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L’IGNOTO ANTIGATTOPARDO
“Mese Consolo”, una serie di eventi per celebrare i dieci
anni dalla scomparsa dello scrittore Vincenzo Consolo
Sbeffeggiando chi lo accusava di essere anacronistico, con un sorriso sardonico, rispondeva che era anche anacreatico. Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Era un gelido pomeriggio milanese del 21 gennaio 2012. L’anniversario sarà ricordato nel corso di un intenso “Mese Consolo”, una serie di eventi curati da Ludovica Tortora de Falco, regista nel 2008 del film “L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo”. Manifestazioni che si snoderanno dalla Sicilia a Milano in collaborazione con la “Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori”. Vincenzo Consolo, per tutta la vita, ha difeso, custodito, una lingua feriale che non esisteva più, conferendo incessantemente asilo alle parole espunte dall’imperante linguaggio televisivo plastificato.Ma ad un certo punto della sua carriera è come se l’autore di “Retablo” avesse avvertito la fatale stanchezza della parola.
“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”. Così scriveva Vincenzo Consolo ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998). La riflessione maturata tra le pagine del romanzo era affidata al protagonista, Gioacchino Martinez, scrittore di libri difficili, fratti, complessi. Il protagonista, invecchiando, si sentiva uno sconfitto, un vinto verghiano. Si interrogava sul significato, sull’efficacia del suo lavoro, sulla funzione della letteratura. Vincenzo Consolo raccontava spesso del triste finale di partita scelto da Giovanni Verga, l’afasia, il suicidio del narratore. Il grande scrittore catanese, abbandonata Milano, fece ritorno in Sicilia e decise di non scrivere più. Il rimando all’autore de “I Malavoglia”, alla sua scelta estrema, Consolo lo aveva affidato al suo duale letterario Martinez. Il silenzio, come già per l’Empedocle di un altro suo testo, “Catarsi”.
Scrittore eccentrico e irregolare.
Consolo aveva dunque deciso per la progressiva ritrazione. Disubbidienza e continua sottrazione che lo avevano sempre caratterizzato. Non aveva mai ceduto alle lusinghe dell’esposizione televisiva. Non aveva mai accettato di affollare talk-show, librerie e classifiche. Le scansioni temporali che separano le uscite dei suoi libri non attengono ai continui singulti nevrotici dell’industria letteraria. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia. “È siciliano, non scrive in italiano. È barocco. È oscuro. È pesante come una cassata. Le sue narrazioni non sono filanti: ma chi si crede di essere, ma come si permette?”. Era questo il paradigma declinato dai suoi detrattori. Erano tanti i suoi nemici: cardinali della letteratura italiana, maggiordomi untuosi di consorterie politiche, raccontatori a cottimo delle gazzette di palazzo, maestri di inenarrabili gilde e di buie consorterie. Avevano ragione a detestarlo, perché a ognuno di loro aveva dedicato parole di disprezzo ineguagliabili. Vincenzo Consolo era un impertinente, irriguardoso, sprezzante, fiero, severo e inflessibile. “Credo che uno scrittore debba essere comunque contro, scomodo. Se un intellettuale non è critico, diventa cortigiano. È stato così per Vittorini, per Pasolini e per Sciascia, intellettuali contro che il sistema non è riuscito a fagocitare, assoldare, arruolare, ostentare”. Un intellettuale contro, questo è stato il suo paradigma esistenziale.
Milano approdo di ragione.
Come l’amato Verga, Consolo era approdato a Milano. La città lombarda era stata per una fitta schiera di scrittori siciliani luogo di speranza, approdo di ragione. La stessa città che, presto, si trasformerà per lui in illusione infranta, amara realtà. La città lombarda dell’approdo e la Sicilia disperante sono state il suo cruccio, una Tauride duale. Come lo zio Agrippa di vittoriniana memoria, Consolo continuava a fare la spola tra la Sicilia e Milano. Operava un continuo dettato esplicito di denuncia all’indirizzo di una Sicilia irredimibile e disperante. Non perdevano occasione per rinfacciarglielo i sicilianuzzi dileggiati. Facevano garrire sul pennone più alto lo stendardo abusato della Trinacria rinfacciandogli la fuga, l’abbandono. Un proclama di palazzo aveva messo al bando i libri di Consolo. Libri bollati come inadeguati, colpevoli di un insopportabile rimando a una Sicilia cupa, operando così l’isolamento e la sconfessione, consolidate pratiche criptomafiose. Il continuo dileggio operato da certa intellettualità isolana è stato un vero tormento per Consolo. Non amava le piccole patrie lo scrittore di Sant’Agata di Militello, non firmava manifestini autonomisti, non rivendicava insulse predominanze culturali.
Ignoto antigattopardo
La sua è stata una letteratura alta, di respiro internazionale. Lo testimoniano i numerosi riconoscimenti, come il “Premio dell’Unione Latina”, una sorta di Nobel per gli scrittori di lingua latina. Lauree honoris causa gli sono state conferite dagli atenei più autorevoli. Riconoscimenti accademici tributati a Parigi, Madrid, Salamanca, Dublino, Amsterdam. Mirabile l’attacco del suo romanzo Retablo : “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato (…)”. Libro che gli varrà il “Premio Grinzane Cavour” nel 1988. La figura centrale è il pittore lombardo, Fabrizio Clerici giunto a Palermo in un vago Settecento. Il libro fu pubblicato dalla casa editrice “Sellerio” con una nota introduttiva di Leonardo Sciascia. Scrittura icastica quella consoliana, connaturata da un’intensa immaginazione pittorica. La pittura era la sua seconda grande passione. Esemplari le sue prefazioni di mostre. Inserti, racconti, prove d’autore che lo scrittore traslava, successivamente, nei capitoli dei suoi libri. Raffinata la pittura delle sue ricercatissime copertine, opere di grandi artisti: Antonello da Messina, George de la Tour, Fabrizio Clerici, Ruggero Savinio, Caravaggio, Raffaello. Giungevano sempre dal mare i protagonisti dei romanzi di Consolo. Dal mare giunge il protagonista del suo primo grande successo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Cesare Segre fu il primo a intuire la specificità dell’invenzione linguistica consoliana. Lo studio di Segre era incentrato sull’eccentricità di quel giovane scrittore siciliano che non forniva al lettore nessuna indicazione didascalica. Il lettore attento di Consolo, aveva dunque fatto l’abitudine all’improvviso cambiamento di registro, all’enciclopedismo ipnotico della sua scrittura, alle scansioni ritmiche in battere e levare, ai capovolgimenti di fronte. Era una compitazione musicale da cuntista, quella dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Parole antiche che tracciavano l’ordito complesso delle sue pagine. Come accade per i grandi, per i classici, ogni successiva rilettura dei libri di Consolo disvelava una trama invisibile, texture impercettibili, un’architettura accennata, una raffinatezza impareggiabile, il recupero di una lingua extraletteraria, financo del dialetto. Il rinvenimento di memorie antiche, forme dialettali è stata la sua cifra stilistica controcorrente: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati”. Come ha scritto il critico Massimo Onofri, rileggere i libri di Consolo è come entrare a occhi chiusi in una miniera e uscirne, ogni volta, con un’insospettata nuova pietra preziosa. “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” è stato il libro risolutore, non solo nel senso della rivelazione dell’autore. Un libro che, a distanza di anni, appare quanto mai attuale e urgente. Il protagonista è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un aristocratico siciliano ottocentesco. Vive un’esistenza di ordinaria beauté aristocratique, sconvolta dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e dalle rivolte dei contadini. Accadimenti che gli imporranno di mettere cultura e ricchezze al servizio della causa risorgimentale. Nell’edizione parziale del romanzo (1975), Corrado Stajano salutava l’opera come: “Un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso”. Il critico Antonio Debenedetti scrisse un articolo dal titolo “L’ignoto Antigattopardo”.
