«Nulla è sicuro, ma scrivi»: il citazionismo etico in ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo

di Agnese Macori

«Veritas»: è questo il titolo di una delle tre parti che compongono Retablo, romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico, una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della medesima vicenda. Ma retablo è anche una citazione del Retablo de las maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa l’atto unico di Cervantes.[2] Ma non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:

In Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia epica antica.[3]

Per comprendere a pieno questi riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[5]

Alla base delle citazioni di Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura ingenua e vergine.[6] Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al secondo grado».[7] In particolare, dei cinque tipi di transtestualità individuate in Palimpsestes, sono due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e l’ipertestualità. L’intertestualità viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8] Mentre il termine ipertestualità fa riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]

Le due forme di transtestualità agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo già il titolo La ferita dell’aprile si presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso incipitario di The Waste Land com’è noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]

Ma il gioco intertestuale raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto, ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e Pirandello.[11] In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di spiegare più avanti.

In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12] Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è, naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento, sul cui verso è raccontata la storia a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così, nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco di altri scritti».[13]

Questo motivo dell’«infinita derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14] Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità – ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella sua totalità, e di Retablo in particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria e Retablo come a un «dittico barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico» rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.

L’elemento illuministico è facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista, con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la pena di morte.[17] Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo, «invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e matto”».[18]

Il romanzo, sebbene il diario di Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui deriva appunto il titolo Retablo.  Dunque la prima parte, «Oratorio», è il racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti della fanciulla, «davanti a la Verità, divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella», sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La terza parte «Veritas» è lo speculare racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a partire per una tournée come cantante d’opera.

Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si integrano a vicenda.[20] Se infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da cui è osservata, e in cui anche la Veritas è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che, visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi, ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile».[21]

Ma il barocchismo del romanzo raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi, ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello della canzone leopardiana.[22] Si veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi, precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O, per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e mirando, e ascoltando»,[25] in cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]   

Fin dal vertiginoso incipit, lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.[27]

Per questo inizio tutto giocato sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo incipit di Lolita, ma, e non è niente di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da Eco nelle sue postille a Il nome della rosa.[28] Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a «un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]

È questo un passaggio su cui occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo» viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli ‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del realismo.[30] Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]

Spostando il baricentro del discorso dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale, ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico, non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa, e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.

È proprio questa riflessione della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la narrativa di Consolo; e Retablo, pur nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri, più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32] Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso, in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano essere gli argomenti accolti nel suo racconto:

Ma pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali, di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]

Nell’opposizione dell’«estatico mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di tutta la narrativa di Consolo.[34] Per quanto in Retablo prevalga effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici (Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]

È tuttavia innegabile che il nucleo tematico forte di Retablo non sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia, evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto, Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi, le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.

La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma, proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche».[39] Nel momento in cui la letteratura è di nuovo solo letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]

La medesima alterità profonda tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di Retablo, in cui don Gennaro, il protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma, proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza vissuta da spettatore:

Siamo castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre davanti.[41]

Sebbene l’arte sia altro rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura, costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che

Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]

D’altro canto Martinengo ha potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia] il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit), ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata in un confronto corpo a corpo con il reale.

In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]

SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022


[1] V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015.
[2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397).
[3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190.
[4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189.
[5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV.
[6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70.
[7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982.
[8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8.
[10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022.
[11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in  Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93.
[12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398.
[13] Ivi, pp. 421-423.
[14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82.
[15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
[16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal
punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381).
[18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116.
[19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465.
[20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63).
[21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65.
[22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21).
[23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382.          
[24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415.
[26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369.
[28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508).
[29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72.
[30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17.
[31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138.
[32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79.
[33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399.
[34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356.
[35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413).
[36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650.
[37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393).

[38] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73.
[39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX.
[40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453.
[41] Ivi, p. 473.
[42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349.

[43] M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134.
[44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V.
[45] Ibidem
[46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.

La Sicilia passeggiata Vincenzo Consolo fotografie di Giuseppe Leone

Prefazione

di Gianni Turchetta

Da molti anni speravo di ripubblicare La Sicilia passeggiata. E mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, come potrete presto constatare, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone.

In La Sicilia passeggiata narrazione, poeticità e saggismo si fondono felicemente, integrandosi nell’evidenza dinamica degli spostamenti, marcata a ogni passo dai verbi di moto. Si veda l’attacco, tra avventuroso e onirico: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare” (p. 17). È una trama lieve e decisa, che quasi sospinge il lettore: “Non sostiamo. Procediamo” (ibidem), “Siamo giunti” (p. 18), “è da qui che vogliamo partire” (ibidem); o ancora: “Abbandoniamo” (p. 46), “Dalla piazza di Scicli voliamo” (p. 48), “Andiamo avanti, avanti” (p. 76), “Salpiamo da Porto Empedocle” (p. 96) e così via. In prima approssimazione, il viaggio attraverso cui Consolo ci guida va da Oriente a Occidente. Si parte dalla necropoli di Pantàlica, per poi raggiungere i Monti Iblei, il Val di Noto, Scicli, e poi Còmiso, Vittoria, Ragusa Ibla, Modica, Siracusa, e ancora Enna, i paesi dello  zolfo e quelli del latifondo, fino a immettersi “nell’antica strada che congiungeva Arigento a Catania” (p. 90), arrivare a Gela, Agrigento e la Valle dei Templi, Porto Empedocle, proseguendo per Sciacca, Caltabellotta, Selinunte, Salemi e Calatafimi, e poi Segesta, Trapani, e da qui ancora Èrice e Mozia, le Égadi, fino a Palermo, già punto d’arrivo del viaggio siciliano di Goethe. Ma il movimento fisico è solo l’asse portante di una fitta sequenza di scorribande attraverso il tempo e lo spazio, in un andirivieni senza soste, modulato da continue transizioni tematiche. L’inarrestabile fluidità del discorso è del resto dichiarata apertamente, e coincide con il desiderio di una conoscenza efficace proprio perché pronta a riconoscere un’irriducibile pluralità: “vogliamo partire”, infatti, “per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.” (p. 18)

Si viaggia, insomma, sotto il segno della molteplicità, caratteristica dell’identità della Sicilia, ma anche del Mediterraneo tutto, come Consolo ha ribadito per una vita intera. Né possiamo dimenticare quanto la pluralità (di lingue, di stili, di generi) sia il cuore della sua ricerca artistica. Il movimento che sospinge La Sicilia passeggiata è incardinato, originalmente, su una prima persona plurale: dove il “noi” è pluralis majestatis, ma piuttosto sobria allusione a una possibile piccola compagnia di viaggiatori. Proprio per questo il “noi” assume una movenza esortativa, come d’invito al lettore a viaggiare insieme all’autore: stabilendo così una sorta di intimità, di vicinanza affettiva oltre che culturale. Non dimentichiamo che questa è una “Sicilia passeggiata”, dove il riferimento alla “passeggiata” non è disimpegno, ma possibilità di conquistare un peculiare regime di leggerezza e libertà, che si fa garanzia di conoscenza, perché capace di accogliere le ragioni della storia insieme a quelle del mito e del sogno, e dunque della poesia. D’altro canto, La Sicilia passeggiata, come è tipico dell’odeporica, della letteratura di viaggio, è sì racconto, ma sempre sorretto da informazioni e spunti lato sensu saggistici: come del resto tutto quello che scrive Consolo. La scelta del titolo è tuttavia segno di differenze profonde rispetto ad altri testi ch’egli scrive in quegli anni. Proviamo a metterle a fuoco.

Quello che poi diventerà La Sicilia passeggiata esce per la prima volta col titolo Kore risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in un lussuoso volume hard cover (cm. 29×25), Sicilia teatro del mondo, pubblicato da Nuova ERI / Edizioni RAI nel settembre 1990. Di questo volume costituisce la “metà” letteraria, affiancata, oltre che dalle fotografie di Giuseppe Leone, che già dialogano con il testo consoliano, da un bel saggio di Cesare De Seta, Teatro geografico antico e moderno del Regno di Sicilia, che racconta la storia siciliana a partire dall’omonimo volume uscito a Madrid nel 1686, del cui sontuoso apparato iconografico si riproducono circa cento stampe, su cartoncino. Entrambi i testi sono tradotti in francese (da Nicole Dumoulin) e in inglese (da Richard Kamm). Pochi mesi dopo, nel febbraio 1991, il testo di Consolo e le fotografie di Giuseppe Leone diventano però un volume autonomo, stavolta in un agile formato paperback (cm. 24×14), edito ancora da ERI, con il titolo che qui riproponiamo.

Rispetto alla storia della scrittura di Consolo, La Sicilia passeggiata si colloca fra due opere diversissime, ma che sono entrambe, a loro volta, il racconto di un viaggio in Sicilia. La prima è il romanzo Retablo (1987), ambientato nel 1760-1761, in un Settecento volutamente remoto e irreale, mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica. La seconda è L’olivo e l’olivastro (1994), viaggio stavolta autobiografico, ancora più apertamente polemico contro il degrado del presente, incardinato sullo schema omerico del nòstos (evocato fin dal titolo, ch’è citazione dall’Odissea). Numerosi spunti odeporici compaiono anche in Le pietre di Pantalica (1988): a prima vista un libro di racconti, ma in realtà frutto della fusione di un originario impianto romanzesco con un pacchetto di narrazioni autobiografiche. Più esili sono invece i rapporti con il romanzo storico Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega)[1]. Proprio il confronto con gli altri due viaggi in Sicilia aiuta a delineare con nettezza, per differentiam, i contorni di La Sicilia passeggiata. Per dirla in pochi cenni, è vistosa anzitutto la distanza rispetto alla fiction di Retablo, con cui pure ci sono non pochi fascinosi elementi di contatto (come i rimandi alla visita goethiana alla grotta di Santa Rosalia, che in Retablo però compare all’inizio, mentre qui è in chiusura). Ma non meno evidente è lo scarto rispetto all’impianto poematico, stilisticamente “alto”, tragico, di L’olivo e l’olivastro, che intreccia il viaggio in Sicilia con la rievocazione delle vicende di personaggi storici rilevanti nella storia dell’isola (Empedocle, Verga, Caravaggio, Maupassant, Saverio Landolina, August von Platen, il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia, e altri ancora). La copia postillata dall’autore di La Sicilia passeggiata mostra, significativamente, ipotesi di interventi che avrebbero non solo ampliato materialmente il testo, ma anche contribuito a spostarne l’intonazione verso l’alto e i contenuti verso la deprecatio temporis, sospingendolo verso quello che sarà poi L’olivo e l’olivastro. Ma i due libri vanno in realtà in direzioni molto diverse, quasi opposte. Se L’olivo e l’olivastro è infatti tutto teso a sottolineare “i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, come dichiarato in un’intervista, La Sicilia passeggiata intende invece valorizzare la ricchezza storica, artistica e naturale dell’Isola, per coglierne l’irriducibile complessità. Come osserva opportunamente Ada Bellanova, “l’attenzione per gli esseri umani e gli intrecci di identità diverse diventa in La Sicilia passeggiata il nodo centrale dello sforzo di dire”[2]. Senza contare l’importanza del rapporto, assai stretto e in qualche misura fondativo, fra il percorso e l’apparato fotografico che lo accompagna, collocandolo in una piccola tradizione di libri dove il testo di Consolo sta accanto a foto dedicate a “luoghi geografici, specialmente siciliani”[3].

Certo anche La Sicilia passeggiata conferma, con la densità dei suoi riferimenti alla classicità greco-latina, l’appartenenza a una stagione di riavvicinamento all’antico, che si fa misura del degrado e della corruzione del presente. Ricordiamo anche la tragedia Catarsi (1989), dedicata alla morte di Empedocle. Consolo si mostra ben consapevole delle differenze tematiche e tonali proprio nel momento in cui, invece che integrare e ampliare La Sicilia passeggiata, decide di scrivere un altro libro, molto più cupo, “alto” e polemico, come L’olivo e l’olivastro. La Sicilia passeggiata va letta, anzitutto, nella chiave della complessità e dell’ambivalenza, che Consolo ritrovava già in Goethe: “Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco” (p. 18). Dove la contraddizione originaria è anzitutto quella più assoluta e irriducibile: il contrasto fra Vita e Morte, evocato già dal primo titolo, Kore risorgente, che allude alla storia di Persefone, sposa di Ade e regina dell’Oltretomba, che ogni sei mesi torna all’aperto dalla madre Demetra e fa rifiorire la Terra. Non a caso, del resto, questo viaggio siciliano comincia dalla necropoli protostorica di Pantàlica: “vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto […]. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita” (p. 20). In una direzione analoga vanno molte altre storie evocate: come quella del catastrofico terremoto in Val di Noto del 1693, da cui poi nacquero alcune delle più straordinarie realizzazioni artistiche del barocco siciliano. Ma persino lo spaventoso groviglio di contraddizioni che è Palermo la Rossa, su cui si chiude il libro, riconferma una dinamica analoga. Santa Rosalia, infatti, la “Santa estatica” patrona di Palermo, coincide con “tutte la Sante vergini di Sicilia, Agata Lucia Venera Ninfa, ed è insieme Kore e Persefone”, e si colloca dunque di nuovo sotto il segno della vita che rinasce, di Demetra che torna alla superficie e alla luce: “Come fa l’ape nella primavera, come fa la primavera della storia” (p. 138). Con questa certezza anche noi, dopo tanto buio, ricominciamo il nostro viaggio.

RINGRAZIAMENTI. Un grazie specialmente sentito va a Giuseppe Leone, che per la presente edizione ha rivisto e arricchito lo splendido apparato fotografico: così questo libro è un ritorno, ma anche un libro nuovo. Grazie, di cuore, a Claudio Masetta Milone, che mi ha rivelato le postille di Consolo al volume, e a Francesca Adamo, che ha creduto in questo libro e ne ha curato con competenza impaginazione e redazione.


[1] Per una ricostruzione dettagliata della storia delle opere a cavallo fra fine anni Ottanta a primi anni Novanta mi permetto di rimandare a G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta, e con uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, pp. 1351-1425.

[2] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 28.

[3] Ivi, p. 25n.

Purché ci resti Itaca: nelle radici una speranza per domani. La voce di Consolo

Ada Bellanova

Purché ci resti Itaca:

nelle radici una speranza per dopodomani.

La voce di Consolo.

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia.

            Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].

            Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2]. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile[3]. Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. 

            Ifigenia a sua volta, la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico.

           Il mito e la letteratura, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi.

            Ne sa qualcosa Vincenzo Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4], non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in causa i simboli della tragedia euripidea[5], tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6], che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità[7]. La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.

2. Proteggere le radici.

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati […]

       P.P. Pasolini[8]

            Eppure, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.

            La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi.

           Trovo illuminante la sua riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado, i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità.

            Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi.

            La sua opera invita dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.

            Il passato – come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.

            Mi piace pensare che nei versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante[9].

            Solo se ripartiamo da questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche speranza, se non per domani, almeno per dopodomani. 


[1]A. Montandon, Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.

[2]Odissea XIII 200-202.

[3]V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371.

[4]V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869.

[5]V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.

[6]Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.

[7]«Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili. Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento: dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante, che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp. 20-22).

[8]P.P. Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)

Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo, Marinai ignoti, perduti (e nascosti).ean-Claude Izzo e Waciny Larej

NORA MOLL

Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo,
Marinai ignoti, perduti (e nascosti).ean-Claude Izzo e Waciny Larej
Sapienza Università di Roma
Hommes perdus d’autres ports, qui portez avec vous la conscience du monde Louis Brauquier O Mediterraneo, doce, sem mistérico, classico, ummar par bater De incontro a esplanadas olhadas de jardins próximos
por estátuas brancas! Alvaro de Campos/Fernando Pessoa 1

