pagine successive per la parte analitica del mio ragionamento, si può qui alla svelta ricordare che, dagli anni Novanta in poi, testi come L’olivo e l’olivastro,del 1994(ma con anticipazioni significative presenti in Retablo e Le pietre di Pantalica), Nottetempo, casa per casa (1992), Lo Spasimo di Palermo (1998) e la costellazione di raccontini, articoli, brevi saggi e testi memoriali che sono stati, in parte, raccolti in Di qua dal faro (1999), La mia isola è Las Vegas (2012) e Cosa loro (2018), hanno consentito a Consolo di porsi in posizione di tempestiva e “militante” presenza, quando non di acutissima anticipazione, rispetto a fenomeni sociali di indiscutibile centralità, non soltanto nella vita pubblica italiana ma anche in quella internazionale (Consolo ha dimostrato un’attenzione agli scenari politici e culturali internazionali che, dopo la morte di Sciascia e Calvino, trova soltanto in Claudio Magris un possibile termine di paragone nella letteratura italiana di fine secolo): l’opzione netta per uno “sviluppo senza progresso” e le conseguenze visibili soprattutto in campo economico e ambientale, non disgiunte, talvolta, dal ritorno, o rigurgito, di facili soluzioni politiche affidate all’“uomo forte” di turno; l’oblio sistematico della memoria storica e della sensibilità linguistica che l’appiattimento sul presente della comunicazione telematica e la diffusione di basici e asettici linguaggi transnazionali hanno irrimediabilmente innescato; il picco di violenza raggiunto dal potere di Cosa Nostra e poi la sua non meno pericolosa sommersione, che implica il non mollare mai la presa rispetto ai gangli del potere politico ed economico; l’aumento esponenziale delle migrazioni in àmbito mediterraneo e la tragica diversità delle risposte che i governi hanno dato al dilagare del fenomeno.

Se la trattazione di tali temi fosse stata affrontata da Consolo con piglio meramente testimoniale, staremmo parlando di risultati non troppo diversi da quelli raggiunti da scrittori-giornalisti importanti come Alessandro Leogrande e Roberto Saviano; ma importa non dimenticare che mai, o quasi mai, il Consolo di questo ventennio estremo ha dismesso la sua inconfondibile vocazione a una scrittura che non soltanto si distaccasse sistematicamente dalla lingua d’uso ma che, per la sua natura “palinsestica”, si collocasse anche in una posizione critica e autocritica di continua rimessa in discussione dei fondamenti (stili, generi letterari, collocazione dell’intellettuale) che la tradizione letteraria italiana ha codificato.

In questo atteggiamento sta la fedeltà di Consolo a sé stesso, alle sue opere degli anni Sessanta-Ottanta e alla sua caparbia collocazione intellettuale “di opposizione”; ma è anche vero che, rispetto a quelle prime opere, in alcuni testi del suo ventennio estremo Consolo è riuscito, con difficoltà e con sofferenza, a dischiudere, sempre in letteratissima forma, talune significative feritoie su uno strato “rimosso” della sua storia personale e familiare. Se ne hanno cospicue testimonianze, che vanno interpretate con misura e sensibilità, soprattutto nei due romanzi Nottetempo, casa per casa e Lo Spasimo di Palermo. […]

Ho cercato di mettere in relazione tali componenti riconducibili al “rimosso” con […] una problematica rielaborazione del mito ulissiaco: anche nella riscoperta del poema omerico Consolo si è collocato in significativa sintonia con altri importanti esponenti della letteratura mondiale a cavallo dei due secoli.

Nel marabutto: Lo Spasimo di Palermo[1]

Giuseppe Traina

            «Marabutto, s. m. Nome magrebino dei santoni musulmani, figure

intermedie tra eremiti e guerrieri; nell’uso europeo il termine indica

anche i mausolei di tali personaggi, che punteggiano i margini del deserto

e che nella forma più caratteristica consistono in una costruzione

cubica sormontata da una cupola. [dall’arabo marābit ‘acquartierato’]»

(Giacomo Devoto, Gian Carlo Oli, Il Dizionario della

lingua italiana, Le Monnier, Firenze 2000, p. 1219).

«Marabùt o marabùto, marabùtto [fr. Marabout dal port. Marabuto,

dall’arabo murābit ‘addetto alla guardia di un posto di frontiera’, poi

‘eremita’, 1847] s. m. 1 (st.) Combattente della Guerra santa, nell’Islam /

(est.) Santone, asceta, eremita. 2 (est.) La tomba dove un marabut è sepolto»

(lo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli,

Zanichelli, Bologna 2006, p. 1092).

Come hanno dimostrato i riscontri filologici di Gianni Turchetta e di Dominique Budor[2], il primo capitoletto de Lo Spasimo di Palermo è forse la parte del romanzo che ha trovato una stesura definitiva dopo il maggior numero di correzioni. Si tratta di un breve testo senza denominazione, che precede il capitolo numerato I ed è caratterizzato dall’uso del corsivo come segno di demarcazione. Ma la nuda evidenza tipografica si sposa con uno stile ancor più “alto” del solito: misterioso, oracolare, zeppo di criptocitazioni. Una voce, più evocante che narrante, invita un interlocutore ad “andare”: l’interlocutore acquista quasi subito i connotati di Ulisse. Sembra dunque un solenne “invito al viaggio” da compiere insieme. E svolge certamente una funzione introduttiva al romanzo, tanto che molti studiosi hanno deciso di denominarlo, omericamente, “proemio”: e così, per comodità, si farà anche qui.

