Dopo La grande vacanza
orientale-occidentale (2001) e Il prodigio (2014), le Edizioni
Libreria Dante & Descartes di Napoli, nel piccolo formato che le
contraddistingue, consegnano, in questo luglio del 2020, un testo di
Vincenzo Consolo intitolato Memorie, già pubblicato nella raccolta di
saggi La mia isola è Las Vegas (Milano, Arnoldo Mondadori,
2012).
Questo prezioso libricino gode della prefazione di Claudio Masetta Milone, uno dei soci fondatori dell’associazione «Amici di Vincenzo Consolo», collaboratore anche con il Centro Studi iniziative culturali Pio La Torre, di Palermo. Claudio Masetta Milone è anche uno dei fondatori della «Casa della Letteratura di Vincenzo Consolo» a Sant’Agata Di Militello, paese natio dello scrittore.
A scanso di equivoci e senza
nessun compiacimento verso le proprie motivazioni, Vincenzo Consolo chiarisce
ciò che intende con il vocabolo «Memorie»:
Avrei potuto, o potrei, giunto
alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al
di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile,
piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere
(p. 5).
Rievocando il rapporto
esistenziale che lega lo scrittore al suo paese di origine, Claudio Masetta
introduce dialetticamente la tematica memoriale, quasi creasse un dialogo tra
sé, il lettore e lo scrittore: «Fare memoria significa essenzialmente narrare»
(p.12). Ma come nasce la narrazione? Nasce innanzitutto dal bisogno insaziabile
di Consolo di ascoltare di nuovo i minimi particolari della sua zona, che siano
geografici, umani, sociali o linguistici. Precisa Claudio Masetta: «L’ascolto
dei fatti santagatesi era lo scoglio da cui, ogni volta, la narrazione spiccava
il volo, nello spazio e nel tempo» (p.12-13).
Ricorrentemente desideroso di
definire la propria identità di uomo e di scrittore (ciò che fece in molti
scritti), Vincenzo Consolo evoca la posizione geografica di Sant’Agata Di
Militello. Comune sito a mezza strada tra Messina e Cefalù, la zona divide la
Sicilia orientale, la Sicilia greca, terra di miti, la cui espressione si
svolge prevalentemente «in forme poetiche, in toni lirici, in scansioni
musicali (p. 25), dalla Sicilia occidentale, influenzata dagli Arabi, un’area
segnata dalla storia, dai molteplici colonizzatori, dai conflitti sociali, e «che
si esprime in forme prosaiche, in toni discorsivi, in scansioni logiche» (p.
26).
Su questa «immaginaria linea»
(p. 27), data la posizione di Sant’Agata di Militello, su questo crinale, nasce
la poetica consoliana.
I ricordi, le memorie legati
a Sant’Agata, pur cari che siano, pur essendo il crogiolo di alcuni suoi
racconti, non bastano a soddisfare la sua creatività che si estende «alla
Sicilia tutta, all’Italia, al Mediterraneo e oltre, (…). Ma [si dispiega] anche
dal presente al passato – o sarebbe meglio dire – ai passati dell’isola»
(Claudio Masetta, «Prefazione», p. 13).
+
Il tono si fa man mano più
grave e le domande incalzanti. Quasi con trepidazione, Vincenzo Consolo chiede
a se stesso: «E allora: perché scrivo? Ma perché scrivo in prosa? E perchè
scrivo romanzi o racconti di contenuto storico o sociale» (p. 36). Permeato
dalla superiorità della poesia, si riferisce a componimenti di poeti maggiori
(cita qualche verso della «Ginestra» di Leopardi, allude al poemetto di T. S.
Eliot, «La terra desolata», alla raccolta di Eugenio Montale, Ossi di seppia,
nonché al suo componimento «La bufera»). Consolo si arrende alla constatazione
non priva di rammarico, che non è stato eletto a questo registro:
Scrivo dunque di temi relativi, contingenti, perché
non sono poeta, perché non sono un fanciullo, perché non sono re (non faccio
parte, voglio dire, non sono detentore del potere). Solo i poeti infatti, i
fanciulli e i re possono affrontare gli assoluti, immergersi naufragare
nell’infinito mare dell’esistenza (p. 37).
Fra queste linee, traspare la
figura del viceré Casimiro, personaggio centrale della favola teatrale Lunaria
(1985), opera in cui Vincenzo Consolo si avvicina maggiormente al mito e alla
poesia. Casimiro, essere malinconico e lunare, a metà strada tra re-fanciullo e
poeta, in grado di capire, fino ad un certo punto, la lingua poetica, edenica
di San Fratello (vicino a Sant’Agata), vero baluardo utopico contro il
disfacimento della corte palermitana, su cui regna Casimiro da troppo
tempo.
Come non pensare agli
eccentrici Casimiro e Lucio Piccolo, poeta quest’ultimo che affascinava Consolo?
Sul dritto filo di queste
parole, in un altro breve scritto, «Considerazione sulla forma racconto», in Prodigio
(Edizioni Dante & Descartes, 2014), ricorda la sua scelta narrativa:
…l’unico racconto praticabile mi sembra quello
storico-metaforico (…) ; che un modo per praticare ancora una letteratura
non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di
restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia : riaccostarlo, per
irriducibile, al linguaggio liturgico dei poemi (p. 25).
Consapevole di essere
cresciuto e vissuto per anni in bilico tra Oriente ed Occidente, tra mito e
storia, tra natura e cultura, Vincenzo Consolo approda al nucleo della sua
ricerca letteraria:
E non è questo poi l’essenza della
narrazione ? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di
ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e di poesia ? Non è
questo ibrido sublime, questa chimera affascinante ? (p. 50-51).
Non si può parlare
dell’identità letteraria di Vincenzo Consolo senza evocare il terzo polo
d’influenza della sua poetica: la città di Milano, dove si trasferisce nel
1969. Andirivieni incessanti tra la capitale lombarda e la sua isola ritmano
d’ora in poi la sua vita e la sua produzione. A questa città «progredita, ricca
e allettante, ma anche dura, ma anche pretenziosa» (p. 52-53), Consolo oppone
un orgoglioso riserbo, pur essendo aperto ai fermenti e alla cultura della
metropoli europea. Ma ha continuamente l’attenzione rivolta ai fatti siciliani.
L’attualità di questo ultimo
ventennio è prevalentemente segnata dal fenomeno migratorio. È da tempo giunto
il momento per l’Europa di aiutare popoli che soffrono per le guerre, per le
malattie e la povertà. Le ricchezze si devono oramai condividere con i paesi
più poveri e l’ordine mondiale viene totalmente travolto da questa urgente
necessità. La Grecia e la Sicilia sono le porte di ingresso verso questo nuovo eldorado.
Ventuno anni fa, nel 1999, Vincenzo Consolo era uno tra i pochissimi
intellettuali ad affrontare questa questione nella sua raccolta di saggi Di
qua dal faro (Milano, Arnaldo Mondadori Editore), nel capitolo «Uomini
sotto il sole» (p. 227). Scrive:
Di questi esodi massicci e incessanti le cronache
di ogni giorno ci consegnano tragici episodi: di clandestini soffocati dentro
stive di navi; d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescicani; di bambini
assiderati nei passaggi notturni per valichi montani; di carghi colati a picco
con dentro il loro carico umano; di criminali che trasportano su gommoni e
abbandonano sulle spiagge masse di disperati.
Claudio Masetta ricorda i
momenti trascorsi a parlare con Consolo, in conversazioni in cui la questione,
specie
dacché la Libia è in guerra,
dei profughi riaffiora. Parlano di cultura greca, ma non solo, e di un presente
ostile che provoca l’ira dello scrittore contro il ricordo del tempo
dell’ospitalità siciliana che fu:
E della cultura mediterranea che, (…), si è sempre
sviluppata sotto il segno dell’accoglienza. I fatti di cronaca odierna,
l’innalzamento di barriere laddove un tempo c’erano spiagge d’approdo di
innumerevoli naufraghi che, una volta a terra, nella sua Sicilia, potevano
dirsi sicuri di trovare accoglienza, lo avrebbero fatto urlare di sdegno e
vergogna.
Amava cercare i segni di questa antichissima
tradizione di ospitalità siciliana. Si entusiasmava alle prove dell’avvenuta
integrazione, sul suolo siciliano, di culture e tradizioni diverse (p. 15-16).
Claudio Masetta riporta, in
confidenza, sempre con valore didattico per il lettore, un aneddoto
interessante su questo argomento: quello del santuario della Madonna Nera di
Tindari che è sito nel grandioso golfo di Patti, in provincia di Messina.
Tindari è stata costruita nel 396 A. C. da Dionisio I°, tiranno di Siracusa, al
fine di fronteggiare gli attacchi dei Cartaginesi. Il suo nome originario era Tyndaris.
A picco sul mare, il santuario raccoglie quella singolare Vergine bizantina
nera con il bambino, alto simbolo di accoglienza dei naufraghi, la quale impedì
alla nave che la trasportava di ripartire sul mare, così evitando l’inesorabile
naufragio dovuto alla tempesta.
E Claudio Masetta,
restituendoci lo scrittore Consolo nella sua intera dimensione umana e
umanistica: «Aveva una collezione di santi neri, Vincenzo. Amava quella
collezione come simbolo di felice integrazione» (p. 18).
Con particolare
acuità, Claudio Masetta insiste per ultimo sul bisogno di trasmettere alle nuove
generazioni le chiavi del linguaggio così particolare di Vincenzo Consolo:
al tempo stesso popolare ed erudito. Non si entra facilmente nella prosa
consoliana e lui lo intuiva, lo sapeva. Tanti incontri fece con giovani di
liceo o freschi universitari, molto spesso confrontati al suo linguaggio
stratificato, complesso, a volte criptato. Ma non era mai semplice esercizio di
chiarimento di tale passo, pur studiato nei particolari. Il pubblico liceale o
universitario era da lui prediletto perché vergine da alcun a priori sul
linguaggio letterario. Si dilettava di questi incontri con il giovane pubblico,
quasi dovesse concretizzare la propria vocazione di pedagogo.
Al di là però, si trattava
sempre di infondere ai giovani una certa conoscenza della letteratura
siciliana. Consolo amava tramandare la memoria, e così scrive Claudio Masetta:
«la memoria attraverso la narrazione era per lui fatto da condividere. In modo
particolare con i giovani, a cui si rivolgeva, verso i quali amava riversare il
racconto della Sicilia, della storia, ma soprattutto della letteratura» (p.
19-20).
Per concludere, il libretto Memorie,
racchiude molto del pensiero di Vincenzo Consolo, un pensiero mai uniforme,
così come sono molteplici e variegate le forme della sua espressione letteraria
e della sua poetica.
Claudio Masetta Milone, nel
riproporre la lettura di questo testo, nel sollecito ascolto delle parole
dell’amico scrittore, nel trascriverle, ha il merito (tra tanti altri), di
contribuire in modo originale, ad una più ampia conoscenza del pensiero
universale di Vincenzo Consolo, e a ravvivarne le idee umanistiche con luce
odierna.