Narrare il Mediterraneo, e rappresentarlo in forma saggistica, significa da sempre intrecciare una pluralità di voci e mettere in armonia sonorità provenienti da aree culturali diverse, da civiltà che si sono mescolate nel corso dei secoli sviluppando un’immagine di sé aperta, ibrida, fluida. La frontiera liquida del mare racchiuso da tre continenti, l’Europa, l’Africa e l’Asia, è uno spazio-dimezzo che allo stesso tempo unisce, mette in comunicazione, armonizza i contrasti, e divide, diventa barriera invalicabile, cimitero di speranze e di vite umane. Se a partire dalla prospettiva della longue durée in riferimento all’area mediterranea prevale l’idea di un dinamismo culturale portatore di innovazione e di originalità, di una traduzione tra le culture senza la quale la stessa civiltà europea sarebbe privata delle sue fondamenta, uno sguardo rapido sulla realtà attuale di questo grande lago fa venire lo sconforto: tra l’inquinamento e la tratta di migranti sans papiers, tra il deturpamento delle coste e il decadimento delle antiche città portuali, dal Mediterraneo provengono ora molte dissonanze,con punte acute di disperazione spesso soffocate nel mare, forse più grande,della comunicazione di massa. Che è per lo più impegnata ad abbozzare maldestramente e furbescamente, a sua volta, una narrazione del Mediterraneo all’ insegna del grande e ben sfruttabile tema dello “scontro tra le civiltà”.Fortunatamente, nella parola letteraria si scoprono ancora oggi innumerevoli aspetti che disegnano un Mediterraneo diverso e ben più complesso da quello veicolato dalla cultura di massa. In molti autori del XX e del XXI secolo provenienti da quella “rete interletteraria” tricontinentale 2, il discorso su questa grande regione terracquea viene condotto su due binari: coniugando la dimensione storica con la rappresentazione narrativa del presente, essi volgono lo sguardo sul mare che cancella ogni traccia del passato e al contempo traducono il peso del territorio retrostante, sul quale sono inscritte, pietrificate, le manifestazioni di secoli e millenni di storia. Dall’apocalisse culturale di Stefano D’Arrigo alla desolazione estraniante ma fascinosa di Albert Camus e alla sensualità carnale di Jean Giono, per fare solo alcuni esempi, i risultati di quelle che sono delle vere e proprie poetiche mediterranee sono diversi e sfaccettati; sempre complessi e non facilmente riassumibili in un discorso logico, cartesiano e binario, dialettico magari ma unidirezionale. Del resto, come insegna Édouard Glissant, dalla sua prospettiva caraibica, le poetiche fondate sulla diversità sono portatrici di imprevedibilità,inerente al processo di creolizzazione, di mescolanze che procedono liberamente per vie mai percorse prima, che ci costringono ad abbandonare tali schemi logici, favorendo piuttosto un pensiero polifonico, contrappuntistico 3. Confrontandosi con questo mare interno, fenici, greci, siriani, egizi, romani,arabi e molte altre civiltà e tanti popoli ancora, hanno sviluppato la capacità di efinire sé stessi, nel confronto con gli altri, nello scambio di conquiste materiali e scientifiche, di merci e di beni, nel disegno di cartine nautiche come rappresentazioni del proprio mondo, e della propria cosmovisión 4. Tali espressioni materiali della cultura mediterranea non sono, tuttavia, mai state disgiunte dallo sforzo di narrare la propria comunità, abbracciando a partire dal contesto ristretto della singola Heimat quello più grande della regione d’appartenenza. Nella più importante e fertile di tali foundational fictions, l’Odissea, vi è infatti lo sforzo, collettivo ed epico, di trasformare lo spazio concreto attraversato dal suo protagonista in uno immaginario, mitico, uno sforzo che è allo stesso tempo mitopoietico e mitologico 5. In altre parole, il secondo poema omerico (ma lo stesso vale anche per il primo, l’Iliade) è allo stesso tempo un motore creatore di miti e di figure mitiche (la maga Circe, Calipso, lo stesso Odisseo, Polifemo e molti altri ancora), e un grande contenitore di miti, religiosi ed eziologici, già esistenti, una sorta di archivio che permette di salvare un patrimonio mitologico e di consegnarlo alle future generazioni 6. Una creazione mitica, poetica e narrativa di uno spazio, reale e immaginario, che ha conosciuto una immensa fortuna di rielaborazioni e di riscritture dentro e fuori dal suo contesto di provenienza,parallelamente alla persistenza dell’epos odissaico nella cultura orale mediterranea: infatti, sappiamo che ancora oggi circolano narrazioni epiche popolari che hanno come protagonista degli Odissei, pur portando nomi diversi 7.Se nell’Iliade Odisseo era figura di guerriero (pur umanamente ontrovoglia,dapprincipio troppo attaccato alla sua famiglia e ai suoi beni per accettare la ottomissione ad una superiore “ragion di Stato” o ad una astratta volontà divina),ma anche di sapiente artefice (vedi il suo ruolo di artifex del piano per la conquista di Troia), nell’Odissea egli si trasforma in viaggiatore, in marinaio (pur mantenendo come dote essenziale la “phronesis”): diventa Capitano Ulisse, dirla con Alberto Savinio 8, che non solo ha il desiderio di ritornare alla sua Itaca, ma anche la responsabilità di riportare a casa i suoi compagni. Odisseo,così come ci è stato tramandato nel secondo poema omerico, è anzi l’archetipo della figura del marinaio – se per marinaio intendiamo “l’uomo di mare” (ted.Seemann) senza distinzione di sorta tra gradi e gerarchie – una figura che tanto successo ha conosciuto nella letteratura europea e mondiale, dove tale archetipo è però affiancato da quello orientale di Sindbad 9. Da Coleridge a Conrad, da Melville a Coloane, da Baudelaire a London, i marinai sono figure di uomini che appartengono al mare, che definiscono la propria identità a partire da e attraverso di esso. Uomini che vivono ai margini del consorzio umano, e che proprio in virtù di tale liminarità sociale mettono in comunicazione comunità differenti dal punto di vista etnico e geografico-spaziale. Il marinaio, per via della sua precarietà sociale, è inoltre in contatto con i veri e propri emarginati, come la delinquenza portuale e le prostitute. La sua proverbiale infedeltà, già odissaica, è contrapposta alla tensione psicologica verso un punto fermo, una famiglia, una Penelope che lo attende; una oscillazione che è fonte di inquietudine, infelicità, di conflitti. Il suo essere sempre in viaggio, o tra un viaggio e l’altro, la sua erranza marina-terrestre, ne fa del resto il prototipo dell’ansia profondamente umana verso la conoscenza: una conoscenza del mondo di cui egli è portatore e narratore 10 e una conoscenza della complessa varietà umana che passa attraverso l’esperienza del mare, della sua bellezza e dei suoi pericoli. Come ricorda Eric Leed nel suo magistrale studio sulla letteratura del viaggio, il concetto di esperienza e quello di erranza sono profondamente connessi, se solo prestiamo attenzione all’etimologia del termine tedesco Erfahrung (esperienza autentica, diretta, tratta dal vissuto), derivato dall’antico tedesco irfaran (viaggiare, errare)11. Una parola alla quale si ricollega però etimologicamente anche la forma verbale tedesca (sich) irren (sbagliare), così come del resto vi è una assonanza significativa e parentela derivativa tra l’italiano errore ed errare/erranza, il che ci ricorda che l’esperienza è anche sempre (considerata oltre che di fatto) foriera di errori; e nel caso del marinaio la sovrabbondanza di esperienza porta quasi inevitabilmente verso le zone oscure della illegalità, della immoralità, della malattia, e infine anche della morte (affrontata con ogni nuova partenza, se è vero che nell’ immaginario popolare partire equivale a morire). Pur constatando la grande fertilità letteraria del modello umano del marinaio – che in ambito mediterraneo ricollega in una circolarità ermeneutica la letteratura,e la cultura, contemporanea con quella antica – non lo si può e si deve definire tout court come un tema letterario 12. Piuttosto, esistono diversi complessi tematici che si irradiano a partire da tale figura e prototipo umano, senza escludere però che, in rari casi, essa diventi il modus principale con cui tali complessi tematici si manifestano: e solo in quel caso si può parlare a ragione del “tema del marinaio”. Tra i complessi tematici, a cui in parte ho già accennato, si annoverano l’avventura, il viaggio, l’eros, l’adulterio, il ritorno, il superamento di limiti (interiori) e di sfide (esterne), la libertà, la vita come “navigatio”e come intrigo conflittuale di esperienze. Come è stato giustamente ribadito da Mario Domenichelli, lo stesso Odisseo (omerico e ultraomerico) non è propriamente un tema, bensì un personaggio letterario nel quale si accentra una serie di temi, parzialmente coincidenti con quelli appena menzionati, laddove la nozione di tema, secondo lo studioso, richiederebbe sempre un grado maggiore di astrazione 13. Sottolineando altresì l’aspetto “dinamico” del tema, Domenichelli si oppone, infatti, sia a definizioni come quella di Cesare Segre, che lo limitano all’idea di «unità di significato stereotipe ricorrenti in un testo o gruppo di testi», sia alla tentazione, a tutt’oggi alquanto diffusa, di assegnare il tema esclusivamente alla dimensione del contenuto, separandolo dagli aspetti formali e ntroducendo implicitamente un giudizio di valore negativo sull’opportunità di studiare il “materiale di riempimento”, o Stoff, di un testo, sia sul piano sincronico che su quello diacronico 14. Il suo dinamismo caleidoscopico ne farebbe invece una “forma formante” che estetizza l’esperienza del mondo, un «interfaccia tra esperienza ed esperienza estetica, tra vita e letteratura»15. All’importanza,paragonata da Domenichelli a quella ricoperta dal tema o dal Leitmotiv musicali, che esso assume all’interno del singolo testo letterario, si aggiunge inoltre come importante plus-valore, sul quale si concentrano gli studi comparatistici,il suo ruolo esercitato a livello diacronico e intertestuale, sottolineando che «temi, topoi, articolazioni di motivo sono marche di identità e di appartenenza dell’opera, che concorrono a formare la tradizione e l’identità della tribù»16. Il tema letterario, insomma, non sarebbe altro che una “forma dell’esperienza”dall’importanza strutturale e strutturante per il singolo testo – e, ggiungerei, fondamentale per la comprensione dell’opera complessiva e della poetica di un autore – ma anche una via maestra per accedere alla comprensione delle costanti culturali e delle specificità identitarie di una collettività o di una civiltà (quella europea, nel caso analizzato da Domenichelli). La tematologia, potremmo quindi riassumere, nella sua rivisitazione critica e nella strenua difesa dei suoi assunti teorico-metodologici, si profila quindi come una possibile modulazione sia dell’imagologia letteraria che della geocritica – annoverata dalla comparatistica francese tra le aree di ricerca più innovative emerse in anni recenti 17 – oltre che come nesso e ponte tra la comparatistica letteraria e gli studi culturali, di più recente sviluppo e dalla metodologia spesso assai incerta.D’altronde, si dirà, chiunque abbia una pur vaga conoscenza dell’opera di E.R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter (1948)sarà poi tanto stupito dall’idea che la tematologia possa essere usata come chiave metodologica degli studi europei. Difatti, già in Curtius lo studio dei temi, o meglio dei topoi letterari è posto all’insegna della comprensione e della canonizzazione della modernità letteraria europea, ricollegata alle sue radici tardolatine esaltate nel loro ruolo di trait d’union tra antichità greco-latina e odernità.Tuttavia, a questa e a tante altre creazioni ingegnose e mirabilmente erudite del “mito” monoculturale della letteratura europea 19 andrebbe giustapposta – per correzione e non per contrapposizione – l’idea di una base interculturale della stessa letteratura europea, data dal confronto e dalla mescolanza di culture/civiltà diverse, dalla traduzione e dall’adattamento di generi, forme, temi,stili provenienti anche dal suo esterno, dalla compenetrazione dell’immaginario culturale occidentale con quello orientale, dall’idea che la stessa antichità greca affondi le sue radici nella (non) lontana Africa, oltre che in Asia 20. Usare quindi la tematologia come strumento per lo studio dell’interculturalità mediterranea – nonché per il collegamento geocritico e interculturale del Mediterraneo con altre aree culturali come quella dei Caraibi – sembra una delle possibili vie percorribili al fine di evitare lo slittamento della pur evidente e molto praticata europeità degli studi letterari verso un eurocentrismo che, con altrettanta evidenza, sembrerebbe ormai necessario superare 21. In questo testo, la triangolazione italo-franco-algerina della ripresa della figura letteraria del marinaio è posta appunto sotto tale insegna, ma viene usata anche con l’obiettivo, di derivazione imagologica e geocritica, di mostrare le diverse modulazioni di un discorso dall’interno e sul Mediterraneo che si incrocia con la rielaborazione della figura del marinaio mediterraneo, nonché con quello di creare una, pur ristretta, esemplificazione delle “forme formanti” che essa può assumere. I marinai che appaiono nelle opere di Jean-Claude Izzo, di Vincenzo Consolo e di Waciny Larej occupano,difatti, una posizione tematico-formale dall’importanza via via decrescente,dal tema letterario vero e proprio (Izzo), al Leitmotiv coniugato con un uso originale dell’ekphrasis (Consolo), al semplice motivo (Larej), dalla ricorrenza meno estensiva e solo debolmente strutturante. Quello che è stato, inoltre, un importante stimolo, per così dire immaginativo, nel trattare questo argomento,era l’idea che così come il marinaio, nella realtà mediterranea (ma non solo) è ed è sempre stata una figura capace di mettere in contatto e di tradurre culture diverse, il tema, Leitmotiv e motivo del marinaio permette un interessante confronto tra opere peraltro molto differenti, sebbene prodotte nello stesso arco di tempo, ma suscettibili di apparire sotto una luce nuova all’ interno di tale intreccio comparatistico-ermeneutico.Il romanzo che rappresenta la prima fascia dell’intreccio-treccia è intitolato Les marins perdus, e fu pubblicato in Francia nel 199722. Il suo autore, il marsigliese di origini italiane Jean-Claude Izzo, prematuramente scomparso nel 2000, si era imposto già precedentemente all’attenzione del pubblico francese con la trilogia noir Casino totale, Chourmo e Solea, ambientata come il resto della sua opera a Marsiglia 23.L’amore per la sua città – che traspare anche in Marinai perduti attraverso una lunga serie di descrizioni del suo porto e delle sue vie, delle indicazioni particolareggiate su locali e bistrot e i piatti tipici che vi vengono serviti – nonché per la cultura mediterranea in generale, sono due punti focali dell’opera di Izzo, dei suoi veri e propri miti personali 24. Dalle prime pagine di Marinai perduti, l’occhio del narratore si sofferma sulla sua bellezza, collegata con un momento significativo della gioventù di uno dei marinai protagonisti del romanzo, nonché con aspetti che sfumano nel mito,capace di far sentire la suo eco attraverso secoli e millenni, frammento di un immaginario culturale che viene rinnovato costantemente nell’immaginario del singolo:Anche a Diamantis piaceva quella città. L’aveva amata fin dalla prima volta che vi era sbarcato. Aveva appena vent’anni allora. Era mozzo a bordo dell’Ecuador, un vecchio cargo arrugginito che non si avventurava mai al largo di Gibilterra. Quel giorno se lo ricordava benissimo. L’Ecuador aveva doppiato l’arcipelago del Riou. Poi, superate le isole del Frioul,l’insenatura gli si era spalancata di fronte. Quasi una linea netta di luce rosata che separava l’azzurro del cielo dall’azzurro del mare. Ne era rimasto come abbagliato. Marsiglia, aveva pensato allora, è una donna che si offre a chi arriva dal mare. L’aveva perfino annotato sul giornale di bordo. Senza sapere che stava citando il mito fondatore della città: la leggenda di Gyptis, principessa ligure che si diede a Protis, marinaio francese, la notte in cui questi entrò nel porto. Da allora Diamantis aveva perso il conto degli scali 25.Il mito fondatore marsigliese di Gyptis e Protis, insieme alla descrizione del porto con immagini sensuali e una metafora erotica, rappresenta un importante nucleo immaginativo e semantico per il romanzo di Izzo, a partire dal quale si dipana tutta la sua trama nelle sue singole fasce narrative: l’arrivo del marinaio,la donna che gli si dona, la bellezza del mare e del porto. Tuttavia, la poesia e la valenza erotica dell’episodio mitico e dell’immagine della città sono rilegate al passato, alla giovinezza del marinaio greco Diamantis, dopo anni nuovamente approdato con la nave sulla quale è “secondo” al porto di Marsiglia, per non ripartire più. Difatti, la rappresentazione dello stesso porto, questa volta visto da terra e non dal mare, con cui si apre il romanzo, contrasta decisamente con i colori, il tempo atmosferico e la metaforicità del passo appena citato:Marsiglia quel mattino aveva colori da mare del Nord. […] Il cielo minacciava tempesta e, in lontananza, le isole del Frioul non erano che una macchia scura. A stento si distingueva l’orizzonte. Proprio un giorno senza futuro, pensò Diamantis. Attraccati, relegati laggiù, in fondo ai sei chilometri della diga del Largo. Lontani da tutto. Senza niente da fare. E senza un soldo. Ad aspettare l’ipotetico acquirente di quel sfottuto cargo 26. Diamantis, insieme al capitano libanese Abdul Aziz e un marinaio semplice,il giovane turco Nedim, sono degli uomini di mare costretti all’immobilità, spinti dalla difficile situazione legale della loro nave, l’Aldébaran (bloccata dal tribunale a garanzia dei debiti contratti dall’armatore) in una trappola, una empasse che è allo stesso tempo economica e psicologica. Infatti, nell’impossibilità di abbandonare la nave, sulla quale continuano a vivere consumando gli avanzi delle loro provviste, nella difficoltà di trovare un altro impiego e nel rifiuto di accettare l’indennizzo offertogli dal tribunale (come aveva fatto il resto della variopinta ciurma, dileguatasi dopo pochi giorni dall’attracco della nave), si traduce la situazione esistenziale in cui versano tutti e tre i personaggi. Una situazione di stallo, di vuoto («Non abbiamo più il mare di mezzo. E di colpo scopriamo il vuoto», p. 15), che li conduce alla rielaborazione del proprio passato,ai ricordi che lentamente essi si cominciano a scambiare, e che sono incentrati principalmente sulla loro scelta di diventare marinai, come anche sulle donne protagoniste della loro vita, durante i loro viaggi (le prostitute e le altre donne dei porti) come durante le brevi permanenze a casa (le fidanzate e le mogli,madri dei loro figli). Se la loro esistenza di marinai è posta all’insegna di un destino al quale non possono sfuggire, della scelta di una libertà alla quale non vogliono rinunciare («In mare, e soltanto lì, si sentiva libero. In mare non si sentiva né vivo né morto. Solo altrove. Un altrove in cui riusciva a trovare qualche buona ragione per essere se stesso. E gli bastava», p. 14), tale destino è allo stesso tempo la condanna ad una instabilità nei rapporti d’amore, arrivati in tutti i tre gli uomini a un momento di svolta: mentre Abdul Aziz sta per essere lasciato dalla moglie, che pur amandolo soffre troppo per via delle lunghe assenze del marito, Nedim prende coscienza della impossibilità di costruirsi un’esistenza con la giovane fidanzata, di rispondere alle attese della sua famiglia di scegliere un lavoro da sedentario. Diamantis, invece, separato da anni dalla moglie da cui ha avuto un figlio, è ora alla ricerca di un suo grande amore giovanile, una donna di origine marocchina conosciuta a Marsiglia vent’anni prima, da lui abbandonata in circostanze oscure, a causa di un intrico di paure e di incapacità che nel corso della narrazione riceve man mano delle delucidazioni.Infatti, la ricerca del suo antico amore da parte di Diamantis costituisce il motore del racconto nonché l’anello di congiunzione tra le varie vicende che si dispiegano intorno ai singoli personaggi. Nedim si innamora di Lalla, una bella entraîneuse conosciuta in un locale del quartiere portuale, la quale è accompagnata da una quarantenne che si rivela essere Amina, la donna ricercata da Diamantis. Tirato dentro un inganno dalle due donne e dai proprietari del locale per il quale lavorano, Nedim chiede aiuto a Diamantis che entra così in contatto con l’entourage malavitoso delle due donne, assistendo infine all’uccisione di Amina da parte del suo compagno, un capo mafioso che l’aveva costretta a lavorare per lui. In un intrico noir, gestito alla perfezione da Izzo, esperto del genere, si narra infine anche la morte tragica di Nedim per mano di Abdul, l’arresto di questi e il salvataggio di Lalla, che in realtà è la figlia che Amina aveva avuto da Diamantis dopo essere stata da lui abbandonata. Diamantis, invece,trova in ultimo rifugio presso una donna marsigliese, una Calipso che gli offre il suo amore materno, e che si prende cura anche della giovane Lalla. Quest’ultimo rimando ad una figura femminile di memoria omerica non è solo di tipo associativo. Diamantis, infatti, è collocato volutamente nell’orbita degli ulissidi, ed è egli stesso cosciente di essere un erede del mitico navigatore del Mediterraneo, così come suo padre, marinaio anche lui, si era identificato con questi. La sua passione per l’Odissea, che Diamantis legge al figlio durante i periodi a terra, si inscrive in un profondo amore per il Mediterraneo, fonte di continue riflessioni che egli annota sul suo diario di bordo. Diamantis colloca se stesso in quella narrazione continua che è il poema omerico, tentando di leggervi il significato della propria esistenza e il proprio futuro:[…] In effetti l’Odissea non ha mai smesso di essere raccontata, da una taverna all’altra, di bar in bar:… e Ulisse è sempre fra noi. La sua eterna giovinezza è nelle storie che continuiamo a raccontarci anche oggi se abbiamo ancora un avvenire nel Mediterraneo è di sicuro lì. […] I porti del Mediterraneo… sono delle strade. Strade per mare e per terra. Collegate.Strade e città. Grandi, piccole. Si tengono tutte per mano. Il Cairo e Marsiglia, Genova e Beirut, Istanbul e Tangeri, Tunisi e Napoli, Barcellona e Alessandria, Palermo e…»Ritrovò infine il pensiero che lo assillava, e le parole per esprimerlo.«In realtà ci vuole una motivazione personale per navigare sul Mediterraneo»27.Per Diamantis, l’Odissea non è tuttavia l’unica fonte per la re-interpretazione e la riflessione sul Mediterraneo. Come emerge da una serie di luoghi testuali,egli è un personaggio intellettualmente complesso ed autoriflessivo, un portavoce dei pensieri e delle ricerche dello stesso Izzo sull’argomento. Molte delle osservazioni di Diamantis sul suo mare sono di natura colta, e vanno ben al di là della narrazione delle proprie storie (pur presenti, come quelle intorno alle tempeste e ai naufragi vissuti durante la sua ventennale vita in mare), o della ripetizione ossessiva delle vicende odissaiche, così come è di natura erudita la sua passione per gli antichi peripli marini. Per di più, Izzo traduce nel suo personaggio principale la propria conoscenza degli scritti di Fernand Braudel e di Predrag Matvejevic´, due studiosi menzionati esplicitamente dall’autore in una postilla al suo romanzo. Di chiara ispirazione matvejeviciana sono, infatti, passaggi come il seguente: Diamantis rinunciò a rituffarsi nelle sue carte nautiche. Le riordinò accuratamente. Ma prese ancora un appunto: «Il Mediterraneo non è solo geografia. Non è solo storia. Ma è più di una semplice appartenenza»28.Sia per la sua natura odissaica che per le sue riflessioni e passioni colte,Diamantis è un uomo profondamente mediterraneo, che come marinaio ha del resto rinunciato a navigare su altri mari, scegliendo di lavorare su delle vecchie imbarcazioni, inadatte ad essere utilizzate per il commercio navale dell’oceano.Diversamente da lui, Abdul Aziz, il capitano dell’Aldébaran, è pervaso da aspirazioni diverse, ovvero da quella ultra-omerica di “prendere” altri mari, di misurarsi con il più vasto Oceano, con l’altrove immenso e imprevedibile, come emerge dalle parole con cui egli interrompe il discorso, prima citato, di Diamantis sul Mediterraneo:«Io… per me, sì, per me, il Mediterraneo… il mare… Per me il mare è bello solo più in là. Una volta passata Gibilterra. L’oceano…»«E qual è la sua motivazione personale?» domandò Lalla a Diamantis.«Trovare me stesso, credo».Pensava a una frase di suo padre. «Tutto è ambivalente nell’animo dell’uomo» diceva.«Ma i duplici valori cercano di ritrovarsi in un luogo in cui i contrari facciano un tutt’uno».«O, più esattamente, riunire in me stesso tutto ciò. Ci si perde a non sapere chi siamo».«L’oceano» lo interruppe Abdul alzando la voce.Non sapeva bene cosa dire. Voleva soltanto riprendere il ruolo di protagonista. Porca miseria! Che era? L’anarchia? Era lui il comandante della nave.. E ne aveva comandate tante altre. Avevano il dovere di ascoltarlo! Voleva raccontare il mare. Quello vero. L’avventura.Non quella pietosa del povero Ulisse imbrigliato nei fili che il Mediterraneo, brutta troia di un ragno, tesseva intorno agli uomini. Era Penelope, quella troia di un ragno. Gli aveva annodato un filo alla caviglia a quel poveraccio. Il filo che alla fine l’avrebbe riportato a casa. Nelle braccia di Circe, nel letto di Calipso, Ulisse era legato a Penelope. Al suo tran tran familiare. Alla vita domestica. Il mare partoriva delle donne ragno. Delle Penelopi. Delle Penelopi e delle Céphée.L’oceano, l’avventura.«Solo altrove il mare è bello» ripeté alzando la voce 29.Il desiderio del capitano dell’Aldébaran di andare oltre, di recidere i legami fisici con il suo mare e quelli sentimentali con la sua Penelope, equivale alla tensione autodistruttiva di cancellare parte della propria identità, ricercata invece da Diamantis nel mar Mediterraneo. Una necessità, quella di Diamantis, che egli riesce a sintetizzare davanti alla giovane Lalla, con delle parole che irritano profondamente Abdul, spinto invece a perdersi e a cancellare il proprio passato per via della grande delusione ricevuta dalla moglie e dall’incapacità di uscire fuori dal circolo vizioso della sua erranza in mare. Sono entrambi dei “marinai perduti” – come lo è anche il giovane Nedim che diventa addirittura vittima della momentanea violenza (auto)distruttiva da parte di Abdul – ma ognuno in modo diverso: Abdul, nella sua cieca disperazione e con l’omicidio da lui commesso si immette nel vicolo cieco dell’illegalità e viene incarcerato, mentre Diamantis giunge attraverso un malinconico ripiegamento sul proprio passato e su una storia amorosa rimasta aperta, nonché attraverso le sue riflessioni sul suo mare, ad una presa di coscienza dei propri errori e dei propri limiti, salvando infine se stesso, anche grazie all’aiuto (ancora una volta, e molto all’insegna del suo mitico antenato) di una donna. Un aiuto e un’apertura verso un possibile futuro che, però, porta i connotati mediterranei della città nella quale, questa volta volutamente, Diamantis si è perduto, gustandone i profumi e i sapori e registrando i suoi tanti colori, le sue tante varietà umane che vi si mescolano in un movimento sensuale e creativo, in un “caos mondo” pieno di luce e di musica 30.Marsiglia diviene così una sorta di specchio e riassunto urbano di quella cultura del mare che Diamantis (e con lui l’autore di Marinai perduti) ama profondamente, diviene un’utopia realizzabile una volta che si è trovati accesso al suo linguaggio segreto, che si diventa esperti delle lingue che i suoi abitanti vi parlano. Il discorso di Izzo, in apparenza tanto aderente al presente della cultura mediterranea (e non privo di denunce rivolte al suo degrado, come emerge dalle vicende legate ai pignoramenti di navi, e alla speculazione illecita da parte delle compagnie di assicurazioni tramite delle messe in scena di naufragi), in realtà usa il passato (storico e mitico) di quella cultura come pietra di paragone da tenere sempre in mente («Il mare, continuò Diamantis, non lo si scopre mai da soli, e non lo si vede solo con i propri occhi. Lo si guarda come altri lo hanno visto, attraverso immagini e racconti che ci hanno tramandato», p. 36), trovando così un’apertura verso il futuro. Il tema del marinaio – un tipo umano capace di “ridisegnare il mondo” (p. 32) attraverso la conoscenza/esperienza del mare e della vita – riceve così, al di là delle sue variazioni relative ai singoli personaggi protagonisti del romanzo e nei suoi risvolti noir, un significato più profondo,ossia quello di un’utopia tratta dal presente vissuto con piena adesione e con l’idea momentanea ma illuminante che «tutto è possibile»31. All’eterno presente di Izzo, con le sue diramazioni verso il futuro e il passato,fa da contrappunto lo scavo nel passato attuato da Vincenzo Consolo, autore dai timbri ben diversi, più vicini alla polifonia della musica barocca, alla quale l’autore siciliano si avvicina anche per l’idea di conferire la stessa importanza a stili e linguaggi diversi (oltre quello narrativo, quello giuridico, quello aggistico-documentario, nonché la traduzione verbale di quello figurativo), gestiti con abile tecnica di incastro e con rimandi impliciti a temi e motivi comuni. Nel suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, del 197632, Consolo alterna la narrazione vera e propria degli eventi legati alle rivolte di contadini e braccianti contro il potere dei feudatari, scatenatesi contemporaneamente all’arrivo dei garibaldini nel 1860, nonché quella di due scene che vedono al centro il barone Mandralisca e l’avvocato Giovanni Interdonato, entrambi favorevoli alla rivoluzione “dal basso” che aveva avuto un suo lontano preludio nei Vespri siciliani, a documenti politici e giuridici relativi agli stessi eventi, autentici o manipolati dallo stesso Consolo, a passaggi tratti da uno studio di malacologia, e infine alle trascrizioni di graffiti che i prigionieri politici, autori dei moti contadini, avevano lasciato inscritti sui muri del loro carcere sotterraneo. Ma più che approfondire la natura delle soluzioni linguistico-stilistiche de Il sorriso dell’ignoto marinaio, la cui struttura “a chiocciola” riflette, come è stato sottolineato da Cesare Segre, la tensione irrisolta dei rapporti sociali sulla quale è incentrata la riscrittura di questo episodio della storia siciliana da parte di Consolo, vorrei focalizzare l’attenzione sul Leitmotiv dell’ignoto marinaio da cui questa è attraversata 33. Intanto, l’identificazione dell’uomo del Ritratto di Antonello da Messina – realmente acquistato dal barone Enrico Pirajno di Mandralisca di Cefalù da uno speziale dell’isola di Lipari e a tutt’oggi conservato nel Museo Mandralisca della località siciliana – con un marinaio, non è affatto senza importanza per lo scrittore, come emerge da un suo recente scritto 34.Come commento alle vicende storiche da lui riscritte con un intricato patchwork di testi stilisticamente e linguisticamente molto eterogenei, Consolo sceglie quindi un elemento extratestuale, un’opera figurativa realmente esistente e in quanto tale rimando alla valenza sovra- e metastorica dell’arte. La scelta di ritrarre con le sue parole il famoso dipinto, piegandone il significato verso un’interpretazione che non può più prescindere dall’idea che l’uomo raffigurato sia un marinaio, è quindi di fondamentale importanza per la comprensione del testo nel suo insieme. L’immagine del marinaio consoliano viene così ad occupare, come direbbe Lea Ritter Santini, «lo spazio intermedio fra valore iconico e valore verbale», perdendo così la sua «innocenza e la sua univocità visiva» a favore di una accrescimento semantico e la trasformazione in una nuova “figura dell’immaginario”35.Ma vediamo come lo scrittore siciliano descrive il dipinto di Antonello, nel momento in cui il barone toglie il panno che lo copre, per mostrare il suo nuovo acquisto agli invitati:Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentì come a disagio 36.Fin dalle prime battute della descrizione ekphrastica, il volto dell’uomo raffigurato viene “letto” all’insegna di una vivida e luminosa intelligenza; è una luce che si staglia da un fondo cupo, associato alla “notte di paura e incomprensione” che gli fa da contesto e contrasto. La metafora del naufragio in relazione alla giovinezza, dalla quale l’uomo è ormai uscito, costituisce l’unico collegamento allusivo con la sua (presunta) professione, che passa invece in secondo piano rispetto alla interpretazione della espressione del suo sorriso. Un sorriso ironico, appena accennato, che mette in comunicazione occhi e labbra, è il principale tratto distintivo di quel volto, un tratto del quale si sottolinea però la sfuggevolezza,la precarietà, ma anche la singolarità e il disagio che suscita nell’ osservatore.Tra dolore e pietà, tra sarcasmo e risata aperta e folle, l’ironia del marinaio è come una freccia lanciata fuori dal dipinto, e fa di lui l’osservatore di chi osserva, trasforma l’oggetto del quadro in soggetto, in “personaggio”, come lo stesso narratore sottolinea. Del resto, tutti gli astanti percepiscono la presenza del marinaio come presenza materiale di un personaggio che li segue con lo sguardo; il marinaio diventa così protagonista della scena “da salotto”, tant’è vero che essa, e insieme il primo capitolo, si conclude con le seguenti attute:«Barone, a chi sorride quello là» […]. «Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli!» rispose il Mandralisca»37.La presenza del marinaio del dipinto, venuto anch’esso dal mare, «nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù approdo nella storia e nella cultura»38, è rafforzata da quella di un personaggio che nella fabula del romanzo consoliano ricopre un ruolo di primo piano. Si tratta dell’avvocato Interdonato, il quale nel primo capitolo appare nei panni di un (presunto) marinaio, che il barone Mandralisca incontra sulla nave che lo riporta a Cefalù.Mentre gli spiega la natura e l’origine della malattia di un cavatore di pietra pomice, che viaggia insieme a loro, il misterioso marinaio mostra al barone il suo volto dal sorriso ambiguo, un volto che questi ricollega subito a un’immagine vista già altrove, e che nello svelamento del quadro, successivo all’ episodio di questo incontro, gli sarebbe nuovamente apparso:Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcarono il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma in guardandolo, colui mostra vasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vissuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E,avvertitasi in colui, la grande dignità di un signore 39.Sono più che evidenti le corrispondenze lessicali tra la descrizione del dipinto e quella del personaggio “in carne e ossa”, le quali si concentrano nella natura,ironica, del sorriso, nella forma degli occhi (“piccoli e puntuti”), e nel vestiario,che nel ritratto dell’uomo a mezzobusto non è pienamente visibile, mentre viene associato esplicitamente all’abbigliamento tradizionale di un marinaio nel caso del personaggio incontrato sulla nave. Ma anche in questo caso, la caratterizzazione di questi è carica di un’ambiguità che va ben oltre quella del sorriso: benché vestito da marinaio, il personaggio non possiede la «stranianza dell’uomo vivente sopra il mare», ovvero quel distacco psicologico (caratteristico in chi vive quasi sempre lontano dal consorzio umano) dalle vicende della terra,dalle dolorose complicanze della storia, di cui egli sembra invece ben cosciente,osservatore interno e partecipe. La somiglianza tra l’Interdonato – rivoluzionario e uomo di contatto tra altri cospiratori fuggiti all’estero, che si era dovuto travestire da marinaio per ritornare in Sicilia, nonché fidanzato della figlia dello speziale di Lipari che aveva venduto il quadro al barone Mandralisca – e il marinaio antonelliano, è del resto sostenuta da una “teoria”, da un “gioco” delle somiglianze, tratto costitutivo, secondo Leonardo Sciascia della “sicilitudine”,come emerge dall’epigrafe (tratta dall’Ordine delle somiglianze) posta da Consolo in apertura del romanzo: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza. […] I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché, della somiglianza […] A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».Sostenuta da tale “teoria”, il volto dell’ignoto e quello del presunto marinaio,richiamandosi a vicenda, divengono un ben visibile filo rosso che attraversa tutto il romanzo. Dopo aver constatato addirittura l’identicità dei due volti («Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente», p. 44), e dopo aver ricevuto delle delucidazioni intorno alle idee e azioni rivoluzionarie dell’ Interdonato, il barone Mandralisca continua ad associare entrambi i personaggi durante i momenti chiave dell’evolversi delle vicende politiche e rivoluzionarie, di cui egli sarebbe stato osservatore esterno. Un “gioco”, il suo, che di fatto è uno strumento di conoscenza, in quanto egli sposa con convinzione crescente gli ideali dello stesso Interdonato, provando man mano disgusto per le proprie occupazioni di collezionista e studioso di lumache e di antiquaria. Come se avesse ricevuto un importante stimolo da quel sorriso ironico, nel barone avviene un’evoluzione interiore che lo porta verso delle riflessioni sugli eventi storici contemporanei, nonché sulla stessa natura della storia in quanto racconto di singole vicende selezionate e a noi tramandate. Difatti, egli giunge a giudicare la scrittura storica l’opera di illuminati e di privilegiati e in quanto tale una vera e propria “impostura” su coloro che invece partecipano attivamente a quelle vicende, senza avere le possibilità materiali ed intellettuali di narrare la propria storia, preservandola da ogni distorsione successiva 40. Non solo, all’interno di tale riflessione (auto)critica intorno alla propria “casta” di intellettuali, nobili in questo caso ed illuminati, la quale sfocia nell’unica possibile azione fattiva del barone, ossia in quella di destinare i suoi beni ad una scuola e ad un museo, egli arriva anche a rileggere lo sguardo e il sorriso ironico del misterioso personaggio del quadro, dando maggiore rilievo al suo «distacco, lontananza […], d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica…» (p. 117); e ancora: di fronte alla trascrizione, da parte del barone, dei graffiti carcerari degli autori della violenta sommossa di Alcalà de li Fusi, quel sorriso sembra volgersi addirittura in «greve, sardonico, maligno» (p. 120).Perciò, proprio per via della natura sempre più sociale ed etica di tale interpretazione,agli occhi del barone l’ignoto marinaio sembra riassumere nel suo volto quelli di numerosi esponenti delle classi elevate e degli intellettuali ed artisti del luogo: dal pittore al vescovo al ministro al direttore della polizia, fin allo stesso Mandralisca, colpevoli, anche nel caso di una concordia ideologica con la povera gente, di un senso di superiorità e di distacco.Il volto dell’Ignoto, da immagine figurativa, e passando per quella verbale,diventa quindi un importante Leitmotiv del romanzo, nonché metafora del distacco ironico ed illuminato, preso in prestito dall’eterna distanza del marinaio,caratteristico dei ceti superiori e degli intellettuali, destinati a rimanere separati dal popolo e da chi si oppone alla stessa divisione in classi, nonché al concetto di proprietà («La proprietà, Interdonato, la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», p. 118). Un Leitmotiv marino che, nella sua valenza di “forma dell’esperienza”, di un’esperienza direi spiccatamente etica e sociale, è affiancato da uno prettamente terrestre,collegato fin dapprincipio alla figura del barone, più che a quella dell’ Interdonato,che con la sua capacità di fare comunque da ponte tra i rivoltosi e il nuovo establishment politico, nonché con quella di agire concretamente in loro favore (salvando loro la vita con il decreto sull’amnistia), conserva la sua qualità marinaresca dell’ambiguità sociale, ma anche dell’azione concreta. Si tratta del Leitmotiv metaforico della chiocciola, che dapprima viene collegata all’occupazione privilegiata del barone, ossia allo studio e alla schedatura delle lumache terrestri e fluviali di quella regione siciliana. Da metafora della mente illuminata dello studioso nobile, e sotto influenza di figure affini quali la spirale e il labirinto (nella loro lettura calviniana ed antropologica) 41, la chiocciola rivela poi, nel corso della narrazione, la sua natura sia centrifuga che centripeta, e viene via via associata a forze contrapposte come la vita e la morte, la libertà e le costrizioni/prigioni, la creatività e l’ossessione infertile. Infatti, di fronte agli eventi di Alcalà de li Fusi, il barone decide di abbandonare i suoi studi, schiacciato dall’idea che le sue lumache possano simboleggiare tutto ciò a cui egli,ormai, cerca di opporsi razionalmente, scegliendo la strada (centrifuga) della vita e della libertà, malgrado egli non riesca a volgere quella maturazione interiore in vera azione:E son peggiori de’ corvi e de’ sciacalli, le lumache, le creature belle, ermafrodite: temono il sole, distruggono i vivai e le colture, si nutrono financo di liquami, decomposizioni, umori cadaverici, s’insinuano in carcasse, ne spolpano le ossa, ricercano ne’ teschi le cervella, il bulbo acquoso nell’orbita dell’occhio… e non per caso i Romani le mangiavan ne’ pasti funerarî Al di là del fascino barocco esercitato da passi come questo – veri e propri risultati della natura strutturalmente e linguisticamente “formante” attribuibile non solo al tema ma anche al Leitmotiv – va quindi sottolineato che la narrazione da parte di Consolo della Sicilia e con essa del suo Mediterraneo è fortemente improntato sulla dialettica tra metafore marine, e marinare, e quelle terrestri, le quali si sviluppano come veri e propri Leitmotive che attraversano tutto il romanzo.Espressione del contrasto tra la cancellazione della storia nel “breve mare”43 che bagna l’isola, e l’ingiustizia sociale, costante storica, connessa all’impossibilità di intaccare radicalmente i poteri secolari che vi sono radicati, tali forme formanti dell’esperienza chiamano in causa i nessi tra storia e attualità, tra il passato e il presente, permettendo altresì delle riflessioni sul ruolo dell’intellettuale nel passato e su quello che egli occupa oggi, sulle sue capacità di osservare e di giudicare gli eventi politici e sociali, con lieve sorriso ironico, e sulla sua incapacità di intervenire, di agire, di prendere radicalmente posizione. Una dialettica irrisolta e produttrice di ambiguità, quella consoliana, che si trasferisce sul piano stilistico e narrativo nella rappresentazione ekphrastica di luminosi quadri di mare e di porti,concentrati nella prima parte del romanzo, alla quale si oppone nel cap. VIII la lunga descrizione della buia prigione sotterranea a forma di chiocciola, o spirale,dove i rivoltosi di Alcalà erano stati a lungo detenuti. Un’ambiguità che sembra tradursi definitivamente in sconfitta, nella rassegnata sovrapposizione delle due metafore, quando il barone esclama infine: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso» (p. 118). Ambiguità mai risolta, però, visto che dal centro del quadro di Antonello da Messina, il sorriso del marinaio, rivolto per un attimo verso se stesso e avviluppatosi in un mortale movimento centripeto, può nuovamente riprendere la sua forza centripeta, ironica ma vitale, liberatoria.Arriviamo alla terza intrecciatura della nostra treccia marinaresca e mediterranea mediante la narrazione da parte di Consolo (amante di antefatti e di appendici) di un episodio che, a sua insaputa, costituisce l’antefatto del romanzo di Waciny Larej:E lui [Cervantes], il pellegrino d’Italia, il soldato di Lepanto, lo schiavo di Algeri, aveva frequentato la Sicilia. S’era imbarcato a Messina con l’Invincibile Armada, nella città dello Stretto aveva curato le sue ferite, aveva soggiornato a Palermo, a Trapani (nella novella El amante liberal è evocata questa città); nei bagni d’Algeri diveniva compagno di pena ell’avventuroso poeta siciliano Antonio Veneziano. Nella spianata delle moschee, dov’erano i bagni, i due udivano attraverso le grate la filastrocca che i bambini della casbah crudelmente cantavano nella franca lingua dei porti mediterranei: Non rescatar, non fugir
Don Juan no venir
Acá morir 44.
Nell’affacciarsi sulla grande agorà del mare di mezzo, echeggiante della lingua franca dei marinai e degli abitanti dei porti, gli scrittori provenienti dai diversi angoli di questo mare ascoltano e ri-narrano storie come questa, una storia vera che appartiene al comune patrimonio culturale e letterario di questa regione, e che, nel diventare parte dell’immaginario personale di un autore,viene rinnovata e re-immessa in quello di una comunità più ampia, sopranazionale ed interculturale. Nella sua triangolazione spagnolo-italo-algerina, l’avventurosa vita dello scrittore Miguel de Cervantes, è qui ripresa molto sinteticamente dal punto di vista siciliano, mentre, a partire dal suo versante algerino,essa viene rielaborata in modo diverso da Waciny Larej, in Don Chisciotte ad Algeri 45. Il romanzo, una attualizzazione delle mitiche vicende intorno allo scrittore spagnolo, è incentrato sul viaggio ad Algeri che Vásquez de Cervantes de Almería, lontano discendente di Miguel de Cervantes, intraprende con l’obiettivo di ripercorrere le tracce del suo famoso avo. In tutto somigliante a Don Chisciotte, la famosa creatura letteraria di Cervantes, Vásquez de Cervantes si presenta al signor Hsissen, funzionario del Ministero della Cultura, dove si occupa delle relazioni (pressoché inesistenti) ispano-algerine. Al termine di un “folle viaggio” che lo ha portato da Valladolid e Madrid a Napoli, Palermo e Genova e poi a Marsiglia, per poi imbarcarsi su una vecchia nave da commercio carica di zucchero da canna per giungere ad Algeri, lo spagnolo chiede a Hsissen di condurlo ai luoghi in cui il suo avo era vissuto per cinque anni come prigioniero. L’obiettivo del moderno Don Chisciotte, di professione giornalista,è quella di ripetere l’avventuroso viaggio di Cervantes «senza passare per le solite vie, […] in modo da riuscire a comprendere le sue sensazioni, le sue paure, e scrivere qualcosa sulle città che aveva amato e in cui aveva vissuto»46.Fondamentale in ciò è da lui considerato l’arrivo dal mare, la registrazione delle sensazioni che il “capitano” Cervantes, il quale aveva partecipato come soldato di marina alla battaglia di Lepanto, aveva provate durante la misteriosa cattura della sua nave da parte dei corsari:Per tornare al viaggio, mi interessava vedere il punto in cui Miguel e il fratello Rodrigo furono catturati. Quando il capitano me lo indicò provai strane sensazioni. Mi parve persino di sentire le urla, subito inghiottite dal mare, dei passeggeri della sfortunata imbarcazione. Mi rendevo conto che il mare è in grado di conservare misteriose ombre, mentre la terra cancella tutto 47.Difatti, la perlustrazione di Algeri, e in particolare dei luoghi in cui si era trovato Cervantes secoli prima, intrapresa dai due uomini, è una conferma dell’idea che “la terra cancelli tutto”. Algeri, la città un tempo tanto amata da Hsissen, assomiglia ormai ad un labirinto dalle mille paure e vie senza uscita,costellato da ombre minacciose che controllano ogni loro movimento, nell’impresa rischiosa e “folle”, anch’essa, di percorrerla per motivi di turismo, per di più culturale. La grotta di Cervantes, un tempo luogo di culto e di attrazione per i visitatori della città, è ora decaduta a mondezzaio, la targa commemorativa dello scrittore è conservata in una discarica, dove Hsissen e Don Chisciotte scoprono dei traffici illeciti e mafiosi intorno ai beni culturali del paese, da anni misteriosamente scomparsi.Condotta in prima persona dal punto di vista di Hsissen, la narrazione delle sue giornate trascorse con Don Chisciotte alla scoperta dei tesori “spagnoli” di Algeri è fin dapprincipio offuscata dalle violenti rappresaglie che egli dovette subire a causa della sua amicizia con il misterioso erede di Cervantes. Nel primo capitolo del romanzo (corredato come tutti gli altri con un breve riassunto del suo contenuto, ad imitazione del romanzo cervantino), Hsissen si presenta come caduto in una profonda solitudine, dopo essere stato licenziato e poi crudelmente mutilato (i misteriosi terroristi da lui denominati “figli di cane” gli hanno amputato la lingua e il pene); una solitudine alleviata solo dalla scrittura,che tuttavia non può impedirgli di formulare il desiderio di suicidarsi:Con la lingua mozzata e il pene reciso, credo di non aver altra scelta che accogliere l’invito delle onde, di quest’azzurra immensità, che tutte le sere mi ricordano l’isolamento e la solitudine in cui mi trovo e la paura, profonda e palese, in cui vivo. Non mi rimane altro che gettarmi in questo mare che guarda il mio silenzio 48.Nelle pagine che seguono, e in cui si inizia il racconto retrospettivo delle vicende che lo hanno condotto verso tale terribile destino, Hsissen attribuisce molta importanza alla sua profonda passione per la Spagna, che ne fa un personaggio speculare rispetto a Don Chisciotte, l’alter ego algerino del discendente di Cervantes. Difatti, Hsissen, è discendente di un morisco di Granada, un bibliotecario che nei tempi “bui” della reconquista era stato cacciato dalla sua Spagna. Da sempre, egli “sogna” l’altra sponda mediterranea, un sogno alimentato dalla nonna che abita con lui e che si è ricostruita in casa una piccola Granada, circondandosi di fiori di Cassia (fiore-simbolo di Carmen) importati secoli prima quando il loro avo ne portò con sé i semi. L’affinità tra l’algerino Hsissen e lo spagnolo Don Chisciotte, entrambi profondamente segnati dalla discendenza da un avo mitizzato, la quale porta i tratti distintivi di un’alterità da loro introiettata a tal punto da divenire delle personalità di “irregolari” che per tutta la loro vita hanno guardato altrove, è sostenuta da una sorta di “teoria della parentela”, che trova il suo corrispettivo nella teoria consoliana della “somiglianza”. Laddove, in Consolo, la somiglianza con il marinaio ritrattato portava alla circoscrizione di un tipo umano, quello dell’intellettuale distaccato, del nobile illuminato, osservatore ironico degli eventi storici, in Larej la parentela con degli avi famosi e mitizzati conduce, oltre a creare una “somiglianza”, consoliana,tra i due personaggi principali, alla sovrapposizione del destino del personaggio contemporaneo con quello dell’avo, ad una ripetizione costrittiva della storia e delle vicende singolari che ne sono stati tramandati, in famiglia (nel caso dell’avo di Hsissen) o nei racconti autobiografici e biografici (nel caso di Miguel de Cervantes).Intanto, e prima ancora di “compiere” il destino del proprio avo, inseguito da Hsissen con la passione per la lingua spagnola e da Don Chisciotte con il viaggio intrapreso per seguire le orme di Cervantes, e nell’incrociarsi dei loro sguardi tra Spagna ed Algeria, i due tracciano una “riscrittura” della stessa città di Algeri: dal suo interno, il degrado della «magnifica città senza senso, uccello libero; meretrice amata» (p. 14) è registrato dal disilluso Hsissen, mentre Don Chisciotte ne esalta e riscopre le bellezze nascoste, ritrovandovi – nonostante i tanti paradossi con cui egli si scontra durante la sua ricerca dei luoghi cervantini – il suo luogo ideale («Il sole di questa città è insopportabile. Il mare era agitato oggi. Il porto quasi deserto. Mi sento leggero come una piuma di pavone variopinta. Assaporo la gioia di vivere. Godo l’irripetibile occasione della vita. Ci è data una volta sola», p. 135). Una idealizzazione, la sua, che nasce dal continuo confronto con il passato, dalla speranza di farlo rinascere insieme alla sua personale ripetizione delle vicende che avevano visto Cervantes prigioniero ad Algeri. Quando, contemporaneamente al licenziamento e al crescendo di minacce di cui è interessato Hsissen, Don Chisciotte viene infine arrestato e incarcerato,egli si ritrova in una situazione da lui, forse inconsciamente, prevista e ricercata.Diversamente che nel caso del suo alter ego algerino, il compiersi del suo destino “parentelare” lo conduce non verso la disperazione suicida, bensì verso la piena realizzazione del suo progetto di vita, ossia una vicinanza inaspettata e suggestiva con il mitico avo.Cambia, infatti, il punto di vista della narrazione nel momento in cui Don Chisciotte viene arrestato, e tutto il cap. V è costruito in forma di taccuino, nel quale egli trascrive le sue esperienze fatte fin dalla partenza da Almería, in Spagna, rifacendosi volutamente alla commedia El trato de Argel (del 1580), in cui Cervantes tradusse i suoi anni algerini nella messa in scena barocca delle vicende di diversi cristiani catturati dai “mori”. Nelle pagine del taccuino del moderno Don Chisciotte emerge quindi con insistenza il motivo della nave,mezzo con cui sia lui che il suo avo sono giunti ad Algeri, entrambi in circostanze misteriose, entrambi condotti o traviati da marinai e corsari, che qui si profilano come i responsabili “materiali” delle vicende ispano-algerine dei due personaggi,custodi di segreti difficilmente comprensibili dagli uomini di terra.Apparso già precedentemente nel romanzo, la figura del marinaio/corsaro, “traduttore”di personaggi di varia provenienza verso esperienze inattese e luoghi sconosciuti, si configura quindi come un importante motivo che rafforza il legame parentelare e di somiglianza non solo con Cervantes, ma anche con altri scrittori ed avventurieri che subirono la stessa sua sorte 49. I marinai in Larej,autori della secolare translatio mediterranea non solo di beni ma anche di personaggi di varia provenienza, “tradotti” da una riva all’altra, deviati dai luoghi di destinazione, catturati e trattenuti in porti sconosciuti che echeggiano di lingue diverse, sono del resto descritti come i protettori dei misteri del mare, come i custodi dei segreti che esso cela ai naviganti “per caso”, e che loro possono rivelare quando decidono. Così, alla vista del luogo in cui fu catturato Cervantes il 26 settembre 1575, il moderno Don Chisciotte, durante il tragitto che lo porta verso Algeri, è posto dallo stesso capitano della nave davanti ad un segreto indecifrabile, mai rivelato in letteratura o in storia, ma custodito ancora dal mare che bagna gli scogli coperti, come da secoli, dai gabbiani:– Il punto è questo. Vedi i gabbiani, Sono sempre qui, d’estate e d’inverno. È qui che i corsari hanno assalito la nave El Sol e catturato Cervantes.[…]– Sai capitano? Ho avuto una visione, ho visto la cattura di Cervantes e dei suoi compagni! Avverto la sua presenza, avverto il silenzio e il tremore causato dalla paura.Guardo le onde e vedo il fascino dell’avventura e dello smarrimento e sento, oltre il loro infrangersi sulle rocce, le urla delle donne cadute preda dei giannizzeri del mare! Il capitano aveva guardato i flutti che lambivano lo scafo, poi si era fregato le mani e come uno che la sa lunga aveva detto:– Amico mio, io sono un marinaio e i marinai conoscono il mare. Cervantes doveva sapere i rischi che correva. Mi chiedo piuttosto come sia stato possibile farsi sorprendere in un tratto ben conosciuto. C’è qualcosa di misterioso in tutto questo. Qualcosa di non detto, forse per paura, forse per amore. – È l’estro dello scrittore geniale infatuato del mare!– Questo non spiega il mistero. Mah! La questione è troppo complicata! Entriamo, fa molto freddo 50. Del resto, il marinaio come figura di scambio, di custode e di traduttore esperto dei segreti del mare e con essi delle dimensioni più profonde della vita 49 Durante la visita della discarica da parte di Hsissen e Don Chisciotte, il suo direttore, interrogato sulle vicende algerine di Cervantes, narra il caso parallelo del poéta francese Jean-François Régnard, catturato anch’egli dai corsari e imprigionato ad Algeri nel 1679,circa un secolo dopo lo scrittore spagnolo, nonché di altri avventurieri che subirono la stessa sorte (vedi ivi., pp. 65-69). 50 Ivi, pp. 138-139. dell’uomo (come la paura e l’amore, a cui allude il capitano), nell’ambito del Mediterraneo è allo stesso tempo figura di traduttore tra le diverse culture che si affacciano su questo mare “interno”, e fin dal secolo in cui visse Cervantes, il XVI, inventore e propagatore di una lingua transculturale che unisce in sé le lingue parlate in tutti i suoi porti: la lingua franca. Fortemente improntata sullo spagnolo (come risulta anche dal testo che poco avanti abbiamo visto citato in Consolo), sull’arabo e sul turco in una prima fase – ossia in quella di poco successiva all’insediamento, nel 1510, di corsari turchi guidati dal pirata Khair Ed-Din Barbarossa ad Algeri che per diversi decenni divenne il più temuto covo di pirati del Mediterraneo – la lingua franca riflesse nel suo lessico il contatto e lo scontro continui tra i corsari musulmani e gli spagnoli che nello stesso secolo avevano occupato molte parti della costa maghrebina. Mescolatosi, ancora nel corso del sec. XVI, in misura crescente con l’italiano (nella sua variante veneta e genovese,soprattutto), e con il francese, la lingua franca (da vero e proprio pidgin dai tratti linguistici autonomi e stabili) divenne durante i secoli seguenti il dialetto parlato,fino ad oggi, ad Algeri e a Malta, noto a partire dalla fine del secolo XIX (insieme alla colonizzazione francese del Maghreb) come “sabir”, e sempre di più assimilato alle singole varianti arabe nazionali nonché alle lingue coloniali 51.Per tornare al romanzo di Larej, la soluzione dell’arcano cervantino custodito dal mare, non appare molto lontana dalla ipotesi del capitano della nave sulla quale viaggia il moderno Don Chisciotte: una delle cause della cattura e della lunga permanenza ad Algeri potrebbe essere stato l’amore per una donna, la Zoraide di cui Cervantes parla in diversi luoghi, una giovane “mora”, prigioniera degli stessi corsari che avevano catturato lo scrittore spagnolo. Un’esperienza,quella amorosa, che si riavvera nuovamente nel discendente di Cervantes,quando egli conosce durante gli interrogatori da parte dei suoi carcerieri una traduttrice algerina che gli viene affiancata, una donna che gli rievoca la Zoraide cervantina e che è da lui amata come il suo avo aveva forse amato la giovane mora: da lontano, nell’ammirazione estasiata della diversità, della bellezza esotica e irraggiungibile, e nella sua associazione con il mito algerino della “Guardiana delle ombre”, un mito appreso da Hsissen e da entrambi ripensato e ri-sognato nei termini della speranza per un futuro migliore della città.Ripartendo da Algeri, ancora una volta per mare («chi entra in Algeria per mare viene espulso per mare», p. 179), Don Chisciotte porterà con sé questo suo segreto insieme a quello di Cervantes, concludendo: Ormai questa narrazione non riguarda più Cervantes ma me stesso e la storia degli abitanti di questa città che è come un’isola, per alcuni versi grande come una stella, per altri piccola come la cruna di un ago 52. Nel suo passaggio da tema a Leitmotiv e a motivo, la figura del marinaio nei tre autori mediterranei presi in esame riceve delle modulazioni diverse, rivolte nel caso di Izzo maggiormente verso i suoi aspetti esistenziali e mitici, di derivazione omerica, in Consolo verso quelli metaforici, a cui lo scrittore giunge tramite lo sfruttamento della tecnica ekphrastica e l’applicazione della teoria “siciliana” della somiglianza, e in Larej verso l’incarnazione dell’idea di uno scambio tra le culture, e di quella di una sovrapposizione metonimica tra il marinaio e il mare. In tutti e tre gli autori, un importante fattore che incide sulle diverse modulazioni della stessa figura letteraria è rappresentato dall’incrocio tra il tempo presente con quello storico, un incrocio sul quale incidono in varia misura le narrazioni mitologiche e letterarie del Mediterraneo e che in tutti i casi è caratterizzato da aperture utopistiche e visioni del futuro che si nutrono di una rivisitazione meditata del passato: in Consolo il passato “illustra” il presente (tramite una vera e propria illustrazione figurativa), mentre in Izzo e Larej il presente è memoria attiva, vivida del passato, di cui esso offre una interpretazione nuova. Oltre ad essere quindi crocevia delle diverse dimensioni temporali, il marinaio diviene la chiave di lettura non solo dello spazio e della cultura del Mediterraneo, ma anche stimolo verso l’interpretazione originale del proprio senso di appartenenza a tale spazio e a tale cultura, la quale nel caso di Izzo e di Larej si manifesta principalmente nella riscrittura dello spazio urbano della città portuale in cui gli stessi autori vivono, mentre in Consolo è volta maggiormente verso la rielaborazione di problematiche storico-identitarie che caratterizzano la sua Heimat insulare, la Sicilia. Attraverso la ripresa variamente modulata della figura del marinaio, la narrazione della cultura e della storia mediterranea vede quindi negli autori provenienti da diverse aree della grande regione mediterranea,l’introduzione di una pluralità di aspetti nuovi che, a partire dall’elaborazione di problematiche connesse alla patria più ristretta, interessano un comune e più vasto discorso identitario ed interculturale. Un intreccio – ancora una volta marino e condotto nel grande spazio della letteratura – tra la coscienza di appartenere ad un microcosmo che non può non aprirsi al macrocosmo della pluralità di mari, di oceani e di continenti con cui è in relazione, come potremmo dire parafrasando Vincenzo Consolo:Lo spazio nella letteratura è vasto quanto il mondo, varca a volte i confini stessi del mondo. Diventa infinito. Dobbiamo allora giocoforza navigare per il breve mare, il Mediterraneo, muoverci per una esigua terra, l’Italia, dei quali abbiamo maggiore cognizione,con la consapevolezza tuttavia che questo mare e questa terra non sono separati da oceani e continenti, che con essi hanno relazioni, ad essi e da essi danno e ricevono esperienza e conoscenza 53.E allora, a partire dall’idea del Mediterraneo come complesso incrocio di mondi e come ponte verso mondi remoti ma ad esso collegati, viene voglia di partire con moto odissaico, dantesco, verso l’oceano e la vastità di altri mari. Per interrogarsi, magari, sui marinai di Fernando Pessoa e di José Saramago,che a sorpresa aprono lo spazio letterario non tanto verso geografie reali quanto verso quelle puramente immaginarie, introducendo delle note esistenziali nel trattamento di tale figura, che stupiscono per la loro delicatezza e per l’aspirazione alla scoperta di verità profondamente umane: l’esperienza dell’esilio come cifra della vita umana e l’amore come il suo estremo ideale e utopia 54. Ma conviene, per questa volta, calare le vele e non superare le Colonne di Ercole.



