Vincenzo Consolo, “Di qua dal faro”

Alfio Pelleriti
10 gennaio 2024

In “Di qua dal faro” Vincenzo Consolo veste i panni del critico letterario conservando tuttavia la prosa ammaliante e piena di vibrazioni emotive, regalando ai lettori un saggio ineludibile per cogliere sentimenti, contraddizioni, tragicità e poesia nell’universo siciliano nel quale l’autore conduce il lettore in una esplorazione culturale, storica, antropologica. Della Sicilia presenta gli elementi costitutivi della sua storia e delle sue tradizioni, oltre che le più importanti produzioni letterarie, non tralasciando informazioni che attengono i settori produttivi: la pesca del tonno, le miniere di zolfo, gli eventi tragici relativi ai terremoti del 1693 in Val di Noto e a quello di Messina del 1908; il mondo dei vinti nella produzione verghiana; lo smarrimento dell’identità personale nelle opere di Pirandello; l’analisi socio-politica della Sicilia pessimistica e scettica nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o nei romanzi di Leonardo Sciascia, fino alle “Parole come pietre” di Carlo Levi.

In “Di qua dal faro”, come in tutte le opere di Consolo, da Retablo al Sorriso dell’ignoto marinaio, alle “Pietre di Pantalica”, anche il paesaggio sembra indissolubilmente legato all’analisi delle caratteristiche comportamentali dei siciliani: “nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… e sopra vi volteggiano i neri corvi… sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disumana, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei tauri.”[1]

Un elemento che accomuna buona parte della letteratura siciliana, dice il Nostro, è il Nòstos, il ritorno in patria dopo esperienze in altri mondi, in altre culture, per riscoprire un legame forte e profondo con la cultura della propria terra, che si rivela unica, prodotto di molteplici influssi linguistici, storici e culturali. Alcuni intellettuali hanno negato tale peculiarità, in nome di un’apertura alla modernità e al progresso, chiudendo con lo stereotipo di una Sicilia contadina, chiusa alle novità e rassegnata ad una subalternità culturale, orgogliosa e velleitaria nel volersi isolare in nome di una unicità ormai inesistente. Fu questa la posizione di Elio Vittorini, dice Consolo, antesignano del neorealismo e dello sperimentalismo in letteratura, aperto alla cultura anglosassone e alla letteratura americana in particolare, convinto assertore della posizione gramsciana dell’intellettuale organico per approdare ad una egemonia culturale che potesse aprire le porte alla nuova società democratica, moderna e liberale. Era questa una posizione molto critica col dialetto, pur vivendo in un periodo di sperimentalismo linguistico come quello di Gadda, di Pasolini, di Stefano D’Arrigo, di Ignazio Buttitta. D’Arrigo, in particolare, viene presentato da Consolo come un autore appassionato e originale con il suo splendido “Horcynus orca”, pubblicato poi in una nuova edizione con il titolo di “I fatti della fera”, un romanzo straordinario che si colloca nella scia dei Malavoglia di Verga, che adopera una lingua aperta a vari innesti culturali ma al cui fondo c’è comunque il dialetto. Nel romanzo di D’Arrigo emerge una visione rassegnata e pessimistica sulla possibilità di riscatto della Sicilia in un’opera monumentale e affascinante, dalla scrittura affabulatoria e poetica che si può accostare, senza false modestie, all’Ulisse di Joyce, quanto a ricerca di nuovi canoni espressivi.

Vincenzo Consolo

Consolo, in questo suo viaggio nella produzione letteraria siciliana, non poteva tralasciare la presentazione di Pirandello, lo scrittore che cerca di uscire dalla “prigione” isolana e dai confini linguistici segnati dal dialetto con i riferimenti ad una tradizione piegata spesso ad anti valori, rassegnata al prevalere del male, all’inutilità dell’impegno politico. Pirandello è voluto uscire da tali confini, da lui percepiti come solide sbarre d’un carcere, per approdare ad una riflessione sull’uomo inserito in un mondo dai più vasti orizzonti e con uno sguardo volto al futuro, alla ricerca di soluzioni nuove. I risultati, tuttavia, saranno quelli tipici di un approdo allo smarrimento e all’angoscia esistenziale, alla necessità dell’isolamento rispetto a un contesto sociale che annulla e reifica.

Altre pagine interessanti sono quelle dedicate a Zola e al tema del rapporto tra intellettuale e scrittore. Afferma Consolo che lo scrittore francese col suo J’accuse contro i giudici che avevano condannato il capitano Dreyfus, ha vestito i panni di un intellettuale prestato alla politica e tuttavia egli avverte che quello non è il suo ruolo, poiché più che dalla politica e dall’impegno sociale egli è attirato da “altro”, cioè da quella dimensione del reale in cui lo scrittore indaga sull’uomo cercando le risposte al senso della vita.

E a proposito dell’impegno sociale degli scrittori italiani emerge in Consolo una certa amarezza dopo aver constatato che spesso preferiscono non accostarsi a problematiche sociali e politiche che porterebbero a scontrarsi con chi s’è assunto la responsabilità di amministrare quegli ambiti. Dice Consolo: “Gli scrittori italiani, i letterati, considerati dal potere superflui o esornativi, hanno da sempre stabilito col potere stesso un patto di silenziosa servitù e di convenienza per ricevere protezione ed emolumenti. Solo pochi scrittori, isolati, ‘non protetti’, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia. Pasolini, tra gli ultimi, è stato uno di questi: da poeta s’era fatto intellettuale, polemista, lanciando dalle prime pagine dei giornali i suoi j’accuse, processando il palazzo per farsi processare… e Leonardo Sciascia. Scrittori isolati.[2]

Il saggio di Vincenzo Consolo è essenziale per la comprensione del contesto culturale nel quale si inscrive la produzione letteraria italiana e siciliana in particolare. Non manca niente e nessuno in questa sua analisi e, a ragione, essa può definirsi completa, esaustiva, con uno stile elegante e leggero, qui e là venato dal rosso della passione, perché della sua terra egli parla e dei suoi amici scrittori, di quelli con cui s’è accompagnato, come Sciascia, e di quelli che ha apprezzato leggendone le opere, sulle quali s’è formata la sua sensibilità e la sua peculiarità creativa. Costoro si ritrovano in questo suo lavoro, insieme ad autori che, sbrigativamente, sono considerati “minori”, come lo storico Michele Amari, di cui parla nel capitolo “La Sicilia e la cultura araba”[3], davvero illuminante per cogliere il profondo apporto dato da quella cultura alla lingua, all’architettura, alla letteratura, all’economia, all’agricoltura con l’inserimento di colture che diventeranno fondamentali in tale settore economico: l’ulivo, la vite, il limone, l’arancio, il cotone. E ancora, grazie a quello scambio culturale e commerciale, la pesca divenne un importante settore economico, soprattutto con la lavorazione del tonno. Ma la presenza araba in Sicilia fece registrare anche un miglioramento della macchina amministrativa: fu in quel periodo che si introdusse la divisione dell’isola in tre valli: Val di Mazara, Val Demone, Val di Noto e si affermò un nuovo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza tra popoli di cultura, razza e religione diverse.

Del resto, tutti gli interventi di Consolo in questo suo prezioso viaggio nella storia e nella cultura siciliana, sono chiarificatori e illuminanti per capire le radici di quella che viene definita “sicilianità”, ma qualcuno dei suoi capitoli risulta davvero interessante oltre che elegante come, ad esempio, quello sul rapporto tra spazio fisico e produzione letteraria. Esso presenta un percorso che ha inizio con i poemi omerici, in particolare con l’Odissea seguendo il Nòstos di Ulisse, ma anche il viaggio di Telemaco alla ricerca del padre e della sua iniziazione e maturazione, e continua con l’Eneide di Virgilio, “seconda grande Odissea”, e ancora l’Odissea di Dante, La Divina Commedia, con i luoghi adibiti alla condanna dei peccatori, all’espiazione delle colpe nel Purgatorio e ai premi nel Paradiso celeste. E presenta ancora lo spazio vasto (Europa, Africa, Asia) in cui si svolgono le vicende dell’Orlando furioso di Ariosto, e poi segue La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il cui spazio tocca Gerusalemme, l’Egitto e Costantinopoli, e ancora il Don Chisciotte di Cervantes, la letteratura anglosassone con Robinson Crusoe, Moby Dick, L’isola del tesoro.

Infine, afferma Consolo, per ciò che riguarda la letteratura italiana moderna, gli spazi riguardano soprattutto la provincia e qualche città, ma si tratta sempre di spazi ristretti, dai Promessi sposi di Manzoni, ai Malavoglia di Verga, per giungere a Pirandello, che restringe ulteriormente gli spazi dove si muovono i suoi personaggi. Con lui si passa alla “stanza” come luogo in cui si svolgono le sue storie e spesso diventano “stanze di tortura”, lì “dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento in quella storia è solo verbale.[4] L’analisi del tema del rapporto tra spazio e letteratura si chiude con “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, dove il protagonista, Silvestro, ritorna dopo tanti anni in Sicilia, nei luoghi della sua infanzia e lì ritrova la sua casa, la madre, che da Torino avevano assunto l’aura del mito ma che si rivelavano adesso senza più quei riferimenti ideali che aveva custodito nella lontananza. Col ritorno si dipana ogni velo e la realtà appare povera, esangue, banale perfino. Riferendosi ad una successiva pubblicazione di Vittorini, “L’olivo e l’olivastro”, Consolo chiude il capitolo con un’amara considerazione che riguarda anche la sua condizione di esule: “Noi oggi, esuli, erranti, non aneliamo che a ritornare ad Itaca, a ritrovare l’olivo. Lo scacco consiste nel fatto che sull’olivo ha prevalso l’olivastro, l’olivo selvatico.[5]


[1] Ibidem, pag. 12

[2] Ibidem. Pag. 197

[3] Dall’827 al 1072 si colloca la dominazione araba in Sicilia. Ad essa succederà quella normanna.

[4] Ibidem, pag. 269

[5] Ibidem, pag. 270
foto postate di Giuseppe Leone e Claudio Masetta Milone

La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio

Giulia Falistocco

Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio Consolo riprende la lezione di Manzoni, ma decostruisce la forma romanzesca attraverso una struttura complessa e una forte sperimentazione linguistica. Il romanzo storico rimane per Consolo un modo per rappresentare metaforicamente il presente, sebbene non più in maniera innocente, ma per mezzo di forme parodiche, atte a superare un’arte ironica-borghese. L’articolo quindi analizza le strategie rappresentative e allegoriche con cui Consolo dà nuovo spessore al romanzo storico, riuscendo a conservare un vigore etico e politico.

                                                  Dopo tredici anni di silenzio, a seguito de La ferita dell’aprile, nel 1976 Vincenzo Consolo pubblica Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il suo secondo romanzo è un’opera necessaria, «nata da esperienze private e da eventi pubblici» (Consolo 2015: 1255), con la quale l’autore affronta metaforicamente il passato e il presente siciliano. Per Consolo lo scrittore, infatti, da Zola in poi, non può sottrarsi alla Storia, «se non a rischio dell’accusa di complicità e di collaborazione col potere che perpetra ingiustizie e delitti» (Consolo 2015: 1173). Il romanzo propone una metafora politica e sociale, dunque, che tenta di superare il “silenzio artistico”, per dirla con parole dello stesso Consolo, e di sperimentare le potenzialità rappresentative del romanzo.

2La planimetria metaforica del romanzo è strutturata attraverso l’immagine della chiocciola, come ha mostrato Cesare Segre nel suo illuminante saggio (Segre 1991), archetipo ancestrale, «origine della percezione, conoscenza e costruzione» (Consolo 2015: 1254). Attraverso quest’immagine, Consolo dà forma alla materia narrata, con l’intento di allargare nel tempo, «verticalizzare» (Consolo 2015: 1255), il suo messaggio. L’obiettivo ultimo dell’autore, però, è quello di mostrarne il superamento: solo l’evasione dal carcere-chiocciola può ridurre lo spazio comunicativo fra testo linguistico e contesto situazionale. Nel pensiero di Consolo, quindi, la sfida alla chiocciola si coniuga con la sperimentazione del romanzo storico. Il punto focale, o, come direbbe Consolo, «l’angolo acuto» (Consolo 2015: 1255) di questo triangolo, è il quadro di Antonello da Messina: L’ignoto marinaio. Con il suo sorriso ironico, il ritratto è espressione dell’élite intellettuale, di cui l’autore mostra le mancanze, i limiti e le storture. Il raziocino culturale, in particolare di stampo illuminista, viene smascherato, con lo scopo di mostrare in ultimo la fragilità della parola: la letteratura deve quindi prendere coscienza della sua “impostura”, della sua soggettività e temporalità.