Il sorriso di Consolo il marinaio
Il falso ritratto che di lui si tratteggiava, quello di uno scrittore scorbutico e irriverente, non corrispondeva all’immagine privata, quella vera. Un uomo che appariva invece solare, ironico, dal sorriso ineffabile, quello di un Vincenzo Consolo privato, insospettato, autoironico. Scherzava spesso prendendo in giro la radice stessa del suo cognome: “Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. O dall’incrocio, di questo di Giudea o Samaria, con semierranti per venti d’invasioni terremoti carestie, d’Arabia, Bisanzio Andalusia”. Come accade per le grandi invenzioni della letteratura, Vincenzo Consolo, ha anticipato con i suoi libri gli avvenimenti della storia di questa nazione infetta. Così come è accaduto con il romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). Il libro, ambientato nei primi anni Venti del Novecento, racconta dell’avvento del fascismo. I luoghi del romanzo sono quelli che vanno da Cefalù a Palermo. Si narra delle vicende della famiglia Marano. In realtà tratteggia l’Italia della fine degli anni Novanta, con l’avvento della destra violenta, l’insorgere di nuove metafisiche, misticismi e sette misteriche. Milano, Cefalù e Palermo, nella sua personale geografia letteraria compongono l’invisibile triangolo della complessa scenografia linguistica di Consolo.
Odiosamata Palermo
Palermo era, dopo Milano, l’altra città-tormento dello scrittore siciliano. Come si fa con i grandi amori e le passioni insopprimibili, all’odiosamata Palermo, Consolo ha riservato pagine di esaltazione e invettive furibonde. Il suo snodo centrale era l’Isola, la Sicilia il tema dominante di tutti i suoi libri: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”. Consolo operava un distinguo ineludibile tra scrittore e narratore. La sua scrittura sconfinava con rapide incursioni nella poesia, come nella favola teatrale “Lunaria”. Il protagonista è un viceré malinconico e misantropo, costretto a vivere in una città solare e violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza. Sogna la caduta della luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il prodigio con la loro povera scienza. La poesia è legata anche a un grande personaggio che compare tra le pagine del suo libro “Le pietre di Pantalica”, il barone magico Lucio Piccolo. Consolo ricordava spesso l’immenso poeta aristocratico di Capo d’Orlando e i suoi versi lunari: “Spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco”.
Tragico finale di partita
In una gelida Milano, Vincenzo Consolo lascia tutti orfani della bellezza delle sue parole. Consolo il marinaio lascia libri straordinari, un romanzo inedito al quale lavorava da anni che non sarà mai pubblicato, l’amata moglie Caterina, l’inseparabile compagna: “A Caterina devo tutto. Mi ha conferito coraggio, fiducia, serenità”. Un addio crudele dunque. Ogni finale di partita è sempre tragico, solenne. Come accade all’Empedocle consoliano tra le righe del testo teatrale Catarsi:
“Ánthropoi therés te kai ichthúes”.
Concetto Prestifilippo
Centro di studi e iniziative culturali Pio la Torre
Rivista: ASud’europa direttore Angelo Meli
16 gennaio 2022
Mese Consolo
MESE CONSOLO
FONDAZIONE ARNOLDO E ALBERTO MONDADORI e con l’ASSOCIAZIONE ‘AMICI di VINCENZO CONSOLO’
presenta il
MESE CONSOLO
coordinato da Ludovica Tortora de Falco
21 gennaio – 18 febbraio 2022
COMUNICATO STAMPA
In occasione del decennale della sua scomparsa, Arapán Film Doc Production rende omaggio a Vincenzo Consolo proponendo il MESE CONSOLO: un programma internazionale di appuntamenti culturali appositamente pensati e organizzati per ricordare il grande scrittore.
La manifestazione, che si terrà dal 21 gennaio al 18 febbraio 2022, è stata ideata e coordinata da Ludovica Tortora de Falco, produttrice, regista, presidente di Arapán, con la partecipazione e la condivisione di Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (FAAM) e dell’associazione Amici di Vincenzo Consolo, fondata per volontà di Caterina Pilenga, moglie dello scrittore.
“L’idea del tributo che abbiamo voluto rendere a Vincenzo Consolo (Sant’Agata Militello, 18 febbraio 1933/Milano, 21 gennaio 2012) nasce dall’incanto che suscita sempre la lettura o rilettura dei suoi testi, dall’affetto profondo per l’amico, dalla stima per l’uomo con quel sorriso. Vorremmo dedicare questo Mese Consolo al suo lavoro, serio e civile, alle ricerche, complesse e instancabili, ai suoi ampi percorsi umani, alle stratificazioni della sua parola, al suo rigore, alla sua scrittura d’intervento”.
Queste le parole della coordinatrice del MESE CONSOLO: più di 10 eventi tra incontri, pubblicazioni, conferenze, presentazioni di libri, spettacoli, proiezioni per le scuole, in un fitto programma che vanta numerose collaborazioni con alcune prestigiose istituzioni. Oltre ai due già citati enti partner del Mese, partecipano al Mese: la University College di Cork (Irlanda) con la quale si terrà un ciclo di appuntamenti online, RAI RADIO 3 che prevede diversi appuntamenti nel giorno di apertura del Mese, la Biblioteca Regionale Siciliana di Palermo, che realizza e presenta l’E-BOOK sul patrimonio bibliografico di e su Vincenzo Consolo. La programmazione del Mese Consolo è stata elaborata grazie alla collaborazione di numerosi enti e grazie all’entusiasmo di molti amici e amanti della sua opera: la FilmCommission Regionale Siciliana, l’Ente Parco dei Nebrodi, l’Assessorato alla Cultura e la Casa letteraria del Comune di Sant’Agata Militello, la Biblioteca Comunale di Capo d’Orlando, Il Centro Studi Pio La Torre, il Cineclub Arsenale di Pisa, il Rotary Club di Sant’Agata Militello, la Libreria Cavallotto di Catania, la Compagnia Lunaria Teatro di Genova, e il circuito Book City Milano Scuole. Infine il gruppo di volontari EquiVoci Lettori prepara incontri di letture, appositamente pensate per il pubblico delle biblioteche periferiche dell’hinterland milanese. Un’attività sulla quale Vincenzo Consolo avrebbe rivolto uno sguardo di stima e curiosità.