1 «Il dolce e classico Mediterraneo privo di mestieri, fatto apposta per sciabordare / contro terrazze guardate da statue bianche in giardini contingui!» (da “Ode marittima”, tr. it. di A. Tabucchi).2 Tale espressione è stata usata da A. GNISCI in “La rete interletteraria mediterranea”,saggio compreso in D. DURIS ˇIN, A. GNISCI (a cura di), Il Mediterraneo. Una rete interletteraria,Roma, Bulzoni, 2000, pp. 29-40.3 Dello scrittore martinicano E. GLISSANT si veda in particolare Introduction à une poétiquedu divers, Paris, Gallimard, 1996; tr. it. (a cura di F. Neri), Poetica del diverso, Roma,Meltemi, 1998.4 È d’obbligo citare a questo proposito P. MATVEJEVIC ´, Il Mediterraneo. Un nuovo breviario,Milano, Garzanti, 1993, e in particolare il cap. II, “Carte”, pp. 139-198, dedicato ai peripli marini e alle cartine nautiche.5 Recenti tentativi pseudoscientifici di trasferire l’ambientazione di una ipotetica “reale”odissea nel Mar Baltico, portano il segno di una doppia assurdità: l’attaccamento ad un presunto statuto di realtà del poema, e la negazione dell’evidenza della sua location greco-mediterranea:faccio soprattutto riferimento al libro di F. VINCI, Omero nel Baltico, Roma, Fratelli Palombi Ed., 19982. La mediterraneità del poema omerico è stata, peraltro, ben riconosciutada chi lo ha riattualizzato a partire da contesti culturali distanti come quello caraibico: vedi ad esempio il poema di D. WALCOTT, Omeros (tr. it. di A. Molesini, Omeros, Milano, Adelphi,2003), e il romanzo Los pasos perdidos di A. CARPENTIER (tr. it. di A. Morino, I passi perduti,Palermo, Sellerio 1995).6 A proposito di questo concetto mi permetto di rinviare al mio libro Ulisse tra due mari.Le riscritture novecentesche dell’Odissea nel Mediterraneo e nei Caraibi, Isernia, Cosmo Iannone 2006, e nello specifico alle pp 14-19; foundational fiction è un’espressione usata daHOMI K. BHABA in Nation and Narration, London/NewYork, Routledge, 1993, p. 5; tr. it.Nazione e Narrazione, Roma, Meltemi, 1997.7 Vedi la testimonianza diretta di uno dei riscrittori italiani dell’Odissea, lo scrittore,recentemente scomparso, Luigi Malerba: nel breve Post Scriptum al suo romanzo Itaca per sempre, egli fa infatti riferimento alla performance di un cantastorie greco incontrato sull’Isola di Corfú, un incontro che fece da importante stimolo alla composizione del suo romanzo. Cfr. L. MALERBA, Itaca per sempre, Milano, Mondadori, 1997, p. 183-185.8 Mi riferisco ovviamente all’omonima pièce saviniana, del 1925, ripubblicata da Adelphi nel 1989.9 Vedi a questo proposito la voce “Marinaio” di C. SPILA, per il Dizionario dei temi letterari,a cura di R. CESERANI, M. DOMINICHELLI, P. FASANO, Milano, UTET, 2007, pp. 1422-1429. Una originale sovrapposizione tra il mito di Ulisse e quello di Sindbad è stata attuata da Stefano Benni e Paolo Fresu in Sagrademari. La storia di Odisseo Sinbad perduto in mare (il testo di questo lavoro letterario-musicale in lingua sarda è consultabile all’indirizzo www.stefanobenni.it/inediti/sagrademari.html). 10 Come è stato giustamente osservato da Cristiano Spila con riferimento a Walter Benjamin, il marinaio è uno dei principali “maestri del racconto” (cfr. C. SPILA, “Marinaio”,cit., p. 1423).11 Cfr. E. LEED, La mente del viaggiatore: dall’Odissea al turismo di massa, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 14. Difatti, o meglio paradossalmente, mentre Spila, nella sua voce del DTL sopra citata,non usa mai la dizione “tema” in riferimento ai “suoi” marinai, essa risulta pur sempre come uno dei temi schedati dai curatori del Dizionario. Non credo infatti che nel caso di Moby Dick di Melville né in quello della Ballata del vecchio Marinaio di Coleridge, per indicare solo due testi esemplari, si possa ragionevolmente sostenere che si tratti di opere in cui venga sviluppato il tema del marinaio. Piuttosto, i temi in essi trattati sono quelli della ribellione metafisica (Melville) e della vita come perpetua erranza, vista come redenzione (Coleridge), come lo stesso Spila sostiene. Né, credo, un attento studioso di tematologia come Mario Domenichelli sarebbe del resto d’accordo nel creare una tale, facile, equazione.13 Vedi M. DOMENICHELLI, “I temi e la letteratura europea”, in M. DOMENICHELLI, P. FASANO,M. LAVAGETTO, N. MERLA (a cura di), Letture e riflessioni critiche, vol. I degli Studi di Letterature Comparate in onore di Remo Ceserani, Roma, Vecchiarelli editore, 2003, pp. 125-143.14 Cfr. ivi, p. 131. La citazione da Segre è tratta dal suo Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi 1985, p. 348. Per una presentazione critica della storia della tema-18,tologia a partire dalla Stoffgeschichte di stampo positivista e della discussione delle principali correnti internazionali emerse più recentemente vedi il fondamentale contributo di A.TROCCHI, “Temi e miti letterari”, in A. GNISCI (a cura di), Letteratura comparata, Milano,Bruno Mondadori, 2001, pp. 63-86.15 Cfr. M. DOMENICHELLI, art. cit., p. 132.16 Ivi, p. 133.17 «La géocritique est ensemble une théorie et une méthodologie innovante qui permet l’étude des représentations esthétiques des espaces humains. Elle sonde en particulier le lien entre le référent et ses représentations. La géocritique repose sur trois prémisses théoriques distinctes mais complémentaires: la spatio-temporalité, la transgressivité et la référentialité»,cfr. B. WESTPHAL, “Géocritique”, in La Recherche en Littérature générale et comparée en France en 2007. Bilan et perspectives, études réunies par A. TOMICHE et K. ZIEGER, Valenciennes,Presses Universitaires de Valenciennes, 2007, pp. 325-345. Per approfondimenti teorico-metodologici vedi inoltre B. WESTPHAL, “Pour une approche géocritique des textes:esquissse”, in La Géocritique mode d’emploi, éd. B. WESTPHAL, Limoges, Presses Universitaires de Limoges, 2000, éd. 9-39; lo stesso articolo è stato ripreso nella Bibliothèque comparatiste,www.vox-poetica.org Per l’area mediterranea, si veda inoltre Le Lieu et son mythe. Une géocriqtique méditerranéenne,éd. B. WESTPHAL, Limoges, Presses Universitaires de Limoges, 2002.18 Tr. it. Letteratura europea e Medio Evo Latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992.19 Per l’analisi critica e l’esemplificazione antologica di tale concetto si veda il fondamentale contributo di F. SINOPOLI, Il mito della letteratura europea, Roma, Meltemi, 1999.20 Faccio riferimento al libro di M. BERNAL, Atena nera, Milano, Pratiche, 1997.Notevole anche il libro di S. MARCONI, Reti mediterrane. Le censurate matrici afro-mediorientalidella nostra civiltà, Roma, Gamberetti, 2003.21 Intorno alla necessità etica di superare l’eurocentrismo, non solo sul piano degli studi letterari, sono state indicate diverse vie da A. GNISCI in Via della Decolonizzazione europea,Isernia, Cosmo Iannone, 2004, in Mondializzare la mente. Via della Decolonizzazione europea n. 3, Isernia, Cosmo Iannone, 2006 e in Decolonizzare l’Italia, Roma, Bulzoni, 2007.22 Per Flammarion, Paris. La traduzione italiana (della quale purtroppo non si segnala l’autore) è apparsa nel 2001 per e/o, Roma, sotto il titolo Marinai perduti.23 L’opera di Izzo è disponibile in traduzione presso la stessa casa editrice romana.24 Per la comprensione della poetica dell’autore marsigliese, fortemente influenzata dall’opera del poeta-marinaio marsigliese L. Brauquier, rimando soprattutto alla raccolta di tredici brevi scritti (ai quali si aggiunge un testo tratto dalla raccolta di racconti Vivere stanca,Roma, e/o, 2007) intitolata Aglio, menta e basilico. Marsiglia, il noir e il Mediterraneo,Roma, e/o, 2006. Da segnalare anche il ben informato articolo di L. SULIS, “Jean-Claude Izzo”, in «Pulp libri», n. 65, gennaio/febbraio 2007, pp. 61-65.25 Cfr, J.-C. Izzo, Marinai perduti, cit., p. 11.26 Ivi, p. 9.97 27 Ivi, p. 238.28 Ivi, p. 116. Il corrispettivo testuale si trova in P. MATVEJEVIC ´, Il Mediterraneo. Nuovo Breviario, cit., p. 18. Altri riferimenti più o meno diretti ad idee ricorrenti negli scritti di Matvejevic´ sono alle pp. 122 («L’Atlantico o il Pacifico sono dei mari di distanza. Il Mediterraneo è un mare di prossimità. L’Adriatico d’intimità») e alle pp. 214 (in cui si dà l’elenco delle parole greche per definire il mare).29 Ivi, p. 238.30 Marinai perduti è ricchissimo di riferimenti musicali, tra cui le canzoni del cantautore italiano Gianmaria Testa. Le musiche di Testa accompagnano anche la pièce teatrale intitolata Rien à signaler (una finestra sul Mediterraneo), libero adattamento dello stesso romanzo di Izzo da parte di S. Gandolfo e F. Beccacini, il cui debutto sotto la regia di S. Gandolfo ha avuto luogo dal 24 al 26 luglio 2008 a Borgio Verezzi.Marinai ignoti, perduti (e nascosti)31 «L’ebbrezza stessa della luce non fa che esaltare lo spirito di contemplazione. L’ho scoperto a casa mia, a Marsiglia. Vicino alla baia des Singes, ben oltre il porticciolo di Les Goude, all’estremità orientale della città. Ore e ore a guardar passare nello stretto di Les Croisettes le barche di ritorno dalla pesca. È qui, e in nessun altro posto, che queste mi sembrano,mi sembreranno sempre, la più belle. Ore e ore ad attendere quel momento, più magico di qualsiasi altro, in cui un cargo entrerà nella luce del sole al tramonto sul mare e vi scomparirà per una frazione di secondo. Il tempo di credere che tutto è possibile»; cfr. J.-C. IZZO, “Il Mediterraneo e le sue felicità possibili”, in Id., Aglio, menta e basilico…, cit.,pp. 17-18.32 L’ultima edizione di questo romanzo è del 2004, per Milano, Oscar Mondadori. A questa edizione si rimanda sia per le citazioni che seguono, sia per la bibliografia critica alle pp.XIV-XVII, a cui si aggiunga un rimando al ricco volume collettaneo di I. ROMERO PINTOR (ed.), Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y Espanˇa. Los treinta anˇos de Il sorriso dell’ignoto marinaio, Valencia, Universidad de Valencia, 2007.33 Vedi il fondamentale saggio di C. SEGRE, intitolato appunto “La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo”, già prefazione all’edizione einaudiana dello stesso romanzo del 1987, e ora raccolto in ID., La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86.34 Mi riferisco al contributo di V. CONSOLO a I. ROMERO PINTOR (ed.), op. cit., dal titolo “Antonello da Messina”, pp. 51-61. Riprendendo una sua polemica con Roberto Longhi intorno alla questione dell’identità del personaggio ritrattato da Antonello da Messina,Consolo sposa l’ipotesi che si tratti di Giovanni Rizo di Lipari, un notabile dell’isola «di cui non si escludono interessi marinari» (p. 57).35 Cfr. L. RITTER SANTINI, Ritratti con le parole, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 9-10.36 Cfr. V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, cit., p. 25.37 Ivi, p. 23.38 Cfr. la postfazione dello stesso Consolo alla riedizione del suo romanzo, “Nota dell’autorevent’anni dopo”, ivi, pp. 169-170.39 Ivi, p. 8.104 40 Vedi a questo proposito: ivi, pp. 112-113.42.41 «Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade)», cfr. “Nota dell’autore vent’anni dopo”, ivi, p. 170.42 Ivi, p. 115.106 Marinai ignoti, perduti (e nascosti)43 Cfr. ID., “Lo spazio in letteratura”, in ID., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001,p. 263.44 Cfr. ID., “La retta e la spirale”, in ID., Di qua dal faro, cit., p. 259.45 Il romanzo, dal titolo originale Harisata al zhilal. Don Kishot fi l-jazai’r, è stato tradotto nel 1999 da W. Dahmash, per la piccola e meritevole casa editrice Mesogea di Messina.Non sono segnalati la data e il luogo dell’edizione originale.46 Ivi, p. 29.47 Ivi, p. 31.48 Ivi, p. 15.51 Per la storia e le caratteristiche della lingua franca e del sabir, vedi G. V. ERNST, M-D.GLEBGEN, CH. SCHMIDT, W. SCHWEICKARD (Hrsg.), Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen / Histoire linguistique de la Romania. Manuel international d’histoire linguistique de la Romania, Berlin/New York,Mouton/de Gruyer Verl., 2003, pp. 1100-1105.52 Cfr. W. LAREJ, op. cit., p. 179.53 Cfr. V. CONSOLO, “Lo spazio in letteratura”, cit., p, 263.54 Faccio riferimento alla pièce di F. PESSOA, Il marinaio. Dramma statico in un atto, tr.it. di A. Tabucchi, Torino, Einaudi, 1996, alla famosa “Ode marittima” (in Poesie di Álvaro de Campos, tr. it. di A. Tabucchi, Milano, Adelphi, 1993) al racconto lungo di J. SARAMAGO,Il racconto dell’isola sconosciuta, tr. it. di P. Colle e R. Desti, Torino, Einaudi, 2003.

