La critica considera abitualmente Retablo, il romanzo di Vincenzo Consolo uscito nel 1987, come un libro di viaggio. Consolo d’altronde si era ispirato a un viaggio fatto in Sicilia nel 1984 insieme a Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Sebastiano Burgaretta e altri artisti e intellettuali, tutti invitati a un importante matrimonio. In una conferenza tenuta all’Accademia di Belle Arti a Perugia il 23 maggio del 2003 Consolo affermerà che proprio da un: «Pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale».
Retablo si rivela infatti essere il racconto
del sogno di un viaggio, che obbedisce alla dinamica originaria del sogno,
dinamica centrata, com’è noto, su un punto cieco che Freud ha denominato
l’ombelico del sogno, e da dove nasce, si compone e si articola la
rappresentazione. Da questa prospettiva il personaggio di Rosalia, la
protagonista di Retablo, non è che
l’oggetto di un sogno (secondo le parole del testo di «un sogno angustiante»), oggetto
del desiderio inseguito da frate Isidoro lungo tutta la narrazione. E questo
fin dal prologo che ho scelto di intitolare Inno
a Rosalia. D’altronde Fabrizia Ramondino legge l’intero Retablo come «un’ode alla Sicilia».
Retablo è diviso, come un ideale trittico, in
tre portelli rispettivamente intitolati OratorioPeregrinazione, Veritas, e narra le peripezie dell’artista milanese Fabrizio
Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella
Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Ciò che spinge al viaggio questi
due personaggi è fondamentalmente una pena d’amore, Fabrizio avendo lasciato
Milano per allontanarsi dalla donna amata Teresa Blasco e mettersi, curiosamente,
alla ricerca delle origini siciliane di quest’ultima. Isidoro costretto ad
allontanarsi da Rosalia avendo rubato, per amor suo, il denaro ricavato dalla
vendita delle Bolle dei Luoghi Santi.
In Retablo
ci sono due riferimenti letterari a due Inni greci antichi, ad Asclepio e a Demetra,
donde la mia scelta del termine Inno inteso
come la forma più arcaica dell’invocazione rivolta all’Altro ossia, con le
parole di Retablo: alla «Madre e alla
Figlia».
Mi
limiterò qui a illustrare soltanto questo Inno
caratterizzato da un singolare e inconfondibile ritmo poetico. Ora, il ritmo
della prosa consoliana è certamente prodotto dall’ordine sintattico delle
parole, ma anche dal loro ordine prosodico e metrico, dall’inserzione di versi
endecasillabi specialmente, e perfino dalla disposizione fonetica delle parole,
cioè dalla materialità dei timbri e dei suoni, in breve da ciò che si potrebbe
definire una fonetizzazione generalizzata della scrittura. Sempre nella
Conferenza prima citata Consolo afferma: «La mia scrittura, per la mia ricerca,
è contrassegnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo
metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia».
L’Inno si compone di tre lasse separate da
un punto e un a capo. La prima è un canto attorno al nome Rosa, la seconda si articola attorno al nome lia, e la terza ritorna sul nome intero, Rosalia, questa volta associato a quello di Santa Rosalia, la
patrona di Palermo. A queste tre lasse, bisogna aggiungere il primo rigo del
paragrafo che le segue e che contiene l’emistichio, «Ahi!, non ho abènto»,
tratto dal celebre Contrasto di Cielo
D’Alcamo, Rosa fresca aulentissima.
Il
soggetto lirico dell’Inno è frate
Isidoro, pazzo d’amore per Rosalia, il quale dopo averla posseduta una sola
volta, la perderà per sempre. Nella prima lassa, l’oggetto cantato da Isidoro è
giustamente la rosa (segnalo en passant la coppia paronomastica Rosa-Isidoro), il fiore le cui lettere
formano la prima parte del nome dell’amata; a cui si aggiungono altri fiori,
che ne costituiscono delle variazioni sinonimiche.
Ciascuna
lassa è costituita da sequenze che contengono a loro volta delle piccole frasi,
separate da virgole, un punto e virgola e, a due riprese, da un punto
esclamativo seguito da una virgola. Questa punteggiatura, perfettamente
calcolata, separa dei segmenti narrativi allineati per asindeto o polisindeto,
seguendo un ordine principalmente paratattico ed enumerativo. Una prima e
fondamentale scansione ritmica discende da questa struttura paratattica, che fa
sì che una pausa intervenga alla fine di ogni piccola frase, di un sintagma, o
di un semplice vocabolo, marcati da un segno di interpunzione.
Prima lassa (5 sequenze):
Rosalia. Rosa e lia.
Rosa che ha
inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio
cervello s’è mangiato.
Rosa che non è
rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia,
magnolia, zàgara e cardenia.
Poi il tramonto, al
vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala
misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino,
scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge,
spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi.
Rosa che punto
m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
In
questo mirabile incipit, risalta in
posizione enfatica il nome di Rosalia,
un nome proprio immediatamente diviso in due lessemi, Rosa e lia. Si possono
contare dodici occorrenze del lessema rosa:
la prima parte del nome Rosalia (Rosa),
le varianti participiali e aggettivali róso
e odorosi, e anche, la disseminazione
sonora delle lettere r – o – s – a: misericordia, scorre, chiostro, grommosi, cuore. Inoltre il termine rosa
(il fiore) è il soggetto grammaticale della frase che chiude la prima lassa:
«Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore». Pertanto
la maggior parte delle occorrenze (nove, precisamente) denotano il fiore, salvo
quella incorporata in Rosalia, che rinvia sia al nome proprio sia al fiore.
Rosalia dunque, l’oggetto del desiderio che Isidoro non cessa di inseguire, è
assimilata a una panòplia di fiori (datura,
gelsomino, bàlico, viola, pomelia, magnolia, zagara, cardenia), di cui
alcuni contengono almeno due lettere del termine rosa, e altri almeno due lettere appartenenti al termine lia. Questa rosa dunque, che non è
solamente una rosa, ma che s’innesta su tutti gli altri fiori menzionati,
produce su Isidoro curiosi e inebrianti effetti di felicità e insieme di
infelicità, conformemente a una lunga tradizione letteraria.
Inoltre
il ritmo di questa prosa sembra obbedire a una scansione sintattica marcata
dalla pausa, l’arresto della voce e al contempo a una scansione che,
sovrapponendosi alla precedente, ne modifica l’andamento. A una prima lettura,
in effetti, il cambiamento d’accento tonico di alcune parole, dalla penultima
alla terzultima sillaba, genera una sorta di inciampo, una interruzione del
ritmo più spesso regolare, piano e quasi monotono («gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia,
magnolia, zàgara e cardenia. Poi il
tramonto, al vespero, quando nel
cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere
sfervora»). Bisogna leggere e rileggere la lassa per accorgersi che non è
così, poiché la regolarità, apparentemente ostacolata dall’irruzione
dell’accento sulla terzultima sillaba di alcuni vocaboli, è in realtà
rimodulata su un’altra linea di sonorità, che è quella del livello
soprasegmentale della scrittura (come per i termini: bàlico, zàgara, vèspero, àere, vàlica, bàlsami). Questa prima parte
dell’Innoa Rosalia si rivela così estremamente ricca di figure di fonetica
come: allitterazioni (rosa/rosa ecc.; sfera/aere/sfervora; cancello/scorre/coglie/coinvolge),
rime (Rosalia/Rosa e lia; inebriato/sventato/mangiato; pomelia/magnolia; datura/frescura/clausura;
fiati/distillati; odorosi/grommosi
ecc.), e figure metriche, tra cui una dialefe, m’ha, hai!, messa in evidenza da un polisindeto, un’elisione
iniziale e un punto esclamativo finale.
Nella
seconda lassa (2 sequenze) prevalgono invece le variazioni attorno a lia, termine lungamente reiterato, che si
congiungerà alla fine della lassa col termine Rosa, dunque di nuovo Rosalia,
seguito da un chiasmo: «Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?», che
contiene, per di più, una sintomatica citazione petrarchesca («De la dolce et
amata mia nemica», Canzoniere, v. 2
del sonetto CCLIV «I’
pur ascolto, et non odo novella»):
Lia che m’ha liato
la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno
sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio
dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia
che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal
pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece
dov’affogai, ahi!, per mia dannazione.
Corona di delizia e
di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine,
rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco
vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?
Infine
la terza lassa (3 sequenze) delinea, attraverso un’originalissima ekphrasis, il
corpo (piuttosto il simulacro) di Rosalia:
T’ho cercata per
vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai colli a la Marina, per piazze
per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo
sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e
perla scaramazza, mandola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai
ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e
pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare.
Ignoravano il mio
piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo
per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo
della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo, le rose
carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e
gli occhi rivoltati in verso il Cielo…
Rosalia, diavola,
magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola
quella vecchia bagascia di tua madre?
Ciò
che sembra emergere dall’analisi dell’Inno
a Rosalia è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto
femminile, forse inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle
due tradizionali Venere celeste e Venere terrestre (amor sacro e amor profano),
subentra in Retablo una sola figura
femminile dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e intensamente
desiderata. Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela
grazie all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali
appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione
di queste due Veneri, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera dell’amore
e della corrente sensuale del desiderio, che fa sì che i tratti ideali e i
tratti erotici si intrecciano.
L’Inno a Rosalia si svolge dunque seguendo un ritmo regolare, e tuttavia interrotto da alcuni inciampi o sospensioni. Una sorta di deviazione viene così prodotta dall’irruzione allucinatoria dell’oggetto del desiderio che il Soggetto crede finalmente di potere attingere e possedere. È l’impossibile cattura di questo oggetto meraviglioso o mostruoso, che impone al tempo regolare dell’Inno di arrestarsi, per poterlo aggirare e mascherarne il vuoto per mezzo di una momentanea discordanza ritmica.
Breve estratto dal volume di Rosalba Galvagno L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo (Milella 2023), presentato a San Mauro Castelverde per il III° Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo (25-26-27 agosto 2023).
Una mattina dell’agosto 2005 ho accompagnato il documentarista siracusano Giuseppe Di Maio ad un incontro con Vincenzo Consolo nella sua casa di Sant’Agata di Militello. Il regista, alle prese con le sue ricerche sulle feste patronali isolane, ne avrebbe ricavato la testimonianza dello scrittore. L’intervista-conversazione tra i due, finora inedita (e sotto trascritta), costituisce la più articolata riflessione consoliana sull’argomento; solo paragonabile ad un intervento, altrettanto azzeccato ma di portata molto minore, riguardante le fotografie sulle feste religiose di Ferdinando Scianna (Consolo 1980). Nel 2003, Giuseppe Di Maio aveva fondato a Catania, con Alessandro Aiello, l’Associazione Documenta – Osservatorio Tradizioni Popolari, che nel 2004, con il contributo alla regia di Angelo Di Cataldo, presentò il suo primo film, Di luni s’accumincia lu ran chiantu, un lungo documentario sui lamenti della Passione nell’entroterra isolano, nell’ennese e nel nisseno,[1] che ottenne il premio al miglior documentario nel Festival Taranto Cinema 2005, da una giuria presieduta da Morando Morandini. In questo 2005 Di Maio e Aiello, allontanandosi alquanto dalla prospettiva iniziale (ma dando pure l’avvio ad un interesse che li avrebbe portati a documentare la presenza in Sicilia di svariate manifestazioni artistiche e letterarie, autoctone o meno), girano un breve filmato, 47 frammenti,[2] sulla mia omonima antologia di poesie. Riprendono subito, però, la strada iniziale per dare corso al più proficuo forse dei loro impegni: quello appunto di documentare le tradizioni popolari. Alla fine dell’anno montano Diario di viaggio. Immagini e suoni delle feste patronali in Sicilia,[3] una serie di 24 microdocumentari, a mo’ di schede, girati tra maggio 2004 e settembre 2005, in altrettanti paesi delle province di Agrigento, Catania, Enna, Messina e Siracusa. Un Viaggio a Sutera nel 2009 rinsalda l’incontro con il «suono osseo, di pietra»[4] della musica dei Fratelli Mancuso, già incrociati per De luni s’accumincia lu ran chiantu. E, nel 2011, una serie di sette mediometraggi dal titolo complessivo Pianeta Sicilia illustra l’intento culturale e antropologico su cui poggia l’operato di Documenta: «raccogliere e accostare tanti frammenti, tasselli di un ideale mosaico. […] Stravaganze e stranezze, credenze, cerimonie religiose e riti pre-cristiani si alternano in maniera caotica e magari incoerente formando per sovrapposizione un’immagine […] dell’Isola e dei suoi abitanti».[5] Fanno parte della serie, tra gli altri, i filmati sul catanese Cuntu di Peppa ’a Cannunera; sulla Casa Museo Antonino Uccello a Palazzolo Acreide; sulla Pasqua indiavolata a San Fratello, Prizzi e Adrano; ancora sui Fratelli Mancuso a Sutera o su Maria Attanasio e Caltagirone.[6] Le consonanze con alcuni degli interessi (e con taluni spunti narrativi) che testimoniano certe pagine di Vincenzo Consolo[7] e della stessa Maria Attanasio sono evidenti, così come – per quanto riguarda le feste religiose – la prospettiva che li accomuna: che, scrive l’autrice in Viaggio nel nero, vede le feste religiose come «superstite memoria – che nel sacro riscatta la violenza della storia – di transiti, invasioni, mescolanza di razze […]» (Attanasio 2005: 47).[8] Sempre nel 2011, Documenta – questa volta è Davide Brusà l’aiuto regista di Di Maio – porta a termine il montaggio di Uocchiu di crapa. Le voci di Sciascia, presentato in anteprima nel novembre 2009 all’Università di Siviglia.