Presso la sede della FAAM si terrà, il 26 gennaio, l’evento organizzato in onore dello scrittore, in collaborazione con l’associazione ‘Amici di Vincenzo Consolo’. L’archivio e la Biblioteca personali di Vincenzo Consolo sono conservati dal 2015 da FAAM per volontà di Caterina Pilenga, e vengono valorizzati in stretta collaborazione con l’associazione ‘Amici di Vincenzo Consolo’. L’archivio, che copre l’arco cronologico 1957-2017 – riordinato, inventariato e aperto alla consultazione – testimonia l’attività di uno dei maggiori scrittori del panorama italiano contemporaneo ed è specchio di un complesso intreccio tra elementi diversi e, talvolta, contrastanti tra loro: il legame profondo con la terra natia, la Sicilia, e le proprie tradizioni; l’urgenza della scrittura che si dibatte tra le istanze del giornalista, attento alla contemporaneità, e le esigenze dello studioso di antiche culture mediterranee; il complesso rapporto con Milano, sua città adottiva; e ancora i molteplici interessi, le relazioni personali e professionali. Il volume della collana Carte Raccontate di FAAM «E questa storia che m’intestardo a scrivere» Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura, di Gianni Turchetta, ricostruisce, attraverso i documenti conservati nell’Archivio, le caratteristiche essenziali dell’attività di Consolo: il duro lavoro, i sacrifici, la tensione estrema verso una scrittura sperimentale unita a un’etica severa che fece sempre della sua scrittura letteraria un vero e proprio atto politico.
Il Mese Consolo si apre il 21 gennaio 2022, giorno in cui Radio Tre Rai propone la serata dedicata allo scrittore, con recitazione su musica dal vivo di alcuni suoi brani, in seno al programma della trasmissione Radio Tre Suite. La serata è preceduta, nel pomeriggio, dalla trasmissione Fahrenheit, anch’essa dedicata allo scrittore, con interventi di critici ed esperti sull’ eredità di Consolo a dieci anni dalla scomparsa.
Il programma del Mese Consolo (date, orari, luoghi, curatori, enti partecipanti, contenuti, contatti) sarà on line dal 10 gennaio 2022 su:
www.arapan.it / www.vincenzoconsolo.it / Pagina FB Vincenzo Consolo. Per informazioni: info@arapan.it
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Arapán Film Doc Production è una società di produzione e formazione audiovisiva, e di progettazione culturale, che opera al sud Italia e ha sede a Roma e Parigi. Nel 2008 ha prodotto il film documentario L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo (75 min.), a cui ha partecipato l’autore, per la regia di Ludovica Tortora de Falco, e grazie al contributo della DG Cinema del Mibact e della Film Commission della Regione Siciliana.
Vincenzo Consolo, Memorie
In memoria di Caterina
Dopo La grande vacanza orientale-occidentale (2001) e Il prodigio (2014), le Edizioni Libreria Dante & Descartes di Napoli, nel piccolo formato che le contraddistingue, consegnano, in questo luglio del 2020, un testo di Vincenzo Consolo intitolato Memorie, già pubblicato nella raccolta di saggi La mia isola è Las Vegas (Milano, Arnoldo Mondadori, 2012).
Questo prezioso libricino gode della prefazione di Claudio Masetta Milone, uno dei soci fondatori dell’associazione «Amici di Vincenzo Consolo», collaboratore anche con il Centro Studi iniziative culturali Pio La Torre, di Palermo. Claudio Masetta Milone è anche uno dei fondatori della «Casa della Letteratura di Vincenzo Consolo» a Sant’Agata Di Militello, paese natio dello scrittore.
A scanso di equivoci e senza nessun compiacimento verso le proprie motivazioni, Vincenzo Consolo chiarisce ciò che intende con il vocabolo «Memorie»:
Avrei potuto, o potrei, giunto alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile, piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere (p. 5).
Rievocando il rapporto esistenziale che lega lo scrittore al suo paese di origine, Claudio Masetta introduce dialetticamente la tematica memoriale, quasi creasse un dialogo tra sé, il lettore e lo scrittore: «Fare memoria significa essenzialmente narrare» (p.12). Ma come nasce la narrazione? Nasce innanzitutto dal bisogno insaziabile di Consolo di ascoltare di nuovo i minimi particolari della sua zona, che siano geografici, umani, sociali o linguistici. Precisa Claudio Masetta: «L’ascolto dei fatti santagatesi era lo scoglio da cui, ogni volta, la narrazione spiccava il volo, nello spazio e nel tempo» (p.12-13).
Ricorrentemente desideroso di definire la propria identità di uomo e di scrittore (ciò che fece in molti scritti), Vincenzo Consolo evoca la posizione geografica di Sant’Agata Di Militello. Comune sito a mezza strada tra Messina e Cefalù, la zona divide la Sicilia orientale, la Sicilia greca, terra di miti, la cui espressione si svolge prevalentemente «in forme poetiche, in toni lirici, in scansioni musicali (p. 25), dalla Sicilia occidentale, influenzata dagli Arabi, un’area segnata dalla storia, dai molteplici colonizzatori, dai conflitti sociali, e «che si esprime in forme prosaiche, in toni discorsivi, in scansioni logiche» (p. 26).
Su questa «immaginaria linea» (p. 27), data la posizione di Sant’Agata di Militello, su questo crinale, nasce la poetica consoliana.
I ricordi, le memorie legati a Sant’Agata, pur cari che siano, pur essendo il crogiolo di alcuni suoi racconti, non bastano a soddisfare la sua creatività che si estende «alla Sicilia tutta, all’Italia, al Mediterraneo e oltre, (…). Ma [si dispiega] anche dal presente al passato – o sarebbe meglio dire – ai passati dell’isola» (Claudio Masetta, «Prefazione», p. 13).