La rappresentazione degli spazi nell’ opera di Vincenzo Consolo

Bellanova A.,

Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera
di Vincenzo Consolo, Université de Lausanne, 2019.

Il volume propone un’analisi geocentrata della produzione di Vincenzo Consolo, valutando un corpus di testi ampio e vario, che va dalle opere maggiori a articoli e testi sparsi. Osservando come,già a una lettura superficiale, gli spazi rappresentati si annuncino quali straordinari portatori di senso, ha dunque l’obiettivo, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine

letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. L’introduzione, oltre a portare esempi della ‘geograficità’ dell’opera di Consolo – indicazioni

spaziali, dettagli localizzativi e descrittivi, toponimi –, fa il punto sugli indirizzi di critica geocentrati, ovvero geocritica, geopoetica, geotematica e ecocritica.

La prima parte invece, partendo dalla scelta di un approccio che contamina più linee di indagine,dichiara anche la necessità degli strumenti della critica letteraria tradizionale, soprattutto in relazione alla pagina ‘palinsesto’ e alla polifonia che caratterizzano l’opera di Consolo. Individua dunque e passa in rassegna i modi più ricorrenti nella rappresentazione consoliana: il contributo della letteratura e dell’arte nella definizione degli spazi, il ruolo della Storia, i rimandi alle percezioni sensoriali, il legame tra spazio e lavoro dell’uomo. In particolare l’esplorazione della ‘palincestuosità’ in relazione all’immagine dei luoghi sortisce la valorizzazione di un’ampia serie di rimandi e aspetti, distinguendo tra interventi della letteratura suscitati dall’identità stessa dei realia oggetto di appresentazione (ad esempio il rimando a Scilla e Cariddi e all’Odissea per parlare dello Stretto di Messina, i numerosi riferimenti ai resoconti del Grand Tour, soprattutto in Retablo per la caratterizzazione dell’isola) e accostamenti con luoghi distanti, a loro volta oggetto di rappresentazione letteraria (come i luoghi manzoniani ne Il sorriso dell’ignoto marinaio). Importante l’attenzione riservata al ruolo dei classici greci e latini: non solo l’Odissea, referente d’eccezione ne L’olivo e l’olivastro o ne Lo Spasimo, ma anche l’Eneide in particolare nel finale di Nottetempo, casa per casa, la poesia arcadica, gli storici antichi ecc.Come i modi individuati si intreccino nella produzione dell’immagine dei luoghi più significativi è argomento della seconda parte che, muovendo da Sant’Agata di Militello, si allarga all’analisi

puntuale della rappresentazione di Cefalù, Palermo, Siracusa, grandi siti archeologici della Sicilia occidentale, Milano. Una terza parte invece, sulla base delle suggestioni e degli strumenti forniti dall’ecocritica, riflette sul tema ecologico nell’opera di Consolo, soffermandosi soprattutto sulla rappresentazione degli

spazi siciliani e mediterranei e sull’impegno etico che vi si accompagna. In particolare questa sezione si concentra sull’immagine letteraria degli effetti prodotti dal “miracolo indecente” (i casi dei poli industriali di Milazzo, area siracusana, Gela o la violenza della speculazione edilizia) a cui l’autore contrappone alcune isole di sopravvivenza, ovvero i Nebrodi e gli Iblei. ‘osservazione

dello spazio di carta e quindi la considerazione dei meccanismi rappresentativi impegnati ‒ ricca intertestualità, straniamento, notazioni percettive ‒ accompagnate dalla documentazione a proposito dei referenti geografici reali, consentono di comprendere la critica feroce all’industrializzazione e alla modernità, in quanto fautrici di una grave perdita in termini di biodiversità culturale: soffermandosi sulle rappresentazioni dei luoghi del passato e denunciando l’invadenza delle immagini distorte di quelli del presente, l’autore avvisa della necessità di ricordare, del bisogno di documentare un’identità a rischio. A questo aspetto si aggiunge inoltre l’analisi della descrizione dei danni causati da una natura violenta (eruzioni, terremoti) e, ancora più importante, della rappresentazione dei meccanismi di ricostruzione (lodevoli nel caso della Noto barocca, stranianti nel caso della Nuova Gibellina). Infine una quarta parte, incentrata sulla questione Mediterraneo. Mentre evidenzia la caratterizzazione del mare come spazio di molteplicità e migrazioni (significativo il motivo insistente della morte per acqua, con chiaro riferimento al personaggio eliotiano di Phlebas il Fenicio), lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze della contemporaneità.