[9] L’organizzazione del convegno Diverso è lo scrivere. Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo (Università di Catania, marzo 2013), ne affida ad Aiello e Di Maio la documentazione.[10] Gli ultimi lavori di Documenta risalgono al biennio ’13–’14, in buona misura legati all’esperienza di Viù Arti Visive:[11] sul pittore catanese Kranti. Segni di un ladro di segni;[12] sull’artista americano Philip Hipwell, Everithyng is abstract;[13]Escribir el hueco – Scrivere l’incàvo, sui versi del mio omaggio allo scultore basco Jorge Oteiza[14], tra gli altri. Alessandro Aiello continua la sua attività nel collettivo artistico canecapovolto, fonda la Scuola fuori Norma (dove prosegue con le proprie ricerche nel campo del radiodramma, del cinema e la musica sperimentali); già docente all’Accademia di Belle Arti di Palermo, passa a insegnare in quella di Catania. Giuseppe Di Maio, da anni educatore sociale in centri pubblici d’accoglienza per ragazzi disagiati, viene invece nominato nel 2015 giudice onorario del tribunale dei minorenni cittadino.[15] Il regista siracusano è scomparso prematuramente nell’agosto 2020. Vincenzo Consolo, quella mattina d’agosto a Sant’Agata, mordendosi con gesto caratteristico il labbro inferiore, ironico ma fermo, mi invitò a fare una passeggiata nel paese mentre loro due parlavano di quel che dovevano parlare. C’è attestazione audiovisiva di quell’incontro tra lo scrittore e il documentarista, ma non è stata mai resa pubblica.[16] La registrazione, una ventina di minuti, parte ex abrupto, senza alcuna domanda. L’inquadratura è sempre la stessa: lo scrittore seduto nel divano del soggiorno, qualche incisione antica sul muro dietro lui, e in un angolo il piccolissimo Cristo ligneo che conoscono i frequentatori della casa, trovato tra le macerie di una chiesa diroccata sui Nebrodi.[17] Ripreso di mezzobusto, lateralmente, non guarda la cinepresa, gesticola poco, tranne quando la testimonianza finisce col diventare conversazione, momenti in cui fissa l’operatore. Eccone il montaggio verbale delle riprese: Nella mia infanzia, adolescenza, non ho memoria di particolari feste religiose, qui nel mio paese, perché è un paese giovane, e quindi si è formato, diciamo, in tempi relativamente recenti. È un paese di pescatori, di contadini, e non avevano delle grandi tradizioni di feste popolari. Ma quando ho preso consapevolezza del luogo dove abitavo, cioè della Sicilia, e ho cominciato a girare, a inoltrarmi in questi paesi dei Nebrodi, che sono dei paesi con antica storia, ho incominciato a vedere le prime feste religiose: per esempio la festa di San Fratello, dei Giudei[18], durante la Settimana Santa; e poi la festa di San Giovanni ad Alcara Li Fusi, che va sotto il nome della festa del Muzzuni;[19] la festa di San Calogero a San Salvatore di Fitalia…[20] Ma sempre qui, in questa zona dei Nebrodi. A San Marco d’Alunzio c’erano anche la festa di San Luca, la festa dell’Aracoeli, cogli incapucciai.[21] Poi, quando incominciavo a frequentare le altre parti dell’Isola, la Sicilia occidentale, la Sicilia orientale, e soprattutto quando ho conosciuto Leonardo Sciascia[22] e andavo a trovarlo a Caltanissetta, allora ho visto la festa delle Vare del Giovedì Santo. Mi ricordo che la prima volta che ho assistito a questa festa c’era, ospite, una ragazza tedesca, che stava facendo la tesi su Leonardo; abbiamo assistito da un balcone alla festa, e alla fine Sciascia ha chiesto alla ragazza: —Cosa te ne sembra?— e lei, da perfetta tedesca, ha detto: —Mi sembra un po’ troppo disordinata—. Disordinata perché questi portatori delle vare, naturalmente, alzavano un po’ il gomito, bevevano… Poi siamo andati a vedere il Venerdì Santo la festa a… In questo momento, sorridendo, persa forse ogni minima concentrazione nel ricordo cordiale dell’amico e dell’aneddoto, taglia lo scrittore: «Ecco, mi sono inceppato, scusami». Si ferma la registrazione; riparte, e dopo un «Via!» di Di Maio, riprende Consolo: Dopo la festa chiassosa, diciamo, siamo andati il giorno dopo a vedere la processione del Venerdì Santo a Enna, che è una festa severa, con queste confraternite di incapucciati, con i simboli della Passione, che si svolgeva nel silenzio più assoluto, con queste nebbie di Enna che calavano: era veramente una visione suggestiva, una festa un po’ di tipo sivigliano, con queste tuniche bianche e questo capuccio in testa…[23] Ci accompagnava a volte, c’era con noi in queste feste il giovane Ferdinando Scianna,[24] che incominciava allora a fotografare le feste religiose, e da lì poi scaturì il libro che fecero assieme con Sciascia, appunto sulle feste religiose in Sicilia…[25] Poi, naturalmente, ho visto altre feste, la festa di Trapani, le vare bellissime, tutte monocrome in legno scolpito, del Seicento…[26] Lo scrittore fa un breve silenzio; e continua: Nei miei libri, questa esperienza e conoscenza delle feste religiose… Nei miei libri narrativi ma anche saggistici, ci sono pagine dedicate a queste feste. Conoscevo poi, naturalmente, i vari folcloristi siciliani, dal Pitrè a Salomone Marino e tutti gli altri. E ho trasferito, a partire dal mio primo libro, La ferita dell’aprile, il momento dello snaturamento, diciamo, e della trasformazione, nel subito dopoguerra, della festa dei Giudei di San Fratello: dove racconto che questi giudei, che erano, che rappresentavano gli antagonisti, gli uccisori di Cristo… ed erano i pastori, i contadini che recitavano questa parte, con questi costumi diavoleschi… erano gli antagonisti di una società, diciamo, più abbiente, i proprietari terrieri… Infatti, in anni lontani questi giudei diventavano anche violenti, perché compivano delle vendette, con delle catene che tenevano in mano, approfittando del fatto che erano mascherati… Ho raccontato appunto di loro, quando alle prime elezioni siciliane del ’47 sono stati portati giù, alla marina come si dice da noi, e usati per fini elettorali: insomma, questi giudei, sviliti, sono stati trasformati in propagandisti elettorali, distribuivano dei volantini per i vari candidati. E mi sembrò il primo svilimento di una tradizione popolare antichissima.[27] Poi anche in altri libri ho raccontato delle feste religiose in Sicilia, dalla Sicilia passeggiata[28] sino allo Spasimo di Palermo, in cui racconto della visita che fa il protagonista Gioacchino Martinez con la moglie a Enna, dove assistono appunto alla processione degli incapucciati del Venerdì Santo…[29] Un anno ho partecipato anch’io al Festino di Santa Rosalia, a Palermo: ho scritto un testo sulla peste di Palermo del 1623…[30] E qui Consolo, facendo ancora un silenzio, fissa Di Maio con gli occhi spalancati, l’unica volta che questo gesto si presenta in tutta la registrazione: a sottolineare inconsapevolmente quella storia, che avrebbe dovuto essere la cornice del romanzo mai scritto, Amor sacro, del quale restano appunto quelle poche pagine pubblicate in occasione del Festino palermitano del 2000, e qualche appunto sparso qua e là; e a sottolineare, pure, e pure inavvertitamente, il proprio smarrimento: pur essendosi affidato per anni a libri e documenti letti e riletti sull’Inquisizione in Sicilia, su Fra Antonino di Mistretta, sugli ebrei isolani, sull’eresia molinista a Palermo, tra i tanti altri, cercando una saldezza di scrittura dove approdare, mai raggiunta. E procede: La scoperta della Santa sul Monte Pellegrino, insomma tutte le vicende che conosciamo, che sono fra la storia e la leggenda. Quello che sempre mi ha incuriosito è che non c’è una festa popolare per San Benedetto che viene chiamato da Palermo. È un santo questo… era figlio di uno schiavo di San Fratello, era anche lui eremita sul Monte Pellegrino, è stato beatificato. Ma quando c’era la peste a Palermo c’e stata una lotta fra francescani (questo frate era francescano) e gesuiti, per nominare, diciamo, il protettore della città. Vinsero i gesuiti, e allora fu inventata (dico inventata nel senso di inventio) la Santa Rosalia: furono scoperte le ossa sul Monte Pellegrino e quindi la Santuzza divenne la santa protettrice di Palermo. San Benedetto, sconfitto, venne dal re di Spagna esportato in Sudamerica, naturalmente con intenti politici, per tenere buone le popolazioni di colore. Questo santo è molto popolare in Argentina, in Perú, in tutta l’America Latina. E quel quartiere di Borges, che lui chiama Palermo, in effetti è San Benito de Palermo, intitolato appunto a questo santo nero, a questo santo schiavo che viene proprio da San Fratello, beatificato per il suo essere stato eremita sul Monte Pellegrino. Ecco la contrapposizione fra questo santo di colore e la Santa, Rosalia, che discendeva addirittura (perché le è stato creato un albero genealogico, suo padre si chiamava Sinibaldo), discendeva addirittura da Carlomagno, era nobile, vergine, bianca, e quindi prevalse. Dico che bisognerebbe riscoprire questi santi di colore in Sicilia, per esempio la Madonna del Tindari, i San Calogeri. Bisognerebbe veramente, in questo nostro mondo che ormai si sta trasformando, con l’arrivo di questi poveri immigrati disperati, bisognerebbe riscoprire la storia di questi santi di colore in Sicilia.[31] Ancora uno stacco nella registrazione. E ancora il via! dell’operatore: In quest’isola dove l’uomo è solo, come ci ha insegnato Pirandello, è chiuso nella sua individualità, nella poca attesa che ha dalla parte sociale, dalla parte esterna, nella chiusura nell’ambito famigliare…, le feste religiose, come ci ha insegnato Sciascia, erano un momento di grande socialità, di aggregazione sociale, il momento in cui il siciliano usciva dalla sua solitudine e dove avveniva la comunicazione, avvenivano gli incontri, ed erano momenti assolutamente unici, e importanti anche per cercare di liberare le chiusure dell’uomo siciliano. Cogli anni poi queste feste religiose, rivedendole qualche volta come mi capita, si sono assolutamente snaturate, sono diventate molto esteriori, sono in mano alle varie pro loco… Voglio dire che i partecipanti alla festa ripetono per gli altri, sopratutto per quelli che li riprendono: finisce il momento religioso, e finisce anche il momento della comunicazione sociale, della partecipazione collettiva, e quelli che partecipano alla festa non sono più spettatori e partecipi ma, come dire, attori, attori di uno spettacolo che poi rivedranno a casa loro alla televisione. La televisione, senza demonizzarla, ma forse bisognerebbe farlo, ha trasformato la nostra vita, e quindi ormai l’individuo vive nella solitudine della sua casa, vive nei momenti di pausa, così, guardando quello che Quasimodo chiama il video della vita: io lo chiamo il video della morte. Questo nostro ormai è un paese che io chiamo telestupefatto, e i risultati poi si vedono in ogni campo, insomma, nel campo religioso ma anche politico e culturale, in ogni senso, in ogni aspetto della vita: chi non appare non è, non esiste, quindi bisogna cercare in tutti i modi di apparire, come sto facendo io in questo momento. C’è un’assoluta trasformazione che non sappiamo a cosa ci porterà: certo, a una omologazione del tutto in cui siamo immersi e che stiamo vivendo anche nel modo di esprimersi, nei modi di abbigliarsi, di vestirsi: basta guardare le nostre ragazze, i nostri ragazzi, col ventre al vento e i pantaloni sul ginocchio, il borsetto a tracolla e la testa rapata, così come hanno visto il commissario Montalbano alla televisione. C’è questo uniformarsi ai messaggi televisivi. E quindi anche le feste religiose, ahimè!, che avevano una loro verità e una loro profondità storica, ne hanno sofferto in questa trasformazione culturale.[32] A questo punto interviene l’osservatore delle tradizioni popolari Di Maio, il documentarista delle feste patronali, e la testimonianza diviene infine conversazione, sotto l’unico sguardo attento che registra la cinepresa, quello dello scrittore Consolo: «Però —dice Di Maio—, a questo proposito ti volevo chiedere una cosa. Tra le tradizioni popolari nell’ambito siciliano, forse la festa popolare di tipo religioso è quella che invece resiste di più. I canti popolari già è difficile riscontrarli, e anche i lamenti stessi di cui abbiamo già trattato.[33] Quelli, con difficoltà resistono. Invece, ancora oggi, quasi a ogni paese, la festa popolare religiosa si mantiene. Come mai? Avresti una risposta?» «Ci devo pensare, Giuseppe —risponde lo scrittore—. Tu, come la interpreti questa qui, questa conservazione? Ci sono ormai delle piccole isole, qua e là…» «No —incalza Di Maio—, io quello che dico è che però ogni paese riesce ancora a conservare la propria festa del Santo». «Sì» —annuisce Consolo. «Quindi —prosegue l’operatore—, da un punto di vista sociale, in qualche modo, ancora il ruolo della Chiesa… io da questo punto di vista la volevo impostare… riesce ancora ad attecchire…» «Sì» —ripete lo scrittore. E continua Di Maio: «Allora, è un problema ancora di fede, nonostante tutto…» E Consolo: «Io dubito, sinceramente. Forse non lo è mai stato un fatto di fede; era un fatto, appunto, di tradizione popolare, di tradizione culturale, perché insomma… u siciliano[34] non crede in Dio, crede nei Santi» —e sorride sornione. «Non so» —si sente la voce di Di Maio. Di nuovo uno stacco. Siamo alla conclusione delle riprese. Parla Consolo: Ricordo, col fenomeno dell’emigrazione meridionale nel nord dell’Italia, collaboravo allora con il«Tempo illustrato», un giornale molto bello dove scriveva Pasolini, Giorgio Bocca, Davide Maria Turoldo… Sono andato a fare un’inchiesta in un quartiere periferico di Milano che si chiama Pioltello Limito, dove c’era una comunità di Pietraperzia, perché c’erano le trafile del ricamo e si era formata questa comunità di pietraperziesi[35]. E lì questi siciliani avevano trasferito anche la loro festa popolare, che era quella del Venerdì Santo con il Cristo morto e con i lamenti. Si erano fatti rifare la statua come quella del paese che avevano lasciato, identica, e quindi facevano questa processione il Venerdì Santo. Il parroco a un certo punto gli impedì di fare i lamenti, dicendo: —Ma cosa è questo, questi lamenti arabi? —chiamandoli con disprezzo arabi; veramente non sopportando l’intrusione, diciamo, di una cultura, di una tradizione siciliana antichissima in questo contesto industriale di Milano, della Lombardia.[36] Fine della registrazione. Ma, tra parentesi, un’ultima postilla: come non la sopportava nemmeno, questa intrusione, pur in ben diverse chiavi e progressive, Elio Vittorini; testimone Stefano D’Arrigo[37].