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Il tono si fa man mano più grave e le domande incalzanti. Quasi con trepidazione, Vincenzo Consolo chiede a se stesso: «E allora: perché scrivo? Ma perché scrivo in prosa? E perchè scrivo romanzi o racconti di contenuto storico o sociale» (p. 36). Permeato dalla superiorità della poesia, si riferisce a componimenti di poeti maggiori (cita qualche verso della «Ginestra» di Leopardi, allude al poemetto di T. S. Eliot, «La terra desolata», alla raccolta di Eugenio Montale, Ossi di seppia, nonché al suo componimento «La bufera»). Consolo si arrende alla constatazione non priva di rammarico, che non è stato eletto a questo registro:
Scrivo dunque di temi relativi, contingenti, perché non sono poeta, perché non sono un fanciullo, perché non sono re (non faccio parte, voglio dire, non sono detentore del potere). Solo i poeti infatti, i fanciulli e i re possono affrontare gli assoluti, immergersi naufragare nell’infinito mare dell’esistenza (p. 37).
Fra queste linee, traspare la figura del viceré Casimiro, personaggio centrale della favola teatrale Lunaria (1985), opera in cui Vincenzo Consolo si avvicina maggiormente al mito e alla poesia. Casimiro, essere malinconico e lunare, a metà strada tra re-fanciullo e poeta, in grado di capire, fino ad un certo punto, la lingua poetica, edenica di San Fratello (vicino a Sant’Agata), vero baluardo utopico contro il disfacimento della corte palermitana, su cui regna Casimiro da troppo tempo.
Come non pensare agli eccentrici Casimiro e Lucio Piccolo, poeta quest’ultimo che affascinava Consolo?
Sul dritto filo di queste parole, in un altro breve scritto, «Considerazione sulla forma racconto», in Prodigio (Edizioni Dante & Descartes, 2014), ricorda la sua scelta narrativa:
…l’unico racconto praticabile mi sembra quello storico-metaforico (…) ; che un modo per praticare ancora una letteratura non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia : riaccostarlo, per irriducibile, al linguaggio liturgico dei poemi (p. 25).
Consapevole di essere cresciuto e vissuto per anni in bilico tra Oriente ed Occidente, tra mito e storia, tra natura e cultura, Vincenzo Consolo approda al nucleo della sua ricerca letteraria:
E non è questo poi l’essenza della narrazione ? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e di poesia ? Non è questo ibrido sublime, questa chimera affascinante ? (p. 50-51).
Non si può parlare dell’identità letteraria di Vincenzo Consolo senza evocare il terzo polo d’influenza della sua poetica: la città di Milano, dove si trasferisce nel 1969. Andirivieni incessanti tra la capitale lombarda e la sua isola ritmano d’ora in poi la sua vita e la sua produzione. A questa città «progredita, ricca e allettante, ma anche dura, ma anche pretenziosa» (p. 52-53), Consolo oppone un orgoglioso riserbo, pur essendo aperto ai fermenti e alla cultura della metropoli europea. Ma ha continuamente l’attenzione rivolta ai fatti siciliani.
L’attualità di questo ultimo ventennio è prevalentemente segnata dal fenomeno migratorio. È da tempo giunto il momento per l’Europa di aiutare popoli che soffrono per le guerre, per le malattie e la povertà. Le ricchezze si devono oramai condividere con i paesi più poveri e l’ordine mondiale viene totalmente travolto da questa urgente necessità. La Grecia e la Sicilia sono le porte di ingresso verso questo nuovo eldorado. Ventuno anni fa, nel 1999, Vincenzo Consolo era uno tra i pochissimi intellettuali ad affrontare questa questione nella sua raccolta di saggi Di qua dal faro (Milano, Arnaldo Mondadori Editore), nel capitolo «Uomini sotto il sole» (p. 227). Scrive:
Di questi esodi massicci e incessanti le cronache di ogni giorno ci consegnano tragici episodi: di clandestini soffocati dentro stive di navi; d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescicani; di bambini assiderati nei passaggi notturni per valichi montani; di carghi colati a picco con dentro il loro carico umano; di criminali che trasportano su gommoni e abbandonano sulle spiagge masse di disperati.
Claudio Masetta ricorda i momenti trascorsi a parlare con Consolo, in conversazioni in cui la questione, specie
dacché la Libia è in guerra, dei profughi riaffiora. Parlano di cultura greca, ma non solo, e di un presente ostile che provoca l’ira dello scrittore contro il ricordo del tempo dell’ospitalità siciliana che fu:
E della cultura mediterranea che, (…), si è sempre sviluppata sotto il segno dell’accoglienza. I fatti di cronaca odierna, l’innalzamento di barriere laddove un tempo c’erano spiagge d’approdo di innumerevoli naufraghi che, una volta a terra, nella sua Sicilia, potevano dirsi sicuri di trovare accoglienza, lo avrebbero fatto urlare di sdegno e vergogna.
Amava cercare i segni di questa antichissima tradizione di ospitalità siciliana. Si entusiasmava alle prove dell’avvenuta integrazione, sul suolo siciliano, di culture e tradizioni diverse (p. 15-16).
Claudio Masetta riporta, in confidenza, sempre con valore didattico per il lettore, un aneddoto interessante su questo argomento: quello del santuario della Madonna Nera di Tindari che è sito nel grandioso golfo di Patti, in provincia di Messina. Tindari è stata costruita nel 396 A. C. da Dionisio I°, tiranno di Siracusa, al fine di fronteggiare gli attacchi dei Cartaginesi. Il suo nome originario era Tyndaris. A picco sul mare, il santuario raccoglie quella singolare Vergine bizantina nera con il bambino, alto simbolo di accoglienza dei naufraghi, la quale impedì alla nave che la trasportava di ripartire sul mare, così evitando l’inesorabile naufragio dovuto alla tempesta.
E Claudio Masetta, restituendoci lo scrittore Consolo nella sua intera dimensione umana e umanistica: «Aveva una collezione di santi neri, Vincenzo. Amava quella collezione come simbolo di felice integrazione» (p. 18).
Con particolare acuità, Claudio Masetta insiste per ultimo sul bisogno di trasmettere alle nuove generazioni le chiavi del linguaggio così particolare di Vincenzo Consolo: al tempo stesso popolare ed erudito. Non si entra facilmente nella prosa consoliana e lui lo intuiva, lo sapeva. Tanti incontri fece con giovani di liceo o freschi universitari, molto spesso confrontati al suo linguaggio stratificato, complesso, a volte criptato. Ma non era mai semplice esercizio di chiarimento di tale passo, pur studiato nei particolari. Il pubblico liceale o universitario era da lui prediletto perché vergine da alcun a priori sul linguaggio letterario. Si dilettava di questi incontri con il giovane pubblico, quasi dovesse concretizzare la propria vocazione di pedagogo.
Al di là però, si trattava sempre di infondere ai giovani una certa conoscenza della letteratura siciliana. Consolo amava tramandare la memoria, e così scrive Claudio Masetta: «la memoria attraverso la narrazione era per lui fatto da condividere. In modo particolare con i giovani, a cui si rivolgeva, verso i quali amava riversare il racconto della Sicilia, della storia, ma soprattutto della letteratura» (p. 19-20).