Dalle Conclusioni, pp. 366-367: «Il lettore [di Consolo] potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie

reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della

realtà: nessun luogo reale, infatti, è un semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo

al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Ecco allora l’eccezionalità di baedeker dell’opera di Consolo: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle letterarie, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia,

il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Alla domanda che la contemporaneità continua a porsi “Come andare avanti adesso che la modernità è sfinita?” (F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna,

Mondadori, Milano 2013), l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi,ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano.Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto ciò, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria.

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante».

L’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo tra finzioni e funzioni della letteraturatura

In L’Italianistica oggi: ricerca e didattica, Atti del XIX Congressodell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma, 9-12 settembre 2015), a cura di B. Alfonzetti, T. Cancro, V. Di Iasio, E. Pietrobon, Roma, Adi editore, 2017

CINZIA GALLO

L’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo tra finzioni e funzioni della letteratura

L’olivo e l’olivastro (1994) costituisce una tappa importante nella ricerca espressiva di Consolo, che asserendo, in apertura, «Ora non può narrare», pone subito in evidenza la distinzione fra scrivere e narrare e il tema dell’«afasia». Come dichiara, infatti, un’ intervista, «Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori […]. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere». In primo piano è, perciò, la funzione civile dello scrittore che, però, mette in pericolo «il corpo letterario del racconto». Da qui il carattere ibrido del nostro testo: i diciassette capitoli si snodano, quasi indipendenti l’uno dall’altro, in una sorta di collage, fra narrazione, diario di viaggio, poesia, saggio, digressioni, descrizioni. Analogamente, il gioco citazionistico – con ricorso, anche, alla memoria interna (l’allusione a Lunaria, ed altri testi consoliani)-, la tecnica dell’accumulo, la finzione letteraria – con le varie voci narranti -, rappresentano un’ulteriore riflessione sull’ autoreferenzialità della letteratura. L’olivo e l’olivastro fornisce, dunque, un chiaro esempio di metaletteratura.

L’olivo e l’olivastro (1994) rappresenta una tappa importante nella ricerca ideologica edespressiva di Vincenzo Consolo. Già il titolo mostra l’intreccio di finzioni e funzioni su cui si basa. Ne Lo spazio in letteratura, del 1999, Consolo spiega, difatti:

Anche chi qui scrive, nella sua vicenda letteraria, […] è risalito, soprattutto nei due ultimi libri, L’olivo e l’olivastro e Lo Spasimo di Palermo, all’archetipo omerico, a quell’Odissea da cui siamo partiti. Lo spazio, in questi due romanzi, si dispiega fra due poli, Milano e la Sicilia. Ma l’Odissea , sappiamo, è una metafora della vita, del viaggio della vita. Casualmente nasciamo in un’Itaca dove tramiamo i nostri affetti, dove piantiamo i nostri olivi, dove attorno all’olivo costruiamo il nostro talamo nuziale, dove generiamo i nostri figli. Ecco, noi oggi, esuli, erranti, non aneliamo che a ritornare a Itaca, a ritrovare l’olivo. Lo scacco consiste nel fatto che sull’olivo ha prevalso l’olivastro, l’olivo selvatico. 1

Il testo omerico, dunque, costituisce, secondo la terminologia genettiana, un vero e proprio ‘ipotesto’ per Consolo, che organizza, attraverso delle particolari finzione narrative, la funzione ideologico-civile a cui ha sempre mirato, come precisa in Memorie:

La prosa dunque della narrazione nasce per me da un contesto storico e allo stesso contesto si rivolge. Si rivolge con quella parte logica, di comunicazione che sempre ha in sé il racconto. Che è, per questa sua origine per questo suo destino, un genere letterario “sociale”. Sociale voglio dire soprattutto perché, in opposizione tematica e linguistica al potere, responsabile del malessere sociale […] il narratore vuole rimediare almeno l’infelicità contingente. 2

Il secondo capitolo de L’olivo e l’olivastro presenta perciò Ulisse che, dopo essere approdato, «Spossato, lacero, […] in preda a smarrimento, panico […]», nella terra dei Feaci, «trova riparo in una tana» posta «tra un olivo e un olivastro»3 (O, 17). Il carattere simbolico di queste piante

  • subito chiarito da Consolo:
  • spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura (O, 17-18).

In realtà, tutta la vicenda di Ulisse è ripercorsa in senso simbolico: non solo «diventa metafora che consente a Consolo di ritrovare nel mito e nella letteratura un senso drammatico e

  1. V.CONSOLO, Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999, 270.
  • CONSOLO, Memorie, in La mia isola è Las Vegas, Milano, Mondadori, 2012, 136.
  • Tutte le citazioni dal nostro testo, indicato con la lettera O, sono tratte da: V. CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994.

complesso dell’esistenza personale e collettiva»,4 ma costituisce un’esortazione, per tutti gli uomini, alla lucidità, alla ragione, a non cadere in errori generati da vicende esterne o interiori. Mentre, difatti, la terra dei Feaci, con «il rigoglioso giardino, la […] fastosa reggia, la saggia […] regina, […] l’accogliente corte, il popolo amico; e l’esercizio in loro della ragione, l’amore per il canto, la poesia», rappresenta «una città ideale, un regno d’armonia» (O, 18), il viaggio di Ulisse in seguito alla disfatta di Troia è «il luogo dove il reale, il concreto, si sfalda, vanifica, e insorge l’irreale, s’installa il sogno, l’allucinazione: il genitore dei mostri, immagini delle nostre paure, dei nostri rimorsi» (O, 19). Ulisse si è reso colpevole, difatti, di aver costruito il cavallo con cui Troia è stata distrutta, perciò «il racconto del viaggio di ritorno fatto da Odisseo è quello della colpa e espiazione, della catarsi soggettiva».5 La vicenda di Odisseo, dunque, è «Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell’isola dai tre angoli: epifania crudele, periglioso sbandare nella procella del mare, nell’infernale natura; salvezza possibile dopo tanto travaglio, approdo a un’amara saggezza, a una disillusa intelligenza» (O, 22). Consolo esprime allora il disorientamento del siciliano, simbolo di tutti gli uomini, attraverso varie figure retoriche (enumerazioni, antitesi, anafore, chiasmi), ponendo termini aulici accanto ad altri più comuni, mettendo in evidenza la sua propensione verso quella forma espressiva che egli stesso definisce «poema narrativo» (O, 48).

Il nostro testo, difatti, esprime all’inizio («Ora non può narrare» [O, 9]) l’impossibilità di narrare, cioè di portare avanti, di condurre una «scrittura creativa».6 Appunto per questo non c’è, ne L’olivo, «una chiara diegesi, né all’interno dei singoli capitoli, né che li colleghi fra di loro: invece, la narrazione procede seguendo una serie di immagini ‘poetiche’, largamente connesse, del passato».7 Fra queste, solo il meccanico terremotato racconta la propria storia in prima persona, come accadrà alla fine del quattordicesimo capitolo, quando il viaggiatore esprimerà il proprio disorientamento; le altre figure, chiaramente autobiografiche, di emigranti, parlano in terza persona, in quanto, «nella modernità le colpe non sono più soggettive, sono oggettive, sono della storia»: di conseguenza «l’introspezione non è necessaria».8 Consolo, allora, da una parte arricchisce i suoi exempla con citazioni autoriali (Dante, Pisacane, Ungaretti, per esempio), dall’altra dà nuovo significato all’ antitesi classica fra città e campagna. A Messina, Roma, Milano, tutte rappresentate negativamente, si contrappone la «Bellissima Toscana contadina», simbolo dei valori «del lavoro, della fatica umana» e perciò «civilissima» (O, 13). L’esplosione della raffineria di Milazzo, ricordata nel terzo capitolo, è l’esempio, invece, di come l’intervento dell’uomo, sull’ambiente, non sia stato sempre positivo. La raffineria è infatti in contrasto con «il castello, le mura saracene, sveve e aragonesi, i torrioni […] la grotta di Polifemo, […] il porto, il Borgo, le chiese, i conventi. […] la vasta piana […] ricca di agrumi, ulivi, viti, orti. Ricca di gelsomini» (O, 24) fra cui si aggirava il ragazzo, recatosi a visitare i parenti nelle Eolie (altra proiezione autobiografica, in quanto Consolo ha realmente una sorella sposata con un notaio di Lipari, come appare nel quarto capitolo), aspettando il treno che l’avrebbe riportato a casa. Narrare allora, con chiara allusione a Il Narratore di Benjamin, «significa socializzare esperienze ricordate. La narrazione […] “attinge sempre alla memoria” e la memoria […] è “madre della poesia”, che […] è […] l’espressione di verità condivisibili riguardo la nostra umana condizione».9 In altre parole, il «narratore benjaminiano […] impartisce conoscenza e cerca

  • M. LOLLINI, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in «Italica», 82, 1 (Spring 2005), 24-43: 25.
  • V. CONSOLO – M. NICOLAO, Il viaggio di Odisseo, Milano, Bompiani, 1999, 21.
  • J. FRANCESE, Vincenzo Consolo, Firenze, Firenze University Press, 2015, 4.
  • Ivi, 27.
  • CONSOLO – NICOLAO, Il viaggio…, 22.
  • FRANCESE, Vincenzo Consolo, 86. Lo stesso Consolo spiega il termine «narrazione» richiamandosi a Benjamin: «Dico narrazione nel senso in cui l’ha definita Walter Benjamin in Angelus Novus. Dice in sintesi, il critico, che la narrazione è antecedente al romanzo, che essa è affidata più all’oralità che alla scrittura, che è il resoconto di un’esperienza, la relazione di un viaggio. “Chi viaggia, ha molto da raccontare” dice. “E il narratore è sempre colui che viene da lontano. C’è sempre dunque, nella narrazione, una

attivamente di trasformare il presente raccontando un passato personale eppur condivisibile, passato che, per analogia, può guidare il suo pubblico verso il futuro».10 L’obiettivo è raggiunto attraverso quella che Consolo definisce «narrazione poematica», che comporta da una parte «la frantumazione del flusso diegetico attraverso l’inserzione di incisi, […] immagini», dall’altra l’uso di «exempla, eventi elevati a metafora».11 Ecco, allora, che Consolo, rifacendosi a quella che Genette chiama funzione di attestazione, menziona alcuni passi dell’ Enciclopedia Italiana Treccani, della Enciclopedia sistematica del regno vegetale, del testo Flora sicula. Dizionario trilingue illustrato, per mettere in rilievo le origini arabe del gelsomino, simbolo, così, del sincretismo culturale della Sicilia ma anche della bellezza incontaminata della pianura di Milazzo. Quella che lo storico Giuseppe Piaggia, infatti, ritiene «uno de’ più incantevoli teatri dell’intera Sicilia», in cui cresceva il gelsomino, «pascolavano gli armenti del Sole», ricordati nell’Odissea, è diventata «una vasta e fitta città di silos, di tralicci, di ciminiere che perennemente vomitano fiamme e fumo, una metallica, infernale città di Dite che tutto ha sconvolto e avvelenato: terra, cielo, mare, menti, cultura» (O, 28). Affiora così in primo piano la funzione ideologica: come i compagni di Ulisse sono puniti per aver ucciso le vacche del Sole, così i superstiti dell’esplosione della raffineria di Milazzo si augurano che «le neri pelli dei compagni striscino, svolazzino nelle notti di rimorsi e sudori dei petrolieri, urlino le membra di dolore e furore nei sogni dei ministri» (O, 28). Sotto questo segno si conclude, anche, il quarto capitolo («Altre tempeste, altre eruzioni, piogge di ceneri e scorrere di lave, altre incursioni di corsari investirono e distrussero le sue Eolie, le Planctai, le isole lievi e trasparenti, sospese in cielo, ferme nel ricordo» [O, 32]), grazie all’anafora, ai parallelismi, all’antitesi («sospese» – «ferme»). «lievi, […] sospese in cielo» (O, 29) sono apparse le isole anche all’inizio del capitolo, a suggerire la struttura circolare, propria di Consolo, su cui è costruito L’olivo e l’olivastro: alla fine, difatti, rivedremo il meccanico di Gibellina che ripeterà: «Sono nato a Gibellina, di anni ventitrè» (O, 9, 147). Le assonanze («lievi» – «trasparenti»; «sospese» – «ferme»), d’altra parte, sottolineano l’importanza degli aggettivi, uniti in quelle enumerazioni che formano la «ritrazione musicale» caratteristica del poema narrativo («un ibrido, un incontro di logico e di magico, di razionale-comunicativo e di lirico -poetico»12). Grazie all’ enumerazione, poi, il ricordo personale si fonde con la memoria di una civiltà, attraverso la finzione del resoconto di un viaggio, in perfetta consonanza con il narratore descritto da Benjamin («il narratore è pre-borghese, è colui che riferisce un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio»13). Gli esempi sono innumerevoli, in questo senso. Osserviamo quanto accade ad Augusta:

Il vento di Borea, sceso dalle anguste gole del Peloro, lo sospinse alla costa dei coloni venuti da Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto, tra Megara Hyblea e Thapsos, lo portò nel golfetto più in là di punta Izzo, nel témenos di smarrimento e allucinazione, d’incanto e rapimento

, dove, nella luce aurorale d’un agosto, al giovane studioso di dialetti ionici, apparve, emergendo dal mare, la creatura sublime e brutale, adolescente e millenaria, innocente e sapiente, la sirena silente [omoteleuto] che invade e possiede, trascina nelle immote dimore [assonanza], negli abissi senza tempo, senza suono (O, 33).

In altri casi le immagini del mito, inserite in metafore, combinate con altre figure retoriche (anafore, enumerazioni), servono a rafforzare la degenerazione del presente:

Corre sulla strada per Siracusa, lungo la costa bianca e porosa di calcare, ai piedi del tavolato degli Iblei, va oltre Tauro, Brùcoli, Villasmundo, va dentro l’immenso inferno di ferro e fiamme, vapori e fumi, dentro fabbriche di cementi e concimi, acidi e diossine, centrali termoelettriche e raffinerie, dentro Melilli e Priolo di cilindri e piramidi, serbatoi di

lontananza di spazio e di tempo”. E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità» (I ritorni, in Di qua dal faro, 144).

  1. Ivi, 64.
  2. Ivi, 71.
  3. CONSOLO, L’invenzione della lingua, in «MicroMega», 5 (1996), 115

nafte, oli, benzine, dentro il regno sinistro di Lestrigoni potenti, di feroci giganti che calpestano uomini, leggi, morale, corrompono e ricattano, devìa per Agosta, l’Austa sul chersoneso fra due porti, Xifonio e Megarese, nell’isola congiunta alla terra da due ponti. La città dei due Augusti, il romano e lo svevo, chiusa nel superbo castello, nei baluardi, nelle mura, circondata da scogli con forti dai nomi sonanti, Ávalos, García, Vittoria, crollati per terremoti e guerre e sempre ricostruiti, varcata la Porta Spagnola, gli appare nella luce cinerea, nella tristezza di un’Ilio espugnata e distrutta, nella consunzione dell’abbandono, nell’avvelenamento di cielo, mare, suolo (O, 34).

Attraverso un inciso («Come sempre le guerre»), poi, il narratore dà valore generale alla singola esperienza, che pone sullo stesso piano lo scempio causato dagli uomini e quello determinato dalle calamità naturali:

Contro lo sfondo di caserme mimetiche e hangar vuoti e forati da raffiche e schegge, contro lo scenario fermo di un’ultima guerra di follia e massacro, come sempre le guerre, erano le nuove macerie del terremoto d’una notte di dicembre che aveva aperto tetti, mura di case, chiese, inclinato colonne, paraste, mutilato statue, distrutte e rese fantasma le case della Borgata (O, 34).

Sono allora le città del passato, come asserito anche in Retablo, a rappresentare gli aspetti positivi, i valori smarriti al presente, con palese richiamo all’ «inversione storica»14 di Bachtin. Lo sottolineano le anafore, le enumerazioni, il poliptoto, le metafore:

Ama quella sua città, non vede quelle mura dirute, quelle chiese puntellate da travi, quelle case deserte, quel porto, quel mare oleoso invaso da petroliere, quella campagna intorno di ulivi e mandorli neri, quelle spiagge caliginose e affollate di bagnanti, quell’orizzonte, quello sky-line di tralicci, di tubi, di silos. Amano [poliptoto], lui e lo zio professore, pensionato della scuola, la città del passato, antecedente a quella dei Romani, a quella che il gran Federico munì di castello e privilegi, la remota città che conoscono in ogni pietra, in ogni vicenda, su cui insieme scrivono una notizia, una guida: amano un sogno, un mondo lontano, lontano [anadiplosi] dall’orrore presente (O, 35).

Rappresentano dunque, questi moduli espressivi, l’unica possibilità in un periodo di crisi. I rapporti «tra parola e realtà nella società contemporanea»15 sono del resto discussi nel sesto capitolo, di chiaro orientamento metaletterario, che ripropone, in apertura, la situazione già presentata in Catarsi. Anche qui, infatti, Pausania dichiara di essere «il messaggero, l’ ánghelos», a cui «è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio..» (O, 39). Ma Empedocle, analogamente che in Catarsi, definisce «ogni parola […] misera convenzione» (O, 41), per cui pronuncia «parole d’una lingua morta, / di corpo incenerito, privo delle scorie / putride dello scambio, dell’utile / come la lingua alta, irraggiungibile, / come la lingua altra, oscura, / della Pizia o la Sibilla / che dall’antro libera al vento mugghii, foglie…» (O, 44). Queste posizioni, d’altra parte, porteranno Consolo a dichiarare, in I ritorni:

Ma oggi, in questa nostra civiltà di massa, in questo mondo mediatico, esiste ancora la possibilità di scrivere il romanzo? Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la situazione sociale, non si possano che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo. 16

  1. M.BACHTIN, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, 294.
  1. M.ATTANASIO, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, 26.
  1. CONSOLO, I ritorni, 145.

E ne Lo Spasimo di Palermo:

Abborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. 17

Consolo concludeva, in tal modo, un discorso iniziato precedentemente, in Fuga dall’Etna e in

Nottetempo, casa per casa. Nel primo, aveva asserito:

Il romanzo […] sta degenerando […] Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da ‘felici pochi’. 18

  • in Nottetempo, casa per casa:
  • è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? E’ possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, de grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. 19

Modello, allora, della nuova forma narrativa sono I Malavoglia, privi di «intreccio […] di romanzesco» (O, 48). I suoi moduli espressivi corrispondono a un dolore assoluto:

Un poema narrativo, un’epica popolana, un’odissea chiusa, circolare, che dà il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante, nei proverbi gravi e immutabili come sentenze giuridiche o versetti di sacre scritture, Bibbia, Talmud o Corano, dà il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo, suggerisce l’immagine della fissità: della predestinazione, della condanna, della pena senza rimedio (O, 48).

Ma, secondo Consolo, al presente la situazione è degenerata: la speculazione edilizia ha fatto sparire «le casipole, le barche, i fariglioni. […] gli scogli, la rupe del castello di Aci, il Capo Mulini, l’intero orizzonte» (O, 49), in contrapposizione a Vizzini, luogo carico di memorie verghiane. Si verifica, di conseguenza, la «fine del poema», con un «turbinìo di parole, suoni privi di senso, di memoria» (O, 49). Un esempio è l’accumulo di termini che descrivono il procedere del viaggiatore lungo la costa catanese:

Va dentro il frastuono, la ressa, l’anidride, il piombo, lo stridore, le trombe, gli insulti, la teppaglia che caracolla, s’accosta, frantuma il vetro, preme alla tempia la canna agghiacciante, scippa, strappa anelli collane bracciali, scappa ridendo nella faccia di ceffo fanciullo, scavalca, s’impenna, zigzaga fra spazi invisibili, vola rombando, dispare. Va lungo la nera scogliera, il cobalto del mare, la palma che s’alza dai muri, la buganvillea, l’agave che sboccia tra i massi, va sopra l’asfalto in cui sfociano tutti gli asfalti che ripidi scendono dalle falde in cemento del monte, da Cibali Barriera Canalicchio Novalucello, oltrepassa Ognina, la chiesa, il porto d’Ulisse, coperti da cavalcavie rondò svincoli raccordi motel palazzi – urlano ai margini venditori di pesci, di molluschi di nafta -, oltrepassa la rupe e il castello di lava a picco sul mare, giunge al luogo dello stupro, dell’oltraggio (O, 46-47).

  1. V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, 105.
  1. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, 60-61.
  1. V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992, 68-69.

Che Catania sia «pietrosa e inospitale, emblema d’ogni luogo fermo o imbarbarito» (O, 58),

  • dimostrato dalla scarsa attenzione riservata, già dai suoi stessi contemporanei, a Verga, che viene così a rappresentare l’intellettuale esule nella sua stessa città, un «inferno [….] che sempre e in continuo fu coperta dalle lave, squassata e rovinata dai tremuoti» (O, 57). Da qui la «sfida spavalda e irridente» (O, 57) degli abitanti, che rivolgono, invece, la loro attenzione a Rapisardi, «il versificatore vuoto e roboante» (O, 58). Quando, perciò, Catania organizza una cerimonia per festeggiare gli ottant’anni di Verga, costui vede ben chiare «le due facce […] di quella odiosamata sua città, di quel paese: la maschera ottusa, buffona e ruffiana della farsa e quella furba e falsa della retorica, dell’eroismo teatrale e decadente» (O, 62). E non è certamente un caso che sia Pirandello a rendersi conto dell’estraneità di Verga, che un sapiente uso dell’aggettivazione, delle figure retoriche (anafore, metafore, enumerazioni) sottolineano, costituendo un ulteriore esempio di scrittura poematica:

Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna ricorrenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio osceno, poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io. Pensò che la Demente, la sua Antonietta, la suor Agata della Capinera, la povera madre, il fratello suicida di San Secondo, ogni pura fragile creatura che s’allontana, che sparisce, non è che un barlume persistente, segno di un’estrema sanità nella malattia generale, nella follia del presente (O, 67).

.