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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[1] Presentato in anteprima all’Università di Aquisgrana nel gennaio 2004, in occasione di un Incontro con la cultura siciliana organizzato dal Prof. Hans Felten (trailer disponibile in https://vimeo.com/156239216).[2] Prima alla Biblioteca Comunale di Caltagirone nel luglio 2005, per la presentazione dell’antologia (edita da Altavoz, 2005) a cura di Josephine Pace.[3] Presentato in anteprima, in fase ancora di riprese e quindi di montaggio, nel corso della rassegna La paura mangia l’anima (Teatro Club, Catania, marzo 2005).[4] Sottotitolo del documentario; disponibile in https://vimeo.com/140891538. Prima al Palazzo Reburdone di Caltagirone in occasione del 4º Festival Internazionale di Poesia (dicembre 2009). [5] Dal comunicato stampa per la presentazione di Pianeta Sicilia al cinema King Cinestudio di Catania nel febbraio 2012 ((trailer disponibile in https://vimeo.com/156239996. [6]Il documentario completo sulla scrittrice calatina disponibile in codice QR in Adamo, Cuevas 2023: 17; anche in https://www.youtube.com/watch?v=9YeqDw3nmgA. [7] Oltre a quanto ha a che fare con le feste religiose (su cui infra), cfr. la testimonianza consoliana su Antonino Uccello in La casa di Icaro [1981] (Consolo 1988: 582-589). [8] Sulla festa religiosa cfr. pure Attanasio 2000: 23-29; anche le poesie della prima sezione (Gorgo della parola infanzia) della silloge Blu della cancellazione (Attanasio 2016: 17-33), che erano state già stampate con qualche variante nel libro di fotografie sulle feste patronali di Massimo Siragusa Credi (Siragusa 2003) nel quale partecipa anche Vincenzo Consolo con il racconto Il teatro del sole (già pubblicato da Interlinea nel ’99). [9] Il documentario venne proiettato a chiusura delle giornate di studio su Leonardo Sciascia Per un ritratto dello scrittore (trailer disponibile in https://vimeo.com/156240347); cfr. Trapassi 2012. [10] Sul convegno, organizzato da Doroty Armenia, tra i primi – se non il primo – dedicato alla memoria dello scrittore scomparso l’anno precedente, cfr. Galvagno 2015. [11] Sede temporanea dell’Associazione Documenta, Viù Arti Visive apre nel centro storico di Catania nel 2013 uno spazio espositivo che per due anni ospita mostre fotografiche e pittoriche, presentazioni di libri, letture poetiche, proiezioni cinematografiche. Altri documentari del periodo: La Sicilia di Peter Waterhouse [sul poeta tedesco] (2013; trailer disponibile in https://vimeo.com/138844456; filmato completo in https://www.youtube.com/watch?v=34Pw2kyA2Ws), Quattro canti [sull’omonimo gruppo musicale] (2013; disponibile in https://vimeo.com/140886375), Percorsi siciliani. Outsider art. Viaggio alla scoperta dell’arte clandestina siciliana [2014] (trailer disponibile in https://vimeo.com/143537241). [12] Prima a Viù Arti Visive per la mostra dell’artista, dicembre 2013; disponibile in https://vimeo.com/156246106. [13] Prima alla mostra del pittore a Viù, curata da Giovanni Miraglia, aprile 2014; disponibile in https://vimeo.com/156247381. [14] Libro edito da Il Girasole, 2011. Prima del filmato a Viù nel maggio 2014 (trailer disponibile in https://vimeo.com/90202763), per la chiusura della mostra Mànnara. Operette umorali di Navamuel, con il titolo La vanga nell’aria. Poesie per Jorge Oteiza.[15] Gli appunti precedenti rendono conto inevitabilmente parziale di un’attività e di un materiale cinematografico ancora tutto da inventariare e catalogare; sarebbe auspicabile un’attenta ricognizione negli archivi personali di Alessandro Aiello e Giuseppe Di Maio, allo scopo di un’accurata ricerca sul loro lavoro di documentazione antropologica. Altri filmati di Documenta: Festa della Focara di San’Antonio Abate a Novoli (2006; trailer disponibile in https://vimeo.com/156241049), Teatrabilità (2006), Tarantafest (2007), Le donne e la guerra (2008), Santo Stefano Quisquina. Il ritorno in Wolfswagen (in Pianeta Sicilia, 2011), L’incanto. Puntalazzo (ivi), Il bastone siciliano (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122986412), L’anti-Gattopardo [su Goliarda Sapienza] (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122960172). [16] Ringrazio della generosa disponibilità la compagna di Giuseppe Di Maio, Mariagrazia Spedale. L’intervista-conversazione rimase inedita in attesa di un contributo – più volte richiesto e mai concesso – dalla Regione Siciliana per un film che avremmo realizzato su La Sicilia passeggiata. Allo stato di solo soggetto è rimasto pure un altro progetto comune, che riguardava un percorso cinematografico sui testi di Consolo nel suo risvolto visivo, ovvero sui riferimenti figurativi della sua opera. [17] Mi informa Claudio Masetta Milone, che cura con ammirevole zelo il sito ufficiale https://vincenzoconsolo.it/ e la casa letteraria dedicata allo scrittore nel Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, che il Cristo (32x29x2 cm. circa), probabilmente settecentesco, è stato rinvenuto in una chiesa rasa a terra da una frana nella campagna dell’antico borgo di Castania, abbandonato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento; restaurato, venne disposto su una lastra di cristallo (45x35x1 cm.), montata su un piccolo cubo di marmo rosso. [18] Documentata da Aiello e Di Maio nel documentario Pasqua indiavolata, in Pianeta Sicilia, cit. [19] Documentata da Diario di viaggio, cit. (riprese il 24-6-04). [20] Ivi (riprese il 20-08-05). [21] La cosiddetta festa dei Patroni a San Marco d’Alunzio porta in processione le statue di San Marco e San Nicola. Diario di viaggio documenta la festa di San Basilio (riprese il 2-8-04). [22] Sul rapporto tra i due scrittori cfr. Cuevas 2012. [23] Sullo stesso argomento, e quasi con le stesse parole, cfr. Consolo 2016b: 73s. [24] Il fotografo bagherese collaborò qualche anno dopo con Consolo in una sorta di reportage (Consolo 1969), «un racconto scandito sotto forma di otto didascalie numerate a corredo di altrettante fotografie», come scrive Nicolò Messina (Messina 2017), che ha esumato il testo come una tra le fonti di L’olivo e l’olivastro (1994). Sul rapporto tra i due si veda Consolo 1980. [25] Sciascia 1965, Il discorso di Consolo sull’argomento è mutuato in buona misura da questo scritto sciasciano: particolarmente per quel che riguarda l’interpretazione della festa dei Giudei a San Fratello, le riflessioni sulla festa religiosa come quasi unica occasione conviviale di uscita dall’isolamento coatto, o sulla non religiosità stricto sensu di tali manifestazioni nel popolo siciliano (cfr. ivi: 1162ss.). D’altronde, non è da escludere che Consolo si sia imbattuto nel saggio di Sciascia per la prima volta in quel frate Antonino da Mistretta, che tanta parte avrà nella praticamente non-scrittura dell’ultimo progettato romanzo, Amor sacro (cfr. ivi: 1150). [26] Cfr. Consolo 2009. [27] Cfr. il capitolo VIII de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 79-81); cfr. anche una breve sequenza del IV ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (Consolo 1976: 202; un intero paragrafo di Conversazione a Siviglia s’intitola «La sarabanda dei giudei» (Consolo 2016b: 69s.); cfr. Pasqua indiavolata, cit.Nello stesso capitolo del romanzo d’esordio una brevissima sequenza riprende l’usanza di offrire dei soldi alle statue in processione (Consolo 1963: 82), particolare documentato in ben sei delle schede di Diario di viaggio. [28] Nell’explicit del capitolo secondo e per una gran parte di quello successivo (cfr. Consolo 1990a: 42, 45-50, 58s.). Alcuni di questi brani passano nei capitoli XI e XIII de L’olivo e l’olivastro e nel saggio La rinascita del Val di Noto [1991] confluito in Di qua dal Faro (Consolo1999) (per le procedure della manipolazione testuale cfr. Consolo 2016a: 97, 99; note 14 e 29).Alcune delle feste a cui fa riferimento Consolo sono state documentate in Diario di viaggio: San Paolo a Palazzolo Acreide (riprese il 23-6-04), la corsa dei “Nudi” per Sant’Alfio a Lentini (riprese il 10-5-04), Sant’Alfio, Cirino e Filadelfo a Trecastagni (ripreseil 10-5 del ’04 e ’05). Una filastrocca sui nomi dei tre santi ritorna nel cap. I de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 7). [29] Cfr. Lo Spasimo di Palermo, cap. VI (Consolo 1998: 932). [30] Cfr. i testi di Consolo, senza titolo, scanditi da apparenti sottotitoli tra cui ricompaino alcune didascalie goyesche già presenti nel cap. VII de Il sorriso dell’ignoto marinaio,nella brossura del Festino palermitano del 2000 (Consolo et. al. 2000: 13, 26-31). [31] La presenza di San Benedetto di San Fratello detto il Moro ricorre nella scrittura di Consolo, dalle Notizie che corredano il testo di Lunaria (Consolo1985: 341s), ai saggi La pesca del tonno in Sicilia [1986](Consolo 1999: 1023s.) e La retta e la spirale [1995] (Consolo 1999: 1235), al racconto Il miracolo [2000](Consolo 2012: 175-177); l’autore gli dedica diversi articoli su periodici e giornali (Consolo 1990b, 1995, 2000); compare pure nelle pagine per il Festino palermitano (Consolo et.al. 2000). In una stanza dell’appartameno milanese di Vincenzo Consolo e Caterina Pilenga era appesa un’icona raffigurante San Benedetto, opera dell’artista Beppe Madaudo (CIC esemplari numerati, interventi serigrafici e manuali ad olio su tavola preparata a gesso e colla, 60×50 cm.); il quadro si conserva nella casa letteraria del Castello Gallego nel paese natio dello scrittore (ringrazio ancora Claudio Masetta Milone per queste informazioni).Santa Rosalia (oltre a Consolo et. al. 2000., e soprattutto alla malia del nome – della santa, della fanciulla, della cantatrice, della modella – che impregna Retablo, Consolo 1987) è presente in Lunaria, sia nella favola teatrale che nelle note riportate nelle Notizie (Consolo 1985: 289, 349s., 355s.). Diario di viaggio documenta tre feste di San Calogero: due nell’agrigentino, nel capoluogo (riprese il 3-7-05) e a Naro (riprese il 8-6-04; al San Calogero di Naro assomiglia, «nerissimo di barba e pelle», frate Agrippino in Le pietre di Pantalica, Consolo 1988: 484); una nel messinese, a San Salvatore di Fitalia (riprese il 20-8-05; durante le feste per il santo in «Fitalia di montagna» si svolge parte del capitolo V de La ferita dell’aprile, Consolo 1963: 44-48); sempre in Diario di viaggio, ancora un’altra scheda documentaria sulla festa di San Cono di Naso (ME; riprese l’1-9-04), la cui statua presenta le sembianze di un gigante nero, come secondo la leggenda apparve per cacciare gli invasori turchi (sul santo e la suggestione dei nomi cfr. Il barone magico, Consolo 1988: 601). [32] Un risvolto satirico di questa riflessione nel racconto E poi la festa del patrono [1990] (Consolo 2012: 139-142). [33] Fuoricampo, c’è da supporre; ché, ripeto, non ero presente alla registrazione. [34]Così si sente nell’audio della registrazione, con l’articolo dialettale.[35] Sulla colloraborazione a «Tempo illustrato» cfr. Consolo 1993: 36; di questi reportages si legge pure nell’autobiografia appena velata del racconto E Ciro vide Anna Magnani [2008] (Consolo 2012: 228-230]). L’«inchiesta» in questione in Consolo 1970. [36] Altri testi consoliani in cui sono presenti in vario modo festività religiose: Befana di novembre [1960-70] (Consolo 2012: 11-13), Fra Contemplazione e Paradiso [1988] (Consolo 1999: 1058-1065, 1061), Il flusso perenne (Consolo 2003) Sicilia in festa (Cosolo 2007). [37] Cfr. Cuevas 2021. [Da: Coriasso, Cristina, Varela-Portas, Juan (eds.), «Con angelica voce…». Studi in onore di Rosario Scrimieri Marín, Ledizioni, Milano, 2023, pp. 293-310] [1] Presentato in anteprima all’Università di Aquisgrana nel gennaio 2004, in occasione di un Incontro con la cultura siciliana organizzato dal Prof. Hans Felten (trailer disponibile in https://vimeo.com/156239216).[2] Prima alla Biblioteca Comunale di Caltagirone nel luglio 2005, per la presentazione dell’antologia (edita da Altavoz, 2005) a cura di Josephine Pace.[3] Presentato in anteprima, in fase ancora di riprese e quindi di montaggio, nel corso della rassegna La paura mangia l’anima (Teatro Club, Catania, marzo 2005).[4] Sottotitolo del documentario; disponibile in https://vimeo.com/140891538. Prima al Palazzo Reburdone di Caltagirone in occasione del 4º Festival Internazionale di Poesia (dicembre 2009). [5] Dal comunicato stampa per la presentazione di Pianeta Sicilia al cinema King Cinestudio di Catania nel febbraio 2012 ((trailer disponibile in https://vimeo.com/156239996. [6]Il documentario completo sulla scrittrice calatina disponibile in codice QR in Adamo, Cuevas 2023: 17; anche in https://www.youtube.com/watch?v=9YeqDw3nmgA. [7] Oltre a quanto ha a che fare con le feste religiose (su cui infra), cfr. la testimonianza consoliana su Antonino Uccello in La casa di Icaro [1981] (Consolo 1988: 582-589). [8] Sulla festa religiosa cfr. pure Attanasio 2000: 23-29; anche le poesie della prima sezione (Gorgo della parola infanzia) della silloge Blu della cancellazione (Attanasio 2016: 17-33), che erano state già stampate con qualche variante nel libro di fotografie sulle feste patronali di Massimo Siragusa Credi (Siragusa 2003) nel quale partecipa anche Vincenzo Consolo con il racconto Il teatro del sole (già pubblicato da Interlinea nel ’99). [9] Il documentario venne proiettato a chiusura delle giornate di studio su Leonardo Sciascia Per un ritratto dello scrittore (trailer disponibile in https://vimeo.com/156240347); cfr. Trapassi 2012. [10] Sul convegno, organizzato da Doroty Armenia, tra i primi – se non il primo – dedicato alla memoria dello scrittore scomparso l’anno precedente, cfr. Galvagno 2015. [11] Sede temporanea dell’Associazione Documenta, Viù Arti Visive apre nel centro storico di Catania nel 2013 uno spazio espositivo che per due anni ospita mostre fotografiche e pittoriche, presentazioni di libri, letture poetiche, proiezioni cinematografiche. Altri documentari del periodo: La Sicilia di Peter Waterhouse [sul poeta tedesco] (2013; trailer disponibile in https://vimeo.com/138844456; filmato completo in https://www.youtube.com/watch?v=34Pw2kyA2Ws), Quattro canti [sull’omonimo gruppo musicale] (2013; disponibile in https://vimeo.com/140886375), Percorsi siciliani. Outsider art. Viaggio alla scoperta dell’arte clandestina siciliana [2014] (trailer disponibile in https://vimeo.com/143537241). [12] Prima a Viù Arti Visive per la mostra dell’artista, dicembre 2013; disponibile in https://vimeo.com/156246106. [13] Prima alla mostra del pittore a Viù, curata da Giovanni Miraglia, aprile 2014; disponibile in https://vimeo.com/156247381. [14] Libro edito da Il Girasole, 2011. Prima del filmato a Viù nel maggio 2014 (trailer disponibile in https://vimeo.com/90202763), per la chiusura della mostra Mànnara. Operette umorali di Navamuel, con il titolo La vanga nell’aria. Poesie per Jorge Oteiza.[15] Gli appunti precedenti rendono conto inevitabilmente parziale di un’attività e di un materiale cinematografico ancora tutto da inventariare e catalogare; sarebbe auspicabile un’attenta ricognizione negli archivi personali di Alessandro Aiello e Giuseppe Di Maio, allo scopo di un’accurata ricerca sul loro lavoro di documentazione antropologica. Altri filmati di Documenta: Festa della Focara di San’Antonio Abate a Novoli (2006; trailer disponibile in https://vimeo.com/156241049), Teatrabilità (2006), Tarantafest (2007), Le donne e la guerra (2008), Santo Stefano Quisquina. Il ritorno in Wolfswagen (in Pianeta Sicilia, 2011), L’incanto. Puntalazzo (ivi), Il bastone siciliano (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122986412), L’anti-Gattopardo [su Goliarda Sapienza] (2012; trailer disponibile in https://vimeo.com/122960172). [16] Ringrazio della generosa disponibilità la compagna di Giuseppe Di Maio, Mariagrazia Spedale. L’intervista-conversazione rimase inedita in attesa di un contributo – più volte richiesto e mai concesso – dalla Regione Siciliana per un film che avremmo realizzato su La Sicilia passeggiata. Allo stato di solo soggetto è rimasto pure un altro progetto comune, che riguardava un percorso cinematografico sui testi di Consolo nel suo risvolto visivo, ovvero sui riferimenti figurativi della sua opera. [17] Mi informa Claudio Masetta Milone, che cura con ammirevole zelo il sito ufficiale https://vincenzoconsolo.it/ e la casa letteraria dedicata allo scrittore nel Castello Gallego di Sant’Agata di Militello, che il Cristo (32x29x2 cm. circa), probabilmente settecentesco, è stato rinvenuto in una chiesa rasa a terra da una frana nella campagna dell’antico borgo di Castania, abbandonato tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento; restaurato, venne disposto su una lastra di cristallo (45x35x1 cm.), montata su un piccolo cubo di marmo rosso. [18] Documentata da Aiello e Di Maio nel documentario Pasqua indiavolata, in Pianeta Sicilia, cit. [19] Documentata da Diario di viaggio, cit. (riprese il 24-6-04). [20] Ivi (riprese il 20-08-05). [21] La cosiddetta festa dei Patroni a San Marco d’Alunzio porta in processione le statue di San Marco e San Nicola. Diario di viaggio documenta la festa di San Basilio (riprese il 2-8-04). [22] Sul rapporto tra i due scrittori cfr. Cuevas 2012. [23] Sullo stesso argomento, e quasi con le stesse parole, cfr. Consolo 2016b: 73s. [24] Il fotografo bagherese collaborò qualche anno dopo con Consolo in una sorta di reportage (Consolo 1969), «un racconto scandito sotto forma di otto didascalie numerate a corredo di altrettante fotografie», come scrive Nicolò Messina (Messina 2017), che ha esumato il testo come una tra le fonti di L’olivo e l’olivastro (1994). Sul rapporto tra i due si veda Consolo 1980. [25] Sciascia 1965, Il discorso di Consolo sull’argomento è mutuato in buona misura da questo scritto sciasciano: particolarmente per quel che riguarda l’interpretazione della festa dei Giudei a San Fratello, le riflessioni sulla festa religiosa come quasi unica occasione conviviale di uscita dall’isolamento coatto, o sulla non religiosità stricto sensu di tali manifestazioni nel popolo siciliano (cfr. ivi: 1162ss.). D’altronde, non è da escludere che Consolo si sia imbattuto nel saggio di Sciascia per la prima volta in quel frate Antonino da Mistretta, che tanta parte avrà nella praticamente non-scrittura dell’ultimo progettato romanzo, Amor sacro (cfr. ivi: 1150). [26] Cfr. Consolo 2009. [27] Cfr. il capitolo VIII de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 79-81); cfr. anche una breve sequenza del IV ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (Consolo 1976: 202; un intero paragrafo di Conversazione a Siviglia s’intitola «La sarabanda dei giudei» (Consolo 2016b: 69s.); cfr. Pasqua indiavolata, cit.Nello stesso capitolo del romanzo d’esordio una brevissima sequenza riprende l’usanza di offrire dei soldi alle statue in processione (Consolo 1963: 82), particolare documentato in ben sei delle schede di Diario di viaggio. [28] Nell’explicit del capitolo secondo e per una gran parte di quello successivo (cfr. Consolo 1990a: 42, 45-50, 58s.). Alcuni di questi brani passano nei capitoli XI e XIII de L’olivo e l’olivastro e nel saggio La rinascita del Val di Noto [1991] confluito in Di qua dal Faro (Consolo1999) (per le procedure della manipolazione testuale cfr. Consolo 2016a: 97, 99; note 14 e 29).Alcune delle feste a cui fa riferimento Consolo sono state documentate in Diario di viaggio: San Paolo a Palazzolo Acreide (riprese il 23-6-04), la corsa dei “Nudi” per Sant’Alfio a Lentini (riprese il 10-5-04), Sant’Alfio, Cirino e Filadelfo a Trecastagni (ripreseil 10-5 del ’04 e ’05). Una filastrocca sui nomi dei tre santi ritorna nel cap. I de La ferita dell’aprile (Consolo 1963: 7). [29] Cfr. Lo Spasimo di Palermo, cap. VI (Consolo 1998: 932). [30] Cfr. i testi di Consolo, senza titolo, scanditi da apparenti sottotitoli tra cui ricompaino alcune didascalie goyesche già presenti nel cap. VII de Il sorriso dell’ignoto marinaio,nella brossura del Festino palermitano del 2000 (Consolo et. al. 2000: 13, 26-31). [31] La presenza di San Benedetto di San Fratello detto il Moro ricorre nella scrittura di Consolo, dalle Notizie che corredano il testo di Lunaria (Consolo1985: 341s), ai saggi La pesca del tonno in Sicilia [1986](Consolo 1999: 1023s.) e La retta e la spirale [1995] (Consolo 1999: 1235), al racconto Il miracolo [2000](Consolo 2012: 175-177); l’autore gli dedica diversi articoli su periodici e giornali (Consolo 1990b, 1995, 2000); compare pure nelle pagine per il Festino palermitano (Consolo et.al. 2000). In una stanza dell’appartameno milanese di Vincenzo Consolo e Caterina Pilenga era appesa un’icona raffigurante San Benedetto, opera dell’artista Beppe Madaudo (CIC esemplari numerati, interventi serigrafici e manuali ad olio su tavola preparata a gesso e colla, 60×50 cm.); il quadro si conserva nella casa letteraria del Castello Gallego nel paese natio dello scrittore (ringrazio ancora Claudio Masetta Milone per queste informazioni).Santa Rosalia (oltre a Consolo et. al. 2000., e soprattutto alla malia del nome – della santa, della fanciulla, della cantatrice, della modella – che impregna Retablo, Consolo 1987) è presente in Lunaria, sia nella favola teatrale che nelle note riportate nelle Notizie (Consolo 1985: 289, 349s., 355s.). Diario di viaggio documenta tre feste di San Calogero: due nell’agrigentino, nel capoluogo (riprese il 3-7-05) e a Naro (riprese il 8-6-04; al San Calogero di Naro assomiglia, «nerissimo di barba e pelle», frate Agrippino in Le pietre di Pantalica, Consolo 1988: 484); una nel messinese, a San Salvatore di Fitalia (riprese il 20-8-05; durante le feste per il santo in «Fitalia di montagna» si svolge parte del capitolo V de La ferita dell’aprile, Consolo 1963: 44-48); sempre in Diario di viaggio, ancora un’altra scheda documentaria sulla festa di San Cono di Naso (ME; riprese l’1-9-04), la cui statua presenta le sembianze di un gigante nero, come secondo la leggenda apparve per cacciare gli invasori turchi (sul santo e la suggestione dei nomi cfr. Il barone magico, Consolo 1988: 601). [32] Un risvolto satirico di questa riflessione nel racconto E poi la festa del patrono [1990] (Consolo 2012: 139-142). [33] Fuoricampo, c’è da supporre; ché, ripeto, non ero presente alla registrazione. [34]Così si sente nell’audio della registrazione, con l’articolo dialettale.[35] Sulla colloraborazione a «Tempo illustrato» cfr. Consolo 1993: 36; di questi reportages si legge pure nell’autobiografia appena velata del racconto E Ciro vide Anna Magnani [2008] (Consolo 2012: 228-230]). L’«inchiesta» in questione in Consolo 1970. [36] Altri testi consoliani in cui sono presenti in vario modo festività religiose: Befana di novembre [1960-70] (Consolo 2012: 11-13), Fra Contemplazione e Paradiso [1988] (Consolo 1999: 1058-1065, 1061), Il flusso perenne (Consolo 2003) Sicilia in festa (Cosolo 2007). [37] Cfr. Cuevas 2021. [Da: Coriasso, Cristina, Varela-Portas, Juan (eds.), «Con angelica voce…». Studi in onore di Rosario Scrimieri Marín, Ledizioni, Milano, 2023, pp. 293-310]