  • 2 Come scrive Spinazzola: «I ViceréI vecchi e i giovaniIl Gattopardo costruiscono una sorta di (…)

3In questo articolo si intende analizzare gli elementi di questo triangolo (chiocciola, ritratto e romanzo) attraverso i quali Consolo sperimenta e supera il romanzo storico, genere ricorrente nella più recente letteratura siciliana2.

4I capitoli chiave che ci consentono di entrare nel cuore del romanzo sono gli ultimi quattro, composti dalle lettere che Mandralisca invia a Giovanni Interdonato (compreso l’ultimo capitolo costituito dalla trascrizione delle epigrafi). Queste nascono dalla necessità di narrare i moti di Alcàra Li Fusi; ma l’impossibilità di trovare le parole della memoria dà origine a una requisitoria rivolta al suo alter ego, che si trasforma con lo scorrere delle pagine in una confessione. Le aporie della Storia diventano, quindi, il vero oggetto della lettera: la loro risoluzione passa attraverso l’immagine della chiocciola, simbolo della memoria personale e collettiva.

  • 3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato S (…)

5Nell’ottavo capitolo, intitolato Il carcere, l’ambientazione è nel castello di Maniforti, che nasconde nelle sue fondamenta la prigione, in cui vengono portati i condannati di Alcàra Li Fusi. Il carcere ha la forma di «un’immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume» (Consolo 2015: 235). È uno schema elicoidale che appunto, seguendo il suggerimento dello stesso Consolo, serve a «conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire» (Consolo 2015: 238). La forma della conchiglia, essendo tridimensionale, unisce spazio e tempo, ed è proprio quest’ultimo che «verticalizza» la struttura. Come ha individuato Turchetta, «la progressione lineare del racconto si sovrappone costantemente al ripetersi di strutture analoghe» (Turchetta 2015: XLIX) che appunto mimano la chiocciola. Il romanzo infatti è composto da una serie di piani temporali apparentemente disgiunti, ma che nascondono molteplici connessioni. Capire l’iter vorticoso della Storia è compito del lettore quanto del protagonista Mandralisca. Attraverso l’immagine della chiocciola, quindi, l’autore organizza la narrazione: la sua forma semi-labirintica serve a dare un’orditura agli eventi storici, creando una spirale, di «estremi» e di «intermedi» (Segre 1991: 81) che, parafrasando le parole di Segre, si alternano o si mescolano. Attraverso i suoi vari significati, inoltre, la chiocciola rappresenta il corso degli eventi, tanto quanto le modalità con cui vengono rappresentati. Con il suo intreccio di voci e di echi il carcere-conchiglia, infatti, assume un valore meta-letterario, dando forma alla lingua che per Consolo deve racchiudere l’ordine illuminista e il disordine barocco: «una lingua che resta molteplice volge dal basso all’alto, dal mondo popolare e dal mondo classico» (Consolo 2015: 1237)3.

  • 4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata d (…)

6La rappresentazione della chiocciola si realizza attraverso il gioco delle somiglianze, «scandaglio delicato e sensibilissimo» (Sciascia 1998: 35)4. È sempre Consolo, attraverso le parole del Mandralisca che ci fornisce la chiave di lettura delle procedure narrative. L’arco di ingresso al carcere, infatti, ha nove pietre portanti per lato «con figure a bassi rilievi, diverse, ma ognuna che somiglia o corrisponde all’altra allato della pila opposta, e unica la chiave, che divide o congiunge, tiene le due spinte, l’ordine contrapposto delle somiglianze» (Consolo 2015: 235). Per entrare nella chiocciola bisogna passare quindi tra immagini simili, ma in contrasto; tra queste solo la chiave non ha un corrispettivo: è l’inizio, il centro della chiocciola «che divide o congiunge» (Consolo 2015: 235). Non a caso «sull’ordine delle somiglianze è strutturato il sistema conoscitivo del barone di Mandralisca» (Traina 2011: 59): a lui infatti Consolo affida il compito di interpretare lo schema della chiocciola. Il romanzo perciò dovrà rifarsi a questo impianto gnoseologico, perché, come scrive sempre Traina, la sfida al labirinto passa per l’assunzione della sua forma. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, perciò, sono presenti una serie di elementi simmetrici, ma allo stesso tempo in contrasto: tre in particolare sono importanti nell’andamento dell’opera: i moti di Cefalù e Alcàra Li Fusi, Giovanni Interdonato e il Ritratto dell’ignoto.

7I moti di Cefalù del 1856 sono sedati dall’esercito borbonico, portando alla condanna degli organizzatori. Si tratta di una rivolta che vede la partecipazione dell’alta borghesia liberale, presentata con elementi tra il tragico e il melodrammatico (Spinuzza ad esempio è descritto con tono di pietas dal narratore). La rivolta di Alcàra Li Fusi, che occupa il romanzo dal terzo capitolo fino alla fine, è invece ad opera dei contadini. Anche questa viene sedata nella violenza, ma dai rappresentanti della borghesia liberale. Apparentemente speculari i due moti sono in realtà “contrapposti”: sono i due modi di dare corpo alla parola “Libertà”, come si chiarirà più avanti. Anche la figura di Giovanni Interdonato subisce un capovolgimento: nella seconda parte del romanzo infatti Mandralisca incontra l’omonimo cugino del rivoluzionario, «somigliante a me nel nome e cognome solamente, ché per il resto discordiamo» (Consolo 2015: 229), colui che attraverso l’inganno riesce a sedare il moto di Alcàra Li Fusi. In ultimo abbiamo il Ritratto di Antonello, il cui sorriso ironico da simbolo della ragione illuministica passa ad essere luciferino e malefico alla fine del romanzo.

8L’aporia della Storia-chiocciola perciò si realizza nell’aporia delle somiglianze: «somiglia, ecco tutto» scrive Sciascia ne Il gioco delle somiglianze (Sciascia 1998: 35). La lumaca, metafora della Storia “vorticosa”, perciò, diventa una figura claustrofobica, negazione di vita, come il carcere di Maniforti, luogo di dolori e affanni dal quale bisogna uscire. È sempre Mandralisca, nella lettera a Interdonato, che ne dà una lucida spiegazione:

Vidi una volta una lumaca fare strisciando il suo cammino in forma di spirale, dall’esterno al punto terminale senza uscita, come a ripeter sul terreno, più ingrandita, la traccia segnata sopra la sua corazza, il cunicolo curvo della sua conchiglia. E sedendo e mirando mi sovvenni allor con raccapriccio di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine… (Consolo 2015: 217).

9La chiocciola è, quindi, riprendendo le parole di Segre, «metafora plurima», allegoria delle «ingiustizie del potere», dei «privilegi della cultura», «della proprietà come usurpazione» (Segre 1991: 80).

10La visione della Storia si associa alla riflessione sul linguaggio. «Cos’è stata la storia sin qui», scrive Consolo attraverso Mandralisca, se non «una scrittura continua di privilegiati» (Consolo 2015: 215). La Storia è una narrazione soggettiva, ad appannaggio di una determinata classe sociale, definita dall’autore come «coloro che possedevano i mezzi del narrare» (Consolo 2015: 215), e tra questi anche il romanziere-scrittore non ne è avulso. La giustapposizione tra documento e fiction dovrà, perciò, essere letta come la messa in discussione del racconto storico, non più fonte di veridicità. Come scrive Turchetta, «per tutta la vita Consolo ha messo in discussione lo statuto della parola, denunciandone gli invalicabili limiti, la falsità o quanto meno la tendenziosità e la dubbia legittimità, la sua inevitabile determinatezza, storica e soggettiva» (Turchetta 2015: XXV). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio il maggiore esempio della polisemia linguistica è rappresentato dalla parola “Libertà”. Continuando a citare dalla lettera del Mandralisca:

e dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità […] e gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? (Consolo 2015: 216).

11Infatti se per la borghesia liberale “libertà” indentifica una serie di diritti astratti e immateriali, per i contadini, per coloro che non hanno il mezzo del narrare, libertà è la terra. La polisemia della parola è un chiaro riferimento alla novella di Verga, intitolata appunto Libertà. Questa si conclude con le amare riflessioni di uno dei rivoltosi di Bronte condannati a morte: «Il carbonaio mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…» (Verga 2013: 325).

12La messa in discussione dell’istituto storia si lega, inoltre, a un progetto politico che deve mettere in scacco i soprusi di «coloro che hanno il mezzo del narrare». L’ambientazione scelta da Consolo è il Risorgimento: momento di contraddizioni e conflitti che deve essere liberato dalla sua patina oleografica e retorica. Consolo infatti scrive:

durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia. (Consolo 2003)

  • 5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvific (…)

13L’autore denuncia il crimine della proprietà, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca» (Consolo 2015: 220), che può essere proprietà della terra, quanto proprietà della parola. Simbolo della “proprietà” intellettuale è proprio il sorriso dell’ignoto, immagine dell’equilibrio tra «cupezza» e «riso» e della ragione «una lama d’acciao», «lucida» e «tagliente» (Consolo 2015: 144), come la definisce il narratore. Mandralisca, unicum nella società erudita siciliana, sente il bisogno di sottrarsi alle imposture della storia: deve perciò compiere una catabasi nelle profondità della chiocciola-carcere per riemergerne un uomo cambiato5. È lo stesso Interdonato a riconoscere le particolarità del barone:

voi invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un imbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire (Consolo 2015: 160)

14L’inganno della lumaca viene, dunque, smascherato da Mandralisca: dopo una vita passata a cercare e catalogare questi piccoli molluschi, non rimane altro che schiacciare quei gusci vuoti, bearsi del rumore delle chiocciole frantumate.

15L’impossibilità di conoscere la Storia attraverso la parola è una frattura epistemologica, sentita con forza da Consolo, che causa la crisi dell’intellettuale-scrittore. Questo deve, perciò, rinunciare al suo ruolo demiurgico, distaccato e ironico, e diventare l’opposto del ritratto che invece sembra fissare tutti negli occhi. La sua «impostura», un tempo origine di conoscenza, ora si rivela una chimera da affrontare. Così quel sorriso, un tempo «fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione», diventa «pungente», «fiore di distacco e eleganza, d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o potere che viene da una carica» (Consolo 2015: 219). Il rimedio potrebbe essere quello di scrivere la Storia dal punto di vista di coloro che non possiedono il mezzo del narrare; tuttavia lo scarto «di voce e di persona» (Consolo 2015: 215) non può essere eliminato, poiché la nascita e la formazione dello scrittore generano un vizio di forma insuperabile. Consolo, infatti, non mette sotto scacco solo la narrazione storica, ma anche qualsiasi forma di riproduzione del reale: «quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta» (Consolo 2015: 216). Anche la forma d’arte più immediata, in presa diretta, come potrebbe essere il cinema o il documentario, alluse in queste parole, non sono sufficienti a superare l’impostura.