Per concludere, il libretto Memorie, racchiude molto del pensiero di Vincenzo Consolo, un pensiero mai uniforme, così come sono molteplici e variegate le forme della sua espressione letteraria e della sua poetica.
Claudio Masetta Milone, nel riproporre la lettura di questo testo, nel sollecito ascolto delle parole dell’amico scrittore, nel trascriverle, ha il merito (tra tanti altri), di contribuire in modo originale, ad una più ampia conoscenza del pensiero universale di Vincenzo Consolo, e a ravvivarne le idee umanistiche con luce odierna.
Maryvonne Briand
Piazza, foto e mostre Sant’Agata di Militello riscopre così il “suo” Consolo
Il re dei Savoia cede il passo all’autore dell’Antigattopardo. Sarà dedicata allo scrittore Vincenzo Consolo la piazza principale di Sant’Agata di Militello. L’amministrazione comunale della città natale dell’autore di “Retablo”, ha deciso di rinominare la piazza sulla quale si affaccia il castello dei principi Gallego. Non più dunque piazza Vittorio Emanuele ma piazza Vincenzo Consolo. La cerimonia di intitolazione si inquadra nel novero di una serie di manifestazioni. Nel quinto anniversario della scomparsa dello scrittore siciliano si terrà a Tunisi un convegno internazionale a lui dedicato. Il convegno è stato organizzato dall’Istituto italiano di Cultura a Tunisi, dal dipartimento di Italianistica dell’università di La Manouba e dal Center for italian studies dell’Università della Pennsylvania di Philadelphia. «Rendiamo omaggio a un artista di levatura internazionale – sottolinea uno degli organizzatori della manifestazione, Vito Lo Monaco, presidente del centro studi “Pio La Torre”- Consolo era legato da un profondo rapporto di stima con il Centro studi dedicato a Pio La Torre. Tanto da voler destinare a noi il suo ultimo scritto. Un testo teatrale che, ogni anno, rappresentiamo con gli studenti coinvolti nel nostro progetto di educazione alla Legalità. È stato un raro esempio di intellettuale contro e scrittore di impegno civile. Trasmetteremo l’intera cerimonia sin diretta streaming sul nostro sito: www.piolatorre.it». Infaticabile animatore delle attività di valorizzazione dello scrittore è Claudio Masetta Milone, tra i fondatori dell’Associazione amici di Vincenzo Consolo, presieduta da Caterina Pilenga, moglie dello scrittore. «I locali del castello Gallego ospiteranno la donazione voluta dalla signora Consolo – precisa Masetta Milone – La biblioteca personale, tutte le sue edizioni, i quadri, le collezioni, le onorificenze, saranno a disposizione degli studiosi. Nei prossimi mesi potremo contare anche sui supporti digitalizzati dei suoi manoscritti. Un lavoro che è stato affidato alla Fondazione Arnoldo Mondadori». Nel salone principale del castello Gallego sarà ospitata la mostra del fotografo Giuseppe Leone dedicata a Consolo. «Ho voluto rendere omaggio a un grande amico – precisa il grande fotografo ragusano – Con Consolo abbiamo collaborato a lungo. Pubblicato libri straordinari. Un artista ineguagliabile. Questo invito mi lusinga e mi consente di donare con grande onore questi ritratti alla Casa letteraria Consolo». Un rapporto inscindibile quello tra Vincenzo Consolo e Sant’Agata di Militello. Come affiora tra le righe di una recente pubblicazione affidata alla casa editrice Dante & Descartes di Napoli, “La grande vacanza orientale-occidentale”:“Una costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia. Era un correre allora dei pescatori dalle loro casupole in fila là oltre la strada di terra battuta, era un chiamare, un clamoroso vociare. Le donne, sugli usci, i bambini in braccio, ansiose osservavano. I pescatori, i pantaloni fino al ginocchio, tiravano svelti le barche, in bilico sui parati, fino alla stradina, fin davanti ai muri delle case”. Sant’Agata di Militello era il luogo del suo scontro e del suo riscontro. Era nato in via Pace. Il balcone dell’abitazione dell’infanzia, si affaccia proprio sulla piazza che a lui sarà dedicata. Il castello Gallego è lo scenario naturale del libro che gli conferì la notorietà: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Il lungomare La Praia, era il suo sguardo sulle “Isole dolci del Dio”. L’estremità del porto di Punta Lena, era il suo immaginario visivo. Il giovane Consolo frequentò l’istituto salesiano di via Medici. Esperienza raccontata nel suo libro di esordio: “La ferita dell’aprile”, pubblicato nel 1963, il libro che contiene tutti i suoi libri. A Sant’Agata di Militello Consolo ha voluto essere sepolto. È questo il definitivo ritorno dell’odisseo Consolo nella sua Sant’Agata. Lo scrittore gramscianamente non indifferente, è stato il vero interprete della lezione civile di Leonardo Sciascia. Uno scrittore che cercava parole non imposte dal potere. Autore connaturato da una scrittura enciclopedica e ipnotica. Un uomo che non operava concessioni. Non salvaguardava potentati. Non blandiva accademie. Un artista che, come estrema sottrazione, aveva operato una progressiva sottrazione. Fino alla stanchezza della parola. Era un irregolare. Non era irreggimentabile. Era un eccentrico. Disertava le adunate e le parate dell’esposizione televisiva. Spodestato il re piemontese, il nome dello scrittore siciliano troneggerà sornione sulla piazza dove si affaccia il circolo di conversazione Dante Alighieri. Così tratteggiato da Consolo nel suo libro “La mia isola è Las Vegas”: “Il circolo Dante Alighieri altrimenti detto circolo dei civili o nobili. Uno di quei circoli siciliani frequentati dai piccoli proprietari terrieri che non lavoravano, campavano di rendita, “ammazzavano” il tempo e la noia con chiacchiere e il gioco delle carte, e l’unico segno che lasciavano del loro passaggio su questa terra era un fosso nella poltrona del circolo, come dice Brancati”.
Concetto Prestifilippo
da La Repubblica ediz. Palermo del 18 febbraio 2017
nella foto Vito Lo Monaco,
Claudio Masetta Milone, Francesca Faraci,Melo Consolo
VINCENZO CONSOLO POETA DELLA STORIA
di Carmelo Aliberti
Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.
Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio.
Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.
Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.
Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.
Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.
Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.
“Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.
Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.
A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.
Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.
Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.
“L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.
Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.
Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.
La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.
Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.
Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.
La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.
Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.
Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.
Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.
La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.
In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.
La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].
Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.
L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.
BIBLIOGRAFIA
Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.
Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia. La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa siciliana d’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratori italiani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala a chiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cose di Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stesso ceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.
[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.