Studiando Lo Spasimo di Palermo dal punto di vista narratologico, Michele Carini ha scritto che

un’istanza narrativa eterodiegetica – apparentata con quella che nell’Olivo raccontava episodi autobiografici – ritra[e] alcune vicende della vita di Chino, uno scrittore, autore di testi consoliani (il racconto Un giorno come gli altri, camuffato dal titolo Una perquisizione, e Le pietre di Pantalica). Facendo approdare Chino al silenzio, esito definitivo di uno straziante sviluppo esistenziale e civile, Consolo porta l’istanza narrativa a implodere nelle righe interrotte dalla riproduzione della lettera che il personaggio stava stendendo per il figlio: un’implosione dell’istanza autodiegetica – del soggetto, si potrebbe dire – che coincide con l’esplosione dell’attentato mafioso di via D’Amelio.[3]

Ciò detto, tra L’olivo e l’olivastro e il romanzo estremo esiste anche qualche differenza: quel poco di documentario e quel tanto di autobiografico che, da un lato, caratterizzano L’olivo e l’olivastro come testo non finzionale, dall’altro gli conferiscono un ritmo concitato, da narrazione a progressione non lineare ma indubbiamente odeporica; tale ritmo e tali connotati vengono subito revocati in dubbio dal “proemio” e, poi, dal dispiegarsi ben poco narrativo, ma comunque finzionale, de Lo Spasimo di Palermo. Nel breve testo in corsivo, infatti, viene tematizzato un sottotesto fondamentale del romanzo: la dialettica tra tempo che scorre e tempo immobile e, di conseguenza, la consistenza della storia. Sono temi mai assenti nella precedente narrativa consoliana ma mai così chiaramente presenti come nel romanzo estremo: tanto che il terzo capoverso del “proemio” consiste in un asciutto «La storia è sempre uguale»[4].

Si aggiunga che il “proemio” è tutto giocato in dialogo con Thomas S. Eliot[5] ma, mi sembra, in una prospettiva che va oltre la puntualità delle singole citazioni e che può riverberarsi sull’intero impianto del romanzo. Nel caso specifico, alle citazioni esplicite da East Coker, il secondo dei Quattro quartettiOra la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. / In my beginning is my end»[6]), e da The love songs of J. Alfred PrufrockAllora tu, […] ed io, […] andiamo»[7]), aggiungerei, come tema di base, la riflessione sul tempo sviluppata lungo i tutti i quattro quartetti e un altro elemento importante, relativo ancora a East Coker: mentre le parole sul principio e sulla fine scandiscono, coerentemente, il principio e la fine del primo “tempo” e, meno letteralmente, un po’ tutto il terzo “tempo” di East Coker, invece nel corpo del quinto “tempo” leggiamo un gruppo di versi che ci spinge verso il grande tema de Lo Spasimo di Palermo, ovvero l’impossibilità di scrivere, l’afasia: ««E così eccomi qua, nel mezzo del cammino, dopo vent’anni / vent’anni in gran parte sciupati, gli anni dell’entre deux guerres… / A cercar d’imparare l’uso delle parole, e ogni tentativo / è un rifar tutto da capo, e una specie diversa di fallimento / perché si è imparato a servirsi bene delle parole / soltanto per quello che non si ha più da dire, o nel modo in cui / non si è più disposti a dirlo»[8].

            Fermo restando che la prospettiva di Eliot è più possibilista verso un esito positivo dell’inciampo scrittorio[9], poco dopo leggiamo altri versi che ci ricordano, suggestivamente, ulteriori elementi presenti nel romanzo consoliano: «La casa è il punto da cui si parte. Man mano che invecchiamo / il mondo diventa più strano, la trama più complicata / di morti e di vivi. Non il momento intenso / isolato, senza prima né poi, / ma tutta una vita che brucia in ogni momento / e non la vita di un uomo soltanto / ma di vecchie pietre che non si possono decifrare»[10]. Sono versi che, sebbene preludano a una serena ricomposizione negli anni della vecchiaia, che è del tutto estranea al romanzo, è impossibile non siano stati tenuti presenti da Consolo, data l’importanza che la casa, la “trama di morti e di vivi”, il nesso tra vita individuale e contesto indecifrabile assumono ne Lo Spasimo di Palermo. Eliot, insomma, si conferma il poeta moderno di riferimento[11] per Consolo e la trafila Dante-Eliot aggiorna la filigrana ulissiaca a cui lo scrittore siciliano è sempre rimasto fedele.

L’armamentario mentale di Consolo non è “barocco” soltanto in Retablo o in Lunaria: si pensi al fatto cheil romanziere delle scritte del Sorriso dell’ignoto marinaio hainserito una scritta anche ne Lo Spasimo di Palermo, ed è, non a caso, l’iscrizione incisa sull’arco dell’ingresso alla grotta dei Beati Paoli, che recita «PER ARTE E PER INGANNO»[12]. Come a suggerire che l’artificio e l’inganno si porranno sempre come ostacolo per chi vorrà provare a soddisfare la sete di giustizia del popolo siciliano: una setta di pseudo-giustizieri nella narrativa popolare di Luigi Natoli o nel cinema feuilleton di Louis Feuillade; un vero, ma quasi disarmato, giustiziere nella viva carne del giudice Paolo Borsellino.

Se le armi del raddoppiamento e del nascondimento sono per l’autore più che legittime, anche il lettore è legittimato a tentare di smascherarle. E a ripercorrere, per cominciare, il grande tema della profondità ctonia, già così spesso emergente in L’olivo e l’olivastro: abissi scavati nella dimensione mitica e archeologica della geologia isolana ma anche, specularmente, abissi della mente, rimozioni dell’inconfessabile, sconfinamenti nel dominio profondo e rimosso della follia – con abilissima capacità di fare interagire la tragedia individuale della follia con la rimozione sociale della follia stessa (manicomi, conventi, case di cura o consimili strutture forse di cura, certamente di coercizione[13]) fino ad attingere una dimensione ontologica della follia, secondo un’ipotesi non troppo azzardata di Claude Ambroise[14].