16«Che più, che fare?» (Consolo 2015: 218) si chiede il Mandralisca. La soluzione arriva da un altro personaggio. L’antagonista per eccellenza del sorriso, infatti, è Catena, colei che per prima riconosce l’aspetto «greve, sardonico, maligno» (Consolo 2015: 221) del ritratto e lo sfregia nel punto finale del labbro. Un gesto che Mandralisca comprende solo alla fine del romanzo e lo porta ad esclamare: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!» (Consolo 2015: 219). Catena, per quanto non compaia come personaggio attivo, ha quindi un ruolo chiave per la comprensione dell’opera. Bouchard analizza la rielaborazione parodica di Catena rispetto alla tradizione risorgimentale. La ragazza, infatti, prima presentata come una semplice tessitrice, quasi «topos dell’isterismo femminile» (Bouchard 2013: 45), si rivela in seguito paladina della causa risorgimentale.Catena è quindi un personaggio complesso, allegoria dell’inventio e detentrice del genio creatore: la tovaglia con l’albero delle quattro arance ne è la manifestazione. La descrizione del ricamo è affidata allo sguardo distante della baronessa Parisi: «sembrava quella tovaglia – pensò la baronessa – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso» (Consolo 2015: 167-168). In questa «mescolanza dei punti più disparati» (Consolo 2015: 168), perciò, va rintracciato il progetto poetico di Consolo: il romanzo si origina dalla libera creatività, dando vita all’alternanza delle voci, rinascita della società. Bisogna notare che il «furore» (Consolo 2003) è la qualità attribuita dall’autore ai più alti poeti della tradizione letteraria: Virgilio, Dante, Petrarca e Leopardi.

17Le scritte, l’ultima testimonianza lasciata dal Mandralisca nel capitolo conclusivo, sono appunto frutto dell’immaginazione e della libertà creativa: evadono dal carcere-chiocciola portando il messaggio di «libertà» dei contadini di Alcàra Li Fusi. È qui, però, che interviene Consolo in persona, dando in ultimo al lettore il senso della sua poetica: le scritte infatti sono un artificio dall’autore stesso. In questo dialetto sanfratellano, siciliano e letterario si mescolano in un pastiche polivocalico, «sintesi linguistica», come scrive Segre, «della Sicilia medievale e barocca, feudale e popolare, cittadina e contadina» (Segre 1991: 86). La scrittura in questo modo diventa nemica della lumaca-labirinto, permettendone appunto la fuga.

18Lo scrittore, perciò, per poter evadere dal carcere-chiocciola, non può rinunciare all’impostura, ma aggirarla con l’immaginazione. Un percorso che egli compie in solitudine «per combattere il potere e il conformismo imposto dal potere» (Consolo 2015: 1173), scrive Consolo, solo così si potrà realizzare la libertà di linguaggio che è appropriazione di verità ed emotività. Lo stesso processo è indicato dal Mandralisca per i contadini di Alcàra: «tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose» (Consolo 2015: 217).

  • 6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in (…)

19Il modello che Consolo deve superare è quello razionale e ironico di Sciascia e Manzoni, così da approdare a una letteratura terrigna, perché «a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna» (Consolo 2015: 219). Nella poetica di Consolo questo non significa mai accostarsi alla realtà con ingenuità e spontaneità, ma è piuttosto un procedere di labor lime, di complessa sperimentazione, in grado di accogliere tutte le forme espressive. «Il narrare», scrive Consolo, è un’«operazione che attinge quasi sempre dalla memoria», questa però, a differenza dello scrivere, «mera operazione di scrittura impoetica», non può cambiare il mondo, «perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo 2012: 92)6. Eppure, prosegue l’autore, «il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… questo salto mortale si chiama metafora» (Consolo 2012: 92). Il sorriso dell’ignoto marinaio, infatti, evita un approccio mimetico, ma è intarsiato di analogie, simmetrie tra i personaggi e tra le parti dell’opera (operazione che verrà ripresa anche in Retablo, con i tre capitoli che mimano la pala d’altare). Il romanzo è composto per blocchi, così da disorientare il lettore, non lasciandosi mai all’affabulazione: si pensi al passaggio dall’appendice del capitolo due, in cui vengono presentati i moti di Cefalù, a Morti Sacrata. Autocosciente della sua finzionalità, Il sorriso dell’ignoto marinaio non permette al lettore di adagiarsi in una lettura empatica e melodrammatica.

20In conclusione, l’analisi fin qui condotta permette di delineare cosa sia il romanzo storico per Vincenzo Consolo, attraverso il confronto con altre opere. Il primo paragone deve essere fatto con un altro romanzo composto nello stesso periodo e uscito a soli due anni di distanza, nel 1974: La Storia. Nel romanzo di Elsa Morante, come in Consolo, storia e romanzo non dialogano, ma vengono giustapposti. Morante, anche lei interessata a creare un linguaggio per le vittime del potere, predilige una lingua limpida e comunicativa, riformulando il rapporto tra epos e romanzo. Per l’autrice la letteratura gioca ancora un ruolo prioritario, in grado di illuminare le verità del reale. Consolo, invece, manifesta una crisi più profonda che coinvolge romanzo e linguaggio integralmente: questi condividono le stesse aporie, le stesse storture. Storia e invenzione, perciò, non si amalgamano, ma messi difronte l’uno all’altro condividono la stessa parità gnoseologica. Il campo d’indagine del romanzo storico, perciò, come sostiene Giovanna Rosa, va ricercato «nell’effetto di storia» (Rosa 2010: 50): tesi ancora più vera nel Novecento, visto che la Storia ha perso il suo carattere monolitico. Consolo, potremmo parafrasare, porta all’estremo la decostruzione del linguaggio creando “l’effetto di romanzo”. La riflessione dell’autore inizia proprio dal mettere in discussione l’istituto del genere, dando vita ad un romanzo che fa deflagrare il conflitto, prima di tutto linguistico. Il sorriso dell’ignoto marinaio, in maniera anti-affabulatoria, è «un romanzo storico che è la negazione del romanzo, come narrazione filata di una storia, e della Storia, come esplicazione degli avvenimenti» (Segre 1991: 77).

21L’afasia, possibile conseguenza dell’arbitrarietà della memoria, viene eclissata in favore di una parola che ritrova forza nello sperimentalismo di Gadda e Pasolini, ma soprattutto nel confronto con la grande tradizione del romanzo storico siciliano. «Il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale», scrive Consolo, è «passo obbligatorio, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, [ed] era per me l’unica forma possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali» (Consolo 2003). Verga, Pirandello, ma soprattutto Tomasi di Lampedusa, sono i modelli di riferimento. Consolo però sceglie una via diversa rispetto agli autori siciliani: non un anti-romanzo, o contro-romanzo storico, ma una scrittura che manifesti il superamento:

per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini (Consolo 2015 1258)

22Il Gattopardo in particolare, non a caso chiamato dall’autore romanzo della fine, segna un momento di frattura nel romanzo risorgimentale. Con la sua intelligenza razionale, la propensione per le idee astratte, il principe di Salina è il coronamento dell’atemporalità, del distacco armonico dell’intellighenzia siciliana. Passato il turbolento dibattito, infatti, Il Gattopardo è stato riconosciuto per quello che era, «un classico» (Consolo 2015: 1150). Consolo, invece, interessato a sperimentare le potenzialità del romanzo in un’epoca «senza speranza», ritiene che questo possa sopravvivere, ma solo sotto forma parodica e metaforica. Polivocalità e decostruzione del romanzo sono gli elementi per poter realizzare il processo di mediazione metaforica, ultimo orizzonte percorribile per rapportarsi con la realtà. Quindi il romanzo per Vincenzo Consolo può vivere solo sotto forma parodica, perché esso stesso è una parodia della realtà, un’impostura.


BIBLIOGRAFIA

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Gli utenti abbonati ad uno dei programmi OpenEdition Freemium possono scaricare i riferimenti per i quali Bilbo a trovato un DOI nei formati standard. Bouchard N., 2013, «Oltre la tradizione del romanzo storico ad argomento risorgimentale: la riscrittura di donna e nazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Forum Italicum, vol. 47, Issue 1, p. 38-53. DOI : 10.1177/0014585813479869 Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli. Consolo V., 2003, Risorgimento e letteratura. Il romanzo post-risorgimentale siciliano, in: http://vincenzoconsolo.it. Consolo V., 2012, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori. Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Rosa G., 2010, Dal romanzo storico alla Storia. Romanzo. Romanzo storico, antistorico e neostorico, in: Simona Costa e Monica Venturini, Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, Firenze, ETS, p. 45-70. Sciascia L.1998, Cruciverba, Milano, Adelphi. Segre C., 1991, «La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo», Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, p. 71-86. Spinazzola V., 1990, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti. Traina G., 2011, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo. Turchetta G., 2015, «Cronologia», in: Consolo Vincenzo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Verga G., 2013, Libertà, in: Novelle I, Milano, Mondadori.
NOTE

2 Come scrive Spinazzola: «I ViceréI vecchi e i giovaniIl Gattopardo costruiscono una sorta di caso letterario plurimo, fascinoso e sconcertante. Di solito, un’opera viene presa a modello da altri scrittori, della stessa età o di epoche successive, in quanto ha ottenuto successo. Qui invece ci troviamo di fronte a una serie di romanzi palesemente imparentati fra loro, ma senza che il primo e nemmeno il secondo abbiano incontrato fortuna, tutt’altro» (Spinazzola 1990: 7). Anche Il sorriso dell’ignoto marinaio può essere aggiunto alla triade di romanzi proposti da Spinazzola: benché se ne distanzi per stile e intento, il riferimento a queste opere è costante.

3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato Sciascia infatti rappresenta la purezza linguistica, dall’altro Piccolo raffigura il caos barocco, una lingua classica e al tempo stesso ancestrale. Rispetto a Sciascia il rapporto è particolarmente importante, ma allo stesso tempo ambiguo; è Consolo stesso infatti ad alludere al distacco avvenuto da Sciascia attraverso Il sorriso dell’ignoto marinaio: «ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. “Questo libro è la storia di un parricidio” ha detto riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra» (Consolo 1993: 43).

4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata di Giovanni Santi, è inserita da Consolo nell’incipit del romanzo.

5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvifica. Traina fa riferimento al significato archetipico della conchiglia «simbolo prettamente femminile associato ai poteri magici della matrice – passa dalla simbologia mitica alla simbologia cristiana, come segno di perpetuo rinnovamento, dunque di resurrezione: forse, per Consolo, di rivoluzione» (Traina 2011: 62).

6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in Racconti italiani del Novecento, edito per Mondadori nel 1983.

Notizia bibliografica

Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches, 21 | 2018, 77-85.

Notizia bibliografica digitale

Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches [Online], 21 | 2018, online dal 05 octobre 2021, consultato il 07 décembre 2022. URL: http://journals.openedition.org/cher/1189; DOI: https://doi.org/10.4000/cher.1189

Giulia Falistocco
reCHERches, 21 | 2018, 77-85.

Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo

Foto di Giovanna Borgese

Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo Sperimentalismo ed eticità: l’(in)attualità di Consolo Può destare sorpresa, vista la loro estrema complessità linguistica, ma i libri di Vincenzo Consolo sono stati tradotti in molte lingue: francese, inglese, tedesco, olandese, polacco, portoghese, spagnolo, catalano. In spagnolo addirittura alcune opere sono state tradotte due volte: in castellano continentale e nello spagnolo dell’America Latina; lo stesso è accaduto per il portoghese, con una seconda traduzione in portoghese brasiliano. Il sorriso dell’ignoto marinaio 1 è stato tradotto persino in arabo. Consolo è insomma scrittore di indubbia caratura internazionale, conosciuto in molti paesi. Per avviare il discorso su di lui, mi appoggerò all’auctoritas di Cesare Segre, autore di Un profilo di Vincenzo Consolo che precede l’edizione dei Meridiani Mondadori da me curata: un profilo che è stata l’ultima fatica del grande critico e filologo saluzzese, scomparso nel 2014. Scrive Segre: « Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione » 2 , quella degli anni Trenta (Consolo è nato nel 1933 ed è scomparso pochi anni fa, nel 2012). Non voglio contraddire ciò che dice Segre, che ha certo ragione, ma dire che « Consolo è lo scrittore più grande della generazione degli anni Trenta » soltanto rischia di essere un po’ riduttivo. Diciamo allora, senza mezzi termini, che Consolo è, in assoluto, uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. Proviamo a restare ancora un poco sulle generali. Consolo è anzitutto un autore di altissima qualità artistica. Il suo stile, di straordinario spessore, ha un’immediata riconoscibilità, un inconfondibile marchio di fabbrica, ed è dotato di una densità, complessità e originalità straordinarie. Spesso Consolo ha parlato di una lingua in qualche modo « inventata », e addirittura di una sua ferma intenzione di «non scrivere in italiano», di allontanarsi dalla piattezza della lingua comunemente parlata, mescidando lingue, registri e sottocodici, in un amalgama che si distende lungo una gamma amplissima di varianti diacroniche e diatopiche. Nel racconto autobiografico I linguaggi del bosco 3 , tratto da Le pietre di Pantalica, Consolo racconta di quando, a cinque anni, per leggeri problemi di salute – era infatti troppo magro e un po’ malaticcio – era stato portato per qualche mese in montagna, nella casa di famiglia al bosco della Miraglia. Qui egli vive un’amicizia, che è quasi una infantile ma serissima storia d’amore, con Amalia, una ragazzina dodicenne del posto: non si può certo parlare di amore in senso stretto, però i due si piacciono, e, per farla breve, sono sempre in giro insieme. Consolo racconta di come Amalia gli rivelasse il bosco, facendogli scoprire un mondo variegato e coloratissimo, fatto di cose, ma anche di parole: gli insegna come si chiamano gli alberi, gli arbusti, le erbe, i fiori, gli animali, e glielo insegna, fatto molto importante, non solo in siciliano, ma anche in sanfratellano, una lingua provenzale parlata in alcuni paesi del nord della Sicilia,
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1 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino, Einaudi, 1976 (1a ed.); Milano, Mondadori, 1987 (2a ed., introduzione di C. Segre); ora in V. CONSOLO, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. TURCHETTA e uno scritto di C. SEGRE, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, pp. 123-260. 2 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XI. 3 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, in V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988 (1a ed.); 1990 (2a ed. Oscar , a cura e con introduzione di G. TURCHETTA) ; ora in in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 606-612. 2
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nella zona dei monti Nebrodi, subito a ridosso della costa di Sant’Agata di Militello, dove Consolo è nato. In molti casi, però, Amalia inventava le parole, costruendo un proprio personale linguaggio: Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava. Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, fèibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche…4 In questo modo Consolo delinea evidentemente una sorta di mise en abyme della propria poetica e della propria scrittura, mostrandoci appunto la costruzione di un linguaggio altro, analogo in qualche modo al suo: come Amalia dava alle cose “altri” nomi, anche Consolo costruisce una lingua che « chiama » sempre le cose in modo diverso da come le « chiamiamo » nella lingua di tutti i giorni. Prima di tornare a parlare del suo stile e della sua scrittura, voglio sottolineare che Consolo è molto importante anche perché ha un eccezionale spessore intellettuale. Si rileggano per esempio i saggi del suo volume Di qua dal faro 5 , che chiude il Meridiano. Il titolo evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva «di qua dal faro» implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende sottolineare anche la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, in qualche modo come mondo “altro” e però anche emblematica di un mondo più vasto. Si tratta di un libro di saggi dove si trovano anche tante “storie” straordinarie: come per esempio la ricostruzione della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o quella della pesca del tonno. Ma questo libro è solo una piccolissima parte della vasta produzione del Consolo saggista, poiché ci sono ancora decine di saggi che non sono stati mai raccolti in volume: nel prossimo futuro mi piacerebbe lavorare a un’edizione degli altri scritti saggistici di Consolo. Pensiamo per esempio ai numerosi saggi dedicati alla storia dell’arte, di cui era un grande conoscitore: a Antonello da Messina, a Caravaggio, ma anche a innumerevoli artisti contemporanei, per i quali in numerosi casi ha scritto prefazioni per i cataloghi delle loro mostre. Consolo, grande intellettuale, ha avuto anche un’attività giornalistica di straordinaria ampiezza e intensità: rimando per questo alla bibliografia da me
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4 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, cit., p. 610. Corsivi nel testo. 5 ID. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 987-1260. 3 curata per il Meridiano 6 .
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E pensare che alcuni critici hanno scritto che Consolo era “pigro”: una insostenibile falsità! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: ma questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva « letteratura » impiegava anni a costruire quelle prodigiose macchine espressive, che chiameremo ora, assai provvisoriamente, i suoi “romanzi”. Ma mentre si dedicava alle scritture letterarie, egli scriveva anche pezzi giornalistici, a un ritmo che ha dell’incredibile. Nella bibliografia del Meridiano Mondadori ho cercato di fare un censimento (quasi) totale di tutti i suoi scritti, anche « militanti » e d’occasione: le bibliografie, si sa, non sono mai complete, ma spero di essermi avvicinato abbastanza all’ esaustività. Ma che cosa si vede da quest’attività? Si guardi per esempio al volumetto pubblicato da Sellerio, Esercizi di cronaca 7 , che raccoglie solo una selezione degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo « L’Ora » . Possiamo cogliere già come Consolo fosse costantemente presente nella vita pubblica e nella vita politica, ma ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che, a ben vedere, deriva proprio dalla cultura francese: pensiamo per esempio a Émile Zola o allo stesso Jean-Paul Sartre. Consolo era un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità. Vorrei fra l’altro segnalare che nel 2017 uscirà presso Bompiani, per le cure di Nicolò Messina, un volume che raccoglie un’ampia selezione degli scritti di Consolo sulla mafia: per un siciliano, certo, scrivere sulla mafia è un grande dovere morale. In questo grande scrittore c’è quindi sempre una straordinaria tensione etica, che è anche, dato senso, a una tensione politica. A suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dai politici… Il suo eccezionale spessore artistico e intellettuale rende sempre più necessaria sua una più stabile e più percepibile «canonizzazione» – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria -, che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. Anche per questo era necessaria un’edizione come quella dei Meridiani Mondadori, che, oltre a raccogliere tutti i suoi libri principali, fosse corredata di ampie note e di apparati critici capaci di aiutare nella comprensione dei testi. Ma degli apparati parleremo più avanti. In prima approssimazione vorrei dire che Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore « attuale » anche e proprio per la sua « inattualità », e che questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta -, ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce quella sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile, trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti
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– 6 In V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 1481-1517. 7 V. CONSOLO, Esercizi di cronaca, a cura di S. GRASSIA, Prefazione di S. S. NIGRO, Palermo, Sellerio, 2013. 4
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che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora molto sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore « politico », verso i contenuti. Spesso Consolo è stato accusato di “formalismo”: un’accusa veramente ingiusta e poco fondata. Come si evince anche dal sottotitolo di questo intervento, Consolo è, da un lato, uno scrittore che attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia; ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla Neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche ad essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici della Merkel. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni Ottanta ha scritto infatti spesso di migranti che morivano in acqua, specie nord-africani. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 19578 ) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete), fa insomma tutt’ uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Vorrei ricordare, ad esempio, che il suo primo romanzo, un
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8 Ora in V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. MESSINA, Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10. 5
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romanzo di formazione, La ferita dell’aprile 9 , parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il già citato sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche, e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica, in La ferita dell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora ad Eliot, al suo April is the cruellest month (celeberrimo attacco di The burial of the dead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A portrait of the artist as a young men presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto, e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta inoltre tutta da studiare un’altra interessante questione, ovvero il ruolo di Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’ epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile 10 , fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella Sudamericana: si pensi per esempio a quanto di Faulkner arriva a Garcia Marquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Fatte queste premesse, nel mio discorso seguirò quattro piccole tappe: la Sicilia; la poetica di Consolo – perché nella sua poetica risiedono le radici e le ragioni della sua grandezza -; alcuni aspetti formali della sua scrittura, delle strutture dei suoi testi e della lingua; infine spiegherò a grandi linee com’è articolata l’edizione delle sue opere da me curata per i Meridiani Mondadori. L’ossessione della Sicilia Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Ma che Sicilia è? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria, storica, e una cura di una severità rara: possiamo dire, da questo punto di vista, che Consolo è un vero storiografo. Frequentando per tanto tempo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo arrivava ad ogni sua scrittura letteraria, raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Per esempio nel Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni
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9 V. CONSOLO, La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963 (1a ed.); Torino, Einaudi, 1977 (2a ed.); Milano, Mondadori 1989 (3a ed., con introduzione di G.C. Ferretti).; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 3- 122. 10 Cfr. G. TURCHETTA, Da un luogo bellissimo e tremendo, introduzione a V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XXXVIII, e Id., Note e notizie sui testi, ivi, p. 1293. 6 di lavoro)