La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto: una lettura di Vincenzo Consolo, di George Popescu Literatura Italiana
Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che tra l’altro sono vere e proprie arti poetiche, manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità del pensiero, capaci da se’ di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase, da ogni parola a parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzi tutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose. O amor, Jacopo Tintoretto – Museu de Colônia Quella disponibilità, quella chiarezza e sopratutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo. La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardano il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato ad un certo momento di un carattere “intellettuale” della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Tra l’altro perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – che purtroppo esiste una allucinante arte di consumo che si rivolge prevalentemente ad un fruitore pigro, andando sempre verso le sue aspettative più facili, verso la sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere alla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni. Detto questo, vorrei iniziare, sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica. Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: Mi interessava – afferma lui – il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo. C’è già tutto qui: la scelta della “tematica” e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario. Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, da chi, per chi e di chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e via discorrendo. E proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella beniaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola.: …un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera. Una metafora, questa beniaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla in faccia; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto ove anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare a trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita… Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di farci avvisare su qualche via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo contare. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molti, voglio dire, molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in un secondo luogo, operazione difficile perché, proprio nel caso speciale di uno scrittore che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una specie di filo conduttore nella esegesi della sua opera sarebbe ancor una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa. Apriamo un’altra strada: Ecco, prese casualmente, altre alcune citazioni dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali…. Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte tra tante ma poi, vedremo qual era il criterio impegnato in quella scelta. Invece molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Beniamino: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato “di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese”. Cosa significherebbe pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatoria. Quel mondo quindi situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scatena sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male… Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto.Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale * . A proposito di Eliade, si può riflettere ad un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptare alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio il centrare del margine; come un massimo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di far andare al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere difficile. Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per l’altro è anche una metafora di estrazione romantica e, poi, in particolar modo, nietzscheana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre nel punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzializza la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano. Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni. Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere antico, come destino. In Sicilia [afferma l’autore] si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto. E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di una’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. E di nuovo la parola dell’autore: Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale… Conclusione, una fra tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro. Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quel ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E di cui le immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne), sono un po’ il corrispettivo, della profondità della lingua e della profondità della storia è già un altro punto di partenza nell’approfondire l’opera consoliana. Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione, riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro. Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza nell’interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi. La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato ad una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità di poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che resta – in quanto deve restare – ancora un mondo da interrogare, tramite un confronto sempre aperto alla coscienza del lettore… Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di se’; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci. Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, tramite un’idea che l’abbiamo incontrata anche in Consolo, a proposito di un altro argomento, ma non così staccata, l’idea voglio dire, da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico. Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si va in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perche’ coll’avvicinarsi il topos, l’isola cambia il nome, vuol dire anche l’identità. Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme incitante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò necessitante di non una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente. Angelus novusi, Paul Klee – The Israel Museum, Jerusalém Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora beniaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per quella bufera che lo sconfigge. Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un passeggio, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo l’interrogarsi come la soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro. Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone ne’ per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), ne’ per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito. In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per il suo intero lavoro e che si può chiamare la testualizzazione del reale e che vuol dire un tentativo di trasmutazione, nel logos, quel ontos che possa essere preso come topos, ipogeo, nostos che dir si voglia.
19 maggio 2020 George Popescu Poeta, tradutor e professor de Literatura Italiana da Universidade de Craiova * Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.
Racconta Maxime du Camp che Alexandre Dumas
seguì l’impresa di Garibaldi, da Marsala a Napoli, inviando corrispondenze a
Parigi, con lo scopo di ottenere, ad Unità avvenuta, la direzione degli scavi
di Pompei. L’aspirazione di Dumas
scaturiva certo da quel fervore per il mondo antico che i diari dei
viaggiatori, a partire dal Settecento, avevano suscitato. E nella Francia
dell’Ottocento particolarmente, dove Rivoluzione e Impero napoleonico avevano
preso a modello l’antichità classica. I
viaggiatori stranieri avevano anche fatto aprire o riaprire gli occhi ai
meridionali sulla ricchezza archeologica della loro regione: avevano fatto
vedere quello che per troppa vicinanza era diventato invisibile. Ma oltre i templi e i teatri, le città
tornate “al celeste raggio / dopo l’antica oblivion”, quei viaggiatori non
potevano far vedere un altro grande patrimonio, più antico dei ruderi greci o
romani, remoto, secondo Propp, che è la cultura popolare in genere e la
tradizione della fiaba in particolare.
Per conoscere questo patrimonio, bisognava sostare, imparare la lingua
dei parlanti, raccogliere dalla viva voce dei popolani canti, proverbi, motti,
e soprattutto il racconto favoloso o leggendario, fissarli nella
scrittura. C’erano stati sì in passato
illustri “favolisti” italiani: da Giambattista Basile, il cui Lo cunto de li cunti s’era diffuso per l’Europa, era stato
forse letto da Perrault, imitato da Quevedo e Gianfranco Straparola, a Carlo
Gozzi, a Pompeo Sarnelli. Ma questi autori avevano “ricreato” il racconto
popolare, avevano scritto delle “loro” fiabe.
Quelli che gettarono le basi della nuova scienza folklorica, di questa diversa
archeologia, furono gli straordinari fratelli Grimm. Le loro Fiabe
del focolare erano in qualche modo la fedele restituzione scritta del
dettato popolare. Gli studi di folklore
o di demopsicologia, dopo quel primo impulso germanico, si svilupparono in vari
paesi d’Europa. Ma in Italia sembrava regnare il silenzio. Così lamentava Giuseppe Pitrè nella
prefazione alla sua raccolta in quattro volumi di fiabe siciliane: Il movimento intellettuale iniziato dai
Grimm fu indi a non guari seguito in Germania e fuori: e molte furono le
novelle e le tradizioni d’ogni sorta messe in luce dopo il 1812 […].A tanto
fervore di studi l’Italia non ha preso parte veramente attiva. Beh ha dato
molte e ricche raccolte di canti popolari, ma una raccolta di novelle con
gl’intendimenti scientifici che guidarono gli studiosi delle altre nazioni,
fino a pochi anni addietro essa non l’aveva ancora […] Prima che noi sono stati
gli stranieri a darci l’esempio del come s’abbia a fare dove non s’è voluto o
potuto fare. Li fa i nomi, il Pitrè,
degli studiosi stranieri che in varie parti d’Italia – a Venezia, a Livorno,
nel Tirolo, a Roma – hanno raccolto fiabe, le hanno tradotte e diffuse nei loro
rispettivi paesi. “Novantadue ne raccoglie nelle provincie di Messina e Catania
la signora Laura Gonzenbach” scrive. È
dunque la prima, la Gonzenbach, ad arare in quel campo della novellistica
siciliana, di una popolazione in cui il retaggio di più culture aveva reso
quanto mai ricchi, variegati canti, usi, costumi, racconti orali. Su questo patrimonio il Pitrè lavorerà,
stenderà quella sua vasta Biblioteca
delle tradizioni popolari siciliane. Insieme a lui, o dopo di lui, tanti
altri, da Lionardo Vigo a Salvatore Salomone-Marino, a Serafino Amabile
Guastella, fino a Giuseppe Cocchiara e oltre. A questo patrimonio popolare
attingeranno gli scrittori veristi siciliani.
“Potresti indicarmi una raccolta di Proverbi e Modi di dire siciliani?”
chiedeva da Milano Verga a Capuana nell’accingersi a scrivere I Malavoglia. Chi era la pioniera della favolistica
siciliana, chi era quella Laura Gonzenbach che nel 1870, cinque anni prima
delle Fiabe, novelle e racconti del
Pitrè, pubblicava a Lipsia Sicilianische
Märchen? Poco si sapeva di lei: il
terremoto di Messina del 1908 ne aveva cancellato la memoria, disperso i testi
siciliani delle fiabe da lei raccolte.
È stata la studiosa Luisa Rubini, curatrice di questo volume, a far
riscoprire da noi Laura Gonzenbach con il suo saggio dal titolo Fiabe e mercanti in Sicilia – La raccolta di
Laura Gonzenbach – La comunità di
lingua tedesca a Messina nell’Ottocento (Olschki, Firenze 1998), le cui
linee essenziali vengono riprese nell’Introduzione che segue. Uno studio, quello della Rubini, ampio,
accurato, con vasto apparato di note, di riferimenti bibliografici. Apprendiamo
così dalle notizie sulla vita di Laura Gonzenbach, e su quella della sorella,
la pedagogista Magdalena, che questa giovane intellettuale, nata a Messina
nella comunità svizzera di lingua tedesca, collegata con studiosi come Hartwig
e Köhler, era andata, nella sua ricerca etnologica, nel senso opposto a quello
in cui sarebbe andato il Pitrè, come conferma la lettura di queste fiabe.
Il Pitrè e i suoi epigoni avevano per molti
versi mitizzato il mondo popolare siciliano, creduto il primitivismo sede del
candore e della bontà.Scrive Calvino:Nei folkloristi del secolo passato […] la
scienza si colora delle suggestioni culturali che presiedettero alla sua
nascita: da una parte il mito rousseauiano d’una vita secondo natura a cui il
popolo sarebbe rimasto vicino […]; dall’altra l’esaltazione romantica delle
radici profonde dello spirito nazionale, di cui il volgo sarebbe stato custode
nelle sue tradizioni. Mito e nazionalismo: due brutti scogli insomma. Contro i
quali andarono a sbattere il Pitrè ed altri intellettuali siciliani al momento
della pubblicazione dell’Inchiesta in
Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (1876), in cui appariva la
parola mafia. Hartwig, che aveva elogiato quell’inchiesta, fu bandito dalla
bibliografia dell’opera di Pitrè. Capuana arrivò a scrivere un pamphlet contro quell’inchiesta, in
difesa del buon nome della Sicilia. La direzione opposta – direzione
illuministica – per cui va la Gonzenbach, la si vede soprattutto in due fiabe
qui pubblicate: vi si parla di uno stupro e di un prete che vuole sedurre una
fanciulla. In Pitrè i due argomenti sono velati, le due fiabe nella sua
raccolta censurate.
Laura Gonzenbach nacque nel 1842 a Messina in seno alla locale comunità di lingua tedesca, dove trascorse gran parte della sua vita (morì a Napoli nel 1878). Raccoglitrice di racconti storici, fiabe e leggende delle classi popolari della Sicilia ottocentesca, proveniva da una famiglia di colti mercanti originari della Svizzera. Seguiva, insieme alla sorella Magdalena, il dibattito europeo sull’emancipazione femminile. Il suo lavoro di raccolta delle tradizioni orali dell’isola rappresenta una delle rare opere folkloriche ottocentesche realizzate da una donna.
Che fu? Che fu? Che fu? Fu furia furente, furore che scorre e ricorre, follia che monta scema che trascorre, farandola frenetica, girandola che vortica, si sgrana nel suo cuore, si spiuma nell’ali di faville, si dissolve in scie di pluvia spenta di lapilli. Fu fu fu, fumo vaniscente…
Ho scoperto Vincenzo Consolo per via del Ritratto d’uomo o d’ignoto marinaio di Antonello da Messina, conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, dove sarei andato a trascorrere le mie vacanze siciliane. Sul ritratto si era soffermato Consolo pubblicando nel 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, da molti considerato il suo capolavoro. E’ mio vezzo da sempre leggere in vacanza libri che riguardano il luogo dove mi trovo. Scoprire Consolo mi ha dato una grande opportunità. Cosi ho cominciato con Le Pietre di Pantalica, una raccolta di racconti pubblicata nel 1988. Pantalica in provincia di Siracusa, che conoscevo perché fino al 2003 vi si è disputato un trofeo ciclistico internazionale, è una necropoli rupestre formata da migliaia di grotte scavate fra il XIII e l’VIII secolo a.C.
I primi racconti sono frammenti per un possibile romanzo ambientato all’epoca dello sbarco degli americani in Sicilia. Si svolgono tra Gela, Licata e Mazzarino. Guatarono sulla strada quella gran tartuca di ferro, quella cùbbula possente, quel bufone meccanico col cannone sulla testa che avanzava lasciando dietro una coda di fumo e polverazzo. Videro le stelle bianche stampate sopra i fianchi e la bandiera floscia in su la cima dell’asta sopra il parafango. Che è che non è, capirono finalmente che si trattava d’essi, dei Mericani...
Da subito dunque Consolo intriga per quel suo linguaggio che lo rende assai diverso, più diretto, rispetto a quello artificiosamente siculo di un Camilleri.