Difatti, se, come è noto, Consolo individua una differenza fra la cultura della parte orientale dell’isola, in cui collochiamo Verga, interessata ai temi dell’esistenza, della natura, e quella della parte occidentale, di cui è rappresentante Pirandello, orientata ai problemi della storia, sono questi, adesso, ad essere considerati più urgenti. Nel decimo capitolo, perciò, il viaggiatore, giunto a Caltagirone, incontra la sua amica Maria Attanasio, un vero e proprio modello di intellettuale e scrittrice. Vive in disparte «dal mondo», in quanto, consapevole degli aspetti negativi della sua terra, «come tutti i poeti ama un altro mondo, un altro paese» (O, 71). Analogamente alla protagonista del suo romanzo Correva l’anno 1698 e in città avvenne il fatto memoriabile, Maria, allora, «s’era mascherata da uomo, da poliziotto, per combattere l‘incuria, ildisordine amministrativo, il sopruso mafioso» (O, 75), che si riflettono nella conformazione della città, in linea con la grande importanza che Consolo attribuisce, sempre, alla geografia, agli spazi. «Al di qua del paese saraceno, giudeo, genovese e spagnolo, […] è sulla piana un altro paese speculare di cemento: quartieri e quartieri uniformi di case nuove e vuote, deserte. […] mostruosità nate dalla cultura di massa, […]» (O, 70). La condanna di questa, che ha provocato la perdita della memoria, della storia, testimoniate dalle ceramiche delle facciate di edifici pubblici e privati – a rivelare il carattere visivo-figurativo20 della scrittura consoliana, è senz’appello, grazie, sempre, alle figure retoriche utilizzate:

  • Infatti, «[…] la historia de la escritura de Vincenzo Consolo puede reconstruire idealmente a partir de una percepción cromática desarrollada en una página inédita, […] El narrador incipiente […] estaría ofreciendo ya una de las claves de construcción – y de lectura – de su obra futura: “Pensate a un quadro”» (M.Á. CUEVAS, Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10 (2005), 63-77: 64). Lo stesso Consolo, del resto, dichiara in un’intervista: «Sempre ho avvertito l’esigenza di equilibrare la seduzione […] della parola con la visualità, con la visione di una concretezza visiva» (D. O’CONNELL, Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo, in «The Italianist», 24: II, 2004, 251)-

Sembra così, questo piccolo paese nel cuore della Sicilia, il plastico, l’emblema del più grande paese, della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinqant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l‘Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze (O, 71).

I danni della cultura di massa, verso cui Consolo è sempre molto critico,21 sono chiari a Gela, dove un ragazzo, «nutrito» di una «demente cultura», di «libri di vuote chiacchiere», «della furbastra e volgare letteratura sulla degradazione e la marginalità sociale», come appare nei «serials televisivi, […] Piovra 1, Piovra 2, Piovra 3…», dimenticando «ogni cognizione del giusto e dell’ingiusto, della pietà e della ferocia, ogni fraterno affetto» (O, 80-81), ha ucciso il fratello per futili motivi. Il verbo ‘nutrire’, ripetuto in anafora, è ovviamente usato in funzione antifrastica, in quanto è evidente che la cultura ha perso ogni aspetto formativo e solo la scrittura poematica può alludere a tale degenerazione («Dire di Gela nel modo più vero e forte, dire di questo estremo disumano, quest’olivastro, questo frutto amaro, questo feto osceno del potere e del progresso, dire del suo male infinite volte detto, dirlo fuor di racconto, di metafora, è impresa ardua o vana» [O, 77]). Riprendendo infatti quanto asserito in Memorie («in questo ibrido letterario che è il racconto», la «parte logica [ …] può invadere per altissima febbre civile tutta la colonnina, […] con […] rischi mortali per il corpo letterario del racconto»,22 Consolo adesso dichiara: «Ma oltre Gela o Milazzo, Augusta o Catania, è in questo tempo per chi scrive un mortale rischio tradire il campo, uscire dal racconto, negare la finzione e il miele letterario, riferire d’una realtà vera, d’un ritorno amaro, d’un viaggio nel disastro [O, 77]). L’intellettuale, difatti, al presente non è ascoltato. Consolo, di conseguenza, svela le cause del malessere di Gela attraverso una prosa che adotta, ancora una volta, l’andamento ritmico della poesia (grazie all’anafora, all’enumerazione, alla metafora, all’allitterazione) e in cui convivono termini aulici («obliato»), anche di memoria montaliana («cocci», «muraglia»), con altri più comuni:

Da quei pozzi, da quelle ciminiere sopra templi e necropoli, da quei sottosuoli d’ammassi di madrepore e di ossa, di tufi scanalati, cocci dipinti, dall’acropoli sul colle difesa da muraglie, dalla spiaggia aperta a ogni sbarco, dal secco paese povero e obliato partì il terremoto, lo sconvolgimento, partì l’inferno d’oggi. Nacque la Gela repentina e nuova della separazione tra i tecnici, i geologi e i contabili giunti da Metanopoli, chiusi nei lindi recinti coloniali, palme pitosfori e buganvillee dietro le reti, guardie armate ai cancelli, e gli indigeni dell’edilizia selvaggia e abusiva, delle case di mattoni e tondini lebbrosi in mezzo al fango e all’immondizia di quartieri incatastati, di strade innominate, la Gela dal mare grasso d’oli, dai frangiflutti di cemento, dal porto di navi incagliate nei fondali, inclinate sopra un fianco, isole di ruggini, di plastiche e di ratti; nacque la Gela della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasìa, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo (O, 78-79).

  • In un’intervista del 2007, Consolo osserva che con la mutazione antropologica «teorizzata da Pasolini. Il nostro Paese si modernizzava velocemente, subendo però i modelli importati dall’esterno. Da qui un asservimento culturale, linguistico negli usi, nei costumi e nei consumi. […] Da qui la perdita di ogni forza espressiva e di ogni verità storica» («Consolo ‘Le ombre della nostra cultura’». Intervista. laRepubblica.it,
  • novembre 2007, 1). Tre anni prima, del resto, ha ricordato con piacere come «il poeta ed etnologo Antonino Uccello, […] nel momento della grande mutazione antropologica, vale a dire della fine della civiltà contadina», sia riuscito a raccogliere «antichi canti popolari» (Consolo, Pino Veneziano e la canzone popolare, Milano 19 luglio 2004, pinoveneziano.altervista.org/consolo_e_fo.html). Critiche alla televisione sono anche contenute in La pallottola in testa (La mia isola è Las Vegas, 157-162).
  • CONSOLO, Memorie…, 136.


Ed è proprio l’importanza attribuita alla storia e alla memoria a tenere lontano Consolo dal postmodernismo, come ha puntualizzato Norma Bouchard.23 Consolo immagina allora che dalle rovine del tempio di Atena, che quindi si pongono come depositarie e custodi di autentici valori, si elevino alcuni versi dell’Agamennone di Eschilo («Quale erba cresciuta / nel veleno, quale acqua

  • sgorgata dal fondo del mare / hai ingoiato...» [O, 81]). Analogamente, le citazioni che,nell’undicesimo capitolo, descrivono Siracusa24 non possono essere ricondotte al gioco citazionistico del postmodernismo, ma mettono in evidenza come questa città, «d’antica gloria», rappresenti «la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto» (O, 84). Siracusa, descritta con la consueta tecnica dell’accumulo («Molteplice città, di cinque nomi, d’antico fasto, di potenza, d’ineguagliabile bellezza, di re sapienti e di tiranni ciechi, di lunghe paci e rovinose guerre [chiasmo], di barbarici assalti e di saccheggi» [O, 83]), oppone, alla decadenza del presente, i valori della storia e della poesia, in quanto costituisce la «patria d’ognuno […] che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura» (O, 84). Appunto per questo Consolo ricorda il soggiorno a Siracusa di importanti personaggi (Maupassant, Von Platen), i quali, spinti «a viaggiare per quel Sud mediterraneo che, nell’abbaglio, nella mitologia poetica, aveva ereditato dalla Grecia la Bellezza», vi trovano una città «dell’infinito tramonto e dell’abbandono» (O, 102). È proprio il verbo ‘trovare’, ripetuto in anafora, ad attestare lo scarto tra le aspettative di Von Platen, che cerca «come consolazione al suo male, rimedio al suo scontento, solo bellezza ed armonia greca» (O, 103), e la realtà:

Trova vento e tempesta quell’inizio d’inverno a Siracusa, la tramontana che sferza il mare del porto Grande, piega i ficus della passeggiata Adorno, i papiri del Ciane, illividisce la facciata barocca del Duomo d’Atena e di Santa Lucia, le colonne dei templi, le pareti delle latomie. Trova solitudine e disperazione, consunto dalla febbre, dal vomito, dalla dissenteria, trova la morte nella povera locanda Aretusa di via Amalfitania (O, 103).

Due secoli prima, del resto, pure Caravaggio ha giudicato Siracusa un «ammasso di macerie», un «fosso di miseria e d’abbandono» (O, 90). La pochezza intellettuale della città è dimostrata dal discorso del vescovo di fronte al quadro di Santa Lucia commissionato a Caravaggio, discorso perfettamente in linea con l’idea consoliana del racconto come genere «ibrido»,25 in cui le enumerazioni si combinano con le anafore («non possiamo», «nostro-nostra»), con l’anadiplosi («perdoni, perdoni»):

  • La Santa nostra Lucia ci perdoni, perdoni la nostra stoltezza e il nostro inganno. Noi non possiamo ora celebrare, avanti a questo scempio, a quei brutali ignudi incombenti sull’altare, al cadavere reale della donna, a una santa priva di nimbo, a quello squarcio sanguinoso sul suo collo, ai fedeli impiccioliti, al vescovo nascosto…, non possiamo celebrare il santo sacrificio della Messa, non possiamo benedire questo quadro. L’artista capisca e si studi d’aggiustare… (O, 94-95).

La reazione di Caravaggio, che sembra ricordare Fabrizio Clerici di Retablo per il suo legame con il paggio Martino e per aver visto una «turba d’infelici, accattoni e infermi»26 (O, 91) nelle strade della città, è di uscire «nella piazza vasta, nella luce del mattino» (O, 95): vastità di spazi e

  • «It is important to point out that even though Consolo’s novels exhibit many of the rhetorical devices that we have come to associate with postmodern writing practices, they also remain fundamentally distinct from dominant, majoritarian forms of postmodernism» (N. BOUCHARD, Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy, «Italica», 82, 1 [Spring 2005, 5-23: 10-11]).
  • «’I’ son Lucia; / lasciatemi pigliar costui che dorme; / sì l’agevolerò per la sua via’» (Purgatorio, XI, 55-57), (O,

83); «Calava a Siracusa senza luna / La notte e l’acqua plumbea / E ferma nel suo fosso riappariva, / Soli andavamo dentro la rovina, / Un cordaro si mosse dal remoto (G. UNGARETTI, Ultimi cori per la terra promessa, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. PICCIONI, Milano, Mondadori, 1982, 281), (O, 84).

  • CONSOLO, Memorie…, 136.
  • Clerici incontra, per le strade di Palermo, «una folla d’accattoni, finti storpi o affetti da morbi repugnanti» (CONSOLO, Retablo, Milano, Mondadori, 2000, 11).

luce, in sostanza, in contrapposizione alle tenebre dell’ignoranza.27 Ma, al presente, la degenerazione è tale che gli spazi, i luoghi non riescono più ad influire sul modo di pensare. Se, perciò, ad Avola, «La vasta piazza quadrata, il centro del quadrato inscritto nell’esagono, lo spazio in cui sfociano le strade del mare, dei monti, di Siracusa, di Pachino, fu sempre il teatro d’ogni incontro, convegno, assemblea, dibattito civile, la scena dove si proclamò il progetto, si liberò il lamento, l’invettiva» (O, 110), adesso essa è «vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra» (O, 112). Responsabile è l’omologazione, l’avvento della cultura di massa: tanti giovani, «con l’orecchino al lobo, i lunghi capelli legati sulla nuca, che fumano, muti e vacui fissano la vacuità della piazza come in attesa di qualcuno, di qualcosa che li scuota, che li salvi. O li uccida» (O, 112). Tutte le costruzioni umane, dunque, anche quelle che insistono nello spazio, testimoniano la crisi: il viaggiatore che giunge a Siracusa, di conseguenza, ritiene giusto che le lacrime della Vergine, «nel presente oscuro e allarmante, si siano unite, solidificate nel cemento di una immensa lacrima» [il santuario della Medonna delle Lacrime] (O, 100). L’impressione negativa causata dal degrado, dall’incuria in cui versano gli edifici di Noto è rafforzata, ancora una volta, dalle enumerazioni, dall’accurata scelta di aggettivi, sostantivi, verbi:

Il suo tufo dorato si è corroso, sfaldato, le sue architetture di stupore si sono incrinate, i fregi son crollati per vecchiezza, inquinamento, incuria, per le infinite, ricorrenti scosse del suolo. […] chiese e palazzi e conventi pericolanti, imbracati, puntellati da fitti tubi di ferro, da tavole e travi, invasi nelle fenditure, nelle crepe, nei làstrici, nelle logge evacuate, da cespugli di rovi, da edere, fichi selvatici. […] un liceo, un vasto edificio sulla via principale puntellato da travi. Dentro era tutto disfatto, corroso, divorato dal cancro, invaso dalle erbe, sepolto dalla polvere del tufo (O, 116-117).

I luoghi, però, mettendo in modo il meccanismo della memoria, consentono di tramandare dei principi che dovrebbero far riflettere. Il viaggiatore, infatti, ricordando, davanti al mare, un viaggio compiuto in Africa, fino ad Utica, dove il ricordo dei versi di Dante fa sentire ancora vivo l’esempio di Catone, come altri «luoghi antichi e obliati, bagnati da quel Mediterraneo, […] Tindari, Solunto, Camarina, Eraclea, Mozia, Nora, e Argo, Thuburbo Majus, Cirene, Leptis Magna, Tipaza… […] Algeri, dove don Miguel scriveva l’ottava […] per il poeta Antonio Veneziano», sente di odiare «la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione» (O, 105). Quest’immagine è amplificata dapprima attraverso l’anafora, l’enumerazione, il richiamo al sacrificio di Ifigenia, poi con la citazione di un passo del Lamento della città caduta di Ducas, presente pure, come epigrafe,28 in Retablo. Questo esempio di memoria interna, insieme ai riferimenti a Lunaria,29 a Lo Spasimo di Palermo, a Il sorriso dell’ignoto marinaio, a Le pietre di Pantalica attesta i profondi legami esistenti fra le varie opere di Consolo, la loro sostanziale unitarietà oltre che una riflessione sull’ autoreferenzialità della letteratura. A questa, in sostanza, spetta mantenere in vita un patrimonio di idee destinato, altrimenti, a tramontare. Il viaggiatore nota, difatti, non solo che la vecchia madre ha dimenticato tutto il «carico di pene, di ricordi» (O,

  1. della sua esistenza, ma pure che la casa dove era cresciuto con la sua famiglia è stata abbattuta per far posto a un nuovo quartiere. Nato in un paese «ai piedi dei Nèbrodi» (O, 122), egli, dietro cui è ormai facile scorgere lo stesso Consolo, decide di viaggiare, di andare «verso occidente, verso i luoghi della storia» (O, 123), che attestano il sincretismo culturale sempre
  • Cfr., sul motivo della luce nei testi di Consolo, P. CAPPONI, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, 49-61.
  • L’importanza, la funzione delle epigrafi sono chiarite da Consolo in Le epigrafi, (Di qua dal faro,198-202).
  • A Noto, il viaggiatore ricorda di avere assistito, «anni prima alla rappresentazione di un’operetta barocca, una favola in cui si narrava d’un viceré malinconico e d’una luna che si sfalda e che cade. / Ma la Luna, la Luna la Luna / la maculata Luna è dissonanza, / è creatura atonica, scorata, / caduta dalla traccia del suo cerchio, / vagante negli spazi desolanti» (O, 117). Questi versi sono, appunto, in Lunaria (Torino, Einaudi, 1985,52).

molto caro al nostro autore. Egli si innamora, infatti, di Cefalù, in cui le radici arabe e normanne sono perfettamente fuse, «siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca»30 (O, 124). A Cefalù trova il ritratto dell’Ignoto, «che un barone, un erudito, amante d’arte, aveva trovato nelle Eolie e insieme poi ad una sua raccolta aveva lasciato in dono al suo paese» (O, 124). Il percorso compiuto dal quadro, «dal mare verso la terra», descritto in apertura de Il sorriso dell’Ignoto marinaio, sembra perciò coincidere con quello del viaggiatore, cioè «dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura» (O, 124), alla grande storia di Palermo. Ma la crisi, il decadimento è tale che il quadro di Antonello non può più costituire un punto di riferimento: esso è diventato, semmai, “Le pitture nere” di Goya. Arrivato a Palermo, allora, il viaggiatore decide di non fermarsi. Se, al solito, le enumerazioni marcano questa raffigurazione negativa, riprendendo quanto affermato ne Le pietre di Pantalica31 («Non volle fermarsi in quel luogo dell’agguato, del crepitio dei kalashnikov e del fragore del tritolo, delle membra proiettate contro alberi e facciate, delle strade di crateri e di sangue, dell’intrigo e del ricatto, delle massonerie e delle cosche, in quel luogo dell’Opus Dei, degli eterni Gesuiti del potere e dei politici di retorica e spettacolo, della plebe più cieca e feroce, della borghesia più avida e ipocrita, della nobiltà più decaduta e dissennnata»), un’interrogativa rileva come, ormai, il disfacimento sia generale («Ma è Palermo o è Milano, Bologna, Brescia, Roma, Napoli, Firenze?» [O, 125]). Nemmeno i luoghi delle antiche civiltà, allora, possono dirsi custodi di antichi, autentici valori: Segesta è «dissacrata» dagli incendi dolosi, dalle «comitive chiassose» (O, 126), così come lo è il teatro greco di Siracusa, ne Le pietre di Pantalica. Analogamente, Trapani, «città d’un tempo degli scambi, del porto affollato di velieri, della rotta per Tunisi e Algeri, della civiltà dei commerci, di banchi, di mercati, di ràbati e giudecche, di botteghe», è adesso «caduta nel dominio delle logge, delle cosche mafiose più segrete e più feroci» (O, 129). Dimostra questi concetti, sottolineati da assonanze (banchi-mercati- ràbati; giudecche -botteghe) ed allitterazioni, l’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, tanto più grave in quanto il giudice «crea una verità, quella giuridica, definitiva e incontrovertibile, di fronte alla quale la verità storica non ha più valore» (O, 132). E a testimoniare lo stravolgimento di valori e principi, il viaggiatore vede, in una stanza del museo, di un luogo, cioè, che di per sé custodisce le memorie del passato, una ghigliottina, rimasta in funzione fino agli anni successivi all’unificazione italiana. Gli appare quale «rappresentazione della giustizia assurta a crudele astrazione, a geometrica follia, a demente iterazione rituale, a terrifica recitazione» (O, 130): ciò significa attribuire una motivazione storica alla contemporanea degenerazione della Sicilia. Consolo, del resto, si mostra attento ai fatti di Bronte,32 alle rivolte di Cefalù, di Alcàra Li Fusi. Solo dalla letteratura, dunque, potrebbe giungere una salvezza, come sarà evidenziato ne Lo Spasimo di Palermo. Perciò, se scrittori come Hugo, Camus guardano con «raccapriccio» (O, 130) allaghigliottina, Consolo immagina che, ad Erice, mentre gli scienziati «Parlano e parlano, enunciano teorie, scoperte, espongono programmi, [… ] contrastano come gli antichi cerusici al capezzale del malato» (O, 134), il suo amico Nino De Vita scriva «poemi in vernacolo alto, in una pura, classica lingua simile all’arabo, al greco, all’ebraico» (O, 135), poemi, quindi, che scavano in verticale nella storia della Sicilia, «barbarica» (O, 141) al presente. Infatti, mentre Michele Amari ricorda che l’arrivo degli Arabi «diede risveglio, ricchezza, cultura, fantasia» (O,

  1. alla Sicilia, Mazara, in seguito agli aiuti economici ricevuti dal Governo negli anni Sessanta del Novecento, ha fatto registrare tantissimi casi di razzismo contro Arabi e Neri. I fatti di cronaca si mescolano così alle memorie del passato, personali e collettive, dando vita ad un
  • Il particolare significato che Consolo attribuisce a Cefalù è spiegato ne La corona e le armi (La mia isola è Las Vegas, 98-102).
  • Qui Consolo ha scritto: «Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta» (Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1995, 132).
  • Cfr. E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte, in La mia isola è Las Vegas, 103-110.

testo che si pone «fuori da ogni vincolo di genere letterario».33 Alla letteratura, però, continua a guardare Consolo. Sono infatti «i racconti scritti di Tomasi di Lampedusa e quelli orali di Lucio Piccolo di Calanovella» a guidare il viaggiatore nell’ultima tappa del suo viaggio, un vero e proprio «itinerario di conoscenza e amore, lungo sentieri di storia» (O, 143). Ancora, tra le macerie di Gibellina, vede Carlo Levi, sente «le sue parole di speranza rivolte ai contadini intorno» (O, 144), vede Ignazio Buttitta, Leonardo Sciascia, tutti scrittori che concepiscono la loro attività in funzione civile. 34 Non sempre, però, i nuovi tempi lo consentono. Già Consolo si

  • chiesto: «Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assassino? Cos’è successo a te che stai leggendo?» (O, 81). Sotto il segno di una finzione, che è mezzo per affermare la funzione civile della letteratura, si conclude, allora, il nostro testo. Consolo immagina che, «sopra il colle che fu di Gibellina» (O, 148), si rappresenti la tragedia di Masada nell’interpretazione di Giuseppe Flavio, a suggellare la volontà di difendere i valori autentici del consorzio civile dall’attacco omologante della società di massa, del degrado portato avanti da un falso sviluppo tecnologico, incarnato dai romani «con tute di pelle, […] caschi, […] motociclette» (O, 149):
  • Da gran tempo avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del dio… In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna… Siamo stati i primi a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo sia una grazia concessa dal dio questa di poter morire con onore e in libertà… Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù… (O, 148).

«Narra una voce» (O, 148): solo così, cioè, salvaguardando la propria humanitas, gli uomini possono creare letteratura, la cui funzione propria è ‘politica’. Consolo lo dichiara esplicitamente:

Ma: cos’è la letteratura, la narrativa soprattutto, con la sua scrittura in prosa più o meno di comunicazione, immediatamente o mediatamente, se non politica? Politica nel senso che nasce, essa letteratura, da un contesto storico e sociale e ad esso si rivolge? E si rivolge, naturalmente, con linguaggio suo proprio, col linguaggio letterario (leggeremmo, se no, trattati di storia, perorazioni politiche, relazioni giornalistiche …). Linguaggio che fa sì che il fatto narrato sia quello storico, sia quello politico, ma insieme sia altro oltre la significazione storica; altro nel senso della generale ed eterna condizione umana. Linguaggio che muovendo dalla comunicazione verso l’espressione attinge quindi alla poesia. 35

  • G. FERRONI, Il calore della protesta, in «Nuove Effemeridi», VIII, 29 (1995/I), 174.
  • Si evince dalle pagine che Consolo dedica a questi scrittori negli articoli riuniti in Di qua dal faro e ne Le pietre di Pantalica.
  • CONSOLO, Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, 229.

Ports as locus of the Mediterranean imaginary Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo

by
Maria Roberta Vella
In Partial Fulfillment of the Requirements of the Degree of
Master of Arts in Literary Tradition and Popular Culture
August 2014
Faculty of Arts
University of Malta

I dedicate this thesis to you, dear father. You showed me with your constant love, that whatever I do with persistence and commitment will open the doors to my destiny. The long nights I spent awake, reading and researching reminded me of the long nights you spent awake working, pennitting me to study and build my future. Your sacrifices are always accompanied by a constant smile that continuously gives me courage in difficult moments.