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si parla della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, repressa poi nel sangue, ma a sua volta assai cruenta. Consolo l’ha ricostruita non solo studiando i libri di storia, ma andando in archivio, ritrovando tutte le carte di quella vicenda: tant’è vero che, per fare un esempio concreto, si è procurato tutti i certificati di morte di coloro che furono fucilati alla fine della prima parte del processo contro i rivoltosi. Alla fine del Sorriso dell’ignoto marinaio troviamo infatti proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna: è anzitutto un documento autentico, ma certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, che è quasi un nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, che abbiamo percepito quando, nel cap. V, la rappresentazione passa proprio attraverso la focalizzazione interna su Peppe Sirna. Consolo lavora così sempre: da un lato lavora come un vero storico, che mette insieme i documenti con un’attenzione ligia al rigore della ricostruzione; dall’altro, la Sicilia che egli rappresenta è sempre “altro”, nel senso che è una metafora dotata di una profonda forza di generalizzazione. Secondo me, si potrebbe dire della Sicilia di Consolo qualcosa di simile a ciò che è stato detto da Italo Calvino a proposito della Lucania rappresentata in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, un libro peraltro fondamentale per la formazione di Consolo. Nel romanzo di Levi si parla della miseria, dell’oppressione dei più deboli e della rabbia contadina che a volte esplode in rivolte selvagge e sanguinose. Calvino sostiene che la Lucania di Carlo Levi è servita da modello per tanti altri Sud del mondo: non a caso questo romanzo è stato tradotto e letto in America Latina, in Asia, ed è diventato un libro di riferimento per altre lotte, per altre rivoluzioni 11 . Ma anche la Sicilia di Consolo è una grande rappresentazione del Sud del mondo, di ciò che succede attraverso i processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino e che vediamo all’opera in Italia ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extra-europee. C’è un avvenimento che si ricorda poco e che apparentemente ha poco o nulla a che fare con la letteratura: nel 2008, per la prima volta, gli abitanti del mondo che vivono in città sono diventati più numerosi di quelli che vivono nelle campagne. Si tratta di un cambiamento enorme, epocale: in tutta la storia dell’uomo gli abitanti delle campagne sono sempre stati di più rispetto a quelli delle città, mentre ora assistiamo al fenomeno inverso. Consolo ci parla proprio di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà e mettano a rischio la sopravvivenza del pianeta stesso, ma in lui non vi è, come spesso accade negli intellettuali, il pianto, la nostalgia, la lamentela su un mondo che era più bello, anche se egli costantemente critica senza nessuna indulgenza questa modernizzazione. Ricordiamo che l’idea di Consolo di scrivere mescolando tante lingue è anche l’idea di conservare, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che sono dentro quelle parole. Nella scrittura di Consolo vi è una grande preoccupazione, oltre che storica, anche antropologica: egli desidera mostrare come cambia la cultura e, cogliendo i processi di cambiamento della Sicilia, coglie emblematicamente anche i cambiamenti del mondo tutto. Come molti altri intellettuali siciliani, Vincenzo Consolo ha rappresentato la Sicilia andando a vivere al Nord, e in particolare a Milano, come Verga, Vittorini, Quasimodo e tanti altri. Rappresentare la Sicilia da lontano ha significato anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori (un’altra contraddizione produttiva) di necessità
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11 I. CALVINO, La compresenza dei tempi (1967), in C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945, poi 2010, p. XI. 7
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del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria essenziale che non esiste più: questa impossibilità ha come causa evidente proprio i processi di modernizzazione. A questo allude, per esempio, una delle più celebri poesie di Giuseppe Ungaretti, Girovago: «in nessuna parte di terra / mi posso accasare». Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma, una volta di più, parlando della Sicilia ci parla di noi tutti, di come ci spostiamo e di come non riusciamo più a ricostruire la nostra identità: perché ormai la nostra identità è un processo che si costruisce giorno per giorno, e non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andati perdute, che hanno deluso. Nelle sue opere egli ha messo a fuoco tre momenti fondamentali di questa parabola storica in tre romanzi storici, che a posteriori ha collocato in una trilogia. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) parla del Risorgimento italiano, di quello che ha rappresentato, come grande speranza ma anche grande delusione, straordinaria occasione perduta. Il Risorgimento infatti ha rappresentato l’illusione di un grande cambiamento non solo politico, ma anche sociale ed economico: il potere, infatti, non si sposterà di molto rispetto al periodo precedente. In Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega 12) Consolo parla dei primi anni Venti e della nascita del fascismo, in un periodo caratterizzato dall’irrazionalità e dalla violenza, che hanno segnato non solo la storia italiana ma anche gran parte della storia europea. E nel romanzo Lo spasimo di Palermo (199813) ci racconta un terribile presente, quello dei primi anni Novanta del Novecento, delle stragi di mafia del 1992, ovvero il presente dalla mafia (non soltanto siciliana), della corruzione, della complicità fra potere politico e potere criminale, della necessità di denunciarlo e anche della difficoltà di uscire da una situazione sempre più drammatica. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. La Sicilia è infatti, lo sappiamo, una terra bellissima, dove, per farla breve, c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: straordinari monumenti, della Magna Grecia e della romanità, del Medioevo, del Barocco; una natura rigogliosa; e inoltre la Sicilia è pure un posto, perdonate la banalità, ma… perché non dirlo?, dove si mangia benissimo. In Sicilia c’è tutto, e quindi da un lato potrebbe essere il migliore dei mondi possibili; ma per altri versi è un mondo esemplarmente e tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, addirittura proverbiale, nel mondo intero, per la mafia, quella criminalità organizzata così importante che tutte le criminalità organizzate del mondo vengono chiamate «mafie», in analogia con quella siciliana. Pensiamo ora al romanzo Retablo 14 , in cui vi sono dei meravigliosi incontri tra amici, e nuove amicizie che nascono, e al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore senza fine: leggiamo per esempio la scena delle prostitute a
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12 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 647-755. 13 V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 873-975. 14 V. CONSOLO, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 365-475. 8
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cui per punizione viene tagliato il naso 15. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo: ma anche che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo… La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per riprendere un’espressione di Consolo stesso 16 . La Sicilia è metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono; ma è importante aggiungere che Consolo non cade mai in un vizio tipico dei letterati – non solo italiani, ma di quelli italiani di sicuro: quello di mettere tutto in «un tempo senza tempo», di parlare della violenza e della tristezza come di qualcosa di eterno, di un destino senza fine. In questo Consolo è davvero radicalmente diverso dal Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, che consapevolmente contestava: egli non dice mai che la storia non cambia, che «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono sempre storicamente determinati, che non c’è un male metafisico eterno. E che quindi noi dobbiamo continuare a combattere. Sempre. La poetica di Consolo Partendo da lontano potremmo farci una domanda molto difficile a cui darò, di necessità in modo rapido, varie risposte: «Che cos’è la letteratura?» O meglio: «Che cos’è questo discorso così particolare, che continuiamo a sentire come un discorso così fragile e allo stesso tempo così necessario?» Il grande sociologo francese Pierre Bordieu ha scritto un libro straordinario, Les règles de l’art (1992), per mostrare che cosa ha significato nella cultura dell’Occidente definire una specificità del «campo» della letteratura. Quello che noi sentiamo come «letteratura», infatti, lungi dall’essere una tipologia testuale ben delimitata da millenni, come di solito crediamo, nasce e si definisce nel secondo Ottocento, da un movimento che mette radici già nel Romanticismo. Qualcuno ha tentato di definire la letteratura secondo i suoi tratti linguistici: è stato il sogno degli Strutturalisti e, ancora prima, dei Formalisti russi, che hanno aspirato ad un’identificazione e a una definizione scientifica della specificità della letteratura; ma non ce l’hanno fatta, perché la letteratura può essere scritta in tutti i modi possibili, come mostra ad abundantiam il romanzo. C’è poi una definizione che potremmo chiamare di tipo retorico, quella di un grande teorico italiano, purtroppo scomparso abbastanza giovane, Franco Brioschi (1945-2005): egli mette a fuoco la letteratura come un linguaggio, o meglio delle pratiche discorsive legate ad una situazione comunicativa particolare, spiegando che «la letteratura è ciò che chiamiamo letteratura». A prima vista si tratta di una tautologia, ma in realtà non lo è, perché rinvia ad una specificità comunicativa, al fatto che i discorsi che noi identifichiamo con l’etichetta generica “letteratura” sono una varietà dei discorsi di “riuso” (un termine che Brioschi riprende dal grande filologo tedesco Heinrich Lausberg), che assume la sua qualità specifica, la sua letterarietà, in virtù di un contesto comunicativo, e storico, che gliela attribuisce. Il grande sociologo della letteratura francese Robert Escarpit, invece, pensava – in modo molto vicino alla definizione di Brioschi –che ciò che noi intendiamo come letteratura è
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15 Ivi, p. 400. 16 V. CONSOLO, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; in Id., L’opera completa, cit., p. 1224. 9
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l’immagine sociale che una certa epoca si fa della letteratura: un’immagine che ci viene consegnata dai testi che definiscono il canone condiviso. Nel suo sempre illuminante Qu’est-ce que la littérature? (1947) Jean-Paul Sartre afferma che «écrire est dévoiler le monde, et en même temps le proposer comme un devoir à la générosité du lecteur». È un’immagine profondamente etica della letteratura, secondo la quale la letteratura non solo svela sempre qualcosa al lettore, ma anche gli impone, nel disvelamento, la necessità di tentare di cambiare quel mondo. E per Consolo, che cosa significa «letteratura»? Cerchiamo di capire dov’egli si collochi, perché in questa collocazione sta molto della sua grandezza. Per lui, da un lato la letteratura esiste solo come letteratura stricto sensu, nel senso che è importante distinguere tra le scritture giornalistiche e la scrittura d’invenzione, appunto la “letteratura”, ovvero fra gli articoli ch’egli stesso scrive quasi tutti i giorni e i libri costruiti attraverso una fatica di molti anni. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso quella che io chiamo la pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica una speciale intensità. Da un altro lato però questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi da un lato Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. En passant, Le parole sono pietre 17 è il libro di Carlo Levi sulla Sicilia: tre narrazioni di storie vere siciliane, che Consolo cita spesso e a cui fa spesso riferimento esplicito, o implicito, come nel titolo Le pietre di Pantalica. Da un lato quindi le parole vogliono essere come cose e, per renderle più dense, Consolo le “moltiplica”, le pluralizza in tanti modi; ma le parole non sono cose, non sono pietre: e quindi Consolo ci dice allo stesso tempo che la “letteratura”, perdonate la citazione molto mainstream, è per definizione una «mission impossible». È infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose: ma bisogna farlo sapendo che non è possibile… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che come Consolo hanno spinto verso la grande letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento, ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. In Consolo è costante la coscienza e la problematizzazione dei limiti della parola. Proprio perché la parola ha dei limiti irriducibili, che vanno sottolineati, si genera nelle sue opere un discorso che è anche costantemente meta-linguistico, in cui le parole non sono solo quello che sono, ma diventano anche discorso su se stesse. In Consolo, percepibilmente, c’è inoltre anche una costante tensione meta-letteraria: la sua è una letteratura che si domanda sempre «che cos’è la letteratura?»; e la sua narrativa è meta-narrativa, e mette costantemente in discussione la narrazione e le sue strutture ingannevolmente continue. Il sorriso dell’ignoto 17 C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Torino, Einaudi, 1955; poi ivi, 1979, con prefazione di V. Consolo, e anche, col titolo Carlo Levi, in Di qua dal faro, cit., pp. 1227-1233. 