Nella Mazzarino invasa da inglesi e americani lo scrittore ci introduce un fotografo ungherese al seguito delle truppe, uno che odiava la guerra, lo schifo della guerra e lo schifo dei fascismi e delle dittature che provocano le guerre. Ecco che Consolo regala al lettore una figurina (da alcune pagine si è capito che si tratta di Robert Capa), sperando che il fotografo ungherese, saltato su una mina a Thai Binh, in Indocina, un pomeriggio di maggio del ’54, approvi dal suo cielo, col suo sguardo ironico, il mio gesto.
Consolo si sofferma sulla chiamata alle armi del dopo 8 settembre ’43, quando si cercò di ricostituire qualcosa che somigliasse a un italico esercito. Arrivano le prime cartoline precetto: Rocco Ansaldi, al centro, con lo zolfanello diede fuoco alla sua carta di precetto, e alzò in aria, per una punta, alta la fiamma. Tosto l’imitarono i fratelli; tutti l’imitarono di poi, e nella piazza, tra voci e sghignazzi, fu un ballo di fiamme, brevi come fuochi di paglia. Le cartoline rosa si fecero di cenere.
Nella Mazzarino di Consolo compaiono personaggi pittoreschi come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, che sul letto di morte si fece leggere il Decamerone. Il medico Giunta, don Turiddu Bartoli e don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione. E più di tutti piace la baronessa donna Elisa Accàttoli, elegante, ma d’una superbia tale e d’una prepotenza, e pardessù d’una sboccataggine, che pareva ci avesse sotto due cose come un uomo.
E’ proprio la Sicilia che volevo conoscere e che ho trovato in questo e altri scritti di Vincenzo Consolo che poi filosofeggia attraverso il personaggio di Vito Parlagreco (“Ma che siamo noi, che siamo?… formicole che s’ammazzan di travaglio… Il tempo passa, ammassa fango, sopra un gran frantumo d’ossa… E resta come segno della vita che s’è trascorsa, qualche fuso di pietra scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra… Un cimiterio resta, di pietre e ciaramìte mezzo a cui cresce, a ogni rispuntar di primavera, il giaggiolo, l’asfodèlo”). Sono racconti che vanno letti con attenzione per assaporare tutto lo humour che lo avvicina a Pirandello e agli scrittori siciliani che lo hanno preceduto. In altre pagine ci parla di intellettuali siculi, Sciascia, Buttitta, Antonino Uccello, Lucio Piccolo e ci porta a spasso per la costa nord, tra Palermo e Messina, così scorrono Naso, San Fratello, Capo d’Orlando, Sant’Agata di Militello che è il suo paese di nascita. Entrano di diritto nella narrazione la poesia, il teatro, la storia, l’archeologia. Sempre critico verso la sua Sicilia, abbandonata ben presto per vivere e lavorare a Milano, Consolo scrive righe allucinanti su Palermo: Palermo è fetida, infetta. In questo luogo fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti sopra Bellolampo.
Sembrano frasi scritte oggi, a luglio 2016. Della sporcizia e fatiscenza di Palermo sono stato recente testimone. Purtroppo. Ma è possibile che lì nulla cambi mai? Aveva ragione Tancredi, il nipote del principe di Salina che gattopardescamente aveva detto “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Questa è la Sicilia ancora oggi. E c’entra – l’oggi – nel Memoriale di Basilio Archita, il racconto che narra di un mercantile su cui si sono imbarcati di nascosto dei clandestini africani: Il capitano confabulò con gli ufficiali; il secondo comunicò poi a tutti che avrebbero buttato i negri in mare. L’oggi, appunto.
E infine nel racconto Comiso Vincenzo Consolo lascia una sorta di testamento nei confronti della sua terra: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato… Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto… Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.
Cervantino contro i padri illuministi: Consolo e la Spagna
Sciascia, Moravia, Calvino, usciti dal fascismo e dalla guerra, avevano scelto la Francia dei lumi come cultura di elezione: Vincenzo Consolo opponeva loro il dissesto del mondo e la dolce follia rappresentati dai classici spagnoli, in primis Cervantes
Vincenzo Consolo nel 1998 foto Giovanna Borgese
Vincenzo Consolo aveva il viso levigato come un ciottolo marino. Un viso bello e lucente. Nel parlare la statura della sua persona, certo non alta, aumentava. E un sorriso pieno di sottintesi si faceva strada, e tu lo guardavi e ne eri contagiato. Forse Vincenzo sorrideva per gioco, e quel gioco veniva voglia di farlo anche a te. Se gli stavi vicino, seduto con lui allo stesso tavolo, non potevi non sentirne l’energia; così tanta che ti sembrava a volte che il suo corpo tremasse, soprattutto le mani. I suoi furori civili emergevano netti. E capivi che oramai non si sentiva a casa da nessuna parte. Però la sua vera casa era chiaro dove fosse: in Sicilia, non c’era nessun dubbio. Ma lui si era fatto maestro dei dubbi, e per anni aveva viaggiato come se fosse stato in una fuga continua. Ma non si pensi solo alla fuga di chi scappa, di chi non riesce a stare in nessun luogo; si pensi anche alla figura musicale della fuga. Quella che lui cercava era una polifonia geografica, dentro la quale i luoghi si versavano l’uno nell’altro, e il Nord e il Sud perdevano i loro connotati primari e ne assumevano altri, dai quali lo scrittore traeva una vasta gamma di sonorità e di ritmi. Manzoni e Verga si davano la mano. Il viso di Consolo somigliava al ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Si tratta di un piccolo quadro, piccolo come spesso piccole sono le pitture di un artista che aveva tutte le qualità per esser considerato anche un miniaturista. Il quadro se ne sta a Cefalù, nel museo Mandralisca; ha una sala tutta per sé, e quando gli capiti dinanzi ti guarda con occhi ambigui; sembra che ti segua; forse sta prendendoti per i fondelli. Per arrivare dinanzi al suo sguardo malandrino, hai attraversato alcune sale, e soprattutto ti sei fermato ad ammirare la collezione di conchiglie che il barone Mandralisca, fervente malacologo, era stato capace di radunare in pochi metri quadri. Mandano barbagli nella stanza in cui sono esposte, e gli occhi si perdono nel gioco di curve che li movimenta. La figura della spirale si fa avanti con prepotenza e la linea retta deve retrocedere (si tratta, si sa, di temi cari al saggismo e alla narrativa di Consolo). È tale l’identificazione visiva che lo scrittore stabilì tra sé e il ritratto di Antonello che a volte viene il ghiribizzo di lasciarsi trasportare nel flusso di un anacronismo fruttuoso e pensare che sia stato proprio lo scrittore di Sant’Agata di Militello a posare per lui. Parlando di Antonello e del barone Mandralisca siamo già entrati, quasi senza volerlo, tra le pagine del secondo libro di Consolo, quel Sorriso dell’ignoto marinaio che fu il frutto di una lunga elaborazione e che venne definito da Leonardo Sciascia come un parricidio. Eh sì, da qual momento Consolo aveva scelto una sua strada che lo distanziava dall’illuminismo linguistico del suo maestro: punto di vista plurimo, stratificazione linguistica, prosa ritmica, inserti di materiali documentali, e soprattutto un modo di considerare la Storia come un’enorme cava dalla quale estrapolare materiali da sottoporre alla traduzione della letteratura. Tutto questo era anche il risultato di uno spostamento dello sguardo: dalla Francia prediletta da Sciascia (ma anche da Calvino, che fu sempre un altro suo punto di riferimento) alla Spagna. L’irrequietezza geografica di Consolo lo aveva fatto approdare al paese del Chischiotte; i suoi pendolarismi tra l’illuminismo milanese (a Milano era andato a vivere quando aveva deciso di spostarsi dalla Sicilia) e il ribollire paesaggistico di una Sicilia girata in lungo e in largo durante i periodici ritorni, lo avevano portato a un’esplorazione fatta per strati ellittici. Un incontro a Messina Della sua predilezione per la Spagna, Vincenzo parlò anche durante un lungo incontro pubblico che avemmo a Messina. Sentiamo cosa disse a proposito. «Devo dire che gli scrittori della generazione che mi ha preceduto, parlo di scrittori di tipo razionalistico, illuministico, come Moravia, come Calvino, come Sciascia, avevano scelto la strada della Francia. Erano passati attraverso la Toscana rinascimentale, soprattutto dal punto di vista linguistico, e oltrepassando le Alpi, com’era già avvenuto a Manzoni, erano approdati alla Francia degli illuministi. La loro concezione del mondo rifletteva proprio questo reticolo della lingua, e non solo della lingua, quella che Leopardi chiama la lingua geometrizzata dei francesi. Questo lo si vede nella lingua cristallina, limpida, che hanno usato questi scrittori. Io mi sono sempre chiesto del perché questi scrittori, che hanno vissuto il periodo del fascismo e il periodo della guerra, abbiano optato per questo tipo di illuminismo, di scritture illuministiche e di concezione illuministica del mondo. Io ho pensato che appunto, avendo vissuto il fascismo e la guerra, speravano, era una scrittura di speranza la loro, speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare. Era la concezione utopica anche di Manzoni, quando immagina che in questo paese finalmente si potesse parlare un’unica lingua. I panni che sciacquava in Arno erano panni che aveva portato già umidi dalla Senna, e mentre li sciacquava in Arno, immaginava una lingua ideale, la lingua attica che era l’italiano comune. Quelli della mia generazione, che hanno visto succedersi al regime fascista un altro regime, quello democristiano, hanno dovuto prendere atto che questa società non era nata, che la società civile alla quale lo scrittore poteva rivolgersi non esisteva, quindi la mia opzione non è stata più in senso razionalistico, ma in senso, diciamo, espressivo. E quindi il mio itinerario mi portava non più alla Francia, ma verso la Spagna. La Spagna, appunto, partendo dalla dolce follia, dalla follia simbolica, dalla follia metaforica del cavaliere errante del Don Quijote, e quindi attraverso tutti i poeti del Siglo de Oro, e quindi anche la letteratura spagnola che Vittorini ci indicava in quegli anni, scrittori non solo sudamericani come Rulfo, o scrittori spagnoli come Cela, o come Ferlosio, tanti altri scrittori del secondo dopoguerra che avevano vissuto il periodo del franchismo. Quindi la mia educazione, sia di contenuti che stilistica, è di tipo spagnolo». Le segrete dell’Inquisizione La Spagna in Sicilia significa anche Inquisizione. Consolo lo sapeva benissimo. E anche lui, come Sciascia, aveva voluto ficcare i suoi occhi nelle segrete di Palazzo Steri a Palermo. Era lì che aveva avuto sede il terribile tribunale e lì erano stati incarcerati i prigionieri. Alle pareti rimangono i loro segni, e spesso sono molto più che segni o semplici graffiti. Si tratta infatti di narrazioni murali, di poesie, di piccoli affreschi monocromi, di grida silenziose. Consolo non poteva non essere attratto da quello che può considerarsi il documento più sconcertante di come si provi a mantenersi umani in un regime disumano. Basta riaprire Retablo – e riaprirlo seguendo la pista spagnola che già il titolo mette in rilievo in modo così palese – per imbattersi nelle prime pagine in una duplicità di sguardo: da una parte c’è la descrizione dell’arrivo del pittore lombardo Clerici nel porto di Palermo: «In piedi sul cassero di prora del packet-boat Aurora, il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittade, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiare d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e di oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade». Dall’altra, nel bel mezzo di quest’incanto, la presenza inquietante di «istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto». Tra questi spicca il «più tristo»: «lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i capi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare». Incanto e tormento: parole che si slanciano a carezzare il paesaggio e parole che sono costrette a documentare l’orrore macchinale di questi obbrobriosi oggetti atti alla tortura. Mai come in Retablo, che usci nel 1987 come numero 160 della collana di Sellerio intitolata a «La memoria», lo scrittore si abbandona al fluire giocoso e serissimo delle parole, al loro sommovimento sintattico, al gusto per la spirale che il barone Mandralisca aveva esaltato nel suo museo di Cefalù. E sempre al centro della narrazione c’è un viaggio, un andare e un cercare insieme dei due protagonisti: Fabrizio Clerici (i disegni del «vero» Clerici adornano il libro) e Isidoro. E di nuovo si rinnova il tacito modello duale di Don Chischiotte e del suo scudiero Sancio Panza, in un processo di «infinita derivanza», che mescola le epoche e che mette le persone le une dinanzi alle altre, e tutte alla ricerca de El retablo dela maravillas cervantino, usato alla stregua di un velo di Maya: «velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza, dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii». Amore