Carmelo Aliberti
il 7 febbraio 2017 Terzo millennio rivista letteraria
La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo
La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo
di Concetto Prestifilippo
Io lo ricordo così
di Vincenzo Consolo
I libri di Danilo Dolci se li è apparecchiati tutti sul tavolino del salotto, un ambiente luminosissimo. Allineati in bell’ordi-ne, con i post-it gialli infilati nelle pagine che a lui parlano di più. Edizioni Einaudi, edizioni Sellerio, edizioni Mesogea, «una delle poche belle realtà messinesi». Di fronte, sulla parete, un ritratto di due ragazzi dall’autore impossibile, Pier Paolo Pasolini. Nella casa milanese di Vincenzo Consolo c’è letteratura ovunque.
«Ho riletto Banditi a Partinico e mi è venuta l’angoscia.
Angoscia a rileggere di quella mortalità infantile. Bambini senza cure per le infezioni, bambini senza latte. Ho riprovato la spinta a conoscere e a sapere che mi ha animato da ragazzo nella mia Sicilia, quando a quelle letture mi si aprivano mondi che non conoscevo. Io di Sant’Agata di Militello, zona non di feudi ma di piccola proprietà contadina, provavo una grande curiosità di sapere tutto della Sicilia occidentale. Andavo anche a Messina, certo, alla libreria D’Anna. Ma andavo con uno spirito particolare alla libreria Flaccovio di Palermo, che aveva anche le sue edizioni. Viaggiavo sempre in treno.
Un giorno andai a trovare Danilo Dolci, un mito per molti di noi, era il ’55 o il 56. Mi accolse nel suo studio e mi fece tantissime domande. Volle sapere dei miei studi, mi parlò di Nomadelfia, la comunità fondata nel dopoguerra da don Zeno Saltini in Toscana, vicino Grosseto, in cui lui aveva lavorato.
Io gli raccontai della mia vita in università a Milano. Dei miei anni in piazza Sant’ Ambrogio, dove accanto alla caserma della Celere c’era il Centro orientamento immigrati. Ci arrivavano da ogni regione del sud per essere smistati verso il centro Europa: la Svizzera, il Belgio, la Francia, mentre quelli che andavano in Germania venivano smistati a Verona. Gliela descrissi, Sant’ Ambrogio, come allora appariva a me. Una specie di piazza dei destini incrociati: meridionali i poliziotti della Celere, meridionali le braccia in cerca di un lavoro in fabbriche o miniere straniere. Gli parlai anche della signorina Colombo, la mia padrona di casa, tutta vestita di nero e che si esprimeva sempre in dialetto. Due sue nipoti erano scappate a Nomadelfia. E ovviamente questo lo incuriosì molto. Dietro di sé, alle sue spalle, teneva un quadro particolare: una lettera di minacce, l’immagine di una pistola da cui uscivano dei proiettili. Gliel’aveva mandata la mafia e lui l’aveva incorniciata. Feci anche amicizia con alcuni dei volontari che collaboravano con lui. Ricordo un urbanista, in particolare. Si chiamava Carlo Doglio. Bolognese ma lavorava all’Università di Palermo. Faceva l’assessore a Bagheria, era un militante del Psiup. Dormii da lui una notte e al mattino, quando feci per uscire di casa, mi tirò indietro per la camicia e mi ammoni a guardare bene a destra e a sinistra prima di mettere fuori la faccia. Bagheria era così: il luogo delle ville magnifiche dei nobili feudatari, villa Alliata e villa Palagonia, dove i mafiosi cercavano di farsi strada a colpi di grandi speculazioni e di violenza.
Ci vedemmo ancora, anche perché lui viaggiava molto per il mondo, faceva un’attività di conferenziere intensissima.
Venne una volta a Milano. Si era sposato con Vincenzina, che aveva già dei figli, lui ne ebbe altri ancora. Ricordo che avevano dei nomi singolarissimi: Libera, Sole, Amico… Ci trovammo e lui mi propose tutto un programma da realizzare per la Sicilia. Affascinante, senz’altro. Ma io mi limitai ad andare a fare qualche conferenza, poi mi arenai. In ogni caso Dolci riuscì a riunire intorno a sé bellissime persone. Era il suo progetto che attirava, insieme al suo carisma. Già ho detto di Doglio l’urbanista. Ma c’era anche Vincenzo Borruso, al quale rimasi molto legato. Un medico d’avanguardia, paler-mitano, autore del primo libro-inchiesta sull’aborto, L’aborto in Sicilia si chiamava. Storie di prezzemolo, storie di morti assurde. Da lui andò a fare il volontario anche Goffredo Fofi, che insegnava alle scuole elementari di Cortile Cascino a Palermo e poi lo raggiunse a Partinico. Ricordo che aveva partecipato allo sciopero all’incontrario, che era poi una delle invenzioni tipiche di Dolci: voleva dire fare una strada o una trazzera non autorizzate. Fofi venne espulso dalla Sicilia che aveva appena diciott’anni, con tanto di foglio di via obbliga torio. Seminavano bene, i collaboratori di Dolci. Ricordo u incontro proprio con Fofi a Palermo negli anni Ottanta. Credo che fossimo li per presentare qualche libro. Fatto sta che ritrovammo al Papireto, al famoso mercatino delle pulci C’era un negozietto di antiquariato, l’insegna portava sori un nome e Goffredo esclamò: «Ma questo era mio alunno>> Girammo un po’ alla sua ricerca, e alla fine arrivò un giovanotto che gli andò incontro abbracciandolo: «Goffredo!». Era davvero lui, il suo alunno.
Dolci si distingueva per la sua intelligenza. Acuta, lungimi-rante, nutrita della materialità delle cose che faceva. Ricordo la sua distinzione tra potere e dominio, per esempio, che era uno dei capisaldi della sua riflessione. Oppure quella, che sembra fatta a pennello per i nostri tempi, tra comunicazione e trasmissione. Temeva i meccanismi della trasmissione, di questo fiume di parole e concetti e immagini che si muove in una direzione sola e che è in grado di istupidire un popolo. Non è forse quello che sta succedendo oggi? Lui d’altronde segnalò i problemi di Berlusconi appena il fondatore della Fininvest entrò in politica. Credo che fosse un paio d’anni prima di morire. Scrisse che a carico di Berlusconi c’erano fatti «molto gravi», «cose risapute anche dalla magistratura». Lo si trova su Una rivoluzione non violenta, pubblicato da Terre di mezzo.
Se dobbiamo considerarlo un rivoluzionario? Be’, noi, e non solo noi, lo chiamavamo il Gandhi italiano. Venivano persone da tutta Europa a conoscerlo, dormivano al centro studi, si offrivano di lavorare con lui come volontari. Quando usci, Banditi a Partinico suscitò un’ impressione enorme. Danilo conosceva la violenza del potere, e di quello mafioso soprat-tutto. Restò sconvolto quando a Trappeto un ragazzo di diciassette anni venne trovato morto in campagna “pezzi pezzi”, che vuol dire fatto letteralmente a pezzetti. Gli avevano sparato e poi l’avevano messo sui binari del treno, che lo aveva maciullato. Terribile, quest’uso fraudolento e assassino dei binari mi ricorda la morte di Impastato. Fra l’altro mi piace immaginare che qualcosa del lavoro di Dolci sia arrivato anche a lui, al giovane Peppino, visto che da studente negli anni Sessanta frequentava il liceo di Partinico e proprio li iniziò a partecipare alle manifestazioni. si, diciamo che Danilo era un rivoluzionario costretto a misurarsi non solo con la mafia ma anche con un altro potere repressivo, che della mafia, soprattutto allora, non era certo nemico. Quello dello Stato.