ACKNOWLEDGMENTS
The number of people to whom I owe my accomplishments is far too long to fit on this page, as many have inspired me and given me their constant support which has helped me realize that knowledge could open doors I did not even know existed. Nevertheless, there are a number of people who I would like to mention as they have been there for me during tough times and have given me the support I needed. I would like to thank my family without whom I would not have been able to further my studies, my boyfriend Terry, who has always believed in me and has always been there to support me with his constant love, and my uncle Carlo, who from an early age fed me with books and literature that fostered my love of knowledge and the curiosity to find my inner self. I would also like to thank my dearest colleague Ray Cassar, who always helped me grow both academically and as a person, as well as my tutor and mentor Adrian Grima, who directed me, allowing me to ground and express my ideas better whilst always respecting and valuing my opinions.
II
Table of Contents
1 Introduction …………………………………………………………………………………………. 2
1.1 The Harbour as Threshold ………………………………………………………………. 7
1.2 The Port as a Cultural Lighthouse ………………………………………………….. 10
1.3 The Mediterranean Imaginary of Izzo and Consolo Inspired by the Port12
1.4 Conclusion ………………………………………………………………………………….. 16
2 The Harbour as Threshold …………………………………………………………………… 1 7
2.1 Natural Landscape and the Development of Literature …………………….. 20
2.2 Instability vs. Stability in the Mediterranean Harbour ………………………. 23
2.3 The Prototypical Sailor …………………………………………………………………. 27
2.4 The Harbour as a Metaphorical Door ……………………………………………… 34
3 The Port as a Cultural Lighthouse ………………………………………………………… 38
3.1 Religious Cultural Mobility ………………………………………………………….. 43
3.2 The Lingua Franca Mediterranea as a Mode of Communication ………. 49
4 The Mediterranean Imaginary of Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo
Inspired by the Port ………………………………………………………………………………….. 58
4.1 The Mediterranean Imaginary in Izzo and Consolo ………………………….. 60
4.2 The Mediterranean Imaginary in Popular Culture ……………………………. 69
4.3 Conclusion ………………………………………………………………………………….. 76
5 Conclusion ………………………………………………………………………………………… 78
5.1 The ‘Imaginary’ of the Mediterranean ……………………………………………. 80
5.2 The Mediterranean ‘Imaginary’ Beyond the Harbour ……………………….. 84
6 BIBLIOGRAPHY……………………………………………………………….. .. 9?.
III
Abstract

The Mediterranean harbour is a place of meeting, of encounters between
civilizations, of clashes, wars, destructions, peace; a place where culture comes to live, where art is expressed in various ways and where authors and thinkers have found inspiration in every comer. The harbour imposes a number of thresholds to the person approaching it. This threshold could have different fonns which could be emotional, geographical, spiritual or cultural. Authors such as Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo lived and experienced the Mediterranean harbour in all its aspects and expressions; their powerful experience resulted in the formation of important images referred to as ‘imaginary’. The Mediterranean imaginary is the vision of various authors who have been able to translate facts and create figures and images that represent a collective, but at the same time singular imagination. The harbour is an important part of the Mediterranean geographical structure and thus it has been the main point of study for many examining the region. Factors such as language have transformed and suited the needs of the harbour, being a cultural melting pot.
1 Introduction
The Mediterranean is represented by chaos, especially in the harbour cities that are witness to the myriad of cultures which meet each and every day to discuss and interact in the harbour. It is imperative to state that chaos, as the very basis of a Mediterranean discourse has been fed through the different voices fonned in the region. These same voices, images and interpretations have found a suitable home in the Mediterranean harbours, places where literature and culture managed to flourish and where the so-called ‘margins’, both geographical and social, found centrality. The harbour has acquired significance in the discourse on the Mediterranean and thus on how literature and cultural expedients and the vaiious authors and artists recall the harbour as an anchorage point for their deep thoughts about the region. 1
Nowadays, the unification of the Mediterranean seems a ‘utopia’, since the Mediterranean is politically perceived as a region full of borders and security plans. One may easily mention the various strategic moves put forward by the European Union to safeguard the northern Mediterranean countries from migration from North African shores. By applying and reinforcing these security plans, the Mediterranean has become ever increasingly a region of borders. It is also important not to idealize the Mediterranean past as a unified past, because the 1 Georges Duby Gli ideali def Mediterraneo, storia, jilosojia e letteratura nella cultura europea
(Mesogea, 2000) pp.80-104
2
region was always characterized by conflict and chaos. Despite the chaos that was always part of the Mediterranean, being a region of clashing civilizations, it managed to produce a mosaic of various cultures that is visible to the eye of the philosopher or the artist. The artist and the philosopher manage to project their thoughts and ambitions for the region; therefore they are able to see hannony in a region that seems so incoherent. The aim of my thesis is to understand why the harbour is crucial in the construction of the Mediterranean imaginary. Both open space and border, the port, as in the case of Alexandria or Istanbul, has for a long time been a center for trade, commerce and interaction. Therefore, it is imperative to focus on the study of the harbour and harbour cities to be able to give substance to a study about the Mediterranean as a complex of imaginaries. The boundaries in the study about the Mediterranean have a special place; in fact a boundary that may be either geographical or political has the ability to project and create very courageous individuals that manage to transgress and go over their limits when facing the ‘other’. In the Mediterranean we perceive that the actual reason for transgressing and overcoming a limit is the need of confonning or confronting the ‘other’, sometimes a powerful ‘other’ able to change and shift ideas, able to transpose or impose cultural traits. Yet, the Mediterranean in its multicultural environment has been able to maintain certain traits that have shaped what it is today. Through movement of people in the region, the Mediterranean has been able to produce a number of great innovations, such as the movement of the Dorians who moved from the south all along the 3 Greek peninsula, and also the ‘sea people’ that came from Asia and, being hungry and thirsty, destroyed whatever they found. The same destruction and movement resulted in the creation of three important factors for the Mediterranean: the creation of currency, the alphabet, and marine navigation as we know it today. The various movements also contributed to the fonnation of the person as a free being with the ability to move freely. Therefore, movement and the overcoming of boundaries in the Mediterranean have contributed greatly to the fonnation of civilization itself.2 A board, today found in the museum of Damascus, with an alphabet very similar to the Latin one written on it, was very useful as it was very simple in its structure. This confirms a high level of democracy, as civilization meant that each individual had the possibility of knowing and understanding what his leaders understood. We get to understand that in the Mediterranean each person can practice his freedom by travelling out at sea and engage in trading. All this was made possible by the same interactions and conflicts raised in the region. Conflicts though are not the only factor that promoted the interaction and the fonnation of interesting cultural and literature in the Mediterranean, as we know it today. Art and culture have been means by which the various conflicts and interactions took life and expressed the deep feelings that inhabited the soul 2 Georges Duby Gli ideali de! Mediterraneo, storia, filosofia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp. 80-104
4
of the artist. Karl Popper3 states that the cultural mixture alone is not sufficient to put the grounds for a civilization and he gives the example of Pisistratus, a Greek tyrant that ordered to collect and copy all the works of Homer. This made it possible to have a book fair a century later and thus spread the knowledge of Homer. Karl Popper wants to tell us that art and culture have deeply influence the fonnation of a general outset of the region and that the fonnation of the general public is not something that comes naturally, but is rather encouraged. The Greeks in this sense were directly fed the works of Homer by the diffusion of the works themselves. On the other hand, the majority of Greeks already knew how to read and write, further enabling the diffusion of knowledge. Art and architecture are two important factors that have detennined the survival of empires and cultures through time. When artists such as Van Gogh were exposed to the Mediterranean, they expressed art in a different way and when Van Gogh came in contact with the Mediterranean region, the French Riviera and Provence in particular, he discovered a new way of conceiving art. In a letter that Van Gogh wrote to his sister in 1888, he explained that the impact the Mediterranean had on him had changed the way he expressed art itself. He told her that the colours are now brighter, being directly inspired by the nature and passions of the region. The Mediterranean inspired Van Gogh to use a different kind of colour palette. If the art expressed by Van Gogh that is inspired by the Mediterranean is directly 3 Georges Duby Gli ideali del Mediterraneo, storia, jilosofia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp. 80-104
5 represented and interpreted by the spectator, the region manages to be transposed through the action of art itself.4 The way in which the thesis is structured aims to focus on the vanous images created by poets, popular music and art. Each chapter provides evidence that the harbour has been the centre of attention for the many authors and thinkers who wrote, discussed and painted the Mediterranean. The thesis aims to prove that certain phenomena such as language and religion have contributed to a knit of imaginaries, the layout of certain events such as the ex-voto in the Mediterranean and the use of Sabir or Lingua Franca Mediterranea, which shows how the harbour managed to be the center of events that shaped the cultural heritage of the Mediterranean. The language and religious movement mentioned have left their mark on the Mediterranean countries, especially the harbour cities, which were the first cities encountered. The choice of the harbour cities as the representation and the loci of a Mediterranean imaginary vision is by no means a casual one. In fact, the harbour for many centuries has been the anchorage point not only in the physical sense but also emotionally and philosophically for many authors and thinkers, two of which are Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo, extensively mentioned in the dissertation. These two authors are relevant for the purpose of this study as they manage to create a vision of the Mediterranean, based on their personal experience and influenced by 4 Georges Duby Gli ideali de! Mediterraneo, storia, jilosojia e letteratura nella cultura europea (Mesogea,2000) pp.43-55
6 the harbour from which they are looking at the region and observing the
Mediterranean. Popular culture ‘texts’ such as movies and music based on the interaction between the person and the Mediterranean region have an important role in the study, as they represent the first encounter with the harbour. It is a known fact that in the postmodern era where technological means have a broader and deeper reach, popular culture has become the first harbour in which many find anchorage. Therefore it would be difficult to mention literature works that have shaped the Mediterranean without mentioning the popular texts that have constructed images about the region that intertwine and fonn a complete and powerful image. The relevance of each factor is well defined in this study, delving deep in not only popular culture but also in language and various historical events that have transformed the Mediterranean, providing examples of how factors such as geographical elements, spirituality, devotion and passion have transfonned the way in which we perceive a region.
1.1 The Harbour as Threshold The first chapter focuses on the harbour as a threshold between stability and instability, between wealth and poverty, between mobility and ilmnobility. The various elements that constitute the harbour always convey a sense of ‘in between’ to the person approaching. The very fact that the harbour seems to be a place of insecurity gives the artists and authors a more stimulating environment to 7 write about their feelings and to contrast them with the ever-changing and chaotic enviromnent of the harbour. The way in which the natural landscape manages to influence the poetic and artistic expression is of great relevance to the study of the Mediterranean region, especially with regards to the study of the harbour. Poets such as Saba and Montale wrote about the way in which nature felt as a personified figure, able to give hope and change the way poets look at the world. 
They also wrote about nature in the Mediterranean as being an impmiant feature
shaping the way in which history and culture developed.
The sailor as a representation of a Mediterranean traveller is often found in
literature especially with regards to the notion of the harbour as an image of the
Mediterranean culture. Many authors such as Jean-Claude Izzo and Vincenzo
Consolo wrote about the figure of the sailor in relation to the sea and everyday life in Mediterranean harbours. The novels fl Sorriso dell ‘Ignoto Marinaio by
Vincenzo Consolo and Les Marins Perdus by Jean-Claude Izzo are written in two
different geographical areas of the Mediterranean and reflect two different
periods, but they are tied by an expression of a Meditemm~im i1rn1eirn1ry and
somehow recall common features and aspects of the harbour. Both novels manage to transpose their authors’ personal encounter with the Mediterranean, therefore
recalling their own country of birth. The novels are somewhat personal to the
authors; Consolo recalls Sicily while Izzo often refers to Marseille. The fact that
the novels are projecting two different areas and two different points of view on
8
the Mediterranean proves that by gathering different experiences related to the
region, a rich imaginary is created.
The harbour is a door, an entryway to a new world, and borders. Security
and expectations are all part of the experience of the threshold when entering a
country, especially in the Mediterranean, where thresholds are constantly present and signify a new and exciting experience that leads to a new interpretation of a Mediterranean imaginary. The way in which the harbour acts as an entryway suggests that what lies beyond the harbour is sometimes a mystery to the traveller.
Literature greatly contributes to the fonnation of ideas, especially in regard to the fonnation of thoughts such as the idea of a Mediterranean imaginary, but there is another element of fundamental importance to the formation of ideas on a generic line, which is popular culture. High-culture, referring to elements such as art, literature, philosophy and scholarly writings, creates a common understanding between an educated public. Popular culture refers to the section of culture that has a common understanding between the public. High-culture and popular culture have the power to transform what is mostly regarded as pertaining to high society; literature is constantly being reinterpreted and transfonned by popular culture to be able to reach a greater audience.
9
1.2 The Port as a Cultural Lighthouse The imp01iance of natural landscape which detennines the success or failure of a harbour, also detennines a number of historical events. In this sense, the Mediterranean is a region that has been naturally set up with a number of very important harbours that consequently fonned a particular history. The image of the harbour could be compared to the image of the lighthouse, which is part of the harbour itself but at the same is a distinct entity that in some cases had a role which went beyond its initial role of guidance and assumed almost a function of spiritual assistance. 5 The symbol of the lighthouse is also tied to knowledge and therefore the lighthouse has the ability to give knowledge to the lost traveller at sea, it is able to show the way even in uncertainties. The lighthouses in the Mediterranean had the ability to change through ages and maintain a high historical and cultural meaning; their function is a matter of fact to give direction to the traveller, but in certain cases it has been used to demarcate a border or as a symbol of power.
The Mediterranean Sea has witnessed different exchanges, based on belief,
need and sometimes even based solely on the search of sel£ Among these modes
of exchange and these pretexts of voyage in the Mediterranean, we find the exvoto and the movement of relics. Both types of exchange in the region have in
common at the basis religion that instilled in the traveller a deep wish to follow a
5 Predrag Matvejevic Breviario Mediterraneo (Garzanti: 2010)
10
spiritual path. These exchanges resulted in an increasing cultural exchange. The
ex-voto6 shows a number of things. One of these things is that the very existence
of ex-voto proves a deep connection with the geographical aspect in the
Mediterranean and therefore proving that the region is a dangerous one. In this
sense, people in the Mediterranean have shown their gratitude to God or the
Virgin Mary in the fonn of ex-voto after a difficult voyage at sea. On the other
hand, the ex-voto shows how popular culture mingles with the spiritual experience and the way in which a person expresses gratitude to the divine. The ex-voto paintings have a special way of being identified. The saint or in most cases Virgin Mary, is usually set in a cloud or unattached from the sea in a tempest. Another element that shows if a painting is or is not part of an ex-voto collection, is the acronyms found in the bottom of every painting V.F.G.A (votum facit et gratiam accepit). The use of Latin demonstrates the vicinity to Christianity, whilst the words meaning that ‘I made a vow and I received grace’ prove the tie between the tragedies at sea and the grace given by God. The difficult Mediterranean geographical predisposition, discussed by Femand Braudel7 has developed an abundance of devotion that transformed to shrines and objects of adoration and gratitude. These same shrines, objects and materials that were most of the time exchanged and taken from one place to another, have deeply enriched the Mediterranean with cultural objects and the same shrines are nowadays part of a collective cultural heritage.
6 Joseph Muscat Il-Kwadri ex-voto Martittimi Maltin (Pubblikazzjonijiet Indipendenza, 2003) 7 Fernand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II
(Fontana press: 19 8 6)
11
1.3 The Mediterranean Imaginary of Izzo and Consolo Inspired by the
Port The Mediten-anean for Jean-Claude Izzo and Vincenzo Consolo revolves around the idea of a harbour that gives inspiration because it is in essence a border where ideas meet and sometimes find concretization. The Mediterranean harbour for centuries has been a meeting place for people and cultures, thus creating a region full of interactions on different levels. The imaginary for both authors has been shaped by both cultural elements and by the literary elements that find a special place in the mindset of the author. Culture as a popular expression of the concept of the Mediten-anean has developed in different ways, one of which is the projection of the harbour and the Mediterranean itself through media and advertising. Various elements such as the touristic publicity or the actual reportage about the harbour and the Mediten-anean have widened the horizon and the imaginary of the region. In advertisements, the Mediterranean has been idealized in some ways and tends to ignore controversial issues such as ‘migration’; advertising also tends to generalize about the Mediterranean and so mentions elements such as the peaceful and relaxing way of life in the region. Advertisement obviously has its own share in the building of an ‘imaginary’ of the region, but it may also create confusion as to what one can expect of the region. On the other hand, the reportage about the Mediterranean harbour and the region itself focuses more on everyday life in the Mediterranean and common interactions such as encounters with fishennen. Nevertheless, when mentioning 12 the MediteITanean even the reportage at times makes assumptions that try to unite the MediteITanean into an ideal space and it sometimes aims to give an exotic feel to the region. Yet there are a number of informative films that have gathered important material about the MediteITanean, such as the French production Mediteranee Notre Mer a Taus, produced by Yan Arthus-Bertrand for France 2.8 The difference between the usual promotional or adve1iising video clips and the documentary film produced for France 2 was that in the latter the focus points were an expression of the beauty of the whole, whereas in the fonner, beauty usually lies in the common features that for marketing purposes aim to synthesize the image of the Mediterranean for a better understating and a more clear approach to the region. The harbour and other vanous words associated to the concept of the harbour have been used in many different spaces and areas of study to signify many different things other than its original meaning, and this makes us realize that the harbour itself may hold various metaphorical meanings. We have seen the way in which the harbour served as a first spiritual refuge or as an initial salvation point, but it is also interesting to note how the harbour is conceptually seen today,
in an era where globalization has shortened distances and brought down barriers. Nowadays, the harbour is also used as a point of reference in the various technological terms especially in relation to the internet, where the ‘port’ or 8 Yan Arthus-Betrand Mediteranee notre mer a taus (France 2, 2014)
www.yannarthusbertrand.org/ en/films-tv/–mediterranee-notre-mer-a-tous (accessed February,
2014)
13
‘portal’ refers to a point of entry and thus we perceive the main purpose of the harbour as being the first point of entry as is in the context of infonnation technology. The concept of core and periphery has deeply changed in the world of Internet and technology, as the concept of core and periphery almost disappeared. Similarly, the Mediterranean’s core and pe1iphery have always been in a way different from what is considered to be the nonn. Geographically, the core could be seen as the central area, the place where things happen, whereas in the Mediterranean, the periphery acquires almost the function of the core. The harbour is the geographical periphery; neve1iheless, it acquires the function of the core. The islands for example are usually centres, whereas in the Mediterranean they are crossroads rather than real centres of power. In nonnal circumstances the relation between core and periphery is something that denotes not only the geographical location of a place but it usually also refers to economical, social and cultural advancement. Therefore, in the Mediterranean region the concept of geographical centre and economical and social centres are different from their usual intended meaning.
The Mediterranean imaginary has developed in such a way that it
purposely distorted the concepts such as the standard core and periphery or the usual relationship between men and nature or between men and the various borders. In the Mediterranean imaginary, which as we have mentioned is being fed by various authors and popular discourse, has the ability to remain imprinted in our own thoughts and thus has the ability to reinterpret the region itself; we find 14 that the usual conceptions change because they suit not only the region but the author that is writing about the region. The way in which the various authors and artists who describe the Mediterranean are faced with the ongoing challenges presented by the region shows how in essence each and every author has their own personal approach to the region. Their works are essentially a personal project which lead to the enriclunent of the region’s imaginary. The differences between each and every author makes the ‘imaginary’ and the accounts about the Mediterranean much more interesting and ersonalized. 
Consolo9 and Izzo10 have different ways of perceiving the region and
although they both aim to create an ‘imaginary’ that may recall similar features, it is undeniable that there are substantial differences in their approach. Consolo on the one hand focuses a lot on the image of Ulysses as a figure that represents him in his voyage in search of the self. Ulysses for Consolo is a figure that manages to preserve a meaning even in the modem era, a figure that is able to travel through time all the while reinventing the Mediterranean. Izzo as well feels that the figure of Ulysses is imperative to the study of the Mediterranean, but he mostly focuses on the impact of the present experience of the region on the conception of a Mediterranean ‘imaginary’ rather than focusing on the past as a representation of the present situation. 9 Vincenzo Consolo Il Sorriso dell’Ignoto Marinaio (Oscar Mondadori: 2012) 10 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) 15
1.4 Conclusion
The Mediterranean has been seen as a region full of inconsistencies,
contradictions and conflicts, based mainly on the divergent ideas and cultures residing in the same area. The Mediterranean imaginary does not exclude the conflicts that are present in the region and does not aim to unify the region, and in doing so it aims to give voice to the region. For the various authors and thinkers that are mentioned in the thesis, the Mediterranean has transmitted an emotion or has been able to create the right environment to express ideas and fonn thoughts. The relevance of each and every author within the framework of this thesis shows that without analyzing the single expression about the region, through the various works, one cannot fonn an imaginary of the Mediterranean region. The various concepts of borders, thresholds, conflicts and cultural clashes manage to mingle with each other in everyday life in the Mediterranean – greater ideas and fundamental questions find resonance and meaning in simple everyday interaction between a common sailor and a woman at a bar. The Mediterranean in essence is the voyage between the search for deep roots and the analysis of the clashes that result from this search for roots. The study of the Mediterranean is the constant evaluation of boundaries and the search for the ‘self’ through a wholly subjective analysis of the ‘other’. The imaginary plays a fundamental role in bringing near the ‘roots’ and the ‘present’, and the ‘self’ and the ‘other’.
16
2 The Harbour as Threshold The Mediterranean harbour for many authors and thinkers is a starting point as well as a dying point of the so called ‘Mediterranean culture’. In fact many sustain that the ‘MediteITanean culture’ takes place and transfonns itself in its harbours. This concept does not have to confuse us in assuming that a ‘Mediterranean culture’ in its wholesomeness really does exist. There are elements and features that seem to tie us; that the sea so generously brought ashore. On the other hand the same sea has been keeping things well defined and separate. The harbour as the first encounter with land has always maintained an important role in the formation of ideas and collective imagination. The harbour is not selective in who can or cannot approach it and so the fonnation of this collective imagination is a vast one. It is also important to state that the harbour in itself is a place of contradictions, a place where everything and nothing meet. The contrasting elements and the contradictions that reside in Mediterranean ports are of inspiration to the various authors and thinkers who study the Mediterranean. In this sense they have contributed in the formation of this Mediterranean imagination. Literature is an important factor that contributes to a fonnation of a collective imagination; it would be otherwise difficult to analyze the Mediterranean without the help of literature, as the fonnation of a collective imagination was always fed through literature and cultural expedients.
17
The Mediterranean region, as we shall see, is an area that is somehow
constructed; a person in France may not be aware of what a person in Morocco or in Turkey is doing. The concept of a constructed Mediterranean may be tied to the anthropological study conducted by Benedict Anderson 11 where he states that the ‘nation’ is a constructed concept and may serve as a political and somehow economic pretext. The sea is navigated by both tragic boat people and luxurious cruise liners, and these contradictions seem to be legitimized in the Mediterranean region. To give two recent examples we can observe on a political sphere, the European Union’s decision to fonn a Task Force for the Mediterranean (TFM) whose aims are to enhance the security of its shores and to drastically reduce deaths at sea. The TFM is a recent initiative that follows a number of proposals at a political level that have the Mediterranean security at heart. 12 This idea was triggered by a particular event that saw the death of 500 migrants off Lampedusa. It clearly poses a question whether the Mediterranean is a safe place or not, and whether it remains in this sense appealing to touristic and economic investment. The TFM probably reinforces the idea that the Mediterranean is a problematic region and thus requires ongoing ‘security’. To reconnect to the main idea, the TFM reinforces the notion that the Mediterranean is a constructed idea where access from one shore to another is denied and where one shore is treated as a security threat whereas the other shore is treated as an area to be protected or an 11 Benedict Anderson, Imagined communities (Verso, 1996)
12 Brussels, 4.12.2013 COM (2013) 869 Communicationjiwn the commission to the European Parliament and the council on the work of the Task Force Mediterranean 18 area that is unreachable. The contradictions keep on adding up when we see the way the Mediterranean is portrayed for economic and touristic purposes. One example is the ‘Mediterranean port association’ that helps the promotion of cruising in the Mediterranean region providing assistance to tourists who would like to travel in the region. In this context the Mediterranean is used in a positive way in relation to the touristic appeal it may have. The construction of a Mediterranean idea is by no means restricted to an economical or a political discourse; it has deeper roots and meanings that have fonned through a history of relations between countries and of fonnations of literary expedients. For Franco Cassano13, the Mediterranean is a region that in essence is made of differences, it would be otherwise difficult to justify the clashes that have characterized the Mediterranean history, if it was not for the fact that we are all aware that it is a region made up of dissimilarities On the other hand it is due to these dissimilarities that the Mediterranean is an appealing region both for authors and for travelers alike.
13 Franco Cassano,Danilo Zolo L ‘alternativa mediterranea (Milano:Feltrinelli, 2007)
19
2.1 Natural Landscape and the Development of Literature Nature and literature are two elements that intertwine and thus create a collective imagination around the concept of the Mediterranean harbour. In fact, the dialectic between natural landscape and poetic expression was always a matter of great relevance as nature constantly managed to aid the development of poetic expression. The natural landscape helps the fonnation of existential thoughts, such as life, death and the existence of men – thoughts that are always reinterpreted and reinvented through literature. This relation between men and nature was always important in configuring spaces and detennining them according to a common understanding. 14 In the poem of Giacomo Leopardi Dialogo delta Natura e di un Islandese, Nature is personified, and although the indifference and coldness of nature is palpable, we sense that the poet is being aided by nature in fanning his ideas about life itself. Through time and especially through globalization, the world is being interpreted in terms of geographical maps and technology is subsequently narrowing our concept of space and enlarging our concept of life. In the new modem dimension, where the concept of space has acquired an abstract meaning, literature leaves the possibility of dialectic relationship between men and nature, thus enabling men to perceive the places they inhabit as a significant part of their self-construction process. This concept takes us to the perception created around the Mediterranean region and especially the way people look at 14 Massimo Lollini fl Mediterraneo de/la contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Quest: 2009) pp.358-372
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figures such as the sea, the ports and the shores. In Giambattista Vico’s15 poetic geography we understand that the representation of geography through poetic expression is something that dates back in time, through a cosmic representation of senses and feelings. In this regard, Montale and Saba both express in a relatively modem tone the deep representation of the Mediterranean through a mixture of contrasting feelings and ideas. The image of the harbor and any other images in the Mediterranean are deeply felt and analyzed, through the eyes of the poets that live in the region. Montale uses the dialectic of memory to explain his relationship with the Mediterranean, a region locked in its golden age that lives through the memory of poets and authors. He refers to the Mediterranean as ‘Antico ‘ emphasizing the fact that it is an old region. The word ‘Antico ‘ does not merely refer to oldness, but to oldness combined with prestige. The memory characterizes the Mediterranean for Montale, the image of the sea for instance is an archaic image that notwithstanding holds a modem and yet spiritual meaning as it expresses a sense of purification. The sea with its movement brings ashore all the useless and unwanted elements. On the other hand the sea may be seen as a fatherly figure that becomes severe in its actions and makes the poet feel insignificant and intimidated. Montale’s aim was to overcome the threshold between artistic expression and natural landscape through a dialogue with the Mediterranean Sea. This aim was not fulfilled. Montale tried hard to express artistically what the Mediterranean Sea meant but ended his poem humbly putting himself at a lower stage in comparison to the greatness of the Sea. Montale fills 15Massimo Lollini Il Mediterraneo della contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Ouest: 2009)
21 his poetry with a mixture of humility and paradoxes; two elements that keep on repeating themselves in the poetry concerning the MeditelTanean.
Furthennore, in Umberto Saba’s ‘Medite1Taneet16 we encounter the same
contrasts and paradoxes used by Montale to develop the figure of the
MeditetTanean Sea. Saba uses the microcosm of Trieste to explain a larger
macrocosm: The MeditetTanean. This technique renders his work more personal and gives it a deeper meaning. Saba and Montale both rely on the memory to express a feeling of deep ties with the element of the sea and the life of the MeditelTanean harbour. Saba’s MeditelTanean resides in his microcosm, personal encounters and experiences fonn his ideas about the region; a region he perceives as being full of fascinating contradictions.