e movimento Entrambi i viaggiatori consoliani sono innamorati di donne che non li corrispondono: Isidoro, addirittura, vive in una sorta di deliquio continuo per la sua Rosalia. L’amore li spinge al movimento, a un ennesimo attraversamento della Sicilia, in parte coincidente con quello di Goethe, in parte dissimile. E anche ne L’olivo e l’olivastro avverrà qualcosa di simile. Ma non più in un tempo retrodatato, piuttosto tra le rovine della contemporaneità; e tali sono, in alcuni casi, queste rovine, che lo scrittore decide di «saltare» a piè pari Palermo, la capitale corrotta, il luogo del delitti, lo sprofondo del paese. Ma ci tornerà, ci tornerà con Lo Spasimo di Palermo. E di nuovo saprà individuare il luogo emblematico, quella chiesa senza tetto, dove gli alberi sono cresciuti cercando il cielo. Chiesa di grande bellezza, a segnare un confine dentro il quartiere della Kalsa. Ogni volta è così: Consolo si «consola» proiettando se stesso in un manufatto esterno a lui; ne cerca le rassomiglianza; ne estrapola il dna visivo e se lo inocula. In questo senso fa pensare al grande scultore che compare in Retablo, al «cavalier Serpotta». Chi abbia visitato i suoi oratori palermitani, sa bene di che genio si tratti. Bianchissime figure danzano le loro forme in sequenza. Sono modellate all’infinito, con una tecnica che disdegna il marmo, e fa uso di un materiale più malleabile. Si tratterebbe di stucchi, ma il Serpotta è stato capace di rafforzarli facendo cadere nei punti nevralgici una polverina di marmo. Ma non fa solo figure umane, santi e sante; raffigura anche la battaglia di Lepanto, nella quale aveva combattuto Cervantes. Le navi hanno le vele fatte d’oro, e sembrano anticipare le svelte e filiformi figure di Fausto Melotti. La battaglia viene rappresentata «in discesa», rendendo possibile all’occhio dell’osservatore di gustarne i dettagli e di avere una visione d’insieme. A ben pensarci, Consolo adotta nella scrittura una tecnica simile a quella del Serpotta. Modella la lingua con agilità, conoscendone le verticalità, usando i depositi di lessico scartati dal tempo. E quando è necessario fissa il tutto con una polverina marmorea. Ma torniamo a Cervantes. Per lo scrittore siciliano contava non solo l’opera; lui considerava Cervantes «una figura straordinaria, oltre alla grandezza dello scrittore e del poeta, perché era quello che aveva sofferto la prigionia nei Bagni di Algeri. Aveva scritto due opere, I Bagni di Algeri e Vita in Algeri, proprio mentre era prigioniero, e poi anche nel Don Chisciotte c’è un lungo capitolo intitolato “Il prigioniero”, che è autobiografico, dove racconta la sua esperienza. Lì era stato prigioniero con un poeta siciliano, si chiamava Antonio Veneziano. Si erano incontrati, questi due ingegni, questi due poeti, nella prigione di Algeri, e Veneziano era stato riscattato prima perché pensavano che fosse un uomo di poco valore, mentre avevano intuito che Cervantes doveva costare molto e quindi il suo riscatto avvenne successivamente. In seguito i due ebbero uno scambio di versi, e lo spagnolo scrisse le Ottave per Antonio Veneziano. Cervantes, che aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, ed era stato a Messina, si era imbarcato a Messina, mi era caro anche per questa congiunzione tra Sicilia e Spagna». Leggere Cervantes significava anche spostare il baricentro della narrazione. Dai racconti marini, «dove la realtà svanisce, e dove c’è l’irruzione della favola e del mito», che avevano visto nascere i poemi omerici, al romanzo del viaggio. «Cervantes sposta il viaggio, fa dell’andare, del peregrinare, una cifra che poi adottò Vittorini con Conversazione in Sicilia. Ecco, Cervantes è stato quello che ha spostato il viaggio dal mare alla terra, ed è una terra di desolazione, di dolore – la Mancia – che diventa metafora del mondo». Gli anni ammutoliti E quella terra di desolazione, con il tempo si estende, e lo stesso Mediterraneo che per lo scrittore era stato «uno dei luoghi civili per eccellenza, dove c’era stato un grande scambio di cultura, una grande commistione, una reciproca conoscenza», si contamina, diventa guerresco, riaffiorano le guerre di religione, risorgono i nazionalismi. Sono gli anni in cui lo scrittore si ammutolisce. Continua a viaggiare, ma il suo sguardo ha perso in prensilità. L’arte della fuga perde i suoi caratteri musicali e diventa un andare da una Milano che si desidera abbandonare a una Sicilia che si fa sempre più fatica a riconoscere. Il mondo è diventato casa d’altri. Il velo di Maya gli è stato levato per sempre, pensa tra sé e sé. Forse comincia a dubitare della stessa letteratura, che vede prostituirsi in facili commedie di genere. Però è sempre dalla letteratura che trae i suoi esempi; è da lì che riparte. A Messina, alla fine del nostro colloquio – che ho poi trascritto in un mio libro di viaggi siciliani, intitolato In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, ed edito da Mesogea – disse con il sorriso da ignoto marinaio affiorante sul volto levigato come un ciottolo marino: «Mi piace sempre ricordare una frase che Calvino mette in bocca, ne Il castello dei destini incrociati, a Macbeth». La frase suona così: «Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro».
Tra ricamo e labirinto: l’opera e la scrittura di Vincenzo Consolo
Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che delineano una vera e propria arspoetica, presentandosi come manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità di pensiero, capaci da soli di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo, devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase nel parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzitutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose.
Quella disponibilità, quella chiarezza e soprattutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo.
La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardono il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato a un certo momento di un carattere «intellettuale» della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Anche perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – esiste purtroppo una allucinante arte del consumo rivolta prevalentemente a un fruitore pigro, che va incontro alle sue aspettative più facili, alla sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere sulla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni.
Appunti di lettura. La metafora dell’«angelus novus»
Detto questo, vorrei iniziare sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica.
Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: «Mi interessava – afferma lo scrittore – il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia, e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo». C’è già tutto qui: la scelta della ʻtematicaʼ e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario.
Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, di chi, per chi e da chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e così via. È proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella benjaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola: «… un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera».
Una metafora, questa benjaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla a viso scoperto; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto dove, anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare di trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita…
Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di indicarci quale via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo seguire. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molte, voglio dire, ci sono molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in secondo luogo, operazione difficile proprio perché, specie in uno scrittore come Consolo che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una sorta di filo conduttore nell’esegesi della sua opera sarebbe ancora una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa.
Percorriamo un’altra strada. Ecco, citiamo alcune sue considerazioni prese qua e là dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: «Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali…»
Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte fra le tante, e poi vedremo qual era il criterio insito in quella scelta.
Invece, molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Benjamin: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato «di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese». Che cosa significhi pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale la Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatrice. Quel mondo, quindi, situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti, e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scaturisce sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male…
L’idea di labirinto
Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto. Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: «I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale»*.
A proposito di Eliade, si può riflettere intorno a un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptazione di alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio centrare il margine; quell’arduo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di porre al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere nella difficoltà.
Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per altro è anche una metafora di estrazione romantica e, in particolar modo, nietzschana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre al punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzia la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano.
Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni.
Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere ontico, come destino. «In Sicilia – afferma l’autore – si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto».
E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di un’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. Diamo di nuovo la parola all’autore: «Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale…». Conclusione, una fra le tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro.
Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quell’ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E le cui immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne) sono un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia; è già un altro punto di partenza per addentrarci nell’opera consoliana.
La scrittura come ricamo
Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro.
Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza per interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi.
La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato a una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che rimane – poiché così deve rimanere – ancora un mondo da interrogare, in un confronto sempre aperto con la coscienza del lettore…
La semantica del labirinto
Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di sé; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci.
Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, attraverso un’idea – che abbiamo incontrato anche in Consolo, a proposito di un altro argomento –, ma non così distante da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico.
Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal di dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si entra in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perché avvicinandosi, il topos, l’isola cambia nome, ossia anche l’identità.
Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme stimolante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò bisognosa non di una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente.
Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora benjaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per via di quella bufera che lo sconfigge.
Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un momento di transito, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo porsi degli interrogativi come soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro.
Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone né per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), né per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito.
In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per l’insieme della sua opera e che si può definire come testualizzazione del reale, ossia un tentativo di trasmutazione, nel logos, di quell’ontos inteso come topos, ipogeo o nostos che dir si voglia.
NOTA
* Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.
Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio alla luce di recenti studi
Non a caso il romanzo di Vincenzo Consolo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio è considerato uno dei maggiori contributi alla letteratura siciliana (Barbagallo, G., 2009: 15/6). L’opera narra della rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcàra Li Fusi, all’indomani dello sbarco dei mille. Con una suggestività inconfondibile Consolo dipinge il quadro quasi fatato del paesaggio siciliano: Le montagne erano nette nella massa di cupo cilestro contro il cielo mondo, viola di parasceve. Vi si distinguevano ancora le costole sanguigne delle rocche, le vene discendenti dei torrenti, strette, slarganti in basso verso le fiumare; ai piedi, ai fianchi, le chiome mobili, grigio argento degli ulivi, e qua e là, nel piano, i fuochi intensi della sulla, dei papaveri, il giallo del frumento, l’azzurro tremulo del lino. Consolo, V., 2006: 7 Questa condizione d’eccezionale benessere nasconde tuttavia un mondo dove stanno per scoppiare tensioni profonde, forti ed irresistibili, dove regna il plurilinguismo e multiculturalismo e dove alla maggioranza siciliana si contrappone una comunità araba e all’elitaria aristocrazia si oppone il popolo e il proletariato. Le personificazioni espresse tramite le parole come: “le costole sanguigne”, “le vene discendenti”, “ai piedi”, “ai fianchi”, “le chiome mobili” denunciano un intento molto più che ovvio di animizzare quella terra, di mostrare il dolore subito dal suo corpo mortificato. Paradossalmente, la bellezza dei luoghi non solo menzionati, ma addirittura ricorrenti e presenti nel corso delle azioni diventa testimone degli scenari più sanguinari della storia. Il dramma del paese dei Nebrodi viene reso ancora più commovente quando ci si rende conto della gravità delle convergenze subite dai contadini innocenti durante lo scontro con le forze risorgimentali. Con questo romanzo lo scrittore vuole stabilire la misura del contributo delle masse contadine del meridione italiano nel Risorgimento, il ruolo dell’intellettuale negli importanti momenti storici e finalmente delineare il rapporto tra la letteratura e la storia, tra la memoria e il presente. Il protagonista del romanzo, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato malacologo, descrive gli episodi avvenuti che costituiscono un apporto importantissimo della vicenda risorgimentale, dato che rivelano il suo lato piuttosto oscuro. Presente in quasi tutti i capitoli, funge da coscienza del libro e anche da alter ego di Consolo (Segre, C., 2005: 130). Si può costatare che c’è una specie di appello alle facoltà empatiche del lettore davanti al quale il narratore cerca di svelare il mistero del prezzo che doveva pagare la Sicilia in nome degli ideali risorgimentali. Questa decisa presa di posizione incitò i lettori alla riflessione su un periodo della storia non del tutto glorioso. Il bisogno di raccontare questa storia non è scaturito solo dai ricordi personali dello scrittore, ma anche, o forse soprattutto, dalle riflessioni ispirate dal dibattito culturale svoltosi in quegli anni . Come prima approssimazione si potrebbe dire che, delineando le conseguenze dell’impresa risorgimentale in Sicilia, Consolo abbia ripreso la polemica non solo con la storia stessa, ma anche con la storia letteraria, e in particolare con il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolato Gattopardo. Non solo nel clima e nella rappresentazione dello stesso avvenimento vi si possono scorgere delle analogie. Soprattutto le figure dei protagonisti costituiscono un’esemplificazione di una contrapposizione ben distinta. Don Fabrizio, anche se uomo potente, risulta impassibile mentre osserva gli avvenimenti che hanno contribuito alla storia, invece il barone di Mandralisca, al contrario, soffre questa drammatica realtà che sta accadendo. Gaetano Barbagallo caratterizza il romanzo con l’aggettivo “audace” e si deve acconsentirlo, soprattutto se si prende in considerazione la quasi mitica presenza dell’impresa garibaldiana nella coscienza degli italiani (Barbagallo, G., 2009: 15/06). Consolo entra nella polemica non solo con la rappresentazione dell’impresa unitaria, ma anche con il passato stesso, perché la sua narrazione è stata pensata come una lettura del presente. Come scrive Sandra Mereu, “il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e del terrorismo” (Mereu, S., 2011: 11/08). Nel romanzo si ha un significativo ritorno al passato inteso come metafora del presente. Particolarmente attento al versante ideologico della narrativa italiana, Consolo tenta un’analisi condotta su tempi e luoghi. Lo scrittore svolge un complesso gioco di corrispondenze che simbolizzano soprattutto la crisi di valori. Il sorriso dell’ignoto marinaio diventa il simbolo di un atteggiamento di distacco dalle dolorose esperienze passate. Analogamente, la scelta della struttura narrativa risulta altrettanto simbolica. Consolo rompe la tradizione della stesura del romanzo storico, sperimentando una narrazione disarticolata, dove nel testo vengono inseriti documenti autentici o inventati o verosimili. Adamo, analizzando le strategie narrative impiegate da Consolo (Adamo, G., 2006: 72), definisce questo testo “antiromanzo storico” invece Cesare Segre suggerisce piuttosto la seguente perifrasi: “negazione del romanzo storico” (Segre, C., 1991: 77). Consolo tenta di rendere il testo verosimile mediante un ampio arazzo narrativo degli inserti documentari. Una simile operazione non meraviglia se la si considera come la volontà di intensificare il messaggio storicizzante e, al tempo stesso, l’espressione dell’impossibilità di accettare la realtà contemporanea. Anche per la chiarezza morale e la volontà d’impegno civile Consolo rinuncia al narratore onnisciente per dare la voce ai diversi soggetti che rappresentano punti di vista diversi. Il caso così anomalo della narrativa che induce il lettore a rivelare i segreti servendosi più dell’intenzione che della logica, risveglia l’interesse della critica e della ricerca. L’originalità della scrittura si manifesta, tra l’altro, nella sua poetica. Le didascalie delle acqueforti di Goya, indicate nel testo dal corsivo servono a descrivere gli effetti devastanti invece del racconto vero e proprio della stessa strage dei contadini. Non è tanto difficile rievocare, seguendo anche le suggestioni di Sandra Mereu, l’evidente associazione all’episodio manzoniano del Lazzaretto, quando si legge Carrettate per il cimitero e il nesso tra i monatti in divisa rosa e i garibaldini (Mereu, S., 2011: 11/08). Non solo in questo confronto delle immagini rievocate è leggibile la polemica di Consolo. Un fattore altrettanto suggestivo è la scelta del linguaggio poetico. Consolo decisamente rifiuta la lingua nazionale, identificandola con la lingua del potere, e ricorre all’impiego della lingua parlata da una variante minoritaria per dare omaggio e, soprattutto, per salvare dall’oblio la sorte dei più umili, “traditi da Garibaldi”. La contrapposizione: lingua nazionale — una parlata minoritaria oltre che il valore simbolico della metafora del presente assume il valore della polemica sull’integrazione nord — sud. Sandra Mereu si pone la domanda sull’universalità di questa strategia: “[…] se Consolo avesse scritto oggi quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale — dialetti come simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale?” (Mereu, S., 2011: 11/08). Dal punto di vista del lettore sembra rischioso introdurre un personaggio come Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, intellettuale nell’ambito dove predomina la forza ingenua e incontrollata. Come spiega Vincenzo Consolo in una delle interviste, l’intellettuale dovrebbe caratterizzarsi per una certa responsabilità che consiste nell’esigenza e prontezza di esprimere un giudizio sulla storia e intervenire. Il barone Mandralisca, il protagonista, a causa dei fatti tragici avvenuti nella campagna siciliana nel 1860, lascia la malacologia per rivolgersi alla realtà drammatica. In questo significato il Mandralisca entra in polemica con il Gattopardo e Consolo si oppone a Lampedusa, il quale vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo (Bonina, G., IV: 92). Il clima de Il sorriso dell’ignoto marinaio, in realtà, non è lontano dai fervori della contemporaneità. L’autore stesso ribadisce la contingenza dei tempi evocati nel romanzo e gli anni settanta. È troppo forte il legame con la Sicilia e nello stesso tempo con la sua cultura per cercare di trascurare i fatti della storia, anche quelli scomodi. Consolo riconosce il primato della letteratura e il ruolo dell’intellettuale, il ruolo principale dunque è quello di rivendicare una propria identità. Il romanzo, effetto di un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico, diventa soprattutto un riflesso cosciente del contesto storico, sociale e stilistico. In questa sua scelta Consolo si ispira piuttosto a Sciascia che a Vittorini, perchè i temi presi in considerazione dallo scrittore appartengono al campo storico-sociale. In una sola cosa però Consolo si è distaccato da Sciascia e cioè nella scelta dello stile. Non vedendo una società armonica con la quale comunicare, ha adottato il registro espressivo e sperimentale. La scelta illuministica e razionale sciasciana ammetteva il senso della speranza, invece, la generazione successiva quella del Consolo non la nutriva più. (Sciascia su Risorgimento in Sicilia — Le parrocchie di Regalpetra). In risposta, Sciascia ha nominato Il sorriso dell’ignoto marinaio un parricidio sottintendendo, sicuramente, la frase di Skolvskij, secondo quale, la letteratura è una storia di parricidi e adozioni di zii (Bonina, G., IV: 92). La mimesi del romanzo, espressa tra l’altro, nella figura dell’erudito settecentesco, ha avvicinato il capolavoro di Consolo piuttosto a Verga, Gadda o Pasolini. L’evidente, non attenuata violenza del linguaggio non risente solo la restituzione di una realtà immediata, ma anche la dichiarata volontà consoliana di prendere una posizione nei confronti della storia. Tutto il rapporto che lega Consolo agli scrittori siciliani è posto su un duplice segno. Da una parte l’autore ammette di aver attinto ai suoi predecessori, e non nasconde il debito nei confronti della narrativa isolana, dall’altra invece, indica la scelta della propria, originale strada, la nomina nello stesso tempo parricida definendo così la propria vocazione. Per esempio, da Vittorini, che come saggista è stato ignorato, è stata presa un’altra caratteristica: la precisione della descrizione topografica quasi uguale a quella de Le città del mondo, la troviamo proprio ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Consolo chiama questo atteggiamento “più siciliano possibile […] più acribitico” (Bonina, G., IV: 92). Per dare un quadro trasparente della sua concezione della letteratura Consolo rievoca il parere di Moravia, secondo il quale “scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo” (Bonina, G., IV: 92). Importante che il movimento sia dal libro verso il lettore e che la scrittura abbia più peso e più influsso. Consolo sceglie invece l’aspetto espressivo della prosa, quasi orale, ritmica, basata sulla memoria. Il narratore sembra infatti, l’unico ad aver scelto questa strada della prosa artistica. Basilio Reale, per esempio, anche lui messinese ed esule a Milano nello stesso tempo si dedica però alla poesia. Anche se quasi in ogni libro è possibile rintracciare una trasposizione autobiografica, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio del Consolo ce n’è poco. La Milano contemporanea costituisce per Consolo uno strumento per capire meglio la Sicilia. Grazie al soggiorno e alla vita milanese lo scrittore ammette di essere in grado di scoprire un’altra Sicilia più vera e infelice, toccata dall’ingiustizia e perdita di identità. In questo senso Consolo segue Pasolini, che parlava dello “scandalo della storia”, cioè la necessità della consapevolezza storica per fondare la consapevolezza del presente, della propria identità, della propria dignità (Puglisi, S., 2008: 116). Consolo fa un passo avanti rispetto ai suoi maestri siciliani: tramite i suoi libri varca la soglia della ragione segnata, tra l’altro, da Sciascia, verso l’ingiustizia e lo smarrimento. In una certa misura Consolo consolida l’atteggiamento di Vittorini che voleva che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione rivolgendosi verso un mondo di progresso. Solo che Vittorini credeva in un’utopia, Consolo invece, rappresenta un comportamento pieno di amarezza per un mondo che scende verso i valori più bassi. Il romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato nel 1976 viene definito “il rovescio progressista del Gattopardo” e perciò entra in polemica con l’immobilismo di Tomasi di Lampedusa. L’intento dell’autore, legato indissolubilmente alla storia della propria terra natia, è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, e più dettagliatamente, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. parla addirittura della “convulsa realtà di quegli agiatissimi anni […]. Gli anni delle stragi nere e rosse, dell’esperienza folle delle Brigate Rosse, degli omicidi politici, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro” Consolo ammette più volte di ricorrere volontariamente al genere del romanzo storico e in particolare risorgimentale. Secondo lui, è l’unica forma narrativa possibile per rappresentare in modo metaforico il presente e le sue istanze, la cultura, la scrittura e la letteratura incluse. Consolo stesso scrisse il suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, in