La ricordo bene la famosa triade della Sicilia repressiva di allora. Si componeva così: in testa c’era Mario Scelba, il ministro degli Interni di Portella delle Ginestre; poi c’era il prefetto di Palermo Angelo Vicari, che era del mio paese, Sant’Agata di Militello; e poi c’era il cardinale Ruffini, uomo dell’Opus Dei e ammiratore di Francisco Franco, il dittatore spagnolo. Anche lui aveva avuto a che fare con Portella delle Ginestre, nel senso che era andato a trovare Gaspare Pisciotta in carcere dopo l’omicidio a tradimento di Giuliano, e gli aveva raccomandato di non parlare. Un “uomo del Signore” indimenticabile. Sosteneva che le sciagure della Sicilia erano tre: il parlar di mafia, il Gattopardo, tutte e due perché gettavano discredito sulla Sicilia. E infine, per la medesima ragione, Danilo Dolci. Capito con chi aveva a che fare, Danilo? Per questo subì ogni tipo di sanzione. Venne più volte condanna-10, e perse anche qualche causa in tribunale per i suoi libri, lo ricordo perché pubblicava con Einaudi, con cui collaboravo.
Una specie di persecuzione.
Che invece non avvenne con Michele Pantaleone, un altro dei protagonisti dell’antimafia di quel periodo di cui oggi non si parla più, e ingiustamente, visto che furono sue le prime denunce circostanziate dei rapporti tra mafia e politica. Lui per i suoi libri alla fine fu prosciolto dalle accuse; chissà, forse era meno inviso al potere perché non faceva anche l’agitatore sociale. Scriveva ma non organizzava gli scioperi all’incontrario o le lotte per la diga sul fiume Jato.
Quel che mi dispiace è che allora il Partito comunista abbia preso le distanze da Dolci. Che, pacifista com’era, lo considerasse quasi un disturbo per il verbo e la dottrina della rivoluzione. Assurdo, veramente assurdo. Perché Dolci era un segnale di luce, in quel panorama, una grande speranza. Il mondo della sinistra intellettuale e civile non di partito, naturalmente, ne aveva un’altra opinione. Ricordo un bellissimo ritratto che ne fece Giuliana Saladino, grande giornalista dell’Ora, in Terra di rapina. Ma anche Carlo Levi, che per la Sicilia di quegli anni girò molto, gli dedicò grande attenzione. E ricordo che, dopo il mio primo libro, mi capitò spesso di discutere con Sciascia dell’importanza della presenza di Danilo in quel contesto faticosissimo. Come dimenticare, d’altronde, quella straordinaria esperienza di Radio Sicilia Libera di Partinico, con cui cercò di sfondare tra i primi il monopolio dell’informazione radiotelevisiva, e per la quale pagò, di nuovo, prezzi personali? In fondo Danilo era una specie di missionario laico, come forse lo fu anche Pio La Torre. I suoi successori hanno nomi meno conosciuti, come quel fratel Biagio di via Archirafi a Palermo, laico pure lui, che accoglie i diseredati, o quel salesiano del Capo, don Baldassare. Oppure nomi assai più conosciuti e non laici: quelli di padre Pino Puglisi o di don Luigi Ciotti, per esempio.
Purtroppo il suo metodo di inchiesta sociale, il suo modo, diciamo così, di essere sociologo, non ha fatto molta scuola. Ricordo un prete valdese, Tullio Vinay si chiamava, che sull’esempio di Dolci era andato a Riesi, in provincia di Caltanissetta, e aveva messo su una scuola tecnica per i ragazzi, per poi mandare i migliori da Adriano Olivetti. E aveva pure fatto uscire le donne dalle case in cui stavano rinchiuse dando vita a una cooperativa di ricamatrici. Erano quegli stessi anni, i Cinquanta e i Sessanta. Vinay ne scrisse anche un libro, Giorni a Riesi, mi sembra. Poi, dopo un po’ di tempo, venne eletto in parlamento. Ma di altre esperienze analoghe non mi viene in mente. Ed è un peccato.
Quanto c’era di siciliano in Danilo Dolci? Non mi sembra la domanda giusta, o meglio, quella che ci aiuta a capirlo di più. Bisognerebbe chiedersi piuttosto quanto c’era di intelligenza e di umanità. E poi, sul piano della curiosità intellettuale, a me appassiona semmai un altro tema: quello dei figli dei ferrovieri. Mi affascina questa categoria di intellettuali nati da ferrovieri siciliani: Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, lo stesso Dolci. Ci metto sopra d’istinto pure Pinelli, anche lui veniva dalla Sicilia. Probabilmente lì, in quella storia socia-le, i ferrovieri sono stati davvero l’aristocrazia della classe operaia, la componente popolare e del mondo del lavoro più consapevole.
Credo comunque che la storia di Danilo Dolci bisognerebbe metterla tutta in fila per poterla capire veramente. Figlio di ferroviere, intanto, abbiamo detto. Poi partecipa alla Resistenza, viene messo in carcere dai nazisti e scappa, va a Nomadelfia da don Zeno Saltini, quindi va a Partinico. E li le lotte sociali e quei bellissimi racconti di analfabeti e contadini scritti da un intellettuale coltissimo, che conosceva la letteratura russa, ma anche quella americana e quella tedesca, che scriveva poesie. E che aveva uno sguardo profondo e capace di andare lontano. No, tipi così non ne nascono spesso».
a cura di Nando dalla Chiesa
Milano 2010
Per Pio La Torre
“Noi fummo i leoni e i gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli.” Dice il principe di Salina a Chevalley, l’inviato del nuovo governo italiano, che gli offriva il laticlavio, la nomina a senatore. Ma il principe di Salina ignorava o voleva ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermi a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellati, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?