10 marinaio, per esempio, è un romanzo ma anche un anti-romanzo, così come è un romanzo storico e un anti romanzo-storico: è quindi, se vogliamo, sia ciò che vuole essere sia ciò che sa di non poter essere. Mentre sta scrivendo un romanzo-storico, inoltre Consolo sa bene che il romanzo-storico è già di per sé una contestazione della Storia, come ben sapeva Alessandro Manzoni, nume tutelare indiscutibile dell’idea consoliana del romano storico-metaforico; ma intanto egli contesta il romanzo-storico che sta facendo insieme alla storiografia ch’esso mette in discussione: come dire che in ogni momento egli fa un certo tipo di discorso, ma intanto gli toglie subito il terreno da sotto i piedi, lo svuota, lo demistifica. Se la parola è sempre problematizzata, proprio mentre egli la spinge verso le sue massime capacità espressive, ciò accade anche perché Consolo ci dà la percezione profonda e costante del fatto che ogni discorso è detto da qualcuno, che la parola è radicata in un soggetto e che quindi non esistono discorsi che si fanno ‘da soli’, perché la lingua è sempre «in situazione», come ci ha insegnato Michail Bachtin, e dopo di lui la pragmatica e la linguistica degli Speech Acts. Non esiste una lingua astratta, perché le parole derivano da persone che le hanno dette o scritte, e questo significa che le parole sono dotate di una capacità di verità legata, e non è una contraddizione, proprio al fatto che derivano da qualcuno che le utilizza in relazione ad una specifica esperienza di vita. In altri termini, in ogni parola c’è un vissuto che si afferma: e quindi per Consolo anche il più cattivo, il più stupido e il più infame degli uomini ci dirà delle verità perché ci parlerà di qualcosa che ha davvero vissuto; e la sua verità farà tutt’uno con i limiti invalicabili della sua parzialità, della sua non-verità. Nel terzo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, per esempio, c’è la rappresentazione dall’interno di un personaggio terribile, Frate Nunzio: un reazionario, un violento, un maniaco sessuale, che appartiene alla Chiesa ma al tempo stesso ne fa di tutti i colori, arrivando addirittura ad uccidere una ragazza e a stuprarla dopo morta… Nelle narrazioni, in genere, come ha spiegato Wayne Booth, raramente si rappresenta il punto di vista dei personaggi spregevoli, perché quando si presenta il punto di vista di qualcuno ci si avvicina alle sue ragioni, alle sue motivazioni. Ma Consolo ci mostra anche il più cattivo, il più infame, ci mostra che è possibile metterlo in scena, perché così svela e offre alla nostra comprensione una realtà esistenziale. L’ossessione di radicare il discorso dentro qualcuno che parla è anche un modo di mettere in scena la concreta verità nell’esistenza. Da un altro lato però, proprio perché le parole sono sempre di qualcuno, Consolo ci mostra che le parole sono sempre una mistificazione; qui sta l’altro lato della mission impossibile consoliana: «devo dire la verità, ma se la verità è sempre di qualcuno, non potrà mai essere una verità assoluta, e quindi devo anche criticarla, demistificarla». La complessità del discorso che Consolo fa sulla parola è grandissima, come possiamo vedere bene nel capitolo VI del Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui troviamo la voce del protagonista principale, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, figura storica realmente esistita, che si dedicava ad attività intellettuali nobili, disinteressate, e forse anche inutili, o comunque di utilità assai limitata: egli era infatti un grande studioso di lumache, un malacologo, e la lumaca diventa simbolo portante del libro, come figura di inutile complicazione, di mescolanza di geometria e caos, come equivalente del labirinto. Mandralisca si trova a confrontarsi con la violenza della Storia ed è chiamato in qualche modo ad impegnarsi, ma non riesce a farlo sino in fondo o, quanto meno, coglie i limiti della propria azione. Consolo rappresenta il barone mentre mette in discussione il proprio discorso, che si presenta anche e proprio come 11 discorso di un intellettuale, che non riesce ad incidere sulla realtà storica. Consolo fa così quindi chiaramente una mise en abyme, mettendo in discussione anche il proprio discorso di intellettuale e di scrittore. Al tempo stesso egli imita lo stile di un erudito dell’Ottocento, uno stile un po’ retorico, pomposo, complicato, con una sintassi e un lessico complessi e un po’ involuti. Il passo a cui faccio riferimento è una lettera (un testo di fiction che ha l’apparenza di un genere di non fiction) in cui il barone Mandralisca, di Cefalù, che è anche colui che nella realtà storica ha acquistato il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, conosciuto anche come Il ritratto dell’ignoto marinaio, scrive a Giovanni Interdonato, a sua volta personaggio storico reale e militante molto attivo nella vicenda Risorgimentale. Mandralisca scrive dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi, dove la rabbia dei contadini era esplosa al punto da portarli a massacrare tutti i “notabili” che si erano trovati sulla loro strada: i padroni, le autorità locali, i benestanti, i preti, ma anche i bambini… Siamo di fronte quindi a una violenza terribile, da un lato giustificata da secoli di oppressione, ma dall’altro assurda e cieca, come succede spesso in queste rivolte (come accadeva nelle jacquéries, ovvero nella contro-rivolta contadina e realista degli anni della Rivoluzione francese). Ecco le parole di Consolo, che imita uno stile in cui non crede e ci fa vedere, anche nello stile, la necessità di demistificare: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori , scansati alla fucilazione cui soggiacquero tredici d’essi in Patti, dietro sentenza di quella Commissione Speciale, il dì 18 dell’agosto scorso, quali in catene e quali latitanti, questa memoria non suoni invito istigativo a far pendere i piatti della bilancia della Giustizia sacra da una parte o dall’altra, ma sia intesa quale mezzo conoscitivo indipendente, obiettivo e franco, di fatti commessi da taluni che hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’ noti fatti. Or io invoco l’Esser Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel narrare que’ fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe de’ civili e quindi sapiente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Sirna inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe, le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria agli imputati: sarà possibile, amico, sarà possibile questo scarto di voce e di persona? No, no! Ché per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizzi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiamo veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno interamente riempiti dalle cose. 12 Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che noi si possa fare è quella di gettar via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare con le scorze e con le bave di chiocciole e lumache, limaccia, babbalùci, fango che si maschera d’argento, bianca luce, esseri attorcigliati, spiraliformi, viti senza fine, nuvole coriacee, riccioli barocchi, viscidumi e sputi, strie untuose… » 18 . Ci sono coloro che hanno il diritto di prendere la parola e coloro che non riescono a raccontare la propria storia: e la letteratura sarà quindi anche un modo di dare voce a chi non può parlare. Ma è importante notare il lato critico dei personaggi consoliani, ossia mettere in discussione il loro discorso proprio nel momento stesso in cui lo pronunciano. Appare anche, sì, il sogno di dire le cose come stanno, ma è un sogno impossibile, perché il barone di Mandralisca parlerà fatalmente come un barone, anche se barone progressista, “di sinistra”. Ricordiamo che Peppe Sirna, detto Papa, è un bracciante agricolo, analfabeta, di cui, come accennato, si rappresenta nel cap. v il punto di vista, contrapposto poi alla sua morte, e di cui Consolo inserisce nell’ultima Appendice il vero certificato di morte. Significativamente, «impostura» è un termine che ricorre spesso in un’opera di Leonardo Sciascia a cui Consolo guarda sovente, e soprattutto per Il sorriso: Il consiglio d’Egitto. Le parole non sono solo parole, dice anche chiaramente Mandralisca, che da questo piunto di vista è un porta-parola dell’autore, ma rinviano ad una situazione culturale, ad un modo di sentire e ad emozioni che sono culturalmente e socialmente determinate. Il barone Mandralisca sogna un giorno in cui «le parole siano intieramente riempite dalle cose»: ma Consolo ci fa intuire che questo è un sogno impossibile». Allo stesso tempo, bisognerebbe scongiurare il rischio di smettere di scrivere, di parlare. In Consolo c’è insomma sempre una tensione verso l’assoluto della parola che confina con l’afasia: qualcosa che, mutatis mutandis, lo avvicina al rischio dell’afasia e della pagina bianca in Mallarmé, o alla tentazione di buttar via la penna, di smettere di scrivere, perché non ce n’è più bisogno o comunque non serve a niente, come ha fatto a Rimbaud, che smise di scrivere poesie, andando a fare il mercante di cannoni. Può parere strano questo accostamento per il “meridionalista” Consolo: eppure egli fa stare insieme, fa convivere l’impegno e la tentazione del silenzio, proprio perché mette in discussione il senso delle parole, di qualsiasi parola. Per lui è quindi necessario essere consapevoli dei limiti della parola e però anche combattere contro questi limiti. E come? Proprio con la strategia di moltiplicazione, di pluralizzazione: cui è dedicata la terza parte del mio discorso. La parola plurale È possibile combattere i limiti della parola o, meglio, provare a combatterli – perché questi limiti comunque resteranno -, ma bisogna spingerli oltre se stessi, in un certo senso «lanciare il cuore oltre l’ostacolo»: lo lanceremo, non ce la faremo, ma è necessario, bisogna farlo, altrimenti non ci sarà letteratura. Consolo si pone il problema dei limiti della parola, facendoci capire che esso è intimamente legato alla questione degli intellettuali. In lui c’è infatti, non a caso, una presenza molto profonda del pensiero di Gramsci, un autore che ha posto costantemente la «questione degli intellettuali», ovvero del loro ruolo storico, specie in rapporto alle peculiarità della storia italiana, e alla necessità di abbandonare la posizione
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18 Cfr. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio (cap. VI), in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 215- 217. 13
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dell’intellettuale tradizionale, orgoglioso di far parte di una casta, per diventare intellettuale organico, partecipe di un progetto politico. Ma torniamo alla strategia consoliana di pluralizzazione, cercando di capire la complessità di Consolo, che opera a tanti livelli, non solo al livello stilistico. Per esempio a livello di genere, poiché i generi nei suoi testi (salvo forse in La ferita dell’aprile) sono sempre rimescolati. Lunaria, ad esempio, è un libro che parla nuovamente della Sicilia, in particolare di Palermo, di una Palermo settecentesca un po’ storica e un po’ inventata, di una Palermo bellissima e corrotta. Quest’ambivalenza, lo sappiamo, vale per tutta la Sicilia: e poi anche per la vita tutta, «bellissima e terribile» allo stesso tempo. Lunaria è la storia fantasiosa di un momento drammatico, in cui cade sulla terra un pezzo della luna. La luna, ammalatasi a causa della corruzione del mondo, perde un pezzo, che cade in una remota contrada, lontana dalla corte di Palermo, dove è ambientata inizialmente la rappresentazione: una contrada dove vivono dei contadini che portano in sé ancora un’autenticità emotiva, sentimentale; quindi non a caso la luna sceglie di cadere proprio lì: è un segnale proprio dell’intima verità dei suoi abitanti, dell’autenticità di questi contadini, in qualche modo riconosciuta da un evento cosmico emblematico. Il viceré, allo stesso tempo uomo di potere e intellettuale problematico, porterà la propria corte proprio lì dov’è caduto il pezzo di luna, che verrà raccolto e riappiccicato al suo posto. La contrada verrà allora chiamata Lunaria. Ma ecco invece un’immagine della bellissima e corrotta Palermo: Ecco il più bel promontorio del mondo, corona di Ruggeri e di Guglielmi, ecco la grotta ove s’adagia l’Odalisca santa, la vergine romita, avida d’omaggi, d’allusioni, di maschili moventi sfigurati, sospiri, ardori, ceri esorbitanti… Declina, si scioglie quella roccia all’Arenella, all’Acquasanta: ed ecco il feudo senza barone, il regno di nessuno, la piana che palpita di scaglie, mobile strada per le Spagne, per le Afriche, per oltre le Colonne, la porta delle Nuove Indie… Da dove vengono, dove vanno tanti uccelli bianchi, tanti fiocchi, tanti vascelli del sogno? Che predano, quali speranze portano? (Esce dal suo nascondiglio e si sposta davanti al terzo balcone.) E qui è il corpo grande, la maschera della giovine disfatta, la rossa, la palmosa, la bugiarda… Ah la processione di cupole smaglianti, giare andaluse, lozas doradas, le facciate di zuccheri, cannelle, mandorlate, la pampillónia dei marmi nelle chiese, e i monasteri d’ombre, bocce ove crescono lieviti malsani, e i conventi turpi, Ostérii di supplizi, cani ch’alimentano roghi disumani, vampate di barbarie… E i superbi palazzi de’ superbi, in gara eterna col Nostro, con Noi, con gli Dèi… E i giardini, le fontane, le peschière, impensabili ville sopra i Colli, alla Bagarìa, pietrificazioni d’orgogli, d’incubi, follie, sonni, echi snaturati di Cube, di Zise, di Favàre… Ah città bambina, ah vanità crudele, ah fermento cieco, serpaio, covo di peste, di vaiolo, esplosione di furie, ribellioni! Ah carnezzeria feroce, stazzo di lupi, tana di sciacalli!… Ignorancia, altaneria, locùra, tumba de verdad, cuna de matanza!» 19 La struttura del testo è teatrale, con le dramatis personae, le scene e le didascalie; ma, al tempo stesso, siamo davanti a una fiaba, che però è anche un testo molto poetico, in gran parte scritto in versi20. Quindi Lunaria è teatrale e non è teatrale, è una fiaba, ma allude anche alla storia, è poesia e allo stesso tempo ha una dimensione saggistica, che la rende affine a un conte philosophique. E qui gli esempi potrebbero continuare. Si pensi a un libro come L’ulivo e l’olivastro: è un saggio o una narrazione? A che genere appartiene? I testi di Consolo sono quindi caratterizzati quasi sempre da un’alta complessità a livello di genere, da un addensamento, una pluralizzazione anche sul piano macro-strutturale. Vi è poi, ma lo sapevamo già,