Le tante immagini di “catoi”, grotte, rifugi, fenditure del terreno, fino all’immagine (e al nome) cruciale del “marabutto”, non escludono la presenza di profondità equoree, sia pure degradate ad «acqua catramosa»: «Fluttuava sul fondo dell’acqua catramosa il nome della remota visione, dell’oblunga sagoma implacabile. Si domandava da quale muffito sotterraneo, da quali strati dimentichi del tempo poteva esser sorto, nel tempo dell’infanzia, quell’arcaico incunabolo»[15]. Un brano breve, ma che presenta elementi essenziali del romanzo: la rimozione inconscia (gli «strati dimentichi del tempo»), il nesso tra l’immagine che emerge dai ricordi infantili (il giustiziere Judex) e la capacità che ha il cinema di condensare tali immagini di “remote visioni”, l’idea del tempo passato che nel concreto è disutile al presente (il «muffito sotterraneo») se non come operazione conoscitiva, frutto di un indispensabile “domandarsi”. E, d’altra parte, l’elemento equoreo non può non rimandare alla dimensione del materno: se Lo Spasimo di Palermo è innanzitutto un romanzo sul rapporto padri-figli, il tema della maternità precocemente mancante (per Chino e per Lucia) o non appagante (per Mauro) è sì secondario ma comunque importante.

La «sagoma implacabile» è dunque quella di Judex. Non certo una figura celeberrima dell’immaginario cinematografico ma recuperata in questa sede non soltanto per la sua valenza simbolica di giustiziere vendicatore ma perché legata a un preciso ricordo personale d’infanzia, che è anche dell’autore ma che per il personaggio protagonista (e per la sua futura moglie Lucia) assume il valore di trauma e, come tale, è diventato oggetto di rimozione.

Judex è un celebre feuilleton cinematografico in 12 episodi, diretto fra il 1914 e il ’16 da Louis Feuillade. I padri salesiani di Sant’Agata di Militello ne possedevano una copia in pellicola, che proiettavano periodicamente al «cinemino dell’oratorio»[16]: a queste proiezioni assistette il piccolo Vincenzo (ma anche il piccolo Chino Martinez. E anche suo padre da bambino[17]! Chissà, forse anche il padre di Consolo, da bambino?) durante una sera d’estate, proprio quando un bombardamento alleato semina la morte nel paesino costiero[18]. Il ricordo del film si lega indelebilmente al trauma del ferale bombardamento e lascia nel Consolo adulto l’esigenza di rivedere quel film: esigenza soddisfatta quando lo scrittore rivide le cinque ore abbondanti di film, nell’edizione restaurata, a Parigi, presso la cineteca della Gaumont, nel febbraio 1997[19]. Ma soddisfatta anche dal personaggio Chino, nello stesso luogo e per i buoni uffici della nuora Daniela: personaggio che, per inciso, è l’unica presenza femminile positiva e solare del romanzo, che si pone come punto di mediazione tra le asperità caratteriali del padre Chino e quelle del figlio Mauro.

Mi sono dilungato su queste coincidenze tra infanzia dell’autore e infanzia del personaggio perché sono le più rilevanti in tutto il romanzo. Anzi, secondo Dominique Budor, sono «il nucleo germinativo più intimo del racconto e della sua strutturazione: il ricordo infantile che iscrive il bisogno di giustizia di tutta una vita e il dovere di raccontare tra il bombardamento […] e l’esplosione che, il 19 luglio 1992, uccise in via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta»[20].  Budor ha ragione anche quando ricorda che l’autobiografismo assume una valenza sovraindividuale, perché il libro «è un ritratto, certo pervaso di biografemi che fondano un autobiografismo lucido e doloroso, dell’esistenza civile di molti intellettuali in Sicilia e in Italia dal dopoguerra agli anni di piombo»[21].

Le reminiscenze cinematografiche sono ulteriormente suggellate dal riferimento iniziale all’albergo parigino La dixième muse (che oggi si definirebbe un albergo “a tema” cinematografico), trasparente allusione al piccolo e bizzarro Hotel du 7e Art[22], fino a pochi anni fa esistente in rue St. Paul, nel cuore del Marais, a pochi passi dalla casa parigina di Mario Fusco (1930-2015), autorevole italianista francese, docente alla Sorbonne, e traduttore nel 1980, insieme a Michel Sager, del Sorriso dell’ignoto marinaio nonché di tanti libri di Sciascia, Calvino e altri scrittori italiani. Un’allusione, quest’ultima, che non riveste particolare importanza nell’economia del romanzo ma che vale come affettuoso ammiccamento amicale (un po’ come accade per i tanti amici scrittori o artisti siciliani menzionati ne L’olivo e l’olivastro).

L’episodio del bombardamento non si chiude con la grande paura provata dal piccolo Chino e con il suo nascondersi, guarda caso, in un «catoio», ma si prolunga traumaticamente, nei giorni successivi, a causa di ulteriori bombardamenti e della visione ravvicinata di qualche cadavere. Ne deriva la decisione del padre di Chino di rifugiarsi in campagna, in contrada Rassalèmi, dove egli, vedovo, viene raggiunto dall’amante, «la siracusana», con la figlia Lucia, coetanea di Chino, che sarà il suo primo amore e poi sua sposa. A proposito di questo tenerissimo personaggio, destinato a rinchiudersi nella follia, non mi pare sia stato finora notato che Lucia e Chino Martinez potrebbero essere fratellastri[23]. Se così fosse, al sottotesto zeppo di rimandi all’epica e alla tragedia greca si aggiungerebbe il fatidico ingrediente di un parziale incesto!