omaggio a Sciascia, e in particolare al suo romanzo Morte dell’inquisitore. Però non va dimenticato che alla base della stesura del romanzo vi si trovano almeno tre elementi principali: un’inchiesta sui cavatori di pomice svolta da Consolo per un settimanale, il fascino del quadro di Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto e infine la rivolta di Alcàra Li Fusi avvenuta nel 1860. Quest’ultimo fattore è accompagnato da un dibattito sul Risorgimento così detto “tradito” chiamato altrimenti la Resistenza. Questa plurivocità del romanzo viene sottolineata per di più dalla presenza di documenti variamente manipolati. Un procedimento che rende una narrazione verosimile dal punto di vista della sua storicizzazione, ma che, nello stesso tempo, la nega perchè si prefigge di spiegare i fatti (Traina, G., 2001: 58). I due protagonisti del romanzo devono affrontare, ognuno dalla propria prospettiva, la resistenza del mondo contadino siciliano. Il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, cercherà di comprendere le esigenze popolari, invece l’avvocato Giovanni Interdonato, il deuteragonista, rivoluzionario giacobino, svolgerà la funzione di staffetta tra i vari esuli e i patrioti dell’isola. I due protagonisti si incontreranno a causa della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo e occuperanno due parti opposte: il barone difenderà i contadini insorti e chiederà di aver clemenza all’Interdonato che avrà assunto l’incarico di giudice. Il barone Pirajno di Mandralisca è un aristocratico intellettuale che per certi aspetti può assomigliare alla figura del principe Salina che giudica tutto con un certo distacco, ma qui le analogie si esauriscono. I protagonisti del Lampedusa si instaurano su un forte contrasto, tra l’altro generazionale, invece nel romanzo consoliano la relazione tra i protagonisti è piuttosto di carattere polemico. Con il ritorno al tema del mito risorgimentale Consolo vuole intraprendere una polemica contro chi intende il Risorgimento come movimento omogeneo ed ispirato da una sola frazione. Il Consolo volge l’attenzione del lettore verso le sollevazioni contadine che lottavano contro i balzelli e l’usura. I risvolti vengono imprigionati nel castello di sant’Agata di Militello il quale nel romanzo viene rappresentato come “immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel buio e putridume” (Consolo, V., 2006: 136). Secondo Segre, la metafora della chiocciola attraversa tutto il romanzo rappresentando l’ingiustizia e i privilegi della cultura. Non a caso, il protagonista principale del romanzo di Mandralisca nelle sue ricerche si occupa di lumache. Per non ripetere quello che è già stato raccontato, Consolo rifiuta una narrazione classica e ricorre ai documenti e ai ricordi inventati dei personaggi realmente esistiti con lo scopo di concentrarsi sugli episodi. Grazie a questo procedimento il romanzo storico sfugge alla sua definizione tradizionale per acquisire delle sfumature e dei significati modificati. Negli anni Sessanta è stato ripreso il dibattito sui rapporti tra classi sociali e sulle possibilità di esprimersi da parte di esse. Siccome è stato costatato che le classi oppresse non erano in grado di farsi notare, Vincenzo Consolo, con questo romanzo, tenta di restituire loro, agli esclusi della storia, la propria voce. Secondo Consolo la Storia, l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. Per rendere ancora più trasparente questa divisione delle stesse classi Consolo fornisce praticamente ogni personaggio di un idioma: un brigante recluso parla il sanfratellano, il poco noto idioma gallo – romanzo, le guardie parlano il napoletano, Mandralisca usa un siciliano regolarizzato sul latino. L’italiano viene qui mescolato al dialetto siciliano il che vuole riflettere non solo l’impasto linguistico ma anche quello sociale, culturale, antropologico. In un’intervista Consolo ha affermato: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati” il suo quindi è “un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nella profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano (Falco, A., 2009/02). Beniamino Mirisola nomina addirittura l’opera consoliana il Bildungsroman, indicando nello stesso tempo come il protagonista principale Enrico Pirajno barone di Mandralisca e proponendo la sua prospettiva interpretativa (Mirisola, B., 2012). Pirajno viene rappresentato come un aristocratico, intellettuale, che vive dedicandosi alla sua ricerca da erudito, finché le violente circostanze non lo costringono al confronto con la cruda realtà. Il barone dovrà sacrificare in nome della giustizia e della ragione il proprio patrimonio culturale e spirituale. Il Consolo non si astiene dalla parabola che rende privilegiata la tendenza di interpretare le vicende del protagonista in quanto riflesso delle sue letture ed idee politiche. Il percorso formativo del protagonista, a differenza dei personaggi tradizionali del genere, non è stato rappresentato come il nucleo del romanzo, ma piuttosto lasciato in disparte, in favore della già menzionata dimensione intertestuale ed ideologica. Il suo cambiamento è graduale, avviene a passi lenti. Del suo divenire possono testimoniare i momenti narrativi come quello dell’iniziazione, per esempio: il protagonista si trova su una nave, in viaggio, dunque in movimento, il che riflette la sua condizione: in discesa o ascesa perpetua, come nella scena seguente: “una strada dura, tutta il salita, piena di giravolte e di tornanti” (Consolo, V., 2006: 87). Privo di questo schema dell’evoluzione interiore, sembra che il protagonista, sfugga alla classifica intenzionale che viene subito in mente. E invece, anche se non del tutto fedeli al canone e alle esigenze del genere, il romanzo e i suoi protagonisti risultano assai trasparenti. Il barone Mandralisca si associa al principe Salina. Ne troviamo prove in una serie di interventi di vario tipo che hanno azzardato un’interpretazione sul messaggio contenuto nel romanzo. I teorici, fra cui Corrado Stajano, Antonio Debenedetti, Paolo Milano e Geno Pampaloni non vogliono solo leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma gli attribuiscono le peculiarità seguenti: “antigattopardo” oppure “Gattopardo di sinistra”. Tutti però sono d’accordo che, ambedue gli autori: Consolo e Lampedusa, anche se hanno in comune certi aspetti, non coincidono per quanto riguarda la storia e il suo divenire (Mirisola, B., 2012). Lo definisce bene Cesare Segre, sempre in riferimento alla questione delle analogie tra le due opere: Consolo riprende dal Gattopardo solo lo spunto di un romanzo sulla Sicilia ai tempi dello sbarco di Garibaldi, con al centro un aristocratico che, essendo pure un intellettuale, è particolarmente portato a riflettere sui cambiamenti e a giudicare con qualche distacco, senza venire meno allo stile e alla sprezzatura della sua casta. Consolo, V., 1987: IX—X Il Consolo stesso rimane scettico per quanto riguarda le comparazioni tra i contenuti dei romanzi menzionati e ribadisce la loro futilità nel campo dell’analisi vera e propria del profilo del protagonista. Secondo lo scrittore sarebbe anche troppo rischioso identificarlo con il protagonista. Ammette invece, che le loro voci si accostano, ma solo nella seconda parte del romanzo. Un rapporto che pare ancora più stravagante se riusciremo a rievocare le origini letterarie del protagonista. Va sottolineato che lo scrittore si è ispirato a un personaggio realmente esistito di un nobile cefalutano e in questo modo ha garantito al suo protagonista uno statuto quasi autonomo. L’evoluzione del protagonista rappresentata in modo poco schematico, simbolico e significativo potrebbe essere un’altra caratteristica distintiva che avrebbe contribuito all’atteggiamento polemico verso la tradizione e la rappresentazione fino a quel momento adottata. Il barone di Mandralisca non ha paura di assumere le responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. Probabilmente si tratta di una sfida oppure di un invito a un’ulteriore presa di distanza dai suoi privilegi, dalla sua formazione e persino dalla sua cultura. Bibliografia Adamo, Giuliana, 2006: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. San Cesario di Lecce, Manni. Barbagallo, Gaetano, 2009: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”: i Nebrodi nel risorgimento siciliano, Persone, http://nebrodinetwork.it/wp/?p=125 [l’ultimo accesso: il 12 novembre 2011]. 224 Études Bonina, Gianni, Anno IV, nº 92: Vincenzo Consolo. Padri e parricidi. Vincenzo Consolo: la sua scrittura, le sue opere e il suo rapporto con il lavoro di Sciascia e Vittorini. Tra debiti e superamenti dei modelli letterari. L’intervista, http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=187 [l’ultimo accesso: il 14 dicembre 2011]. : Vincenzo Consolo. Consolo, Vincenzo, 1987: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Consolo, Vincenzo, 2006: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Falco, Annunziata, 2009: I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana, http:// dugi-doc.udg.edu/bitstream/handle/10256/1503/Falco_Annunziata.pdf [l’ultimo accesso: il 15 ottobre 2011]. Mereu, Sandra, 2011: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Libri, recensioni, http://94.32.64.110/www.equilibrielmas.it/website/Menu.php?menu=5244 [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Mirisola, Beniamino: Ragione e identità nel “Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Gli Scrittori d’Italia — XI Congresso Nazionale dell’ADI, http://www.italianisti.it/ FileServices/133%20Mirisola%20Beniamino.pdf [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Puglisi, Sandro, 2008: Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo. Acireale — Roma, Bonanno Editore. Segre, Cesare, 1991: Intrecci e voci. La polifonia nella letteratura del Novecento. Torino, Einaudi. Segre, Cesare, 2005: Tempo di bilanci. La fine del Novecento. Torino, Einaudi. Traina, Giuseppe, 2001: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo. Nota bio-bibliografica Aneta Chmiel è docente di Glottodidattica presso il Dipartimento di Italianistica dell’Universìtà della Slesia a Sosnowiec. Ha conseguito la laurea in lettere nel 1998 e nel 2002 ha ottenuto il dottorato. È autrice di vari articoli sulla letteratura italiana rinascimentale e contemporanea. Ultimamente le sue ricerche si concentrano sulla narrativa di Vincenzo Consolo
Pubblicato dal Centro studi e documentazione Isola di Ustica – Le ossidiane 4 – 2009
“Oltre Lipari, verso Occidente, v’è un’isola in alto mare, piccola di dimensioni, deserta, chiamata Osteode per un caso singolare che vi si verificò” ci racconta Diodoro Siculo. E Vincenzo Tusa, attraverso Diodoro, ci spiega quel “caso singolare”, che fu dei mercenari ribelli, relegati in Ustica dai Cartaginesi, e là morti di fame,ridotti a cumuli di ossa. Ma“Oltre Lipari, verso Occidente, v’è un’isola in alto mare…”sembra riecheggiare i versi di Omero, le parole di Ulisse che rivela al re Alcinoo la sua patria, Itaca. “Bassa nel mare essa giace, ultima/ verso occidente – le altre a parte, verso l’aurora e il sole -,/ irta di sassi, ma brava nutrice di giovani.” Ma Itaca, certo, è la patria sospirata del ritorno, del nòstos, mentre Ustica, se pure anche un’Itaca, è stata l’isola della relegazione, del confino, della coazione. Come lo sono state del resto, nel tempo, le Eolie o le Egadi, come è stata Ponza e Ventotene. E ad Ustica è stato confinato il messinese Pietro Minneci, perché rivoluzionario risorgimentale, partecipe dei moti del ’48 e redattore del giornale patriottico “Procida”. E là, ad Ustica, dopo, vi saranno confinati famosi intellettuali antifascisti: Nello Rosselli, Antonio Gramsci, Bordiga, Berti, Romita.. Sul soggiorno e sull’esperienza di Ustica, dove è stato relegato dal marzo del 1854, il Minneci scrive il racconto Ustica, stampato a Messina nel 1858. E già aveva pubblicato, nel 1851, la raccolta Fiori poetici .
“Quello che ci interessa, egli è il discorrere sui suoi dieci miglia di circonferenza, o per meglio dire, sul miglio di circuito che abbraccia tutti i piccoli casolari che compongono il paese.” scrive il Minneci nell’Introduzione al racconto o, meglio, romanzo Ustica. E definisce l’isola un grande “alveare d’uno sciame d’uomini”, uomini che sono Fratelli dell’Umiltà opochi tuttochè la sventura li ha gettati in questa melma, essi sen vivono come tanti raggi di luce su di un letamaio, essi sen vivono ammaestrando, soccorrendo, purificando gli altri”. Parla di questi uomini di eccezione nell’isola, il Minneci, ma non li qualifica, non dice chi sono. Essi sono i confinati politici, costretti a convivere con i coatti. Sono i rivoluzionari risorgimentali, gli eroi della rivoluzione del ’48, di cui fa parte lo stesso Minneci. C’è qui dunque, nella Introduzione e in tutto il racconto, una sorta di autocensura per non incorrere in più penose condanne da parte del restaurato potere borbonico. Racconta lo storico Raffaele De Cesare nel suo, La fine di un regno, che dopo la rivoluzione del ’48, con la restaurazione, Ferdinando II visitò i capoluoghi del suo regno, convocò i rivoltosi, obbligandoli a ritrattare, e i recalcitranti minacciava con le parole :”Cu vui facimmi i cunti.”
Reticenza dunque o autocensura di Minneci nel definire i confinati politici a Ustica, ma di essi ce ne dà la più luminosa immagine. Della loro solidarietà, della loro umanità, dei sentimenti, soprattutto amorosi, verso le donne dell’isola, verso le loro donne lontane, dell’attesa ansiosa della posta che giungeva, quando giungeva, col paranzello, delle case,del quartigliamento in cui vivevano.