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19 V. CONSOLO, Lunaria, Torino, Einaudi, 1985; ora in Id., L’opera completa, cit., pp. 276-277. 20 Recentemente Etta Scollo, una cantante siciliana che vive e lavora in Germania, ha musicato i testi in versi di Lunaria, facendone un disco bellissimo: Nella gioia luminosa dell’inganno, Jazzhouse, 2013. La Scollo si occupa di repertorio siciliano classico, come quello di Rosa Balistreri, per esempio. 14 una grande complessità a livello di lingua, tanto che si è parlato di «plurilinguismo» per la lingua di Consolo; ma Cesare Segre obiettava giustamente che «plurilinguismo» – come ci ha spiegato anzitutto Bachtin, che Segre riprende – è anche «polifonia», cioè pluralità di prospettive, e dunque non si tratta soltanto di molte lingue, ma di diverse prospettive sul mondo. Per questo «raccogliere le parole», come fa Consolo, significa cercare di preservare la «biodiversità» del linguaggio, la sua varietà, e dunque quella delle culture che lo impiegano. In Consolo vi è una moltiplicazione anche a livello di tono: di solito si è insistito sul lato tragico di Consolo, che si fa più unilaterale nelle ultime opere, quando il suo linguaggio e la sua prospettiva hanno iniziato a farsi più cupi. Però mi sembra importante sottolineare quanto c’è di ironico e persino di comico in Consolo e quanto la sua rappresentazione mescoli continuamente l’alto e il basso: come per esempio nel personaggio di Vito Parlagreco, un contadino che parla solo dialetto, a dispetto del suo cognome…. Vito fa una riflessione d’intonazione leopardiana, e si chiede: «Ma che siamo noi? Che siamo?» si chiedeva Vito Parlagreco, masticando pane e pecorino con il pepe. «Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo.» 21 Una riflessione altissima, metafisica ed esistenziale, fatta da un personaggio di modestissima condizione e di ancor più modesta caratura intellettuale, mentre mangia pane e pecorino: ma il suo formaggio e la sua condizione di persona ignorante, di bracciante, si mescolano visibilmente con le sue nobili interrogazioni, cambiandone profondamente il tono. Ancora: in Consolo vi è una costante mescolanza di poesia e di prosa. Qui la critica ha lavorato molto ed è stato notato spesso che i testi di Consolo possono essere riscritti mettendo in molti luoghi gli ‘a capo’ e quindi creando dei versi, che sono già presenti nella ritmica, anche ‘per l’occhio’. Spesso, significativamente, si hanno delle sequenze di endecasillabi e settenari, che certo alludono proprio al modello della canzone leopardiana. Ma questi versi, comunque, non sono propriamente versi, tranne in Lunaria o in qualche altro luogo, perché a rigore restano comunque prosa. In questo senso penso che Consolo condivida l’aspirazione a fare una prosa narrativa che sia completamente poesia, aspirazione che era di Vittorini, per certi versi un maestro per Consolo: anche se, absit iniuria verbis, la qualità della scrittura di Consolo è a mio avviso superiore a quella di Vittorini. Ancora: spesso Consolo fa entrare in conflitto, in calcolata contraddizione, diverse voci. Citerò qui soltanto Retablo, in cui si raccontano e s’intrecciano più storie d’amore. Retablo è un termine spagnolo che indica una «pala d’altare»: e il libro è costruito proprio come una pala d’altare, con un capitolo breve all’inizio e uno breve di analoghe dimensioni alla fine, e con in mezzo una parte molto più ampia, proprio a simulare la proporzione fra le parti di un polittico. Nel primo capitolo, il primo “quadro” del retablo, vi è il racconto di Isidoro, disperato, che rimpiange la sua amata Rosalia; alla fine troveremo il racconto speculare di Rosalia, che ci rivela come, anche se si prostituiva, ha sempre amato solo Isidoro. Deve lasciarlo, ma lo ama. Al centro vi è un altro romanzo d’amore, assai più ampio, che ha come protagonista Fabrizio Clerici, che è anche il narratore principale. Abbiamo quindi tre protagonisti e tre narratori, che si alternano e alludono anche a una struttura pittorica: ma Fabrizio Clerici era anche un pittore vero, contemporaneo e amico di Consolo, di cui nell’edizione Sellerio sono 21 V. CONSOLO, Filosofiana, in Le pietre di Pantalica, cit., p. 541. 15 anche riprodotti dei quadri. Bisogna ammettere che un difetto serio del Meridiano è quello di non aver potuto aggiungere le immagini e le copertine di tutti i libri, che erano parte integrante dell’operazione artistica, e che inoltre ribadiscono l’interesse di Consolo per la storia dell’arte e la pittura in particolare, che si fanno spesso parte integrante della sua scrittura. Ma c’è ancora un’ulteriore complicazione, perché in realtà Fabrizio Clerici dà costantemente la parola ad altri personaggi che, a loro volta, raccontano delle lunghe storie e diventano, come direbbe Genette, narrateurs de deuxième dégré, quindi ancora altre voci. Inoltre, se c’è la Rosalia numero uno, ovvero quella dell’ultimo capitolo, l’amata di Fra’ Isidoro – un frate che poi deve allontanarsi dal convento -, c’è anche un’altra Rosalia, Rosalia Granata, che pure, nel capitolo Confessione 22 , racconta una storia in cui si parla di amori controversi con preti e che viene presentata come se fosse fisicamente scritta sul retro, sul verso delle pagine che Fabrizio Clerici sta scrivendo. Quindi c’è una pagina scritta in carattere tondo e una, dietro, scritta in carattere corsivo, come un secondo racconto, perché Fabrizio dice che sta usando una carta che è già stata usata: dove si assiste a uno sfondamento del testo nella realtà, a un’uscita nella materialità della scrittura e della costituzione fisica del testo, che è poi un’altra maniera di cercar di andare oltre i confini della parola, di segnalarceli e, allo tempo stesso, di vincerli. La mescolanza tra scrittura e pittura è un’altra forma di pluralizzazione, di sfondamento, come per esempio il riferimento costante nel Sorriso dell’ignoto marinaio al Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, a cui assomiglia in modo incredibile uno dei personaggi, Giovanni Interdonato, di cui conosciamo l’aspetto fisico, appunto perché scopriremo, assieme a Mandralisca, che è identico al ritratto di Antonello da Messina. Consolo ci sta così spingendo, con una sorta di “violenza” semiotica, al di fuori del testo, che pure resta fatalmente un testo. E potrei citare ancora come ne Lo spasimo di Palermo si parli del cinema, mettendo in gioco un altro codice semiotico. Consolo continua quindi a mescolare i vari codici e a fare questo gioco teatrale in molte sue opere, come in La ferita dell’aprile o in Retablo, in cui si parla di spettacoli teatrali e se ne mostra la messa in scena, ricordando intanto, con una prospettiva barocca, molto spagnola ma non meno siciliana, che la vita è un teatro, e forse addirittura che «la vita è sogno». Il richiamo a Calderón de la Barca e a Cervantes è esplicito: infatti in Retablo viene messo in scena un intermezzo (un entremés) di Cervantes, mentre il resoconto narrativo dice esplcitamente che la vita in qualche modo è recitazione e illusione. L’edizione di Consolo nei Meridiani In questa edizione dei Meridiani ho cercato di dare il più possibile la parola a Vincenzo Consolo e negli apparati ho usato tutto quello che ho potuto trovare di sue dichiarazioni. L’ho anche intervistato e interrogato per circa tre mesi, nell’autunno del 2011: e qui vorrei ricordare con grande affetto e intensità la sua generosità e il suo coraggio, poiché persino negli ultimi mesi di vita continuava a rispondere senza sosta alle mie sollecitazioni, ai miei dubbi. Anche per me è stato difficile, e non nascondo che quel lavoro mi dava una grande angoscia: ma Consolo era anche certo contento che stessimo lavorando insieme all’edizione completa delle sue opere. Sono stati mesi affascinanti e terribili, durante i quali sino a poche settimane prima della morte egli continuava a riflettere sul suo lavoro e a spiegarlo; e anche, voglio sottolinearlo, sino a pochi giorni prima della morte continuava a scherzare. 22 V. CONSOLO, Retablo, cit., pp. 416-422, alle pagine pari. 16 Certo, negli ultimi anni si era incupito; ma Consolo certo non è, come ho già sottolineato prima, solo uno scrittore che sa adoperare esclusivamente il tragico: egli è stato un uomo molto spiritoso e vivace, e anche la sua scrittura, a ben guardaare, ce lo mostra così. Così ho potuto dargli la parola anche attraverso le molte risposte che mi ha dato direttamente, soprattutto domande su singole parole. In seguito ho raccolto le numerose lettere che ha scritto ai traduttori, rispondendo alle loro infinite domande: perché Consolo, certo, è difficile e i traduttori avevano tanti dubbi. Gli scrivevano moltissimo e Consolo rispondeva con lettere che vanno dalle due alle venti pagine circa, in cui rispondeva una per una a tutte le loro domande, di nuovo con cortesia e generosità straordinarie. Nel Meridiano si trova spesso la sigla LT, che significa «lettere ai traduttori», senza però l’indicazione ogni volta del nome del traduttore a cui Consolo aveva risposto, perché sarebbe stata una scelta editorialmente troppo macchinosa. Però ho raccolto tutte queste sue risposte, in modo che la stragrande maggioranza delle questioni poste dal testo al lettore è di fatto chiarita dalle sue stesse parole, in modo da non lasciare dubbi. Ho poi costruito, con la Cronologia, una biografia di Consolo, che prima mancava totalmente: la sua vita forse non ha grandissimi eventi, ma ci sono tantissime cose interessanti. Qui vorrei anzitutto ricordare che Consolo si è laureato in Giurisprudenza. È comprensibile che abbia scelto questo corso di laurea, certo, perché in Meridione, dove non ci sono grandi industrie, moltissimi studiano per ottenere una laurea in Giurisprudenza, così da fare poi l’avvocato o il magistrato o il notaio. Ma per Consolo è stato un po’ diverso, forse un po’ più complicato: perché il padre, il nonno e il bisnonno di Consolo, da tre o quattro generazioni, erano commercianti di alimentari. Essi raccoglievano un eccellente olio di Sicilia, che veniva usato per ‘tagliare’ e integrare la scarsa produzione di un olio ligure di una grande azienda, quella dei Fratelli Costa, che fingevano di vendere olio di Liguria. La Sicilia, quindi, come spesso accadeva, era sfruttata da quelli del Nord, che ne traevano lauti guadagni. La famiglia Consolo raccoglieva dunque l’olio che andava alla grande azienda Costa, che peraltro esiste ancora. Però ad un certo punto i Consolo hanno pensato di creare la loro l’azienda invece di far guadagnare tanti soldi a industriali liguri: e a quel punto hanno deciso che il settimo dei nove figli di Calogero, Vincenzo, avrebbe dovuto seguire studi universitari di chimica. Ma questi voleva studiare Lettere e poiché la famiglia, soprattutto gli zii, avrebbero voluto impedirgliele, perché li consideravano «studi da femmine», alla fine Giurisprudenza viene scelta come una mediazione: Vincenzo avrebbe dovuto diventare l’esperto legale dell’azienda di famiglia. Mi permetterò ora di raccontarvi ancora qualche aneddoto divertente della vita di Consolo e dei suoi familiari. Ecco il primo: a Sant’Agata di Militello, cittadina del Nord nella provincia di Messina, in realtà un po’ più vicina a Palermo che a Messina, davanti alle isole Eolie, i Consolo avevano un negozio di alimentari, dove vendevano olio, granaglie varie e pasta, che allora veniva venduta sfusa. C’era la pasta di prima, di seconda e di terza qualità, quest’ultima comprata dai più poveri. Al negozio dei Consolo si recava sempre il barone Lucio Piccolo, poeta, diventato molto noto per un articolo su di lui scritto da Eugenio Montale, anche se la sua notorietà sarebbe poi stata superata di molto da suo cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I Piccolo erano molto ricchi, avevano una proprietà straordinaria e anche una grande, bellissima villa a Capo d’Orlando, Villa Vina: proprietà che poi gli furono praticamente rubate da amministratori disonesti. Il barone Piccolo andava a far la spesa dai Consolo, o 17 meglio faceva andare il suo autista, Peppino, poiché lui non usciva mai dall’auto imponente con cui si faceva portare in giro, una Lancia Lambda, forse perché noblesse oblige… o forse anche perché c’era la puzza di pesce che lo disturbava – dice Consolo stesso. Peppino comprava cinquanta chili di pasta di seconda qualità, e il nonno di Consolo continuava a domandarsi perché il barone Piccolo, così ricco, acquistasse pasta di seconda qualità; era scandalizzato, perché gli sembravano troppo tirchi. Un giorno chiese a Peppino il perché e questi rispose: «Ma no, quella è per i cani…». Secondo scandalo: allora i baroni Piccolo erano troppo spendaccioni…, e sprecavano pasta comunque buona che sarebbe stata più opportunamente da dare ai cristiani! Un altro aneddoto divertente della biografia di Consolo e della Cronologia riguarda l’acquisto del primo televisore. I Consolo non erano ricchi, però stavano bene in quanto commercianti e quindi acquistarono presto un televisore, e, come accadeva allora, invitavano spesso amici e parenti a guardare i programmi RAI. Una sera la famiglia era riunita intorno alla tavola e tutti mangiavano con la televisione accesa: tranne la zia Rosina, di anni