‘Ebbri canti si levano e bestemmie
nell’Osteria suburbana. Qui pure
-penso- e Mediterraneo. E il mio pensiero
all’azzulTo s’inebbria di quel nome.’ 17
‘Drunken songs and curses rise up
in the suburban tavern. Here, too,
I think, is the Mediterranean. And my mind is
drunk with the azure of that name.’ 18
16 Umberto Saba, translated by George Hochfield: Song book the selected poems of Umberto Saba
\V\V\V. worldrepublicofletters.com/excerpts/songbook excerpt.pdf (accessed, July 2014)
17 Massimo Lollini fl Mediterraneo della contingenza metafisica di montale all’apertura etica di Saba (Presses Universitaires Paris Ouest: 2009) pp.358-372
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Saba mingles his personal classicist fonnation expressed in the ‘all’azzurro’
with the poorest part of the Mediterranean harbour ‘l’osteria’. Both factors are intertwining, and so, the Mediterranean for Saba is the combination of both the richness of classicist thoughts that fonned in the Mediterranean as well as the meager elements that fonned in its po1is; yet they embellish and enrich the concept of the Mediterranean. Saba is searching for his personal identity through the search for a definition to the Mediterranean. In his art he attempts to portray the very heart of the MediteITanean which is found in his abyss of culture and knowledge with the everyday simple life of the harbours. 2.2 Instability vs. Stability in the Mediterranean Harbour In Saba and Montale’s works, the fascinating inconsistencies in the Mediterranean seem to find a suitable place in the ports and in the minds of each and every author and thinker who encounters it. The notion of stability and instability finds its apex in the port. The sea is the synonym of instability, especially in the Mediterranean, being depicted as dangerous and unpredictable. As in the recounts of the Odyssey, the sea, and the Mediterranean as a whole, is a synonym of instability and thus prone to natural catastrophes. The Homeric recounts of Ulysses’ journey explore the Mediterranean that was previously an unknown place. Although the places mentioned by Homer are fictitious, they now 18 Umberto Saba, translated by George Hochfield: Song book the selected poems of Umberto Saba
www.worldrepublicofletters.com/excerpts/song:book _excerpt.pdf (accessed, July 2014)
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have a general consensus over the definition of the actual places. As time went by historians and authors went on confinning what Homer had depicted in his Odyssey – a Mediterranean that constantly poses a challenge, danger and fascination at the same time. Femand Braudel in his ‘Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip the II’ 19 sustains the view of a difficult Mediterranean, of a succession of events that have helped the success of the Mediterranean for a period of time. Its instability and complication have not aided the area in maintaining its ‘golden age’. This discourse was reinvented by Horden and Purcell in ‘The Corrupting Sea’20 where the Mediterranean meets geographically, historically and anthropologically. In ‘The Corrupting Sea’ the view of Femand Braudel is expanded into what the Mediterranean meant
geographically and historically, therefore Horden and Purcell explain that the inconsistencies and natural features in the Mediterranean really contributed to bring the ‘golden age’ to an end, but they were the same features that brought on the rich culture around the Mediterranean countries in the first place. Where literature is concerned, the inconsistencies and natural features served as an inspiration to various authors who went on fonning the collective imagination around the Mediterranean. Therefore, it could be argued that the geographical
complexity of the region is in fact the tying point to the ‘Mediterranean’ itself that resides in the unconscious and that otherwise would have died with its economical shift towards other areas of interest. The problematic identity and the challenging 19 Femand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (Fontana press: 1986)
20 Peregring Horden, Nicholas Purcell The Corrupting sea, a study of the Mediterranean histmy (Blackwell publishing: 2011)
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natural enviromnent brought by an ongomg sense of curiosity and attraction towards the Mediterranean region. The port is the first encounter with stability after a journey that is characterized by instability, at the surprise of the inexperienced traveler. However, the port does not always covey immovability. The p01i gives a sense of limbo to the traveller that has just arrived. It is a safe place on the one hand but on the other hand due to its vicinity to the sea, it is as unpredictable as the sea itself The sailor is a frequent traveler who knows and embraces the sea. He chose or has been forced to love the sea, to accept the sea as his second home. The sailor is in fact the figure that can help us understand the fascination around the Mediterranean and its ports. It is not an unknown factor that sailors and their voyages have captured the attention of many authors that tried extensively to understand the affinity sailors have to the sea. The sailor21 is a man defined by his relation with the sea and is a recurrent figure in a number of literature works all over Europe and the rest of the world. The sailor is the incarnation of the concept of human marginality, he lives in the margin of life and he embraces the marginality of the harbour with the different aspects of the port. The thresholds present in the port are represented by the sailor; a figure that lives between the sea and land, between betrayal and pure love,
between truth and lie. Like the portrayal of Odysseus, the concept of a sailor has 21 Nora Moll Marinai Ignoti,perduti (e nascosti). fl Mediterraneo di Vincenzo Consolo, JeanClaude Izzo e Waciny Lare} (Roma: Bulzoni 2008) pp.94-95
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infidelic properties. He carnally betrays his loved one, but he is psychologically anchored to one women for his whole life; a women who is always present in various thoughts but at the same time she is always physically distant. As we will see in various works, the sailor is in constant search of knowledge – the very same knowledge that brought him to love and embrace the sea. The knowledge that is conveyed through the action of travelling itself is another question that would require a deep analysis, but for the sake of our study the fact that knowledge is transmitted through the depth of the sea is enough to make a com1ection with the purpose by which the sailor travels. The sailor fluctuates between sea and land, between danger and security, between knowledge and inexperience. The thresholds are constantly overcome by the curious and free spirited sailor that embarks in this voyage to the discovery of his inner-self. The literary voyage of the sailor in the Mediterranean takes a circular route while it goes deep in ancient history and ties it to modem ideas. Since the sailor is not a new character but a recurring one in literature and culture it has the ability to transfonn and create ideas giving new life to the Mediterranean harbours. While the seamen are the link between the high literature and the popular culture, the sailor does not have a specific theme in literature but the archetype of ‘the sailor’ has a deep resonance in many literary themes. As Nora Moll states in one of her studies about the image of the sailor, she puts forward a list of common themes associated with the image of the sailor:
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‘Tra i complessi tematici, a cm m parte ho gia accem1ato,si
annoverano l’avventura, il viaggio, l’eros, l’adulterio, il ritorno, il
superamento di limiti (interiori) e di sfide ( esterne ), la liberta, la vita
come “navigatio” e come intrigo conflittuale di esperienze. ’22
‘Amongst the complex themes, which I partly already mentioned, we
find adventure, travel, Eros, adultery, the return, the overcoming of
limits (interior) and challenges (exterior), freedom, life as “navigatio”
and as a conflictual intrigue (or scheme) of experiences.’
2.3 The Prototypical Sailor The interesting fact about the study conducted by Nora Moll is that the sailor in her vision is not merely a figure tied to a specific social class, but as we can see the themes listed are themes that can be tied also to the figure of Ulysses. It is difficult to say that Ulysses or the image of the sailor own a predestined set of themes, and in fact they do not necessarily do so. Ulysses is a character that comprehends certain themes, but these change and shift in accordance to space, time and circumstances. What does not change is the thresholds that are always present in the life of a sailor, the limits that are constantly there to be overcome and the external challenges that need to be confronted. The harbour conveys a 22 Nora Moll Marinai Jgnoti,perduti (e nascosti). I! Mediterraneo di Vincenzo Consolo, JeanClaude Izzo e Waciny Larej (Roma: Bulzoni 2008) pp.94-95
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number of thresholds; as we have seen these are embodied in the figure of the manner. Jean Claude Izzo in his Les Marins Perdus23 wrote about the discomfort of sailors having to forcedly stay on land and their relationship with the harbor, a passing place that has a special meaning. The harbor is in fact a special place for the mariner, as it is the only place where they can have human contact beyond that of the crew. The mariner in Jean Clause Izzo does not feel that he belongs to any nation or country. He belongs to the sea; a sea that managed to give meaning to his life but at the same time managed to destroy it. Jean Claude Izzo uses strong images of the port to describe the tie the sailor has to the harbour itself, he uses sexual and erotic images and ties them to legends and popular culture expedients. The story is interesting because of the way Jean Claude Izzo reverses the way sailors live. In fact he recreates a story where the sailor is trapped in the harbour and so he is forced to view the sea from land and not the other way round as he usually does. The psychological discomfort that Jean Claude Izzo creates portrays the Mediterranean archetypes and the life in the ports from a reverse point of view. Everyday life in the harbour is analyzed through a succession of tragedies that on one hand recall the classicist view of the Mediterranean, and on the other hand, due to references to everyday life elements, may be easily connected to the modem conception of the Mediterranean port. The links created by Jean Claude Izzo are made on purpose to create an ongoing bond between the classic Homeric 23 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) pp.238
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Mediterranean and the modem Mediterranean. In fact, Diamantis -the mam character of the novel- is portrayed as a modem Ulysses trying to cope with ongoing temptations and with the constant drive for knowledge. The Odyssey is for Diamantis a point of anchorage. He reads the Odyssey while attempting to define himself: ‘In effetti l’Odissea non ha mai smesso di essere raccontata, da una taverna all’altra,di bar in bar: … e Ulisse e sempre fra noi. La sua eterna giovinezza e nelle storie che continuiamo a raccontarci anche oggi se abbiamo ancora un avvenire nel Mediterraneo e di sicuro li. [ … ]I porti del Mediterraneo … sono delle strade. ’24 ‘Yes … In fact, the Odyssey has constantly been retold, in every tavern
or bar … And Odysseus is still alive among us. Eternally young, in the
stories we tell, even now. If we have a future in the Mediterranean,
that’s where it lies.” [ … ] “The Mediterranean means … routes. Sea
routes and land routes. All joined together. Connecting cities. Large
and small. Cities holding each other by the hand.’ In this quote we see the continuous threshold between space and time being overcome, that serves to keep alive the Mediterranean itself. It is clear that the classic Homeric recount is always reinterpreted and reinvented. The Odyssey
is not the only point of reflection for Diamantis. In fact the protagonist is seen as a 24 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) pp.238
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deep character that reflects on the various incidents in his life and it could be argued that Diamantis is the expression of Jean Claude Izzo’s thoughts. The sailors in Jean Claude Izzo’s novel chose to be Mediterranean; naval commerce exists beyond the enclosed sea, but these men chose to sail with inadequate ships in a region where geographical beauty and historical richness meet. The port for Izzo, has multiple meanings and he defines the Mediterranean harbours as differing from other harbours, because of the way they are accessed. Izzo uses the image of the harbour as a representation of love: ‘Vedi, e’ il modo in cui puo essere avvicinato a detenninare la natura di un porto. A detenninarlo veramente [ … ] Il Mediterraneo e’ un mare di prossimita’. ’25
‘You see, it’s the way it can be approached that detennines the nature of
a port. Really detennines it. [ … ] The Mediterranean, a sea of closeness.’
This passage shows the influence of thought, Izzo inherited from
Matvej evic. In fact the approach used to describe the harbour and to depict the nature is very similar to the one used by Matvejevic in his ‘Breviario Mediterraneo’. 26 We perceive that the harbour is substantially a vehicle of devotion, love, passion and Eros, though we may also observe the threshold between the love and passion found in the port and the insecurity and natural brutality that the sea may convey. In this novel, the port is transfonned in a secure 25 Jean-Claude Izzo Marinai Perduti (Tascabili e/o: 2010) ppl22 26 Predrag Matvejevic Breviario Mediterraneo (Garzanti:2010)
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place whilst the sea is a synonym of tragedy. At the same time the port is seen as a filthy and conupt place. While for Izzo the past is used as a background to tie with the present and moreover to show a link with the future, Consolo uses a different technique. He goes deep in one focal historical point to highlight certain Mediterranean features and problematic issues. Consolo uses the period of time where Sicily was undergoing various political changes. He describes the revolution and the Italian unification, and portrays real events and characters tied to Sicilian history. In Vincenzo Consolo, the image of the sailor is used as a metaphor through the work of Antonello ‘il Sorriso dell’Ignoto Marinaio’.27 The title itself gives us a hint of the tie between art and everyday life. The voices that intertwine and form the discourse around the Mediterranean are hard to distinguish as they have fanned the discourse itself to a point where a voice or an echo is part of another. The work of Consolo28 goes through a particular historical period in Sicily to describe present situations and ongoing paradoxes in the Mediterranean region. It is difficult to resume and give a name and specific allocation to the works on the Mediterranean as the multiple faces and voices have consequently fanned a variety of literature and artistic works. The beauty behind works on the Mediterranean is that archetypes such as the concept of a ‘sailor’ or the ‘harbour’ are revisited and reinterpreted, thus acquiring a deeper meaning and at the same time enriching the meaning of ‘the Mediterranean’ itself.
27 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012)
28 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’lgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012)
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Consolo focuses on the microcosm of Sicily and he portrays a fluctuation
between sea and land. He locates Sicily in an ideal sphere where the thresholds are nonexistent: ‘La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, me era l’isola santa! ’29 ‘Sicily! Sicily! It seemed something vaporous down there in the blue between sea and sky, but it was the holy island!’ Sicily is placed in an ideal sphere where beautiful natural elements coexist with famine, degradation and war. The imagery created around the island of Sicily may be comparable to the imagery around the Mediterranean region. As for the harbour it is described by Consolo as a place of contradictions, comparable to the ones found in the whole Mediterranean. The detail given to the life in the port is extremely in depth and the type of sentences used expresses the frenetic lifestyle of the port itself: ‘Il San Cristofaro entrava dentro il porto mentre ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai rami alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti con voce urale e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati [ … ].’30 29 Vincenzo Consolo fl sorriso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012) pp:56
30 Vincenzo Consolo fl so1-riso dell’Jgnoto Marinaio (Oscar Mondadori:2012) pp:29
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‘The San Cristoforo sailed into the harbour whilst the boats, caiques
and other fishing boats, sailed out with the fishennen holding the
ropes sails nets tallow oakum lee, traffickers beckoning with an ural
voice, inside the boat, from one boat to another, from one boat to the
quay, crowded with the elderly, women and children, screaming
equally and agitated’ [ … ] The tension around the port is well transmitted in the explanation given by Consolo, there seems to be a point of nothingness and a point of departure at the same time. We perceive that there is plenty of life in the port but at the same time confusion reigns, therefore we could argue that people in ports are not really conscious of life and that they are letting things turn. Nevertheless, the port is the starting point of life that develops either in the sea or inland. Both by Consolo and in Izzo we are made aware of the importance of life at the ‘starting point’, therefore the port in the works of both authors acquires the title of a ‘threshold’ between life and death, consciousness and unconsciousness, love and hatred, nature and artifice, aridity and fertility. In the microcosm described by Consolo, the Sicilian nature and its contradictions seem to recall the ones in the rest of the region. For example, the painting ‘Ignoto Marinaio’ is described as a contradictory painting. In fact, the sailor is seen as an ironic figure that smiles notwithstanding the tragedies he has encountered. The ‘Ignoto Marinaio’ has seen the culture and history of the Mediterranean unveil, he has therefore a strange smile that 33 expresses the deep knowledge acquired through his experience and a deep look that convey all the suffering he has come upon. In the novel by Consolo, the painting serves as a point of reference and in fact, the ‘Ignoto Marinio’ resembles another important character in the novel; Intemodato. Both figures share the ironic and poignant smile and the profound look. Intemodato is seen as a typical Sicilian revolutionary who embraces the sea but at the same time is not psychologically unattached to the situations that happened on land. He is part of the revolution and integral part of the Sicilian history.
2.4 The Harbour as a Metaphorical Door Consolo and Izzo with their accounts of sailors and the life in Mediterranean harbours brought us to the interpretation of the harbour as a metaphorical door. As in the seminal work of Predrag Matvejevic ‘Breviario Mediterraneo’,31 the harbour is tied to the concept of a metaphorical door. In Latin both ‘porto’ and ‘porta’ have the same root and etymological derivation. A harbour in fact is a metaphorical and physical entryway to a country. In the Roman period, the god Portunos was the deity of the harbour who facilitated the marine commerce and the life in the port in general. The various deities related to the sea in the Roman 31 Predrag Matvejevic II Mediterraneo e I ‘Europa, lezioni al college de France e altri saggi (Garzanti elefanti:2008)
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and Greek traditions are an indication of a deep relation between the figure of the harbour and the physical and geographical figure of the door or entryway. The door may have many different shapes and may divide different spaces but it always signifies a threshold from one point to another. In literature the harbour signifies a metaphorical door between fantasy and reality, history and fiction, love and hatred, war and peace, safety and danger. The image of the door is concretized through the various border controls, visas and migration issues and in this regard the entryway becomes a question of membership. A piece of paper in this case detennines the access through that doorway, but from a cultural and
identity point of view the Mediterranean threshold is overcome through the encounter with history and fiction. Thierry Fabre in his contribution to the book series ‘Rappresentare ii Mediterraneo’; 32 in relation to the Mediterranean identity he states; ” … Non si situa forse proprio nel punto di incorcio tra la storia vera e i testi letterari che danno origine all’immaginario Mediterraneo?”33 ‘ Isn’t perhaps situated exactly at the meeting point between the real stories and the literature texts that give birth to the Mediterranean imagination?’ Fabre is conscious of the fact that the discourse about the Mediterranean limits itself to a constructed imaginary, the poet or artist in general that enters this metaphorical door is expected to conceive the Mediterranean imaginary; blending reality with fiction. The door is not always a static figure but is sometimes blurred and does not 32 Jean Claude Izzo, Thierry Fabre Rappresentare il Mediterraneo, lo sguardo fiwicese (Mesogea: 2000) 33 Ibid (Mesogea: 2000) pp.25
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clearly divide and distinguish. The Mediterranean itself is a region of unclear lines the fonnation of a port and of a nation itself is sometimes not that clear. In Matvejevic’s ‘Il Mediterraneao e l’Europa’34 literature blends with facts and culture so does the geography around the Mediterranean region: ‘Tra terra e mare, in molti luoghi vi sono dei limiti: un inizio o una
fine, l’immagine o 1 ‘idea che li uniscono o li separano. Numerosi sono
i tratti in cui la terra e il mare s’incontrano senza irregolarita ne rotture,
al punto che non si puo detenninare dove comincia uno o finisce
l’altro.Queste relazioni multiple e reversibili, danno fonna alla costa. ’35 
‘Between land and sea, there are limits in many places: a start or a
finish, the image or the idea that joins or separates them. The places
where sea meets land without any irregularities or breaks are
numerous, to the extent that it’s not possible to detennine where one
starts or the other finishes. These multiple and reversible links that
give shape to the coast.’ The coast in this sense is made up of a set of relations between figures and fonns that meet without touching each other, the door is not always present; it sometimes disappears to give room to imagination and the fonnation of literature.
34 Predrag Matvejevic Il Mediterraneo e !’Europa, Lezioni al College de France e Altri Saggi
(Garzanti elefanti: 2008)
35 Ibid (Garzanti: 2008) pp.53
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The concept of literature allows the analysis of culture and the way it 1s
envisioned and spread through Mediterranean harbours. The fluctuations of varied thoughts that have shaped the Mediterranean imagery through its harbours have no ties with everyday life, if not by the transmission of culture and the means of popular culture that served as a point of anchorage and sometimes as a point of departure for the fonnation of a deeply rooted but also enriching and contested collective imagination.
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3 The Port as a Cultural Lighthouse The harbour for many centuries has been an anchorage point and a safe place for sailors and travellers that navigate the Mediterranean. We perceive the safety of the harbour as something that is sometimes naturally part of its very makeup, as on such occasions where we encounter natural harbours. In other cases, to suit their needs, people have built around the shores and transfonned paii of the land into an artificial harbour which is able to welcome the foreigner and trade and at the same time to defend if needed the inland. Femand Braudel36 in his The Afediterranean and the Mediterranean World in thP AgP nf Philip TT <liscusse<l the importance of the Mediterranean shores for the traveller in an age when people were already able to explore the outer sea, but yet found it reassuring to travel in a sea where the shore was always in sight. The Mediterranean Sea has always instilled a sense of uncertainty in the traveller, because of its natural instability. Nevertheless, the fact that the shores and ts are always in the vicinity, the Mediterranean traveller is reassured that he can seek refuge whenever needed. The fascinating thing is that the ports in the age delineated by Femand Braudel were not only a means of safety but most of all of communication – a type of economic and cultural c01mnunication that went beyond 36 Fernand Braudel The Mediterranean and the Mediterranean world in the age of Philip II (Fontana press: 19 8 6)