In quell’Ottocento post-unitario al governo italiano arrivavano sempre più spesso notizie di assassini, di stragi in Sicilia, nelle campagne e nei paesini dei feudi. Nel 1975 si promosse la prima inchiesta parlamentare sulla mafia in Sicilia. Ma i risultati furono quasi nulli perché tutti gli interrogati negavano l’esistenza di quella organizzazione criminale. Nel 1876 viene pubblicata l’inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino, un piemontese e un toscano, nella quale si parlava della specificità siciliana della malavita organizzata, della mafia. Insorsero allora le anime belle di intellettuali, che sentirono quell’inchiesta come una offesa alla Sicilia. Luigi Capuana scrisse un pamplet per contestare l’inchiesta dei due studiosi, servendosi della definizione che della mafia dava il grande etnologo Giuseppe Pitrè per il quale la parola maffia era sinonimo di bellezza, di eleganza. Bellezza ed eleganza che opprimeva, sfruttava, uccideva. Per la prima volta, nel 1863, si rappresenta il legame tra mafia e potere politico nella commedia di Rizzotto e Mosca, I Mafiusi di La Vicaria, in cui il personaggio dell’Incognito che visita nel carcere di Palermo i mafiosi è nella realtà Francesco Crispi.
Quando arriva anche in Sicilia il messaggio del Socialismo, iniziano i primi scioperi dei contadini, degli zolfatari. E inizia la repressione delle forze dell’ordine. I carabinieri sparano contro i dimostranti, imprigionano. Avviene nel 1893 la strage di Caltavuturo. Andrea Barbato, capo dei Fasci Siciliani, viene imprigionato. Ingrao, nonno di Pietro Ingrao, è costretto a scappare e a rifugiarsi nel Lazio. Con l’avvento del fascismo e l’andata in Sicilia del prefetto Mori, il prefetto di ferro, la mafia si occulta, si immerge. “Calati Juncu ca passa la china”, piegati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso. La verità è che i due poteri mafiosi, fascismo e mafia, non potevano coesistere. Il giunco, la mafia, si rialza, si fa più potente che mai con lo sbarco degli americani nel 1943 in Sicilia. Renato Candida, nel libro L’esercito della lupara, ci racconta che Lucky Luciano, scarcerato in America, viene portato in Sicilia e fatto incontrare con don Calogero Vizzini, il potente capo mafia di Villalba.
Fatto è che i primi sindaci nei paesi dell’interno della Sicilia, nominati dagli americani, sono quasi sempre mafiosi. E sono loro che reprimono le prime lotte contadine del secondo dopoguerra, sono loro che comandano ai picciotti di assassinare capilega, sindacalisti, contadini. Nel 1947, sappiamo, avvenne la strage di Portella della Ginestra.
Fu la mafia, sappiamo, a sparare per mano della banda di Salvatore Giuliano, e insieme furono i fascisti del comandante di Salò Giulio Valerio Borghese, a sparare contro i contadini che festeggiavano il primo maggio, nella spianata di Portella, intorno alla pietra di Barbato. È da partigiano nel Piemonte Pompeo Colaianni prende il nome di Barbato, e del partigiano Barbato ci dice Beppe Fenoglio nel Partigiano Jhonny. Le due mafie – fascismo e mafia – si ritrovano a Portella concordi nell’uccidere, nel massacrare i proletari.
Nel secondo dopoguerra è una sequela terribile di assassini di capilega, di sindacalisti, contadini. Ricordiamo fra tutti i nomi di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale (dell’indomita forza e dignità della madre di Salvatore, Francesca Serio, ci racconta Carlo Levi in Le parole sono pietre).
Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della riforma agraria, l’assegnazione ai contadini di “fazzoletti” di terra nei feudi dei Gattopardi. È La Torre che vogliamo qui oggi commemorare nel 25° anniversario della sua morte, del suo assassinio. Era nato nel I92l in una contrada alla periferia di Palermo, Rocca Tagliata. Figlio di contadini, era riuscito a laurearsi in scienze politiche. Nel 1947 diviene dirigente prima della Confederterra, poi della CGIL e quindi delle PCI. Nel 1950 è arrestato e tenuto in carcere per un anno e mezza, arrestato di aver organizzato l’occupazione da parte dei braccianti e dei contadini senza terra del feudo di Santa Maria del Bosco, nei pressi di Bisacquino. Nel 1962 diviene segretario regionale della CGIL e quindi segretario regionale del partito. Fa parte anche del comitato centrale del PCI. Nel 1969 è chiamato a Roma per incarichi nella commissione agraria e in quella meridionale. Entrerà quindi nella segreteria nazionale della PCI su proposta di Enrico Berlinguer.
Nel 1981, mentre è deputato a Montecitorio, torna in Sicilia e assume la carica di segretario regionale del partito. Toma perché sente che sono tre grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana nell’aeroporto di Comiso. Ci sono manifestazioni davanti a quell’aeroporto, vi si accampano giovani pacifisti giunti la da ogni parte di Europa, giovani che vengono puntualmente caricati e malmenati dalla polizia. Pio La Torre raccoglie un milione di firme in calce a una petizione al governo il cui presidente era allora Giovanni Spadolini. Con il suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’aeroporto di Comiso oltre a dover contenere i missili atomici delle rampe fisse avrebbe anche contenuto quelle mobili, che si sarebbero mosse per tutta la Sicilia. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, mafia, destabilizzazione, pericolo atomico, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. Una terribile stagione quella dell’inizio degli anni ’80 in cui la mafia uccide presidenti di regione, ufficiali dei carabinieri, commissari di polizia, magistrati, giornalisti. La mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre esce di casa e sale sulla macchina guidata dall’autista Rosario Di Salvo. Dopo pochi metri di strada, in via Generale Turba, tre motociclisti si affiancano alla macchina e sparano, sparano, massacrando i due uomini, La Torre e Di Salvo. Gli esecutori del massacro, si saprà poi, sono Salvatore Cucuzza, Pino Greco e Giuseppe Lucchese. Ma non si sa ancora oggi chi sono stati i mandanti. Giorgio Frasca Polara scrive: “in un dischetto del computer di Giovanni Falcone, dopo la sua morte, sarà trovata una traccia: un collegamento del nome di Pio La Torre con Gladio (l’organizzazione clandestina anti-comunista) e il SISMI, cioè il servizio segreto militare (interessato alla campagna su Comiso?)”
Abbiamo
iniziato con il Gattopardo, questo grande romanzo, ma con una concezione deterministica,
meccanicistica della storia, speculare alla concezione fatalistica di Giovanni
Verga. Abbiamo iniziato con le parole del principe di Salina per concludere ora
che i veri nobili non sono i leoni e i gattopardi, ma tutti quelli che hanno
lottato in Sicilia per la democrazia, per il rispetto dei diritti e della
dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Giovanni Falcone e i Paolo
Borsellino, tutti coloro insomma che hanno lottato e sacrificato la loro vita
per la libertà, la giustizia, il rispetto dei diritti di tutti. E Pio La Torre,
sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi,
I’ onore di Sicilia
e di tutto
questo nostro Paese. Onore a loro!
Vincenzo Consolo
Milano 21 aprile 2007
Letto a Firenze il 21 aprile 2007
congresso PD
pubblicato il 22 aprile 2007
Sull’Unità.