«Veritas»: è questo il titolo di
una delle tre parti che compongono Retablo,
romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il
titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico,
una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del
libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della
medesima vicenda. Ma retablo è anche
una citazione del Retablo de las
maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per
farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier
Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le
strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei
loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa
l’atto unico di Cervantes.[2] Ma
non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente
intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata
tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:
In
Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca
di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della
cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano
al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari
prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola
viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia
epica antica.[3]
Per comprendere a pieno questi
riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo
ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per
interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le
citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un
ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio
alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi
brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che
ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di
Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:
Quando
Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di
riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la
fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi
itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne
vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello
scrittore.[5]
Alla base delle citazioni di
Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione
che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo
intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura
ingenua e vergine.[6]
Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto
che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura
palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una
evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva
tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al
secondo grado».[7]
In particolare, dei cinque tipi di transtestualità
individuate in Palimpsestes, sono
due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e
l’ipertestualità. L’intertestualità
viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente
si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa
categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8]
Mentre il termine ipertestualità fa
riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul
quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa
categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]
Le due forme di transtestualità
agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a
proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune
riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo
già il titolo La ferita dell’aprile si
presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso
incipitario di The Waste Land com’è
noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di
un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]
Ma il gioco intertestuale
raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al
quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella
misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre
maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità
non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria
l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge
a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si
nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto,
ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e
Pirandello.[11]
In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il
sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal
reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze
tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di
spiegare più avanti.
In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso
della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta
a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle
pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime
infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita
derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12]
Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto
è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier
Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue
carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di
cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il
diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è,
naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la
narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento,
sul cui verso è raccontata la storia
a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e
vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il
gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così,
nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in
corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui
prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso
letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non
abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco
di altri scritti».[13]
Questo motivo dell’«infinita
derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più
consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14]
Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti
facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in
particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui
la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il
disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo
accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la
celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità –
ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella
sua totalità, e di Retablo in
particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria
e Retablo come a un «dittico
barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico»
rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco
riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per
comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi
brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.
L’elemento illuministico è
facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il
protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli
Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte
centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in
Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista,
con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la
pena di morte.[17]
Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire
dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno
sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna
nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo,
«invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava
la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose
conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e
matto”».[18]
Il romanzo, sebbene il diario di
Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è
in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni
corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui
deriva appunto il titolo Retablo. Dunque la prima parte, «Oratorio», è il
racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane
ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la
Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste
monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro
accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio
ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha
abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria
della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta
cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira
per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti
della fanciulla, «davanti a la Verità,
divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e
inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume
valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella»,
sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La
terza parte «Veritas» è lo speculare
racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al
povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia
mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a
partire per una tournée come cantante
d’opera.
Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista
sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si
integrano a vicenda.[20] Se
infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui
intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata
Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal
Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di
disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si
configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la
medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da
cui è osservata, e in cui anche la Veritas
è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La
moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte
da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi
ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in
quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che,
visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e
trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi
la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi,
ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo
diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare
il reale in maniera univoca e attendibile».[21]
Ma il barocchismo del romanzo
raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base
di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco
dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti
metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi,
ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello
della canzone leopardiana.[22] Si
veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza
dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura
col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro
a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel
silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi,
precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O
ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro
riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O,
per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e
mirando, e ascoltando»,[25] in
cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a
cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]
Fin dal vertiginoso incipit,
lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come
protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze
che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per
restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:
Rosalia.
Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato,
rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è
datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e
cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera
d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del
mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del
chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi
distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina
velenosa in su nel cuore.[27]
Per questo inizio tutto giocato
sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo
incipit di Lolita, ma, e non è niente
di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo
centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da
Eco nelle sue postille a Il nome della
rosa.[28]
Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la
paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a
«un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa
possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]
È questo un passaggio su cui
occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo»
viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione
ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel
momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono
anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di
Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare
evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione
particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda
metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e
gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli
‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui
imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla
varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che
senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del
realismo.[30]
Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono
diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di
realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]
Spostando il baricentro del discorso
dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il
realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui
si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole
e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo
del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta
alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il
tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi
elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una
perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire
l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi
nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale,
ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire
qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del
linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la
logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico,
non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista
può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a
una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare
quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un
postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa,
e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.
È proprio questa riflessione
della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la
narrativa di Consolo; e Retablo, pur
nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri,
più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo
di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante
fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32]
Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso,
in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto
narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel
suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a
definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo
diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano
essere gli argomenti accolti nel suo racconto:
Ma
pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di
disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o
evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare
metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali,
di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]
Nell’opposizione dell’«estatico
mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca
stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di
tutta la narrativa di Consolo.[34] Per
quanto in Retablo prevalga
effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal
vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla
scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere
completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la
storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici
(Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui
svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi
pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma
ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e
nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri
notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca
sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era
Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]
È tuttavia innegabile che il
nucleo tematico forte di Retablo non
sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine
dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia,
evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche
il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di
sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo
stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto
l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il
ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo
caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in
chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo
mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del
motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione
letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto,
Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è
inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre
inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi,
le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.
La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente
svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di
agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non
reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma,
proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente
dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio
mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può
guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non
meno che estetiche».[39] Nel
momento in cui la letteratura è di nuovo solo
letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue
possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte
per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si
conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema
civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più
volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]
La medesima alterità profonda
tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di
Retablo, in cui don Gennaro, il
protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma,
proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza
vissuta da spettatore:
Siamo
castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare
questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini,
ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con
nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre
davanti.[41]
Sebbene l’arte sia altro
rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere
irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa
altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura,
costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile
sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che
Consolo
non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla
percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del
proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente
segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende
cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]
D’altro canto Martinengo ha
potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia]
il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e
sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si
raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In
questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas
stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit),
ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno
sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata
in un confronto corpo a corpo con il reale.