Torniamo a Rassalèmi, dove il nuovo amico Filippino conduce Chino a vedere una «tana»:

Filippo gli mostrò l’entrata ad arco, schermata dalle frasche, d’una cisterna o marabutto sepolto dal terriccio. Dentro era una stanza vasta, la lama d’una luce che per lo spacco nella cuba colpiva il suolo muffo, schiariva i muschi sopra i muri, e lo strame, i nòzzoli di capre presso i canti. In una nicchia, sopra la malta liscia, era la figura d’un uomo accovacciato, un gran turbante, gli occhi a calamaro, che pizzicava le corde d’un liuto, d’una donna allato fra viticchi e uccelli che ballava.[24]

Il nome “marabutto”, dunque, indica qui una cisterna sotterranea, utilizzata forse per accumularvi acqua (lo farebbero pensare la presenza di muschi e il suolo muffito) oppure come rifugio per capre: usi recenti, e degradati, rispetto alla destinazione primitiva a tomba o mausoleo[25], testimoniata dalle decorazioni murarie. Come vedremo fra poco, il nome è polisenso ma qui contano essenzialmente i significati che il luogo, e il suo nome, assumono nella storia di Chino Martinez; nell’infanzia il marabutto, appena scoperto, diventa prima una sfida, lanciatagli da Filippino e che pare, forse, preludere al suo futuro da scrittore: «“C’è qui la trovatura” disse Filippino. “Ci vuole il motto giusto, e appaiono pignatte, cafisi di tarì. Sai uno strambotto, una rima per spegnare?”»[26]. Al che, per risolvere il problema, il piccolo Chino pensa di poter “spegnare” ricorrendo a una filastrocca imparata all’oratorio, fatta di «parole senza senso, ch’erano forse parodia, scherno d’una lingua»[27].

Trovare la parola giusta, senza ricorrere a facili e inutili schemi precostituiti, sarà il suo difficile destino di scrittore: Chino cercherà di essere scrittore nel segno dell’impegno civile, non in quello del facile guadagno, della letteratura di consumo, di una mercantile “trovatura”; eppure egli si sentirà sempre minacciato dallo spettro del “disimpegno”, che Consolo preferisce chiamare “astrazione”, soprattutto dopo l’arresto e la fuga di Mauro. E poiché Consolo per ogni problema di difficile soluzione propone un emblema, ecco che l’emblema prescelto coincide con la scrittura di Jorge Luis Borges: «Rapida si presentò, unita come sempre al suo rimorso, emblema fisso d’ogni astrazione, latitanza, la sagoma bianca del fantastico bibliotecario, del cieco poeta bonaerense ch’era andato quella volta ad ascoltare nell’affollato anfiteatro»[28]. Questo pensiero è dettato a Chino da una frase ironica pronunciata da Mauro: nel complicatissimo rapporto padre-figlio parole come “rimorso” e “latitanza” hanno, dunque, una pregnanza molto precisa.

Torniamo al marabutto, che nell’infanzia di Chino diventa un ricovero, utilizzato per sfuggire alla collera paterna: «corse al marabutto, al rifugio incognito, segreto, ov’era deciso a rimanere sempre, solo, fuori da tutti, il mondo, sempre fino alla morte, avrebbe visto il padre, sì, avuto così scorno, rimorso infine, pentimento». Rassicurato dal progetto autoreclusivo, il bambino si fa incantare dalle pitture murali, e soprattutto dalla figura muliebre che evoca l’universo femminile a lui familiare, con le sue note rassicuranti, seducenti o tragiche: «la giovane maestra che leggeva a scuola il suo componimento, Urelia col suo caldo e l’ansia acuta d’aglio, la siracusana bella e pregna di confetto, Lucia dorata e crespa, e la madre bianca più del letto, smunta, straziata, che lenta se n’andava»[29].

Il marabutto è anche un segreto da condividere non tanto con Filippino, che lo considerava appena appena una tana, ma con Lucia, capace di goderne la bellezza favolosa: «La condusse anche al marabutto, dov’erano gli incanti, spirti nani monachelli pinture saracine». Ma questa spedizione innocente, che avrebbe dovuto implicare un puro godimento estetico, dà luogo, invece, a un trauma che funziona, in forma degradata, da “scena primaria”: Chino sente gemiti erotici che provengono dal marabutto, riconosce le voci del padre e della siracusana che fanno l’amore e a stento impedisce a Lucia di rendersi conto della situazione, dicendole, con prontezza, di scappare perché «ci son dentro diavoli raggiati»[30]. Sorge in lui, ma in assenza di un triangolo edipico normale, un sentimento misto di rivalsa, impotenza, invidia e odio nei confronti del padre che lo condurrà, forse, a denunciarlo ai tedeschi. Ciò avverrà perché, nel frattempo, il marabutto diventa rifugio dai bombardamenti per la famiglia Martinez e il loro vicinato e poi rifugio per un tedesco disertore che il padre di Chino decide di aiutare, portandosi dietro anche la siracusana. Ma ai soldati tedeschi che cercano il commilitone qualcuno rivela, a fior di labbra, che il nascondiglio è il marabutto: «Quel maledetto nome ch’egli non seppe mai, mai volle sapere s’era affiorato sul labbro suo per l’odio verso il padre, su quello d’Aurelia per il terrore o pure dall’innocenza di Lucia»[31]. Ne consegue la morte del padre e della siracusana: fonte di rimorso perenne per Chino e, per Lucia, anche radice del futuro impazzimento, perché, diversamente da Chino che è fuggito («Lui no, non aveva visto, era fuggito, una fuga era stata la sua vita»[32]), la bambina ha visto i cadaveri della madre e del padre di Chino (probabilmente padre anche di lei). La denuncia del rifugio nel marabutto è un lapsus: di conseguenza, la morte dei genitori è tabuizzata e il nome “marabutto”, per il lettore, diventa una parola passepartout che ricorre in maniera cangiante lungo tutto il romanzo perché si è caricata di significati rimossi. Chino non ricorda, non sa: anzi, non vuole sapere. Lo ripeterà, per accenni, altre volte, e lo scriverà, onestamente, nella lettera-confessione finale destinata al figlio Mauro e interrotta dall’attentato finale al giudice:

Non sono mai riuscito a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch’io credevo d’odiare in quel momento mio padre, per la sua autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli che cominciano a sentire nel padre l’avversario. Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna s’è rimarginata grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello scienziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s’è rimarginata, ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con l’assenza della madre e con la presenza odiosa di quello che formalmente era il padre.[33]

Il tabù si lega strettamente al luogo, al marabutto – che, dopo essere stato tragica pietra d’inciampo nel rapporto tra Chino e suo padre, è proprio la parola su cui s’interrompe la lettera di Chino al figlio; e dunque si lega al nome, rendendo legittimo interrogarsi su «i sensi vari del nome marabutto»[34]: luogo-incubo, luogo sacro, prete della moschea o maestro del Corano, eremita santo o sacro pazzo. È noto che i motivi dell’eremita e del frate folle costituiscono una filiera intratestuale dell’opera consoliana, dal frate Nunzio di Il sorriso dell’ignoto marinaio al frate Agrippino de Le pietre di Pantalica – entrambi consegnati alla follia penitenziale – fino all’eremita frate Ugo di L’olivo e l’olivastro, il quale, saggio e sereno, «non sembrava tormentato da visioni, fantasie»[35].

Il 19 agosto 1993 Consolo fu accompagnato a visitare il belga frate Ugo Van Doorne dall’amico poeta e antropologo Sebastiano Burgaretta, il quale ha rievocato un incontro durato «per più di quarantacinque minuti», durante il quale Consolo ascoltò il frate «con molta attenzione, e fu la sola volta che, in tante escursioni e visite qua e là per la Sicilia fatte con lui, lo vidi prendere qualche appunto su un pezzetto di carta»[36]. L’io narrante di L’olivo e l’olivastro, dopo aver passato in rassegna l’iconografia classica del santo eremita, s’interroga esplicitamente sulla «disumana ritrazione» o «crudele frattura» dell’eremitaggio e si chiede come ha fatto l’eremita belga, in mezzo a una natura inospitale, a «rimanere integro, sereno, a non scivolare nel degrado, piombare nel precipizio delle allucinazioni, nella voragine della paranoia»[37]. Dell’incontro è come se gli rimanesse soprattutto l’eco di un parlare:

Parlava e parlava ed erano le sue parole d’un linguaggio chiuso, rarefatto, iterativo, circolare come un rosario, privo di consequenzialità, di svolgimento, privo di varchi, aperture verso il reale, il contingente. Un cielo, una sfera di spaesamento, di disagio, in cui, se privo di fede, non ti soccorre, trasporta, come in Dante, il canto, la miracolosa poesia. Ce n’è altri di questi anacoreti, di questi anacronistici, assurdi angeli? Che segno hanno in questa fine di millennio, quale messaggio, quale profezia proclamano?[38]

L’incontro deve aver turbato molto Consolo: ha confrontato frate Ugo, eremita vero, con gli eremiti dei suoi libri e ha escluso la follia, ma non l’ecolalia. Frate Ugo non è afasico ma la sua parola non comunica; è un angelo ma è anacronistico e assurdo. La sua profezia è incomprensibile e la fede che lo illumina gli consente di incontrare altri esseri umani, ma la comunicazione è ardua, problematica. E tuttavia il colloquio (o il monologo?) dura quarantacinque minuti.

Nel romanzo verso il quale L’olivo e l’olivastro si proietta, ossia ne Lo Spasimo di Palermo, Chino Martinez, dopo la morte della moglie e l’esilio del figlio, opta per una sorta di romitaggio laico: il ritorno a Palermo, nel brutto appartamento condominiale che è soltanto un pallido travestimento della splendida villa con giardino dello zio. Ma la stessa idea di farsi romito dentro la caoticissima città è una follia illusiva: limitarsi a frequentare i vecchi e fedeli custodi della casa o rifugiarsi nella solitudine della biblioteca comunale di Casa Professa non può bastare perché la realtà tentacolare della mafia s’insinua nelle pieghe della vita quotidiana anche della persona più schiva e solitaria – si noti che l’afasia da scrittore di Chino è anche afasia, o riduzione al minimo indispensabile, nei contatti verbali con le persone che egli incontra, con l’unica eccezione del fioraio mastr’Erasmo. Per non parlare, poi, del valore difensivo che il silenzio (l’afasia) riveste nei colloqui col figlio Mauro, quando gli argomenti si fanno scabrosi e lo scontro imminente: «Il silenzio come sempre li difese, la divagazione scansò ogni sguardo, ogni parola»[39].

Allora, per quanto difficile sia la comunicazione con frate Ugo, è forse a lui, all’importanza dell’incontro con lui che Consolo pensa quando, nella pagina proemiale del romanzo,pronuncia l’auspicio «T’assista l’eremita»[40]. Ma, come abbiamo visto, è un auspicio che nell’economia del romanzo va messo dialetticamente in relazione con l’effetto dirompente dell’ancipite “marabutto”, il luogo/nome dell’eremita, che finirà per rivestire un significato luttuoso per Chino, di follia per Lucia. E ciò spiega perché, poco prima dell’esplosione letale che conclude il romanzo, sia proprio il fioraio a pronunciare

Uno di quei suoi motti, oscuro questa volta, inquietante.

Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi

chi ti mancianu lu pani.

Ddiu ti scanza di marabutta.[41]

Alla luce di questa cangiante funzione semantica, potremmo infine chiederci se il marabutto non sia anche un borghesiano aleph[42] – «Nell’Isola sono convenuti tanti raggi luminosi della storia, che qui, emessi straordinari bagliori, si sono spenti. Ed è certo che a Palermo, in qualche segreto, buio sotterraneo del Palazzo dei Normanni, della Zisa, dello Steri, nelle cantine di qualche fastoso palazzo barocco poteva nascondersi il prodigioso Aleph: il luogo che contiene tutti i luoghi, la storia che contiene tutte le storie» –, l’illuminazione su una verità sconcertante, appresa da «un libro raro, da sempre sognato, sul quale aveva oltremodo fantasticato, TOPOGRAPHIA E HISTORIA GENERAL DE ARGEL»[43].

D’altra parte, lo sappiamo bene dal proemio, Chino Martinez è un’ennesima nuova versione del multiforme mito di Ulisse: è un Ulisse che arriva, sì, a Itaca ma trova la reggia vuota, priva di Penelope perché la moglie di Chino, Lucia, è impazzita e morta, dunque egli non sa a chi svelare «il segreto che sta nelle radici» e, preda di questa tragedia, ha bisogno della calma per «ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza»[44]. Il nome, il punto: l’aleph, insomma.

Ma anche questa è una conclusione provvisoria: l’indagine ermeneutica su un romanzo misterioso come Lo Spasimo di Palermo – un romanzo il cui intreccio sottopone il lettore alla necessità di ritornare sempre sulle conclusioni a cui gradualmente è arrivato, per rimetterle sempre in discussione – deve procedere necessariamente per approssimazioni successive.

E vale qui la pena di chiedersi se il motivo dell’eremita, declinato nel romanzo estremo in modalità molto diverse rispetto al passato, non si leghi, nel segno dell’isolamento, alla solitudine del giudice, del personaggio anonimo del romanzo e all’atroce, vera solitudine sperimentata da Paolo Borsellino fra il 23 maggio e il 19 luglio 1992[45].

Ma sorge, anche, un’altra domanda: perché Consolo ricostruisce, nella conclusione del romanzo, la morte di Borsellino e non quella di Falcone? O, meglio, perché Consolo assegna a Borsellino, e non a Falcone, la funzione simbolica del vendicatore, impersonata fantasmaticamente da Judex? Domande non superflue, credo, perché, nell’immaginario collettivo degli anni Ottanta e Novanta il giudice Falcone aveva una “presenza” simbolica e un carisma[46] certamente superiori a quelli di Borsellino. E allora, perché non lui ma Borsellino?

Mi sono dato tre risposte, di ordine assai diverso: la prima, che colloco sul piano della realtà, è che, se già la strage di Capaci era stata vissuta dall’opinione pubblica come un’enormità, l’omicidio di Borsellino, così immediatamente successivo, fu vissuto con orrore ancor maggiore, come l’emblema di una misura ormai colma, rispetto alla quale una reazione era necessaria (era necessario, per dirla con le ultime parole del romanzo, che la mano di Dio si facesse «palisi»[47]); la seconda risposta è che sarebbe apparsa un’insostenibile casualità il fatto che Chino Martinez sfrecciasse sull’autostrada contemporaneamente alla macchina di Falcone (però questa risposta funziona sul piano della coerenza narrativa e della verosimiglianza romanzesca, a dimostrazione del fatto che, anche in un’opera-limite come Lo Spasimo di Palermo, Consolo doveva pur fare i conti con le regole e le tradizioni del romanzo, che invece non mancava mai di definire come un genere ormai defunto); la terza risposta non si colloca su un piano ma s’inabissa nel marabutto dell’inconscio e riguarda il fatto che, mentre Falcone muore insieme alla moglie, Borsellino invece muore davanti agli occhi della madre. Della quale Chino aveva in precedenza immaginato la pena, l’ansia e, nella sua immaginazione, aveva pensato a come anche Lucia, se fosse sopravvissuta alla follia, avrebbe atteso con ansia e con pena il ritorno di Mauro. L’ansia e la pena, se si vuole, di Penelope. E già che siamo a questa trafila metaforica femminile, è bene ricordare il bellissimo inizio del X capitolo, quando Chino stenta a ricordare i tratti del volto di Lucia, che pare poi trascolorare in Euridice («il volgere le spalle, l’andarsene man mano, lontana nel sacro regno, oscuro»[48]), come è stato suggerito da Ada Bellanova[49], ma anche, poco dopo, nella potentissima immagine, ancora omerica, dell’impossibile abbraccio di Ulisse all’ombra della madre: «La piena assenza. Lui mùtilo, smarrito, perso nell’inconsistenza, nel protendere le braccia, stringere a sé un’ombra»[50].

La madre, dunque, arcana immagine – omerica e perenne – collegata alla morte. E qui il cerchio, forse, si chiude se pensiamo che nel racconto Le macerie di Palermo Consolo riferisce di aver visitato la farmacia Borsellino, proprietà del padre di «quel Borsellino che io, bambino di dieci anni, forse avevo visto, in quel lontano 1943, sgambettare in braccio alla madre, là nella farmacia di via Vetriera nel quartiere della Kalsa»[51]. Come dire, la prefigurazione del sacrificio mafioso del phàrmakos Borsellino incastonata in un fotogramma memoriale collocato, non a caso, dentro la farmacia di uno dei quartieri più poveri e massacrati di Palermo. Un phàrmakos bambino fissatosi, nella memoria di un altro bambino siciliano, come in braccio a quella madre da cui si recherà in visita al momento dell’esplosione, in via D’Amelio, quarantanove anni dopo. La farmacia di via Vetriera, peraltro, ritorna nel decimo capitolo de Lo Spasimo di Palermo e, anche se il cognome Borsellino non appare mai, le figure della farmacista sorella del giudice e dello stesso giudice, nonché della madre che ne aspetta le visite dal balcone della casa in una via D’Amelio pallidamente travestita da via D’Astorga, sono luoghi e personaggi di romanzo perfettamente coincidenti con luoghi e personaggi della realtà storica. Forse Consolo vuole suggerirci che anche la vita di Paolo Borsellino[52] si è svolta tra un aleph (la farmacia di famiglia) e un tragico marabutto (l’isolamento, la via D’Amelio) dal quale qualcuno l’avrebbe dovuto proteggere («Ddiu ti scanza di marabutta»).