I capitoli per noi più interessanti sono poi quelli intitolati I fratelli dell’umiltà, Il criminale, La società, La tirata. Un vero studio antropologico o rappresentazione sociologica di quella che si chiamava Società dell’umiltà, che era l’antenata della camorra e di quella che dopo l’Unità Leopoldo Franchetti chiamò per la prima volta, nella sua inchiesta in Sicilia, mafia. Minneci ci dice di rituali di quella organizzazione e soprattutto del loro linguaggio, un ragguaglio preciso di quel sottolinguaggio, metaforico, allusivo, che si chiama Baccàgghiu , il gergo mafioso che il Calvaruso ha registrato e che ci dice essere poi penetrato nei bassifondi palermitani.
E ci commuove ancora, in questo romanzo del Minneci, la sua attenzione nei confronti delle donne, soprattutto verso le creature sofferenti, malate per dolore, come l’indimenticabile figura di Lucietta, impazzita per amore. E del resto anche nelle sue poesie, esprimeva questo sentimento e questa attenzione nei confronti delle donne.
Interessante romanzo, questo di Minneci, che ci fa conoscere e amare un luogo, Ustica e un tempo, il Risorgimento, poco conosciuti e oggi più che mai poco frequentati.
Vi fu un’epoca – iniziata in antico e durata fino a ieri – in cui non esisteva ancora l’industria culturale, non esistevano i best sellers, tirature immediate in migliaia e migliaia di copie di un libro, messaggi pubblicitari e imposizioni mediatiche; vi fu un tempo in cui le voci più nuove e autentiche della letteratura trovavano registrazione e identificazione nelle riviste letterarie: palestre, queste, laboratori di ricerca e anche cattedre di maestri conclamati. Erano numerose e autorevoli, queste riviste, di cui alcune sono chiamate oggi “storiche”, riviste vale a dire che hanno segnato una stagione, hanno aperto nuovi e progressivi sentieri letterari. Lunario siciliano è tra queste. Nato, il mensile letterario, nel dicembre del 1927, finiva la sua pubblicazione nel 1931. Nasceva ad Enna, il periodico, era stampato presso la tipografia di Florindo Arengi ed era diretto da Francesco Lanza: una città e uno scrittore che danno subito il segno e il senso della rivista. Enna, intanto, il luogo più estremo del Paese, il cuore della Sicilia, la città che, al di qua o al di là del grande e primigenio mito della terra, al di qua della sua antica storia, aveva ancora una sua attuale storia politica, sociale, culturale. Ad Enna e intorno ad Enna erano ancora vive le presenze magistrali di intellettuali che si chiamavano Napoleone Colajanni e Giuseppe Lombardo Radice; erano i giovani Nino Savarese, Aurelio Navarria, Arcangelo Blandini, Alfredo Mezio, Telesio Interlandi, Corrado Sofia, Francesco Lanza … In quell’epoca di fascismo appena consolidatosi nel Paese, in cui imperioso era il comando di conformare all’astratta idea nazionalistica alla italianità, ogni diversità storica, culturale, linguistica, di cancellare ogni loro segno (con la scomparsa di Giuseppe Pitrè, di Gioacchino Di Marzo e di Salvatore Salomone-Marino, Giovanni Gentile proclamava il tramonto della cultura Siciliana), questi giovani “frondisti” col loro Lunario siciliano, edito ad Enna, rivendicavano una forte identità siciliana, periferica e rurale, una tradizione letteraria, popolare e colta, con cui non si potevano recidere i legami. Rivendicazione che non significava chiusura e compiacimento nella e della diversità (il che avrebbe portato a un più angusto e nefasto nazionalismo, come quello in cui si impelagò il provenzale Federico Mistral), ma imprescindibile punto di partenza, inizio dalla cultura locale per aprirsi alla più vasta cultura nazionale e internazionale, al più attuale dibattito letterario. A questo foglio stampato in un luogo remoto collaboravano infatti autori fra i più autorevoli dell’epoca, vociani e rondisti, da Cardarelli a Ungaretti, a Cecchi, a Bacchelli, e a Falchi, Bartolini, Biondolillo, De Mattei, Centorbi, fino al giovane Vittorini. Enna dicevamo, e quindi Francesco Lanza. Si laurea a Catania il giovane di Valguarnera, con una tesi su Proudhon, il filosofo socialista romantico. Di questo socialismo Lanza rimane convinto e crede che il fascismo dei primordi lo riproponga nel nostro Paese. Si trasferisce a Roma e in questa città collabora alle più prestigiose riviste e a vari giornali, pubblica le sue prime prove letterarie: Almanacco per il popolo siciliano, Corpus Domini, Fiordispina, Storie di Nino Scardino, che s’intitolerà poi, su suggerimento di Ardengo Soffici, Mimi siciliani: il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano (“L’oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all’utopia” scrive dei Mimi Italo Calvino). Tornato in Sicilia nel ’27, dirige, come sappiamo, il Lunario siciliano. Accanto a lui, nei ruoli di redattori, sono due altri “ennesi”: Nino Savarese e Telesio Interlandi. Cattolico, rondista, ma di “assoluta fedeltà a se stesso”, come ha scritto Falqui, Savarese aveva già esordito nel ’13 con Novelle dell’oro e quindi pubblicato ancora Altipiano, Pensieri e allegorie, Ploto, l’uomo sincero, Gatterìa… Il suo umanesimo e il suo cristianesimo l’avevano tenuto critico e distante dal fascismo aggressivo, impietoso e ignorante che in quegli anni sempre più mostrava il suo vero volto e s’imponeva. Il contrasto, la frattura avvenne a causa di una sceneggiatura, commissionata allo scrittore dal regime, sul mondo contadino siciliano, sceneggiatura cinematografica da cui il fotografo-regista Vittorio Pozzi Bellini avrebbe dovuto trarre un documentario. Savarese (e insieme Pozzi Bellini nei suoi appunti fotografici) diede, del mondo contadino siciliano, la più vera e cruda realtà: di abbandono e di miseria, di sfruttamento e umiliazione. La Commissione romana, presieduta da Cecchi, bocciò naturalmente il progetto. Questa vicenda, questa lezione di coerenza e di dignità, è narrata da uno storico del cinema, dall’ennese Liborio Termine (Un eretico innocente). L’altro redattore di Lunario, il chiaramontano Telesio Interlandi, già da tempo trasferitosi a Roma dove dirigeva II Tevere, era, dei tre, più convinto e acceso fascista, convinzione e accensione che lo porteranno più tardi a dirigere l’infame giornale La difesa della razza. Nell’aprile del ’28 Lunario siciliano interrompe la pubblicazione. Riprende quindi a Roma ed è diretto da Telesio Interlandi. Le ragioni del suo trasferimento da Enna nella capitale, della sua stampa nella tipografia de Il Tevere e della avocazione a sé della direzione da parte di Interlandi, crediamo siano dipese da una caduta di assenso, da parte di Lanza e Savarese, a quelle che erano le richieste del regime, e insieme dalla volontà di un maggior controllo sul periodico da parte di Interlandi. Ritorna poi, Lunario, ad essere ripubblicato in Sicilia, a Messina, ed è diretto da Stefano Bottari. Scrive fiduciosamente, il direttore nel suo primo editoriale: “Il Lunario Siciliano” torna ad essere pubblicato nella sua terra, dopo una peregrinazione nella città capitale dal centro dell’isola dove nacque attento al lavoro dei campi, alle memorie degli antichi miti e ai racconti di cavalleria ancora così vivi nel popolo. Esso non muta i propositi di tre anni fa, al suo primo apparire (…). La vecchia anima del popolo siciliano, così ricca di canti non è vinta ancora da ciò che di soffocante è nella civiltà moderna…”. Pubblicherà solo tre numeri il Lunario messinese di Bottari e quindi si estinguerà: al lavoro dei campi, agli antichi miti, alla cultura contadina, alla tradizione letteraria popolare e no, ai Pitrè, Verga, De Roberto, Capuana, altri miti nefasti, altra cultura o incultura si erano sostituiti. La verità era stata coperta dall’impostura. La ripubblicazione di questo Lunario ritrovato ha un valore di un prezioso documento storico e letterario, significativo di quel che può accadere in un Paese quando viene oppresso dalla dittatura, quando la civiltà viene sopraffatta dalla barbarie.
S.Agata Militello, settembre 1999
(Prefazione alla ristampa anastatica del “Lunario siciliano”, Enna, 1999) Originale dattiloscritto indirizzato all’editore Giuseppe Accascina
Ho sentito il bisogno di
incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due
dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto
marinaio del 1976 e Nottetempo casa
per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è
servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il
sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il
grande entusiasmo che mi era nato.
“Perché li hai letti uno di seguito
all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli
accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo
(Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione
diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica, nell’altro c’è il racconto del crollo di
questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è
il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il
secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”
Non so neppur io perché abbia letto proprio
quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino
mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:
Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne
quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale
della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto,
provocatoriamente contro la Lega.
Dolcevita di lana e golf (vestito allo
stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una
fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa
caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.
Allora penso subito al calore della sua
terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo
grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un
fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a
Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)
Le pareti della stanza sono coperte da
semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno,
segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di
Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione
illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione
marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo
Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e
libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della
Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di
maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno
dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente
l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della
cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)
si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger,
autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare,
completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di
conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa
misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono
esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno
ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti
plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.
Tra novembre e dicembre due sono stati
gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua
vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un
paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e
profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.
Il titolo di questo articolo è,
naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e
tanto amata.
Dove è nato, professore? A Cefalù?
C.: Sono nato in un paese vicino a
Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine
letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il
mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più
strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e
tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista,
perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla
natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello
dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho
potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente
diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia
occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al
canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di
Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna,
con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un
discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.
Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni,
come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte.
Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era
estremamente lirico. D’Arrigo, per
esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno
formale più accentuato.
Dalla parte occidentale, invece, gli
scrittori sono più logici.
All’inizio, quando mi sono
trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi
due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia
identità cercando di far unire questi due mondi: partire da un presupposto storicistico,
razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e
formale.
Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?
C.: Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto
a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo
fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare
lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di
tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…
Quando è arrivato a Milano?
C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che
avrei ritrovato più tardi.
Una città però molto viva, allora.
C.:
Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare
l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario.
Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho
scelto legge come via di compromesso.
In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano
tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i
De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era
Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!
Io approdai lì casualmente, seguendo
l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una
stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo
ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.
L’Università Cattolica era allora
frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo
cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e
tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai
parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato
di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.
Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi
ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà
importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il
Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio
convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di
Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di
meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate
lì.
Portate in questo Centro
Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei
vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in
Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in
Germania. Venivano raccolti a Verona.
A noi studenti poteva capitare di
incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da
poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba. Io ho incontrato un compaesano che giocava
con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col
manganello. Io non so se quelli che sono
diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io
osservavo.
Allora sarei potuto rimanere a Milano,
perché in quegli anni il lavoro si trovava.
Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e
c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…
C.:Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia
milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e
inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di
altri artisti.
Li conosceva già?
C.:No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato
conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…
Al finire degli studi, poi, me ne sono
tornato in Sicilia, per scrivere.
Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole
agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con
paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia;
erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava
Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto).
Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano
destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri
erano già emigrati.
Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60.
I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da
ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo
bene quella realtà.
C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta
la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le
terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le
pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di
industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.
Comunque io avevo preso questa decisione
di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63,
però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che
erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un
altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una
connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della
storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.