In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]
SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022
[1]V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015. [2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397). [3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190. [4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189. [5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV. [6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70. [7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982. [8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8. [10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022. [11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93. [12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398. [13] Ivi, pp. 421-423. [14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82. [15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43. [16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381). [18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116. [19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465. [20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63). [21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65. [22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21). [23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382. [24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415. [26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369. [28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508). [29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72. [30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17. [31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138. [32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79. [33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399. [34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356. [35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413). [36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650. [37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393). [38]S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73. [39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX. [40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453. [41] Ivi, p. 473. [42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349. [43]M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134. [44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V. [45] Ibidem [46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia. Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo 1. Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé un’immagine di Itaca come luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo avventuroso e minaccioso e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà 2. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile3 . Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare 3 la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. Patria dolcissima solo nel ricordo è anche la città di Argo per Ifigenia. La sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma che ormai, senza che lei lo sappia, è luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura4 – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È questa la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo, infatti, non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico. Il mito e la letteratura, come si vede, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi. 2. Itaca non c’è più: la voce di Consolo. A chi percorre le pagine di Consolo non sfugge l’insistente riflessione, che nasce da più di uno spunto autobiografico, sul rapporto travagliato tra l’esule e la propria patria. In tutta la sua opera lo scrittore pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci –, al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – quasi Enea che abbandona un’Ilio compromessa –, prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato. Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, come scrive Consolo, «costruita dai Proci»5 , ha perso cioè l’identità della tanto sospirata patria delle radici in uno stravolgimento sociale e culturale: gli usurpatori hanno avuto la meglio e l’esule è impotente di fronte a un mondo che non gli appartiene e a cui non appartiene. Nella seconda opera, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. È un’Itaca stravolta allora, quella dell’approdo, una terra in cui l’ulivo non ha posto, perché in essa non c’è più ombra di civiltà, e scomparso, irrimediabilmente, è anche il conforto della famiglia, già fagocitato dalla debole salute mentale di una moglie ormai morta, che niente ha a che fare con la Penelope omerica. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiaman5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali do in causa i simboli della tragedia euripidea6 , tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno7 , che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità8 . La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui era ancora possibile un equilibrio. 3. Itaca con tutti i sensi. Nell’esilio la patria lontana – nello spazio e nel tempo – appare luminosa, contrapposta a un Nord, anche fuor di metafora, decisamente grigio. Una complessa trama di paesaggi visivi, con evidente omaggio al mondo dell’arte e della pittura, ma anche di paesaggi sonori, olfattivi, persino gustativi, che si sovrappongono e si intersecano, concorre a definire la Sicilia. Se indubbia è in ciò una ricca componente letteraria, al di là del topos però la pagina consoliana rivela una sensibilità che si lega al vissuto dell’autore: memoria e confronto personale con i luoghi determinano l’immagine che questi assumono sulla pagina scritta9 . Alla Milano affollata che propone sollecitazioni da grande città del Nord alla vista e all’udito – ben oltre il modello letterario va l’apprezzamento per l’umanità multicolore di Porta Venezia e per il suo vario patrimonio gustativo, mentre il fetore di Seveso10 è traccia olfattiva di un progresso feroce, dell’inquinamento e della deriva politica che a questi si accompagna – la Sicilia si contrappone con la sua festa dei sensi. Retablo, in particolare, è una straordinaria esibizione di percezioni sensoriali che testimoniano la scoperta e la sorpresa di fronte alla ricchezza e alla diversità dell’isola. Fin dal suo approdo a Palermo Clerici deve fare i conti, alla maniera dei viaggiatori del Grand Tour, con la novità delle sollecitazioni visive, sonore, olfattive11. Ma il protagonista e voce narrante accoglie soprattutto le capacità percettive del suo autore: la Sicilia è l’isola della memoria e gli straordinari paesaggi sensoriali che descrivono le rovine di Segesta o di Selinunte, l’universo arcano di Mozia, rivelano un compiacimento nella percezione che appartiene a Consolo, siciliano alla scoperta della propria terra. Pur senza abbandonarsi all’idillio a tutti i costi – attraverso la prospettiva di Clerici emergono anche tracce sensoriali non edificanti – l’autore tratteggia la propria Itaca come una terra che seduce con le sue innumerevoli sollecitazioni sensoriali. È in particolare nelle descrizioni gastronomiche di cui abbonda il racconto che emerge il compiacimento di Consolo12: non vi si può rintracciare dunque solo il modello letterario – la meraviglia del viaggiatore di fronte alle offerte culinarie – ma anche il gusto dello scrittore che ricorda i sapori della sua terra. L’interesse per pietanze dolci e salate è d’altra parte presente anche nella produzione giornalistica e saggistica e confessato in testi scopertamente autobiografici in cui emerge come tratto intimo la predilezione per i cibi del Sud, in contrasto con quelli evidentemente meno invitanti del Nord13. Itaca insomma nutre con il suo gusto anche a distanza e preziosa è la riserva d’antichi sapori e nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. odori che nei lunghi e grigi inverni del Nord riporta al ricordo del paese14. E anche se un nuovo approdo all’isola, in Ritorno al paese perduto, sottopone al rischio di nuove e per nulla confortanti sensazioni – non solo la casa non è più la stessa, pure la vista dal terrazzo è mutata, e più forte del senso della vista diventa quello dell’udito nel registrare un nuovo, invadente e sgradevole paesaggio sonoro15 – più forte del tempo resiste nella vivacità dell’allocuzione al lettore nel più tardo Natali sepolti il gusto delle radici: l’offerta diretta di un pasto appartenente alla Sant’Agata del passato, fatto di salsiccia, vino dell’Etna, profumatissime mele d’oro, interrompe il flusso narrativo e sembra testimoniare, nell’immediatezza dell’uso del presente, che qualcosa si è salvato16. 4. Proteggere le radici. Al di là della permanenza delle percezioni gustative, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento. La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi. Illuminante è la riflessione dello scrittore sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado e i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità. Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono in maniera rapida e feroce – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. La sua opera invita dunque – e in ciò risiede la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi. Il passato, come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica, può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo? Sei nato dal carrubo e dalla pietra da madre ebrea e da padre saraceno. S’è indurita la tua carne alle sabbie tempestose del deserto, affilate si sono le tue ossa sui muri a secco della masseria Brillano granatini sul tuo palmo per le punture delle spinesante17. Solo se ripartiamo da questo, quindi, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Solo salvando le radici, come le piante, possiamo avere speranza di non perire. *** 3 V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371. 4 B. Westphal, Le miroir barbare. Géocritique de la Tauride, in A. Le Berre (a cura di), De Prométée à la machine à vapeur: cosmogonies et mythe fondateur, Pulim, Limoges 2005, pp. 13-33. 5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. B. Westphal, Geocritica: reale, finzione, spazio, trad. di L. Flabbi, Armando editore, Roma 2009, p. 184. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche D. Papotti, Istruzioni geopoetiche per la lettura della città di Napoli, in F. Italiano, M. Mastronunzio (a cura di), Geopoetiche. Studi di geografia e letteratura, Unicopli, Milano 2011, pp. 43-63, a p. 49. 10 V. Consolo, Replica eterna, in Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, p. 180. 11 Id., L’opera completa, cit., p. 403. 12 A proposito W. Geerts, L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in B. Van den Bossche (a cura di), Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, Cesati, Firenze 2000, pp. 307-316. 13 «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», V. Consolo, Un giorno come gli altri, in “Il Messaggero”, 17 luglio 1980, ora in Id., La mia isola è Las Vegas, pp. 87-97, a p. 92. 14 Id., E poi la festa del patrono, in “Corriere della sera” 15 agosto 1990, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 139-42, a p. 141. 15 Id., Ritorno al paese perduto, in “Il manifesto” 5 aprile 1992; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 146-149, a pp. 146-147. 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. 17 Id., Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
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In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vincenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva: Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultanze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’iperletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1
1 G. Raboni, E nevicò con cocci
lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .
Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spiccatamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilinguismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto)»2
2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,
1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dalle pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrittura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.
I tre aggettivi scelti da
Raboni per definire l’iperletterarietà consoliana appaiono quanto mai esatti:
essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di
un contesto in cui i riferimenti si confondono, si amalgamano con la
scrittura, diventano allusione, tonalità di un racconto; è elegante, perché
spesso sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso
quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di
particolare ricercatezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinconica,
perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra
natale, la fine del mondo contadino, il livellamento operato dalla lingua dei
media.
La letteratura di Consolo è
una letteratura dal limite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima
che essa decada nel non essere. È proprio questa malinconia ciò che collega
l’iperletterarietà all’altro elemento centrale, e apparentemente discordante,
della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromissione costante della
scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi
romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del
presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del
passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione
dell’uomo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annientamento. «La storia
è sempre uguale»3
3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,
scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, romanzo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La letteratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.
In un’intervista rilasciata a
Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle
ragioni profonde delle sue scelte narrative:
Credo di avere
un progetto letterario che perseguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di
raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti
critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4
4 V. Consolo, Autobiografia della
lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli
uomini, Bologna, 2016, p. 13.
In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:
Io credo che la letteratura debba […] imporsi appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umiliazione e sfruttamento (isolate ed estranee al flusso principale della storia). Supremo compito della letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.
In questa propensione verso
gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana.
Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlando del suo
sguardo sul Risorgimento siciliano espresso nel romanzo Il sorriso
dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi
degli emarginati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una
strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto
marinaio racconta, tra le altre cose, la rivolta contadina di Alcara Li
Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una
serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo delle truppe
garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più
complesso di quanto potrebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una
condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano
un circolo vizioso di violenza e dolore. In una delle pagine finali del
romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che possiamo
considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio
amico? una scrittura continua di privilegiati»6
6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .
La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La
5 riflessione è
ancora veicolata dal personaggio di Mandralisca: «Ed è impostura sempre la
scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi
e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .
Si nota insomma come la
questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comunque
da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con
l’impegno professato dallo scrittore. A spiegarcelo è Consolo stesso,
nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di
Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come
Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella
che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di
tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera
illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamente e
idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società
che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore
equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instaurarsi «di un potere
politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta
stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel
segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice
linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le
periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Consolo
non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il
grande deposito linguistico» lasciato in Sicilia dallo stratificarsi di popoli
diversi è così diventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno
stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione,
che rappresentava un importante ingranaggio di quella macchina di integrazione
e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti
e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota,
d’altronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul
racconto della fine del mondo contadino sopraffatto dalla nuova realtà
industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la
scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancellazione del passato,
che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il
mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conservare la
memoria di ciò che era prima:
Credo che sia proprio questo
il dovere della letteratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto
con le nostre matrici linguistiche, che erano anche matrici etiche, matrici
culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e
perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è
memoria e soprattutto memoria linguistica. (Autobiografia della lingua,
p. 12)
La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’interno dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che meglio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrittore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6
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La raccolta di saggi di Consolo del 1999 Di qua dal faro apre con un epigrafe dantesca: “E la bella Trinacria, che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo / che riceve da Euro maggior briga / non per Tifeo, ma per nascente solfo” (Paradiso, VIII. 67-70). Dentro questo spazio insulare Consolo espone la propria produzione narrativa per delineare nuovi ed inesplorati territori letterari e arricchire il palinsesto che è la Sicilia, in tutte le sue manifestazioni, siano esse la “bella Trinacria” o l’altrettanto dantesca “isola del foco” (Paradiso, XIX.131). La tradizione letteraria è uno dei maggiori interessi di Consolo e, decisamente, lo è il ruolo che egli avrà in essa. L’interesse verso antenati e tradizioni letterarie è parte di ciò che contraddistingue la sua 7 particolare esperienza artistica. Avere una relazione profondamente sentita con la tradizione non implica necessariamente una subordinazione servile verso precursori e modelli. Piuttosto, nel caso di Consolo, implica un uso trasformativo e creativo della letteratura, e l’estensione dei suoi limiti: in pratica, l’accesso e la partecipazione a quella stessa tradizione. Nonostante le sue tematiche siano decisamente siciliane e dalla ricchezza della tradizione letteraria siciliana si possano estrarre grandi livelli di influenza, Consolo non ignora il contesto più ampio italiano all’interno del quale scrive. Il suo indebitamento verso Dante è altamente significativo, eppure, sorprendentemente, non è stata ancora fonte di molta discussione.2 Parte del problema risiede nella stessa scrittura di Consolo e nella vertiginosa serie di interessi presente nelle sue opere. La sua consuetudine ad arricchire i suoi testi con dialoghi intertestuali polifonici complessi rispecchia per certi versi la relazione di Dante con la sua tradizione. Occorre precisare che, nella poetica di Consolo, né Dante né qualsiasi altro autore è riconosciuto esplicitamente come modello autoriale: Dante è, nonostante questo, una delle tante “presenze” nella narrativa di Consolo. Sono echi, motivi, reminiscenze, modelli retorici, allusioni dirette, e modelli architettonici a segnalare il dantismo di Consolo. I secoli che separano le loro esperienze artistiche garantiscono lo specifico uso dialogico, e non conflittuale, delle allusioni dantesche da parte di Consolo. Per Consolo il poeta della Commedia è un deposito di lingua e di motivi, una presenza seducente in quello che George Steiner chiamava lo ‘shadow-theatre of encounters’, il teatro d’ombre di incontri3 . Come Dante, Consolo tematizza di continuo il rapporto dei propri testi con i loro precursori con delle citazioni esplicite (e a volte meno esplicite). In questo breve studio cercherò di localizzare i motivi danteschi e di cogliere alcune delle allusioni più risonanti nella narrativa di Consolo, limitando la 2 Questo saggio è basato sul mio Consolo’s ‘trista conca’: Dantean anagnorisis and echo in Il sorriso dell’ignoto marinaio, scritto in inglese e pubblicato in Echi danteschi / Dantean Echoes, a cura di R. Bertoni, Torino, Trauben, 2003, pp. 85-105. 3 G. Steiner, Grammars of Creation, Londra, Faber, 2001, p. 73. 4 C. Segre, Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), p. 86. 5 S. A. Sanna, A colloquio con Vincenzo Consolo, “Italienisch: Zeitschrift für italienische Sprache und Literatur in Wissenschaft und Unterricht”, 17, 1987, p. 31. 6 G. Contini, Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1979, p. 540. 7 C. Segre, op.cit., pp. 83-85. mia analisi a Il sorriso dell’ignoto marinaio per dimostrare che l’architettura e il linguaggio infernali, un’anagnorisi specificamente dantesca e l’epifania purgatoriale informano la riscrittura plurilingue della storia di Consolo nella camera d’eco che è il suo “romanzo-chiocciola”, per dirla con Segre.4 In un’intervista del 1987, in cui parlava del ruolo di Dante nelle sue opere, Consolo diceva: “credo che Dante faccia parte del nostro sangue, lo assorbiamo, in me c’è anche il gusto della citazione indiretta. Lo ripeto, l’endecasillabo e certe immagini e forme dantesche le ho dentro e mi piace citarle invisibilmente ed a volte scopertamente”.5 Esempi espliciti della presenza di Dante possono essere trovati ne L’olivo e l’olivastro (1994) e anche ne Lo Spasimo di Palermo (1998), e lì hanno la funzione della citazione diretta. Attraverso la lettura de Il sorriso dell’ignoto marinaio si vedrà come Dante è uno degli autori su cui si fonda la poetica di Consolo. 2.