[1] Questo testo è la rielaborazione abbreviata di un capitolo del mio libro «Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia), Milano-Udine, Mimesis 2023, pubblicato nella collana “Punti di vista”, diretta da Gianni Turchetta, che qui ringrazio calorosamente per averne autorizzato la riproduzione scorciata; così come ringrazio Claudio Masetta Milone per la cortesia con cui ospita questo testo nel sito Internet da lui impareggiabilmente curato.

[2] Cfr. Gianni Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015; Dominique Budor, Nell’officina di Vincenzo Consolo: il “dossier” di Lo Spasimo di Palermo, in «Autografo», XXVI, 59, 2018.

[3] Michele Carini, «E questa storia che m’intestardo a scrivere». Sull’istanza narrativa nell’opera di Vincenzo Consolo, in «Recherches», 21, 2018, cit., p. 167.

[4] Lo Spasimo di Palermo, in L’opera completa, cit., p. 877.

[5] Cfr. Gianni Turchetta, Note e notizie sui testi, cit., p. 1437.

[6] Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 877.

[7] Ibidem. La citazione, qui tradotta e interpolata, verrà ripresa nel testo originale alla fine del capitolo V: «Let us go then, you and I…» (ivi, p. 924).

[8] T. S. Eliot, Quattro quartetti, East Coker, V, vv. 1-7, trad. it. di Filippo Donini, in T. S. Eliot, Opere 1939-1962, a cura di R. Sanesi, Bompiani, Milano, 2003, p. 361, secondo corsivo mio.

[9] «[…] c’è solo la lotta per ricuperare ciò che si è perduto / e trovato e riperduto senza fine: e adesso le circostanze / non sembrano favorevoli. Ma forse non c’è da guadagnare né da perdere. / Per noi non c’è che tentare. Il resto non ci riguarda» (vv. 15-18, ibidem).

[10] Vv. 19-25, ivi, p. 363.

[11] Sebbene non manchino nel romanzo riferimenti espliciti ad altri importanti poeti stranieri, soprattutto a Mallarmé e Rimbaud.

[12] Lo Spasimo di Palermo, ivi, p. 910.

[13] Non è casuale il riferimento a Foucault e a Basaglia ne Lo Spasimo di Palermo, p. 958. Il “dialogo” di Consolo con le opere di Foucault potrebbe essere oggetto di specifici approfondimenti; si pensi al brano in cui Chino Martinez evoca l’antico lazzaretto di Milano: «pensò alla metafora perenne di quell’opera, al marasma secentesco e ricorrente, all’ignoranza e alla violenza del potere, alla pazzia che cova e si propaga, ai contagi, alle pesti in ogni tempo di Milano, alla sinistra campanella dei monatti, alle carrette, alle forche ai carrobbi, alla bestemmia della colonna infame» (ivi, pp. 917-918).

[14] «Dans Lo spasimo di Palermo, la démence n’est pas que le destin d’un personnage, c’est bien une dimension de l’existence, une donnée ontologique» (Claude Ambroise, « Lo spasimo di Palermo », colloque Littérature et “temps des révoltes” (Italie, 1967-1980), 27, 28 et 29 novembre 2009, ENS LSH, Lyon 2009, http://colloque-temps-revoltes.ens-lsh.fr/spip.php?article158).

[15] Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 881.

[16] Dal buio, la vita, in Di qua dal faro, in L’opera completa, cit., p. 1181.

[17] Si noti l’acuta notazione anticlericale del padre di Chino circa i preti che «son bravi a conservare, specie i fantasmi, le paure del passato» (Lo Spasimo di Palermo, p. 883).

[18] Cfr. l’intervista di Elisabetta Rasy, Consolo. Soldato nero e caramella col buco, in «La Stampa», 14 luglio 1992.

[19] Cfr. Gianni Turchetta, Cronologia, in L’opera completa, cit., p. CXL.

[20] Dominique Budor, Nell’officina di Vincenzo Consolo: il “dossier” di Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 71.

[21] Ivi, p. 78.

[22] Ma nelle prime stesure del romanzo il nome dell’albergo era quello autentico: cfr. Dominique Budor, Nell’officina di Vincenzo Consolo: il “dossier” di Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 82.

[23] Cfr. Lo Spasimo di Palermo, pp. 888 e 971.

[24] Ivi, p. 885.

[25] Si vedano le due definizioni lessicografiche poste in epigrafe a questo saggio. Del marabutto come luogo sacro Consolo parla a proposito del romanzo A occhi bassi di Tahar Ben Jelloun: cfr. Di qua dal faro, cit., p. 1210.

[26] Lo Spasimo di Palermo, ivi, p. 885, corsivo mio.

[27] Ivi, p. 882.

[28] Ivi, p. 913.

[29] Ivi, p. 886.

[30] Ivi, p. 887.

[31] Ivi, p. 889.

[32] Ivi, p. 922.

[33] Ivi, pp. 970-971.

[34] Ivi, p. 955.