Nel primo libro parlavo degli anni di me
adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del
fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime
elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni
del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva
essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle
ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del
come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni
da noi…
E il libro narrava proprio questo, ma
visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto
trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono
costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono
immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San Fratello ed è un’antica colonia lombarda,
un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri,
anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle
Pietre di Pantalica e questo per
dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per
approdare poi alla lingua, al toscano.
Istintivamente, allora mi collocai proprio
come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che
era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica
nell’estrema diversità siciliana quindi).
Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice
linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro,
questa sorta di impasto linguistico.
Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle
parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i
diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la
pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno
que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e
giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti
dalle cose».
C.: Sì, e queste parole nuove sono parole
antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice
della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo…
Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la
letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito
codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta
di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere
così, la forma deve corrispondere ai contenuti.
Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68,
perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati
fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che
non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare;
l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere,
e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.
Quindi sono andato via.
Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche
due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone
emblematiche della mia formazione. Uno
era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta,
purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di
morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì
Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a
completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato
dall’esplosione del fenomeno Gattopardo. Lui veramente, quando lo nominavano come il
cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è
mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.
L’altra persona che ho frequentato è stato
Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo
mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a
Caltanissetta); poi siamo diventati amici.
Quando l’uno era il poeta puro, un barone,
con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di
tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico,
limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.
Per me sono stati veramente come due
maestri, due poli.
E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia,
presi le valigie e ritornai a Milano.
Non a Roma?
C.: No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono
due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese
che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia
politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era
la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in
qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al
luogo antitetico alla Sicilia.
A Roma invece approdavano degli scrittori
a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello. Un Pirandello che, con quella sua scrittura,
aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola
borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A
Milano sarebbe stato fuori posto.
E poi Sciascia, naturalmente, con il suo
discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo
senso, anche Moravia.
Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo
parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli
autori della parte occidentale.
C.: Per la parte occidentale, a fronte dei Verga,
dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome
che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un
romanzo, I vecchi e i giovani. In
Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie
locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma
forse, dopo l’uscita de I Viceré di
De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi
dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche
lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole
in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica
siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una
Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo
dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto
sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con
l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i
proprietari delle medesime.
È la rappresentazione amara, da parte di
Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono
tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via
discorrendo.
Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.
C.: Prima che
andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul
piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome
di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal
piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza,
dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in
antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo
immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il
suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era
impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto. E tutta la tematica verghiana è la tematica
dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.
Pirandello ha cercato, ha tentato di
ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi
metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un
contrasto verbale con l’entità destino.
E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere
questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello
diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi
chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che
tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro
l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in
una ricerca continua dell’ identità.
È poi anche, se si vuole
guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi
siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta
anche alla nostra storia.
Noi siamo tante culture messe insieme,
siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo
vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica
all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza. E in questa incertezza sta il nostro dramma,
ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico):
in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il
nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di
tutto questo.
Pirandello attinge proprio al modo
d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua
filosofia, la sua concezione. Nel Mattia
Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo
dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di
questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo
a furia di ammaccature.
L’io siciliano è ammaccato, e quindi
arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il
rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il
crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere
la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si
arriva con le ammaccature.
Quelli che precipitano da questo crinale
sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di
vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è
estremamente difficile ed è una fatica continua.
Ma, per tornare al romanzo storicistico,
oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore
storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la
letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con
la storia.
Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a
quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del
Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono
cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il
tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.
Quando vede, in Sicilia, quello che era il
grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e
affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa
diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive
tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica
del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il
rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi
stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora
non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del
potere mafioso.
Quando ha conosciuto Sciascia?
C.: Dal punto di vista biografico, avevo
conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le
mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono
tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo. Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è
sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando
io pubblicai il mio primo romanzo (La
ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo
con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché
era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio
Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e
di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi,
quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana
dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad
andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici. Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è
stato un continuo dialogo.
Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile?
C.: C’era uno
strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si
parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che
accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere
il titolo di un libro che si era letto…
Un suo rammarico era che io scrivevo poco.
Voleva che scrivessi di più.
Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di
Sciascia?
C.:
Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per
essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca
di distruggere la letteratura siciliana.
Il mio diventa quindi un impegno con la
letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà
di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le
imposture. E queste cose non sono sopportabili…
Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche
questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e
civile.
C.:Lui
era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una
scrittura di intervento, sui giornali. Scritti
corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di
intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.
Mentre lei ha sempre sentito la necessità della
letteratura come mediazione?
C.: Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i
tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta
più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui
anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece
Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui
giornali.
Lei appare come un signore pacato, ma la passione con
cui scrive denuncia una…
C.: No, non lo
sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta
di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché
desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste
masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come
Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.
Lei era venuto come insegnante?
C.: No. Avevo
fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in
treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.
Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.
C.: Sì. Allora
c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino
(“Il Menabò”), che dibatteva
proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo
mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione
sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra
rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare
le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e
altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo
vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.
Vittorini, per esempio, invitava a studiare i
nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale,
dall’incrocio dei dialetti coi dialetti
del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste
non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe
l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei
media e che si sarebbe sovrapposta…
Insomma l’Italia è un paese
veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così
rapidamente e radicalmente le vicende italiane.
È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e
contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di
masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che
è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di
Pasolini, questo…
Quando si fanno questi discorsi, sembra
che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano
a Pasolini era: «Ma come?».
No, nostalgia del mondo contadino credo
non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza,
di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo
progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di
atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il
senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi
politici che si dibattevano erano del mondo operaio.
Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un
isolato.
C.: Sì, erano
isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano
angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia
si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma
di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle
solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci
siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.
Io non ho nostalgia del mondo contadino
(questo l’ho anche raccontato nelle Pietre
di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo
avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.
Qui, invece, i valori umani
sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini
chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non
«progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo
sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di
petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano
innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.
In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono
ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739
a.C.). Io sono andato a rivederli,
ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni
culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.
Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori. Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato… Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord. I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie. La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.
Poi, quando ci si chiede dei mali
meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le
responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.
Non si deve pensare, come fanno certi
signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico,
quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della
‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.
Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di
manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato
sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più
rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.
Al potere politico interessava soltanto
fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei
feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare
il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre),
con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.
Ancora poco nel Sud, mi pare.
C.: Perché ci sono
state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene
di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al
secondo sipario, il sipario del malaffare.
Io spero che vengano
coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa,
perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.
C.: C’è ora nella
gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche
vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è
un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a
Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente
importanti.
Questo è un momento molto, molto delicato,
per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.
Delicato, ma, lei dice, di speranza.
C.: Di speranza, sì. È un momento di passaggio,
dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di
togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del
delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella
gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e
c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era
ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano
referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle
elezioni politiche il risultato era un altro.
Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe
di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.
C.: Sì. È saltato
anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.
Poi, al Nord, è venuta fuori anche la
Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del
resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti
in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.
Io queste forme, queste rivendicazioni
locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento
Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che
cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.
Quando, dopo tutti i disastri
democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord
un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra
che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono
un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono
visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle
scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme
perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano
questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di
aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come
quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha
cancellato il dialetto. Questo
rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso
«politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto
dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del
potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far
capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato)
al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla
incomunicabilità totali.
(Il dialetto si può scandagliare in
letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il
linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).
Ora, queste considerazioni, secondo me,
sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia.
L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie! Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le
hanno degenerate, questo è un altro discorso.
Queste forme regressive sono le «vandee»
di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri
Siciliani. Vespro Siciliano che, sulla
scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo
e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava
i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.
Il problema degli intellettuali in Italia è un triste
problema, mi pare.
C.: È un triste
problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese,
è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui
l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre
successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e
che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere
coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del
principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole
essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.
È successo sempre, fino a Pasolini, a
Sciascia e altri.
Tanti altri no.
C.: Durante il
fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in
tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese,
che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare
in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto
in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.
Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua
posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli
avvenimenti?
C.: No, guardi,
quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto
legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un
mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra
memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo
industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto. E quindi sopperivo a questa afasia letteraria
facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il
tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche
molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre
Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.
Poi ho capito che per tornare a scrivere e
raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma
almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale.
E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una
necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il
presente.
Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?
C.: A parte Gadda,
Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che
mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione
linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice
toscano.
La sua conversione è avvenuta proprio a
Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872
venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti
romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione
industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni
ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i
primi conflitti.
A Lodi si faceva un giornale
che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte,
c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle
masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il
Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.
Verga subì una sorta di spaesamento e da
questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella
di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e
intatta». Era una Sicilia un poco
cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo,
quella della irredimibilità del destino umano.
Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.
Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori. La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.
La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…
C.: Ci sono due
forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia,
compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è
un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo
risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina
proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire
fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere
anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).
E quindi l’assunto dal quale io sono
partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo
sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia
creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.
Oppure per la disgregazione della ragione,
dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di
questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come
personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di
Annunciazione.
L’ambizione mia è stata di dare una
struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo
ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda. Il mio romanzo parte dall’assunto
dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la
storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura
insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè
quello storiografico e quello letterario.
Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può
aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.
C.: Sì. Vorrei
dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente.
Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi
interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del
Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si
scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci
ha insegnato il Manzoni.
Altrimenti diventano storie romanzate e
allora si possono prendere infinite storie.
Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In
questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero
d’archivio, di lettura documentale?
C.: Ma i romanzi
storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla
lezione manzoniana. Il suo Consiglio
d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura
della Colonna Infame: niente di più
attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne,
della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento
perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica
per poter raccontare l’Ottocento.
Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter
raccontare…
C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia,
altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo,
della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di
tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.
Quello di Manzoni e di Sciascia è
chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un
assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso
anche di classe.
E di speranza nella storia.
C.: Di speranza
nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli
strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia,
l’utopia da cui parto io.
E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo
introduttivo alla relazione sui fatti…
C.: Sì. Il libro
parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella
sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi
sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico,
entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo
di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un
personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.
C’è un po’ di autobiografia in questo?
C.: Io sono
tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel
libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale
di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare
anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere
un romanzo storico.
Nottetempo, casa per casa è
ambientato invece negli anni Venti.
C.: Questo libro
l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di
tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica.
Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in
prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man
mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.
Certo ci sono anche dei capitoli di
sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di
connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è
la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa
perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa,
quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il
dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io
non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita,
che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore,
e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli
uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico,
con lo stare civilmente assieme.
Se, però, questo non avviene, allora
abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e
l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a
Marano. Ci sono tanti significati,
insomma. Il nome Marano viene da «marrano».
«Marrani» in Sicilia, come in
Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare
alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per
non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria
di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola
di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri
grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo
cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e
il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio
da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e
rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo
cambio di classe, a questa negazione all’amore.
E il senso, e qui è metaforico, il senso è
che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di
classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e
siamo diventati «massa».
E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo
perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa
forma di follia, di alienazione.
Questo voleva essere, non so se ci sono
riuscito…
Il ragazzo Marano è un piccolo
intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare,
aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era
impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova
anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba
ed è costretto a scappare, ad andare via.
L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva
sofferto, che aveva visto.
Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza
marxiana nella storia è ancora in vita?
C.: C’è stato il
crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci
eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa
grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.
Non c’è ancora un lume di speranza.
Le uniche cose che vedo, di
questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà
spontanea, come il volontariato dei giovani…
E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio,
che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.
Queste sono cose che veramente mi lasciano
sperare molto, però il ceto politico…
A cura di Lia De Pra Cavalleri Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994