“La favella di Satanasso”: plurilinguismo e monolinguismo L’uso variegato della lingua in Consolo inevitabilmente lo pone in quella linea di “macaronici” che Contini definiva come “gli adepti delle scritture composite, [.,.] degli aristocratici per definizione”6 . Segre scrive che Consolo condivide con Gadda “la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico”, ma anche, seguendo Bachtin, che il plurilinguismo di Consolo dimostra “plurivocità”.7 Le scelte linguistiche di Consolo hanno anche un valore ideologico, non soltanto stilistico: Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Per me è stato un segnale, il simbolo di una ribellione alle norme, dell’uccisione del padre [.,.]. Ho volute creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel 8 codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto dei vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati.8 Le predilezioni linguistiche di Consolo sono altamente significative in quanto egli si pone in confronto diretto con il linguaggio standard dell’autorità dell’Italia moderna. Per certi versi sia lui che Dante, quindi, affrontano le rispettive autorità con trasformazioni radicali e deviazioni dalla norma attraverso forme estremamente ibride in cui la mescolanza di registri, l’uso di forme arcaiche, dialettali e scientifiche trovano facile dimora nei loro costrutti. Però è con l’uso metaforico del dialetto sicliano-lombardo – il sanfratellano – che possiamo intravedere l’intenzione ideologica di Consolo. Questo dialetto è proposto come “altro”, iscritto nel romanzo come una specie di antidoto ai codici del potere. Ma quel che mi interessa qui è la ricerca fatta da Consolo. Quando si parla di questo dialetto uno dei nomi spesso dimenticati è quello dell’erudita e poeta ottocentesco Lionardo Vigo. Vigo fu il primo linguista a cercare di classificare il parlato di queste colonie lombarde, precursore di indagini più dettagliate e professionali9 . Nel 1857 Vigo scrisse che il dialetto sanfratellano gli sembrava un “gergo inintelligibile” ed era, in fin dei conti, la “favella di Satanasso”10. Anni dopo nel 1868 ribadisce questi punti in una lettera pubblicata nel quotidiano La Sicilia: Dissi nel 1857 e ripeto inintelligibile più della favella di Satanasso il linguaggio di Piazza e vi aggiungo quello di San Fratello. […] è satanico tutto ciò che non si comprende, come il Papè Satan di Dante. Che dire poi di un linguaggio aspro di consonanti, aspirazioni e tronchi, misto allo strascio dei suoi dittonghi e trittonghi?11 Nell’arco del romanzo, Consolo conferisce dignità al dialetto e inoltre il romanzo stesso conclude con l’ultima delle “scritte” proprio in sanfratellano. Il primo incontro con questa parlata precaria è nel quarto capitolo, Val Dèmone. Mandralisca vede un prigioniero nelle segrete del castello di Maniforti e chiede informazioni su di lui. Uno dei servi gli risponde che il prigioniero è “un diavolo d’inferno, scatenato” (200), e più avanti esclama: “Ah. Sanfratellano, Dio ne scansi! Gente selvaggia, diversa, curiosa. E parlano ’na lingua stramba, forestiera” (202). Seguendo le suggestioni di Vigo nel proporre questa lingua in termini infernali, Consolo fa un’allusione alla lingua incomprensibile e bestiale della non-ragione. La configurazione di quella lingua con quella dantesca – “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” (Inferno, VII.1) – è molto significativa. La “voce chioccia” (Inferno, VII.2) di Plutone richiama il primo incontro che Dante-personaggio ha con la lingua dei dannati: “Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira, / voci alte e fioche” (Inferno, III.25-27), e anticipa anche le emissioni illogiche dalla “fiera bocca” di Nembrot: “Raphèl maì amècche zabì almi” (Inferno, XXXI.67). Però alla fine del Sorri9 so, nonostante la sua difficoltà, al sanfratellano viene accordata una posizione privilegiata nel testo. Mandralisca scrive che è una “lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare” (216). Sembra quasi una lingua adamica, un sopravvissuto fragile da una confusio linguarum italica. Consolo fornisce al lettore un esempio del parlato diabolico tramite la figura dell’“insano frate liconario” (222) – Frate Nunzio nel terzo capitolo Morti sacrata. La litania blasfema che declama prima di violentare e uccidere la ragazza catalettica è un esempio non solo del plurilinguismo di Consolo ma anche dell’inversione della ragione e l’abuso della lingua. La lingua, specialmente le oscillazioni tra le “orribili favelle” (Inferno, III.25), mediate tramite le “rime aspre e choicce” (Inferno, XXXII.1) e l’“angelica voce, in sua favella” (Inferno, II.57) è effettivamente la cosa che conferisce alla Commedia la sua novità formale. Il poema di Dante pluralizza la lingua, e in quello che è un cambiamento di posizione rispetto alla De vulgari eloquentia, nel Paradiso Adamo dice: La lingua ch’io parlai fu tutta spenta […] Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella (Paradiso, XXVI.124-32). Ibridismo, pluralità e parodia caratterizzano l’uso non-totalizzante della lingua nel Sorriso. Questo romanzo storico-metaforico si confronta con un momento decisivo del nascente Stato italiano e mette in dubbio il monolinguismo opprimente dello stesso stato attraverso un richiamo alla pluralità delle lingue minacciate da questa fondazione. La pretesa di una lingua sola degrada e cancella le micro-storie degli emarginati e dei diseredati, quelli senza le chiavi del sistema linguistico dominante. Il desiderio, espresso da Mandralisca nel romanzo, è che “tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose” (217).
3. Dante nella “chiocciola” L’ideale che un giorno i “nomi” saranno riempiti dalle cose è un sogno da linguista, non realizzabile. L’abisso fra “nomi” e “cose” era già stato annunciato nel primo capitolo in cui Mandralisca riflette che i nomi, allontanati dai loro significati originali diventano “sommamente vaghi, suoni, sogni” (129). La pochezza della lingua e l’incapacità di rappresentare in modo efficace e fedele la realtà sono temi centrali sia per Dante sia per Consolo. Dante tematizza quest’impasse nella Commedia, specialmente nell’ultima cantica in cui i limiti della lingua sono ben evidenti e la lingua stessa diventa un mezzo poco adatto per rappresentare l’esperienza del viator: “significar per verba / non si poria” (Paradiso, I.70-71); “l’essemplo / e l’essemplare non vanno d’un modo” (Paradiso, XXVIII.55-56). Nel Sorriso il problema è diverso. Mandralisca deve fungere da testimone della rivolta degli alcaresi e per raccontare gli eventi in modo fedele deve evitare qualsiasi forma di imposture. Scrive: 10 Oh descriver potrò mai quel teatro, la spaventosa scena paratasi davanti su per la strade, i piani di quel borgo? Il genio mi ci vorrìa dell’Alighieri, dell’Astigian la foga, del Foscolo o del Byron la vena, dell’anglo tragediante, dell’angelo britanno il foco o la fiammiante daga che scioglie d’in sul becco delle penne le chine raggelate per l’orrore, o del D’Azeglio o Vittor Hugo o del Guerrazzi almen la prosa larga… Di me, lasso!, che natura di fame, di fralezza e di baragli ha corredato, v’appagate? (223) Questa formulazione retorica contorta, al di là dell’appello al “genio” di Dante, indica e parodizza la natura offuscante della rappresentazione linguistica e l’inevitabile finzione dell’atto di scrittura. I limiti del linguaggio e il rischio dei suoi effetti distorsivi, sia attraverso l’abuso rappresentativo che la celebrazione letteraria, sono centrali nelle preoccupazioni del poema e del romanzo. Se consideriamo la seguente concezione retorica di Dante, emerge il suono di un’eco lontana. Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte? Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’hanno a tanto comprender poco seno. (Inferno, XXVIII.1-6) Così come il protagonista di Consolo invoca ed elenca i nomi dei letterari del passato per evidenziare la propria incapacità di descrivere fedelmente le scene, così anche Dante invoca battaglie storiche significative per rendere l’idea del vasto numero di sofferenze dei dannati insanguinati di cui è testimone nella nona bolgia. Dante elenca queste battaglie e conclude il passo affermando: “e quel forato suo membro e qual mosso / mostrasse, d’aequar sarebbe nulla / il modo de la nona bolgia sozzo” (Inferno, XXVIII.19-21). L’invocazione al nome di Dante arriva in un momento significativo del testo. Consolo, utilizzando una forma molto stilizzata che comporta una complessa fusione tra una specie di via crucis e i prestiti ekfrastici da Los desastres de la guerra di 12 James Joyce, Finnegans Wake, Londra, Pengiun, 1992, p. 183. Goya, si accinge a descrivere le immagini e i suoni delle conseguenze della rivolta, e alcune allusioni dantesche vengono alla luce. In uno scenario prettamente infernale leggiamo: “D’ogni cosa, strazio: nebbia cenere terra vento e fumo” (224). Ulteriori reminiscenze dantesche vengono enumerate nella visione terribile dei cadaveri per terra circondati dagli avvoltoi: “Le ali aperte per tre metri e passa, stese le zampe con gli artigli curvi, grasso, enorme piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo” (225). In un’altra particolare visione cifra dantesca diventa più marcata: Ma giungea fraditanto una carretta tirata da uno scheletro di mulo come quello famelico in galoppo sopra le teste di papi e principi e madame al palazzo Sclàfani in Palermo. Un carrettiere estrano con casacca rossa, all’impiedi sopra il legno, strappando redini e frustando, sguaiato vociava: ‘Uuh, uuh, broeuta bestia, marouchì poa te! (226-227) La narrazione di Consolo riverbera di echi danteschi per sostenere la visione infernale degli eventi. Il “carettiere estrano […] sopra il legno” certamente richiama il Caronte di Dante, e, più specificamente, Flegiàs dell’ottavo canto. Quel nocchiero arriva su “una nave piccioletta”, descritto poi come “legno”, per trasportare Dante e Virgilio sulla “morta gora”, mentre grida “Or se’ giunta, anima fella!” (Inferno, VIII.15-31). Poco più avanti nel romanzo Consolo scrive: “E in così dire riprese il suo fatale andare” (230) L’allusione è alle parole di Virgilio a Minosse: “Non impedir lo suo fatale andare” (Inferno, V.22). Questa forma di intertestualità ricorda una definizione coniata da Joyce nel Finneganz Wake: “quashed quotatoes”12, una sorta di tecnica di innesto in cui elementi del testo precursore si innestano sul nuovo, in quella che è sia una forma aperta di citazione che una forma di figurazione nascosta. Il capitolo VIII, Il carcere, fornisce al lettore il simbolo più complesso ed enigmatico di Consolo, la “chiocciola”. I rivoltosi sono incarcerati nella prigione che ha forma di chiocciola mentre aspettano le loro sentenze. Questa prigione sotterranea ha la 11 “forma precisa d’una chiocciola” (233) ed è descritta come un “segreto fosso” (232), e un “falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso” (235). Tutto il castello è conforme alla forma a spirale discendente di un guscio di lumaca: Il fatto è che quel castello […] non possiede scale o scaloni in verticale, linee ritte, spigoli, angoli o quadrati, tutto si svolge in cerchio, in volute, in seni e avvolgimenti, scale saloni torri terrazzini corte magazzini. E la fantasia più fantastica di tutte si trova dispiegata in quel catojo profondo, ipogeo, sènia, imbuto torto, solfara a giravolta, che fa quasi da specchio, da faccia arrovesciata del corpo principale del castello sotto cui si spiega, il carcere: immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume”. (235) Questa prigione piranesiana presenta molte somiglianze con la concezione architettonica e la figurazione dello spazio dell’Inferno dantesco. Prima di descrivere il carcere, Consolo cita un passo dalla Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osservatione delle Chiocciole di Buonanni come se fosse “[…] una lapide murata sull’ingresso” (233), nello stesso modo in cui il Dante legge l’iscrizione sopra il portico dell’Inferno nel terzo canto (Inferno, III.1-9). La forma dell’Inferno di Dante è variamente descritta come “carcere cieco” (Purgatorio, XXII.103), “dolente ripa” (Inferno, VII.17), “cerchio tetro” (Inferno, VII. 31), e “tristo buco” (Inferno, XXXII.2). Un’ulteriore descrizione del carcere in Consolo ci viene dal giovane sanfratellano Michele Fano: “si trasi rintra ri / stu puzzu tortu / sappi comu chi fu / e statti mutu” (250). Questo “puzzu tortu” ha le sue equivalenti del poema dantesco. Infatti, “pozzo” è uno dei termini preferiti di Dante per rendere la nozione dello spazio infernale: “e son nel pozzo intorno da la ripa” (Inferno, XXXI.32); “così la proda che ‘l pozzo circonda” (Inferno, XXXI.42); “come noi fummo giù nel pozzo scuro” (Inferno, XXXII.16]; “vaneggia un pozzo assai largo e profondo” (Inferno, XVIII.5); “del bassissimo pozzo tutta pende” (Inferno, XXIV.38]. Il movimento attraverso questo spazio ristretto è altrettanto importante, la discesa a spirale è una delle caratteristiche più marcate della prima cantica di Dante. Virgilio spiega a Dante: “Tu sai che ‘l loco è tondo; / e tutto che tu sie venuto molto, / pur a sinistra, giù calando a fondo” (Inferno, XIV.124-126). Spessi durante il viaggio dei poeti viene annunciata la traiettoria a spirale: la rotazione e la discesa di Gerione (“rota e discende”; Inferno, XVII.116), e “lo scendere e ‘l girar per li gran mali” (Inferno, VII.125) sono particolarmente espliciti a questo proposito. In termini simili, e con un’esattezza di movimento, nel romanzo di Consolo leggiamo: “Prendemmo a camminare in giro declinando” (236). Una delle più significative descrizioni metaforiche dell’inferno di Dante, però, si collega direttamente al testo di Consolo sia nella forma che nella sostanza: troviamo Virgilio e Dante davanti alla città di Dite, Dante-personaggio chiede alla sua guida: “In questo fondo de la trista conca / discende mai alcun del primo grado, / che sol per pena ha la speranza cionca?” (Inferno, IX.16-18). La “trista conca” di Dante prefigura il “puzzu tortu” e fornisce a Consolo un modello architettonico per il suo contorto spazio colloidale di sofferenza e dolore. 4.