novanta, che non mangia quasi nulla e se ne resta tutta triste ed intimidita in disparte. Alla fine della serata esclama: «Ma che vergogna! Mangiare davanti a tanti estranei… ». Un altro aneddoto. Un giorno Vincenzo e sua moglie Caterina – che voglio ringraziare infinitamente per l’ospitalità e la generosità, perché per tre anni e mezzo mi ha accolto con affetto e disponibilità impareggiabili – hanno finalmente ospite a cena Leonardo Sciascia, che era il migliore amico di Vincenzo. Caterina vuole fare bella figura, e, essendo originaria della zona di Bergamo, in più residente a Milano, decide di preparare una cena alla milanese – risotto con lo zafferano e cotoletta alla milanese -. Sciascia mangia tutto con appetito e gusto e alla fine sentenzia: «Però se non mangio la pasta mi sembra di non aver mangiato…! ». Per tornare agli apparati dell’edizione, e per terminare, nella parte finale del Meridiano c’è anche un Glossario, ovvero una raccolta lemmatica delle parole ricorrenti che possono creare delle incomprensioni; anche in questo caso una buona parte delle parole mi è stata illustrata e chiarita dallo stesso Consolo. Le Note e notizie sui testi, che sono frutto di un lavoro davvero molto lungo e approfondito, forniscono una ricostruzione ampia e sistematica della storia di tutti i testi del Meridiano. Voglio segnalare, fra le altre, la ricostruzione della storia redazionale ed editoriale di La ferita dell’aprile, il libro d’esordio, attraverso cui Consolo assume piena consapevolezza di essere davvero uno scrittore e combatte contro chi vuole fargli cambiare troppo, snaturando il suo stile, così laboriosamente costruito: è una battaglia importante e decisiva, di cui ora ho ricostruito tutto il percorso, attraverso le varianti e attraverso le lettere. Un’altra sezione delle Note e notizie sui testi che ci offre dati finora non conosciuti è quella in cui mostro la genesi di Le pietre di Pantalica, un libro nato come reportage storico-giornalistico sul processo ai frati estorsori di Mazzarino, per una collana sui processi celebri diretta da Giulio Bollati e Corrado Stajano, e poi diventato in corso d’opera un progetto di romanzo-storico sulla cittadina di Mazzarino: ma anche questo progetto è stato nuovamente riorganizzato, anche se è stato in parte compiuto, e ancora se ne percepiscono le linee portanti nella struttura del libro così come lo leggiamo ora, specie nelle prime due parti. L’edizione Mondadori è poi corredata da una vastissima Bibliografia. In conclusione, vorrei comunque sempre ricordare, financo con insistenza, come in Consolo troviamo una continua tensione verso la vita, per il gusto del vivere: forse non è così banale ricordare quante volte egli parli di cibi, di dolci; per me, curatore, è stato fra l’altro un grande e non sempre facile lavoro trovare tutte le spiegazioni dei diversi dolci, dei vari formaggi, dei materiali per preparare e cucinare. Sono convinto che tutto ciò ha a che fare con una percezione sensuale, piena di godimento della vita. Consolo è uno scrittore problematico, drammatico, ma dobbiamo anche sentire in lui tutta questa vitalità, questa voglia di farci sentire appunto che questo luogo che è il mondo è tremendo, ma è anche bellissimo. Vorrei finalmente davvero chiudere, leggendo l’inizio di Retablo, in cui il fraticello Isidoro parla della sua Rosalia. Due brevi commenti linguistico-letterari prima di leggere il testo. Consolo costruisce un attacco di romanzo in cui c’è un nome di donna a partire dal quale produce vari giochi linguistici: si tratta di una reinvenzione, non certo solo una riscrittura, dell’attacco di Lolita in Nabokov, dove c’è tutta una serie di giochi linguistici sul nome di Lolita. Qui Consolo gioca su Rosalia, che è Rosa, il fiore, e Lia, che cioè “lega” (dal verbo “liare” che significa “legare”); ma va aggiunto che Rosalia è la Santa Patrona di Palermo e di Rosalia si parla ricordando non solo lei come santa, ma anche la cripta, la grotta di Santa Rosalia, a Palermo, dove c’è una teca di cristallo con una sua statua molto venerata. Di questa grotta parla a lungo Goethe nel suo Viaggio in Italia, cui Consolo fa chiaramente riferimento: il che ci ricorda anche che Retablo è anche un libro di viaggio, che riprende la grande tradizione della letteratura di viaggio Sette-Ottocentesca: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi! con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo pieno, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola, quella vecchia bagascia di tua madre?
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23 23 V. CONSOLO, Oratorio, (incipit) di Retablo, cit., pp. 369-370. 19
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Riflessioni e domande del pubblico : Laura Toppan : Nello Spasimo di Palermo il personaggio di Gioacchino afferma : « invidiava i poeti, e maggiormente il veneto, rinchiuso nella solitudine di una Pieve saccheggiata, tu possa del Montello questo mondo, le tue egloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vibrava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante, la tua seconda scoscesa, questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sponda del suo Mediterraneo devastato”. « Il veneto » è Andrea Zanzotto, rinchiuso nella sua Pieve di Soligo, attento ai cambiamenti epocali e alla trasformazione del paesaggio, come Consolo che, da Milano, è attento alle trasformazioni della ‘sua’ Sicilia. È interessante notare che Consolo si definiva un « archeologo della vita » e Zanzotto « un botanico di grammatiche ». In queste espressioni possiamo ritrovare uno stesso modo di concepire il lavoro letterario. E lo sperimentalismo linguistico e di generi che Consolo attua in prosa, Zanzotto lo raggiunge in poesia. L’affinità tra i due grandi autori la si riscontra anche nella loro apertura europea e sarebbe interessante forse andare più a fondo di questa consonanza. Giorgia Bongiorno : D : Un altro « meridonialista europeo » è Gesualdo Bufalino. Che tipo di rapporto o di contrasto c’era tra Consolo e Bufalino? R : Non si amavano molto, non c’era molta simpatia. Consolo sentiva Bufalino come uno scrittore un po’ troppo professore. C’è un apprezzamento abbastanza tiepido, anche se c’è una foto che gira molto con loro due e Sciascia che ridono: +una foto scattata in occasione della collaborazione per il volumetto Trittico. Complessivamente era un autore che Consolo non riusciva ad amare; ma non penso che vi fosse competizione. Anche Bufalino è certo testimone della forza della tradizione siciliana: qualcuno ha detto che è la regione d’Italia che ha prodotto la miglior letteratura del Novecento; altri hanno invece detto « sì, ma la Sicilia non è Italia; la Sicilia è la Sicilia». Secondo me è vero e allo stesso tempo non è vero: pensiamo per esempio al titolo di una raccolta di racconti di Consolo, La mia isola è Las Vegas, dove il racconto eponimo racconta di un siciliano mafioso che dopo la seconda Guerra Mondiale spera che gli americani si prendano la Sicilia e ne facciano la 51esima stella degli Stati Uniti, così si potrebbe farne finalmente una specie di immensa bisca, come Las Vegas. Consolo era consapevole dell’importanza di molti scrittori siciliani e quindi anche di Bufalino, ma lo avvertiva come troppo «letterato», nel senso che in lui non avvertiva così tanta pressione verso la vita. Secondo me è importante insistere su questo punto per capire sino in fondo Consolo. Egli ha avuto infatti una vita intellettuale ricchissima, anche dal punto di vista dei contatti e delle amicizie, come per esempio José Saramago o Milan Kundera. Sébastien Ortoleva (studente) : D : Dal punto di vista dei rapporti con altri autori, com’era il rapporto che Consolo aveva con Sciascia ? R : Consolo ha sempre avuto un’ammirazione grandissima per Sciascia, sia come intellettuale che come persona, però ha sempre pensato che il modello di letteratura di Sciascia non fosse quello ‘giusto’, perché troppo comunicativo, più vicino alla saggistica, più denotativo, e che invece fosse necessario fare ‘altra’ letteratura. Dal punto di vista della pratica letteraria quindi 20 Consolo ha sempre contestato il suo grande amico, in modo esplicito, ma sempre ‘amoroso’, perché l’affetto per lui è sempre rimasto grande. L’ha difeso infatti anche nei momenti più difficili, per esempio all’indomani dell’uscita dell’articolo I professionisti dell’anti-mafia (gennaio 1987 sul « Corriere della Sera ») – un articolo molto problematico di cui si discute ancora oggi – in cui Sciascia parla male dei magistrati anti-mafia, del pool di Borsellino e di Falcone, e soprattutto di quest’ultimo. Sciascia parlava, in modo un po’ sprezzante, di coloro che hanno fatto carriera occupandosi di mafia… Sciascia fu difeso da Consolo, ma altri non furono d’accordo e in effetti bisogna dire che l’articolo fece fare dei passi indietro al lavoro del pool. Questo dimostra che Consolo difendeva Sciascia anche nei momenti in cui sarebbe stato meglio non difenderlo, però lo contestava anche, ovvero contestava quel modello di letteratura troppo comunicativa, rappresentata appunto da Sciascia e anche da Calvino. Per Consolo infatti questo tipo di letteratura non riusciva a «caricare» abbastanza il linguaggio come lui voleva fare, tanto che Il sorriso dell’ignoto marinaio, il suo secondo romanzo, il suo massimo libro, forse il suo capolavoro, di eccezionale complessità, comincia proprio con una polemica con Sciascia. Si ricorda il quadro di Antonello da Messina e un episodio che Consolo reinventa ma che in qualche modo è storicamente vero, ossia quello di una ragazza che ha sfregiato con un punteruolo un po’ di questo sorriso (e questo danno è ancora visibile). Forse l’ha fatto, come racconta Consolo, perché era innamorata di colui che assomigliava proprio al ritratto dell’ignoto, cioè Giovanni Interdonato, e forse perché il suo amato si faceva vedere troppo poco, dato che era sempre a combattere per il Risorgimento e l’unificazione d’Italia. Ma lo stesso Consolo ha affermato che quell’attacco al quadro di Antonello – quadro di cui parla anche Sciascia in un famoso saggio, L’ordine delle somiglianze, e che viene citato all’inizio del Sorriso – e in quel sorriso sembra poter riconoscere qualcuno che conosciamo, anche se si tratta di una persona che non sappiamo chi sia… Consolo cita Sciascia, ma poi, quando vuole citare il ritratto sfregiato di cui parla Sciascia, fa un’ironia sul Sorriso che è nel ritratto dell’Ignoto, polemizzando proprio con Sciascia. Ancora una volta Consolo ha scelto, programmaticamente, una via lontana da quella di Sciascia, e l’ha fatto anche quando lo cita, poiché nel Sorriso ci sono molti rinvii a Il Consiglio d’Egitto e a Morte dell’inquisitore. Consolo non voleva una letteratura tutta razionale, e l’idea di sfregiare il quadro per amore corrispondeva alla vitalità, alla passione che Consolo in Sciascia non trovava poi tanto. Il progetto di stile di Consolo è, se non opposto, molto lontano quindi da quello di Sciascia. Nell’Archivio ho ritrovato tutte la corrispondenza relativa all’edizione del primo romanzo: essa mostra un processo molto importante di questo giovane scrittore che sta acquisendo la consapevolezza di essere uno scrittore e combatte per difendere la propria opera. Consolo si rivolge anzitutto a Basilio Reale, un importante intellettuale – a sua volta poeta e soprattutto psicanalista – cha è stato colui che ha portato il manoscritto alla Mondadori, e attraverso questo carteggio e anche altre lettere – per esempio gli interventi dei lettori editoriali – si può ricostruire tutto l’iter della pubblicazione. Ma c’è ancora molto da fare, perché per il momento mi sono limitato a fare solo una sintesi per spiegare lo stato di questi dattiloscritti: possediamo non soltanto il dattiloscritto della prima versione, che possiamo confrontare con quella finale, ma anche due dattiloscritti uguali: in uno ci sono le note dell’amico Basilio Reale che suggeriva cambiamenti, nell’altro ci sono sia gli interventi suggeriti da Raffaele Crovi, editor alla Mondadori, sia le controcorrezioni di Consolo. Questi a volte cambiava in base alle richieste dell’editore, a volte effettuava delle scelte ancor più radicali. C’è quindi il dattiloscritto, ci sono le varianti interlineari, quelle a margine e quella sul verso dei fogli dattiloscritti, dove Consolo riscrive il pezzo a penna. Attraverso questi documenti preziosi si può vedere com’egli costruisse piano piano la misura ritmica, perché alle volte scrive un testo quasi identico: copia alcune righe ma cambia qualche pezzetto, cerca la misura giusta: è lo spettacolo del “farsi in diretta” della scrittura. 21 Inoltre nelle carte delle Pietre di Pantalica ho trovato un racconto totalmente inedito, di cui anche Caterina Consolo ignorava l’esistenza: un racconto che è un segno del progetto cambiato e di una parte di questo progetto, un racconto che c’è nell’apparato del Meridiano e si intitola L’emigrante. C’è un certo Vito – probabilmente il Vito Parlagreco di cui parlavamo prima – che sta emigrando a Milano. Poi forse Consolo ha ritenuto che spingere anche verso l’emigrazione lo allontanava troppo da quel territorio siciliano in cui doveva restare la rappresentazione. Però questo ritrovamento è davvero molto interessante: c’è un racconto, non dimenticato ma messo da parte, dell’emigrante che arriva a Milano e vede dal suo punto di vista soggettivo la città.


Conférence du Professeur Gianni TURCHETTA de l’Université Statale de Milan qui s’est tenue à Nancy, le 8 Mars 2016 sous invitation et organisation de Laura Toppan, MCF en Italien (transcription de la conférence enregistrée et du dialogue avec le public par Laura Toppan)