[35] L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa, p. 844.

[36] Sebastiano Burgaretta, Con Consolo per antiche pietre, postfazione a Rosalba Galvagno, L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Lecce, Milella, 2022, p. 277.

[37] L’olivo e l’olivastro, in L’opera completa, p. 844.

[38] Ibidem.

[39] Lo Spasimo di Palermo, ivi, p. 901.

[40] Ivi, p. 877.

[41] Ivi, p. 968.

[42] Palermo bellissima e disfatta, in Di qua dal faro, cit., p. 1213, primo corsivo mio.

[43] Lo Spasimo di Palermo, p. 954.

[44] Ivi, p. 877.

[45] Per inciso, nella lettera a Mauro, Chino Martinez scrive che «in questo luglio di fervore stagno […] [s]embra di vivere ora in una strana sospensione, in un’attesa» (ivi, p. 972): Consolo restituisce, con religiosa pietà, quel senso di tragica, ineluttabile attesa della morte che Paolo Borsellino confidava agli amici più intimi, dopo la morte di Giovanni Falcone.

[46] Anche di questo si parla nell’ottimo libro di Giovanni Bianconi L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone, Einaudi, Torino 2017.

[47] Lo Spasimo di Palermo, p. 974.

[48] Ivi, p. 958.

[49] Cfr. Ada Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 171, n. 76.

[50] Lo Spasimo di Palermo, p. 958.

[51] Le macerie di Palermo in La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Mondadori, Milano 2012, p. 190.

[52] Fra i moltissimi libri dedicati al martirio di Borsellino vorrei indicare almeno Piero Melati, Paolo Borsellino. Per amore della verità. Con le parole di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino, Sperling & Kupfer, Milano 2022.

«Nulla è sicuro, ma scrivi»: il citazionismo etico in ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo

di Agnese Macori

«Veritas»: è questo il titolo di una delle tre parti che compongono Retablo, romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico, una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della medesima vicenda. Ma retablo è anche una citazione del Retablo de las maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa l’atto unico di Cervantes.[2] Ma non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:

In Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia epica antica.[3]

Per comprendere a pieno questi riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[5]

Alla base delle citazioni di Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura ingenua e vergine.[6] Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al secondo grado».[7] In particolare, dei cinque tipi di transtestualità individuate in Palimpsestes, sono due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e l’ipertestualità. L’intertestualità viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8] Mentre il termine ipertestualità fa riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]

Le due forme di transtestualità agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo già il titolo La ferita dell’aprile si presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso incipitario di The Waste Land com’è noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]

Ma il gioco intertestuale raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto, ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e Pirandello.[11] In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di spiegare più avanti.

In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12] Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è, naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento, sul cui verso è raccontata la storia a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così, nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco di altri scritti».[13]

Questo motivo dell’«infinita derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14] Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità – ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella sua totalità, e di Retablo in particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria e Retablo come a un «dittico barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico» rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.

L’elemento illuministico è facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista, con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la pena di morte.[17] Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo, «invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e matto”».[18]

Il romanzo, sebbene il diario di Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui deriva appunto il titolo Retablo.  Dunque la prima parte, «Oratorio», è il racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti della fanciulla, «davanti a la Verità, divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella», sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La terza parte «Veritas» è lo speculare racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a partire per una tournée come cantante d’opera.

Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si integrano a vicenda.[20] Se infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da cui è osservata, e in cui anche la Veritas è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che, visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi, ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile».[21]

Ma il barocchismo del romanzo raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi, ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello della canzone leopardiana.[22] Si veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi, precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O, per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e mirando, e ascoltando»,[25] in cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]   

Fin dal vertiginoso incipit, lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.[27]

Per questo inizio tutto giocato sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo incipit di Lolita, ma, e non è niente di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da Eco nelle sue postille a Il nome della rosa.[28] Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a «un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]

È questo un passaggio su cui occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo» viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli ‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del realismo.[30] Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]

Spostando il baricentro del discorso dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale, ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico, non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa, e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.

È proprio questa riflessione della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la narrativa di Consolo; e Retablo, pur nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri, più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32] Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso, in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano essere gli argomenti accolti nel suo racconto:

Ma pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali, di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]

Nell’opposizione dell’«estatico mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di tutta la narrativa di Consolo.[34] Per quanto in Retablo prevalga effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici (Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]

È tuttavia innegabile che il nucleo tematico forte di Retablo non sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia, evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto, Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi, le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.

La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma, proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche».[39] Nel momento in cui la letteratura è di nuovo solo letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]

La medesima alterità profonda tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di Retablo, in cui don Gennaro, il protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma, proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza vissuta da spettatore:

Siamo castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre davanti.[41]

Sebbene l’arte sia altro rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura, costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che

Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]

D’altro canto Martinengo ha potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia] il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit), ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata in un confronto corpo a corpo con il reale.

In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]

SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022


[1] V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015.
[2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397).
[3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190.
[4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189.
[5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV.
[6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70.
[7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982.
[8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8.
[10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022.
[11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in  Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93.
[12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398.
[13] Ivi, pp. 421-423.
[14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82.
[15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
[16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal
punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381).
[18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116.
[19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465.
[20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63).
[21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65.
[22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21).
[23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382.          
[24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415.
[26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369.
[28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508).
[29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72.
[30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17.
[31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138.
[32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79.
[33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399.
[34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356.
[35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413).
[36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650.
[37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393).

[38] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73.
[39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX.
[40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453.
[41] Ivi, p. 473.
[42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349.

[43] M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134.
[44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V.
[45] Ibidem
[46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.

Vincenzo Consolo. La storia, il mito, l’impegno (II)