Anagnorisis/Agnitio Gran parte della critica consoliana si è concentrata sui capitoli finali del Sorriso, ma poca attenzione è stata dedicata al capitolo iniziale, nonostante la sua peculiarità: esso è carico di sommersi paralleli danteschi, e in particolare sembra essere una rielaborazione e rifacimento di una agnitio specificamente dantesca. È in questo capitolo che il protagonista di Consolo, sulla falsariga dantesca, inizia un viaggio verso la conoscenza di sé: parte da una posizione di ignoranza, causata dalla sua classe sociale e dalla sua chiusura negli studi eruditi, e nel corso della narrazione arriva a una posizione di conoscenza 12 di sé e di riconoscimento della complessità della verità. Apparentemente, l’alba dei passaggi iniziali indica l’alba di una coscienza politica che si risveglia, l’alba del cambiamento, rappresentato dal Risorgimento. Questa fragile luce, tuttavia, rispecchia anche l’incertezza e l’ambiguità della confusa identità e visione del mondo di Mandralisca. Le difficoltà in questo processo verso l’autocoscienza, ma anche i miglioramenti in quella direzione, sono indicate dall’impiego di termini legati alla vista e alla visione. La visione è la componente primaria della conoscenza, o meglio dell’autocoscienza. Il primo verbo del romanzo – “si scorgeva” – dà un’idea di vista, ma la visione del protagonista è resa instabile da verbi come “languivano” e “riapparivano”. Ciò che vede non è chiaro: “Alla fioca luce della lanterna, il Mandralisca scorse un luccichio bianco che forse poteva essere di occhi” (128). La materializzazione degli occhi (organi di senso) è indicativa di una tendenza alla vista intesa metaforicamente come conoscenza di sé. Il “chiarore grande” della nuova giornata illumina pianamente la scena, e le luci distanti delle torri “impallidirono”, mentre le luci fragili delle stelle “svanirono”. Questa trasformazione naturale, tuttavia, ha poco effetto su Mandralisca, in quanto la luce maggiore è servita solo ad aumentare la sua cecità morale. La capacità del protagonista di vedere, di identificare chiaramente, e l’inganno dei suoi sensi ricordano di per sé il pellegrino di Dante nell’Inferno: Quiv’ era men che notte e men che giorno, sì che ‘l viso m’andava innanzi poco; ma io senti’ sonare un alto corno, tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, drizzò li occhi miei tutti ad un loco. […] Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond’io: ‘Maestro, dì, che terra è questa?’. Ed elli a me: ‘Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri. Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto ‘l senso s’inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi (Inferno, XXXI. 10-27) Questo “’l senso s’inganna di lontano” è in parte quello che succede a Mandralisca attraverso il senso dell’udito. Nei paragrafi iniziali de Il sorriso, la sua aura di visione difettosa è in parte compensata da un appello al senso “netto” dell’udito: “fragore d’acque, cigolii, vele sferzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento. E ora che il bastimento avanzava, […] udiva netto il rantolo, lungo e uguale, sorgere dal buio, dietro le sue spalle” (128). Tuttavia, scopriamo che, come la vista, anche l’udito è difettoso. I suoni sono percepiti male da lontano, sono distorti dell’immaginazione, e questo diventa chiaro quando più avanti nel brano Mandralisca si rende conto che “il rantolo s’era cangiato in tosse”. Questa mutazione dall’incertezza della percezione a una migliore definizione è facilitata da una migliore percezione visiva dovuta all’aumento della luce con l’espandersi dell’alba. È precisamente a questo punto che il verbo “vedere” è usato per la prima volta: “Il Mandralisca vide allora, al chiarore livido dell’alba, un uomo nudo, scuro e asciutto come un ulivo” (129). Il “chiarore livido” rivela un uomo nudo, un cavatore di pomice venuto da Lipari per andare alla Madonna Nera a Tindari. Nonostante questo chiarimento, l’inganno sensoriale sembra essere ancora l’aspetto dominante di questo passaggio. Importante per il tema trattato è la funzione di Interdonato ne Il sorriso e il confronto che si può istituire con la funzione di Virgilio nella Commedia. Nell’Inferno (come è evidente dal passaggio citato sopra), la visione confusa e legata ai 13 sensi di Dante ha bisogno di essere corretta da Virgilio. Allo stesso modo, nella narrazione di Consolo, la visione difettosa di Mandralisca richiede una guida “correttiva”, Interdonato. La descrizione di Interdonato sembra alludere a questo poiché introduce la metafora chiave del romanzo, quella del il sorriso: “Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” (129). La reazione di Mandralisca al sorriso inquietante del marinaio camuffato è di curiosità sconcertata, e sotto “lo sguardo dell’uomo, acuto e scrutatore” (130) la sua mente torna alla sorte del cavatore malato: così Interdonato svolge subito la funzione di dirigere la coscienza di Mandralisca. Tuttavia, il pensiero di Mandralisca non è in grado, in questa fase iniziale, di scandagliare tali realtà sociali e si ritira nei propri studi eruditi. Quello che segue è uno dei paragrafi più sorprendenti di tutto il primo capitolo sia per la sua importanza semantica che per la sua brevità; infatti contiene una sola frase: “Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione” (131). “Lesse” intende dire che Interdonato legge la mente di Mandralisca, e questo ricorda una capacità simile nel Virgilio di Dante, come dice il viator a Virgilio: “sai quel che si tace” (Inferno, XIX.39). Prima, il pellegrino pensa tra sé e sé: ‘E’ pur convien che novità risponda’, dicea fra me medesmo, ‘al novo cenno che ‘l maestro con l’occhio sì seconda’. Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l’ovra, ma per entro i pensier miran col senno! (Inferno, XVI.115-120). Come figura dantesca della ragione umana, la capacità di Virgilio di leggere e anticipare i pensieri del pellegrino fa parte della sua funzione di guida. Nonostante il riconoscimento dantesco di Interdonato a Mandralisca come suo allievo, Interdonato stesso non è riconosciuto da Mandralisca come sua guida virgiliana. Tuttavia, è anche in questo senso che Consolo sembra mettere in atto una forma specificamente dantesca di agnizione. L’anagnorisis, o agnizione, è il termine usato per descrivere un momento di riconoscimento quando l’ignoranza lascia il posto alla conoscenza. Il mancato riconoscimento è una delle caratteristiche principali del viaggio di Dante-personaggio verso la conoscenza di sé. Le famose parole di Ciaccio “riconoscimi, se sai: / tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto” (Inferno, VI. 41-42) si incontrano con “L’angoscia che tu hai / forse ti tira fuor de la mia mente, / sì che non par ch’i’ ti vedessi mai” (Inferno, VI. 43-45). Man mano che il pellegrino, sotto la tutela di Virgilio, procede nel suo viaggio, la sua capacità di riconoscere aumenta notevolmente, come quando incontra Venedico Caccianemico. Nel Purgatorio, al contrario, il riconoscimento è ardentemente desiderato, e gli atti intellettivi concomitanti di guardare e sorridere abbondano all’interno della cantica. Forse la scena di riconoscimento più famosa della Commedia è quella tra Virgilio, Stazio e Dante. Qui il sorriso induce l’anagnorisis: Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca; per che l’ombra si tacque, e riguardommi ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca; e ‘Se tanto labore in bene assommi’, disse, ‘perché la tua faccia testeso un lampeggiar di riso dimostrommi?’ (Purgatorio, XXI. 109-114) Il “lampeggiar di riso” (anagnorisis) di Consolo è ritardato e trattenuto. È solo quando Mandralisca svela il ritratto ai suoi ospiti alla fine del primo capitolo che si rende conto della somiglianza tra il ritratto e il marinaio, e così inizia la sua rivelazione, il suo viaggio nella conoscenza. Nel secondo capitolo Mandralisca incontra ancora una volta Interdonato e il riconoscimento è ulteriormente approfondito. Qui, è l’impiego del verbo “ritrattare” e il suo legame con “ritratto” che fa partire in Mandralisca una concatenazione di avvistamenti, ricordi e parallelismi. ‘Ma voi, ma voi…’ cominciò a fare il Mandralisca, sgranando gli occhi dietro le lunette del pince-nez, spostandoli meravigliato dal volto dell’Interdonato a quello, sopra, dell’ignoto d’Antonello. Quelle due facce, la viva e la dipinta, erano identiche: la stessa coloritura oliva della pelle, gli stessi occhi acuti e scrutatori, lo stesso naso terminante a punta e, soprattutto, lo stesso sorriso, ironico e pungente. (160-161) 14 La vera anagnorisi nel romanzo avverrà solo attraverso il riconoscimento del significato del ritratto, non della somiglianza di un individuo con esso. La visione così raggiunta coincide per Consolo con la consapevolezza esistenziale, la coscienza politica e l’allerta morale. Come il suo predecessore dantesco, Mandralisca alla fine del viaggio testimonierà, racconterà, anzi addirittura supererà la guida di Interdonato, e racconterà la sua esperienza da un punto di vista più profondo.
5. Risus / subrisus – verso l’epifania Il testo di Consolo offre un’altra allusione interessante in questi momenti iniziali. Interdonato presenta una suggestiva somiglianza con un altro personaggio di Dante: Manfredi. Nell’antipurgatorio Dante è testimone di uno degli incontri più notevoli della letteratura mondiale: E un di loro incominciò: ‘Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque’. Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. 13 Bruno Nardi, Il canto di Manfredi (Purgatorio, III), in ‘Lecturae’ e altri studi danteschi, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 97. Quand’ io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: ‘Or vedi’; e mostrommi una piaga a somma ‘l petto. Poi sorridendo disse: ‘Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l ver a lei, s’altro si dice (Purgatorio, III. 103-117). Ciò che è interessante qui è la descrizione fisica di Manfredi da parte di Dante. La maggior parte dei critici si è giustamente concentrata sui possibili significati metaforici delle “piaghe” di Manfredi. Nardi afferma che ciascuna di esse è un “tragico segno di valore” 13, mentre altri attribuiscono le piaghe all’impium foedus di Manfredi. Il dramma particolare di questo episodio, però, si riferisce al testo di Consolo in un certo numero di punti significativi. In primo luogo, Dante inizialmente sente e poi gli viene detto di girarsi e affrontare l’ombra parlante. Viene quindi data una descrizione fisica che rivela l’ideale imperiale incarnato in Manfredi, “biondo era e bello e di gentile aspetto”, che viene poi minato dal “ma” avversativo per introdurre il “colpo” sconcertante. Dante-personaggio afferma che non riesce a ricono15 scere l’ombra e così l’ombra mostra l’altro suo segno distintivo, la “piaga”, e “sorridendo” si rivela essere Manfredi. Manfredi non si rivela dichiarando i nomi dei suoi genitori, ma piuttosto attraverso sua nonna Costanza. Questo rifiuto di nominare suo padre, Federico II, ha portato Freccero a commentare che il corpo che Dante descrive è chiaramente un corpo fittizio “che porta ferite simboliche, segni diacritici tagliati sul volto del padre” 14. Questa lettura suggerisce che le ferite sono anche gli sfregi della storia controbilanciati dal sorriso. La lettura di Freccero sostiene che le ferite, oltre ad essere un segno opaco, sono contigue alla scrittura, in quanto entrambe partecipano alla deturpazione come atto di significazione. Anche Consolo deturpa, anche lui significa attraverso lo sfregio. Nella prima descrizione di Interdonato leggiamo che due “pieghe gli solcavano il viso duro” (129). Queste “pieghe” sono legate metaforicamente alle “piaghe” dantesche, non solo si dice che il volto di Interdonato assomigli in modo inquietante a quello del ritratto attraverso l’atto intellettivo del sorriso, ma anche che il ritratto stesso ha le sue “piaghe”, i suoi tagli diacritici parricidi che le pieghe di Interdonato suggeriscono sottilmente. Nell’antefatto leggiamo che il ritratto “risulta un poco stroppiato per due graffi a croce proprio sul pizzo delle labbra sorridenti del personaggio effigiato”. La figura che sfregia il ritratto è Catena Carnevale, la quale “gli inferse due colpi col punteruolo d’agave che teneva per i buchi sul lino teso del telaio da ricamo” (127). Il termine “colpi” ripete il “colpo” di Dante. L’atto dello sfregio di Catena è, in realtà, un atto creativo di significazione. Sfigura il ritratto perché il suo sorriso è insopportabile, ma è solo verso la conclusione del romanzo che si intravede un vero senso dell’atto apparentemente distruttivo di Catena. Mandralisca non è più l’allievo di Interdonato, semmai i ruoli si sono invertiti, e dopo aver assistito ai fatti di Alcara Li Fusi scrive da una posizione di conoscenza. Il ritratto di Antonello è stato posto a significare qualcosa di quasi perfetto, irraggiungibile, delicatamente equilibrato. Il rischio che possa mutare è segnalato nel primo capitolo: se non fosse stato per l’equilibrio del sorriso “quel volto sarebbe 14 . caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore”, o diversamente “si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini” (144). Alla fine del romanzo Mandralisca capisce vero significato del sorriso, e lo fa assistendo alla mutazione del “sorriso” in “riso” attraverso la luce tremolante della candela. Mandralisca afferma che “il riso dell’Ignoto, a me davanti, al tremolio del lume, da lieve e ironico mi parve si svolgesse in greve, sardonico, maligno” (221). Apprendendo improvvisamente gli aspetti negativi del sorriso, Mandralisca è finalmente in grado di interrogare i portatori del sorriso, incluso sé stesso, e di capire intuitivamente perché Catena ha sfregiato il ritratto: Ho capito perché la vostra fidanzata, Catena Carnevale, l’ha sfregiato, proprio sul labbro appena steso in quel sorriso lieve, ma pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione, ma nel contempo fiore di distacco, lontananza, […] d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o al potere che viene da una carica… Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso! (219) Questo momento di epifania segnala la coscienza risvegliata del protagonista di Consolo. Il sorriso, al di là del suo appello alla ragione e all’ironia, al di là dell’etico e dell’intellettuale, è anche il sorriso di classe che si autoalimenta e si autoperpetua. La storia documentata è scritta dalla prospettiva dei privilegiati. In definitiva, è il sorriso che sorride al sorriso, un subrisus purus curiosamente beckettiano, chiuso e impassibile di fronte alle proprie responsabilità, alla propria incapacità di riconoscersi nei sorrisi compiaciuti degli altri.15 Consolo scrive: Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia: ‘Questo sfregio è la storia di un parricidio’ ha detto, referendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra. Lo sfregio è fatto da un personaggio che muove tutto 16 il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, […] sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice.16 6. Testi e tessili Tra le metafore che sono state utilizzate per designare l’attività linguistica, la tessitura occupa un posto di primaria importanza. Gorni scrive che “la metafora di testo, poetico o in prosa, principio istituzionale della nostra cultura scritta, […] è da considerare una gloriosa ex metafora”.17 Sia come sia, l’iscrizione di questa metafora nell’attività della scrittura è molto rilevante per Consolo e ha dei paralleli danteschi. Catena Carnevale rappresenta la forza creativa femminile che agisce come antidoto alla “ragione” maschile, simboleggiata dal ritratto. Il suo atto dello “sfregio” è infatti un atto di iscrizione sul palinsesto che è la mappa letteraria siciliana. La radice della parola scripta, come in manoscritto, è skeri, tagliare, separare, setacciare. Il verbo latino scribere significava incidere, scrivere. Lo sfregio di Catena è in realtà lo sfregio di Consolo. Ma Catena è anche intimamente legata all’idea di tessitura attraverso il ricamo. Il suo fidanzato Interdonato allude più direttamente alla relazione tra la sua attività tessile e quella della scrittura quando afferma che “quanto al ricamo poi, dice che le serve per rilassare la nervosità e tirare al contempo il succo delle parole lette” (165). La binomia Consolo/Catena è stata effettivamente suggerita nell’antefatto. La fretta dello speziale nel vendere il ritratto a Mandralisca deriva dal suo desiderio di vedere sua figlia “serena dietro il banco a ricamare, decifrare le ricette per cui aveva disposizione speciale (completava a batter d’occhio iniziali, dipanava rabeschi girigogoli svolazzi, smorfiava linee puntini sospensivi…)” (127). Il verbo “decifrare” segnala la metafora e la descrizione delle sue capacità allude allo stile di scrittura unico di Consolo. Ma è con la descrizione della “tovaglia di seta ricamata” raffigurante l’Italia che emerge una vera nozione di metapoetica consoliana: Aveva, sì, tutt’attorno una bordura di sfilato, ma il ricamo al centro era una mescolanza dei punti più disparati: il punto erba si mischiava col punto in croce, questo scivolava nel punto ombra e diradava fino al punto scritto. E i colori! Dalle tinte più tenue e sfumate, si passava d’improvviso ai verdi accesi e ai rossi sfacciati. Sembrava, quella tovaglia […] ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso. (167-168) È Consolo che si autolegge e si posiziona all’interno della narrazione attraverso una metafora tessile, con Catena come suo doppio testuale, liminale 17 e riconoscibile per la sua assenza dalla narrazione vera e propria. La descrizione mette in atto le procedure specificamente consoliane dell’innesto di intertesti sui propri, selezionando e affiancando lingue e dialetti diversi e spesso stridenti, e fondendo forme metriche nella sua prosa narrativa. L’uso che Dante fa della metafora è sia conservativo che radicale. Cacciaguida è descritto come “tacendo, si mostrò spedita / l’anima santa di metter la trama / in quella tela ch’io le porsi ordita” (Paradiso, XVII. 100-02). Tuttavia, è con la “sozza imagine di froda”, Gerione (Inferno, XVII. 7), il “ver ch’ha faccia di menzogna” (Inferno, XVI. 124) che l’accoppiamento tessile/testuale, attraverso le metafore nautiche, può essere interpretato per diventare il testo stesso. La descrizione fisica di Gerione è qui significativa: lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte (Inferno, XVII.14-18) Ferrucci scrive che Gerione non rappresenta solo la frode quale categoria morale, ma anche come categoria estetica, ed è anche “la personificazione della menzogna poetica”.18 La fusione di metafore nautiche e aeronautiche per rendere il movimento prefigura certamente l’ulissiaco “de’ remi facemmo ali al folle volo” (Inferno, XXVI, 125), e suggerisce il viaggio poetico di Dante e il testo stesso. La descrizione di Gerione è un emblema della testualità, intimamente legata al tema del viaggio e dei rischi concomitanti della sua stessa impresa, incarnata nel “folle volo” di Ulisse. Tale auto-figurazione metapoetica nella Commedia è messa in atto attraverso il ripetuto ricorso alla metafora nautica di Dante per il poema: “Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele” (Purgatorio, I. 1-3). Il romanzo di Consolo inizia riguardando un mare altrettanto crudele, pieno di pericoli. I “verdi accesi” e i “rossi sfacciati” della tela ricamata di Catena richiamano i colori dei fani nella seconda fra18 F. Ferrucci, Il poema del desiderio, Milano, Leonardo, 1990, p. 99. se del romanzo: “I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi” (129), e stanno quindi per il testo. I momenti esordiali del testo di Consolo contengono altri momenti danteschi. La stessa visione difettosa del protagonista è circoscritta dalla “fioca luce” della lanterna, ricordando il “fioco lume” (Inferno, III. 75) della visione di Dante e prefigurando l’arrivo della versione di Consolo di “chi per lungo silenzio parea fioco” (Inferno, I. 163). Ogni dubbio su questi echi danteschi è dissipato dal volo di Mandralisca nel regno pseudo-storico-fantastico. Qui l’elencazione dei toponimi fa sì che la mente del personaggio salti indietro nei secoli dove “Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce. Federico confida al suo falcone” (128). Il passaggio si riferisce enigmaticamente all’imperatore Federico II e alla signora Bianca Lancia di Monserrato, i genitori di Manfredi. Il “vento di soave” è la più eclatante delle allusioni a Dante innestate da Consolo: “Quest’è la luce de la gran Costanza / che del secondo vento di soave / generò ‘l terzo e l’ultima possanza” (Paradiso, III.118-20). Inoltre, l’uso della forma arcaica “guata” ricorda certamente la prima similitudine della Commedia: E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva (Inferno, I. 22-27) Il dantismo di Consolo, quindi, mostra allusioni incorporate e citazioni aperte; Dante è una presenza sommersa e uno strumento significativo nella figurazione della sua narrazione. Questo “romanzo chiocciola” riverbera echi e motivi lontani. In definitiva, la presenza di Dante nella narrazione di Consolo è quella “voce di mare” che riemerge “dal profondo”, e “eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole” (236).
Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil
*** 1 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, p. 236. Tutte le citazioni delle opere di Consolo sono tratte da quest’edizione. 8 M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo, “Leggere”, 2, 1988, pp. 12. 9 Indubbiamente, Consolo consultò inoltre L. Vasi, Delle origini e vicende di San Fratello, in “Archivio Storico Siciliano”, Nuova serie, VI, 1881, pp. 239-331; B. Rubino, Folklore di San Fratello, Palermo, Libreria Inter A, Reber, 1914; F. Piazza, Le colonie e i dialetti lombardo-siculi: Saggio di studi neolatini Catania, Vincenzo Giannotta, 1921. 10 L. Vigo, Canti popolari siciliani, raccolti e illustrati, Catania, Tip. Accademia Gioenia di G. Galatola, 1857, p. 55. 11 L’enfasi nell’originale. L. Vigo, Sui canti Lombardi – Al Cav. Giovenale Vegezzi Ruscalla, “La Sicilia”, Aprile, 1868. Ristampato in L. Vigo, Raccolta amplissima di canti popolari siciliani (Ristampa anastatica dell’edizione di Catania, 1870-74), Bari, Arnaldo Formi, 1974, p. 126. John Freccero, The Poetics of Conversion, p. 199. 15 Samuel Beckett, Watt, Londra, John Calder, 1963, p. 47 16 V. Consolo, Fuga dall’Etna: La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 58. 17 G. Gorni, La metafora del testo, in “Strumenti critici”, 38: 1979, pp. 18-32 (p. 18). Si veda inoltre P. Zumthor, Testo e testura: l’interpretazione delle poesie medievali, in “Strumenti critici”, 7: 1968, pp. 349-63.
Negli ultimi quarant’anni si è assistito da parte di molti scrittori – e in conseguenza anche nella critica e nella teoria letteraria – a un aumento di interesse verso la componente spaziale della narrazione: è quello che, in ambito non solo letterario, è stato definito come spatial turn. A partire dagli anni Ottanta gli scrittori si sono dedicati maggiormente alla rappresentazione dei luoghi, in risposta all’omologazione portata dalla mutazione antropologica e alla perdita di uno sguardo partecipato sui luoghi che si è avuta con l’avvento del turismo di massa. L’altra grande tendenza delle scritture degli ultimi quarant’anni è l’irruzione forte della componente memoriale. Entrambe le tendenze sono rappresentate, seppur con vari elementi originali, nell’opera di Vincenzo Consolo, su cui Ada Bellanova presenta un nuovo studio con il suo libro Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021).
In tema di componente personale e memoriale, pare interessante che Bellanova inserisca in apertura del libro un ricordo personale. L’esperienza della lettrice – e critica – si sovrappone a quella dello scrittore. Nelle primissime pagine Bellanova rimanda al ricordo del suo primo viaggio a Palermo e alla ricerca nello spazio reale dello spazio narrativo, il racconto di Palermo che fa Consolo in Retablo. La riflessione si sposta subito verso un nodo centrale della poetica consoliana, in cui la narrazione diventa il «pretesto per riflettere sui meccanismi della giustizia, umana e disumana» e spinge a «fare considerazioni anche sulla contemporaneità» (p. 11). È, d’altronde, questo il meccanismo stesso che innesca la narrativa di Consolo, attraverso la nozione da lui stesso suggerita di romanzo storico-metaforico, in cui la storia di un determinato tempo – e la storia di ogni tempo – riflette la realtà contemporanea allo scrittore, il momento della narrazione è immagine del momento della scrittura, fa riflettere su quello che avviene intorno, sui corsi e ricorsi della storia, sui meccanismi distorti della narrazione stessa e, in ultima istanza, sulla dicibilità del reale. Il libro di Bellanova parte da una suggestione personale fortemente significativa perché riflette la stessa suggestione personale che genera la scrittura consoliana.
Emerge fin da subito l’idea dello scrittore come cartografo, che esplora territori sconosciuti per farli entrare successivamente all’interno del circolo della conoscenza attraverso lo strumento della mappa. La scrittura di Consolo si presenta come «un’indagine dello spazio mossa da ansia conoscitiva» (p. 15). La vocazione all’esplorazione geografica è viva in Consolo fin da ragazzo e lo spinge a esplorare la Sicilia, che poi sarà luogo della sua narrazione. Bellanova rende manifesto il legame tra l’esperienza personale e l’insistenza sui luoghi: «Da tratto autobiografico la cifra del movimento a scandagliare gli spazi diventa meccanismo narrativo ricorrente e si trasforma in tendenza a cartografare» (p. 16). Allo stesso tempo, dietro la narrazione dei luoghi c’è una forte componente di studio, una documentazione minuziosa su testi e opere spesso dimenticate, che emerge anche dal confronto con l’archivio dello scrittore. Bellanova fa notare come in Consolo i luoghi reali vengano rielaborati in chiave letteraria, pur mantenendo il loro realismo. L’atmosfera onirica di molte narrazioni consoliane – si pensi a Retablo, Lunaria, Nottetempo, casa per casa – viene in molti casi ri-fattualizzata attraverso l’utilizzo dei luoghi. Nella rappresentazione dei luoghi della Sicilia emerge a più riprese il contrasto «tra la Sicilia del passato, contadina, […] e quella della rovina, del miracolo economico» (p. 22), il divario tra un passato scomparso e un presente che tende a livellare le differenze e le peculiarità, in un continuum spaziale, linguistico, culturale, economico, politico, contro il quale lo scrittore si scaglia e a cui cerca – con gli strumenti che ha a disposizione – di opporsi con un’azione estrema e disperata di salvataggio.
Nel capitolo introduttivo, Bellanova ripercorre le principali opere di Consolo e sottolinea in esse la capacità di rappresentare i luoghi, tra reale e irreale. La prima sezione – Strumenti per percorrere i luoghi – si apre, invece, con l’inquadramento metodologico, quanto mai necessario per la materia trattata. La studiosa si serve efficacemente di «approcci critici figli dello spatial turn incentrati su un proficuo incontro tra studio geografico e sguardo letterario e che mettono in gioco anche il rapporto tra reale e finzione» (pp. 33-34). La prospettiva geocritica mette l’autore al centro di un sistema che unisce una molteplicità di livelli cronologici e punti di vista che costituiscono lo spazio di riferimento. La visione stratificata della geocritica fa del luogo un palinsesto, del quale il singolo autore – in questo caso Consolo – rappresenta solo un punto all’interno di un particolare livello. La geopoetica, invece, si concentra sulla capacità di un autore di elaborare uno spazio e renderlo linguisticamente; e la geotematica analizza le funzioni di un tema geografico sia all’interno dell’opera dell’autore che in relazione con altre opere. Infine, l’ecocritica propone un approccio etico attento alle questioni ambientali e sociali. Tutte queste “categorie” vengono utilizzate e messe proficuamente in dialogo da Bellanova nella sua analisi della componente spaziale nell’opera di Consolo.
All’intertestualità tipica della scrittura consoliana, che lo rende secondo la definizione di Daragh O’Connell uno scrittore “palincestuoso”, si aggiunge secondo Bellanova «l’intertestualità insita nel luoghi rappresentati» (p. 40): in Sicilia «innumerevoli sono infatti gli schemi e gli sguardi che si sono saldati all’identità del luogo reale» (p. 41). In questo contesto si inserisce la visione dell’autore «che sceglie cosa appresentare e come rappresentare […] nella fitta foresta di sollecitazioni letterarie già integrate nella natura della geografia reale» (ibidem). Ma di cosa si compongono gli spazi palincestuosi di Consolo? Bellanova mostra con vari esempi che essi derivano dalla letteratura, dalle arti, dalle esperienze personali, dalle suggestioni sensoriali, dalla storia (spesso la microstoria), dalle attività umane, dalle diverse lingue. Queste “categorie” sono studiate da Bellanova singolarmente, in relazione all’opera di Consolo, nella prima parte del suo studio.
La seconda parte – Un percorso tra luoghi simbolo – assume una prospettiva diversa. Qui l’autrice decide si compiere un attraversamento dei singoli luoghi raccontati da Consolo: la natìa Sant’Agata; Cefalù, cerniera tra due Sicilie; la Palermo degli splendori e della decadenza; Siracusa, disfatta dall’irruzione della modernità; le rovine antiche della Sicilia e infine Milano, luogo della migrazione.
Il discorso approda necessariamente nella terza parte, dedicata alle Ecologie consoliane, a una riflessione sul senso della narrazione degli spazi in Consolo, il cui fine ultimo è sempre un’etica rivolta al presente. Consolo mostra come la mutazione antropologica, figlia del boom economico, abbia decretato la fine di un millenario mondo contadino, con le sue tradizioni e i suoi luoghi, costringendo alla migrazione molti siciliani. In questa armonia perduta si insinuano alcuni fulcri di resistenza, analizzati da Bellanova. Oltre a questo resoconto della distruzione, Bellanova individua nell’opera consoliana anche le radici per una ripresa dopo il disastro, che deve partire in primo luogo da una ricostruzione culturale, della memoria, che si impegni per «evitare il rischio di generare un non-luogo, prestando particolare attenzione alle implicazioni antropologiche, identitarie, relazionali, storiche: si deve evitare che la cultura del ricostruire surclassi quella del riabitare» (p. 265).
L’ultima parte del libro fa riferimento al Mediterraneo e si inserisce efficacemente all’interno di un filone di studi molto fecondo oggi per le analisi delle rappresentazioni spaziali. Consolo risulta un autore particolarmente idoneo a essere inserito nel contesto degli studi mediterranei, come è emerso – per citare solo il contributo più recente – in occasione del Convegno “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione, tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano nel 2019 e i cui atti sono stati pubblicati di recente a cura di Gianni Turchetta (Mimesis 2021). Particolarmente interessante l’analisi che Bellanova fa dello spazio mediterraneo narrato da Consolo come luogo ricco di scambi e interazioni ma anche, soprattutto in tempi recenti, come spazio di migrazioni forzate e di violenza. Ne emerge, ancora una volta, il valore etico della narrazione consoliana.
In ultima analisi, il lavoro di Bellanova ha il merito di saper condensare intorno al nucleo della spazialità tutti gli aspetti salienti della poetica di Vincenzo Consolo, restituendo un’immagine a tutto tondo dello scrittore. Se spesso la critica consoliana ha individuato nella storia il fulcro intorno al quale ricostruire in maniera unitaria la poetica dell’autore, questo studio dimostra, invece, come la prospettiva spaziale, anche grazie alle recenti acquisizioni teoriche, possa rivelarsi ancora più inclusiva ed esaustiva di quella temporale (che vi risulta inglobata) come categoria interpretativa centrale dell’opera di questo scrittore.
(fasc. 43, 25 febbraio 2022) foto di copertina di Giuseppe Leone