La critica considera abitualmente Retablo, il romanzo di Vincenzo Consolo uscito nel 1987, come un libro di viaggio. Consolo d’altronde si era ispirato a un viaggio fatto in Sicilia nel 1984 insieme a Renato Guttuso, Fabrizio Clerici, Sebastiano Burgaretta e altri artisti e intellettuali, tutti invitati a un importante matrimonio. In una conferenza tenuta all’Accademia di Belle Arti a Perugia il 23 maggio del 2003 Consolo affermerà che proprio da un: «Pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale».
Retablo si rivela infatti essere il racconto
del sogno di un viaggio, che obbedisce alla dinamica originaria del sogno,
dinamica centrata, com’è noto, su un punto cieco che Freud ha denominato
l’ombelico del sogno, e da dove nasce, si compone e si articola la
rappresentazione. Da questa prospettiva il personaggio di Rosalia, la
protagonista di Retablo, non è che
l’oggetto di un sogno (secondo le parole del testo di «un sogno angustiante»), oggetto
del desiderio inseguito da frate Isidoro lungo tutta la narrazione. E questo
fin dal prologo che ho scelto di intitolare Inno
a Rosalia. D’altronde Fabrizia Ramondino legge l’intero Retablo come «un’ode alla Sicilia».
Retablo è diviso, come un ideale trittico, in
tre portelli rispettivamente intitolati OratorioPeregrinazione, Veritas, e narra le peripezie dell’artista milanese Fabrizio
Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella
Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Ciò che spinge al viaggio questi
due personaggi è fondamentalmente una pena d’amore, Fabrizio avendo lasciato
Milano per allontanarsi dalla donna amata Teresa Blasco e mettersi, curiosamente,
alla ricerca delle origini siciliane di quest’ultima. Isidoro costretto ad
allontanarsi da Rosalia avendo rubato, per amor suo, il denaro ricavato dalla
vendita delle Bolle dei Luoghi Santi.
In Retablo
ci sono due riferimenti letterari a due Inni greci antichi, ad Asclepio e a Demetra,
donde la mia scelta del termine Inno inteso
come la forma più arcaica dell’invocazione rivolta all’Altro ossia, con le
parole di Retablo: alla «Madre e alla
Figlia».
Mi
limiterò qui a illustrare soltanto questo Inno
caratterizzato da un singolare e inconfondibile ritmo poetico. Ora, il ritmo
della prosa consoliana è certamente prodotto dall’ordine sintattico delle
parole, ma anche dal loro ordine prosodico e metrico, dall’inserzione di versi
endecasillabi specialmente, e perfino dalla disposizione fonetica delle parole,
cioè dalla materialità dei timbri e dei suoni, in breve da ciò che si potrebbe
definire una fonetizzazione generalizzata della scrittura. Sempre nella
Conferenza prima citata Consolo afferma: «La mia scrittura, per la mia ricerca,
è contrassegnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo
metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia».
L’Inno si compone di tre lasse separate da
un punto e un a capo. La prima è un canto attorno al nome Rosa, la seconda si articola attorno al nome lia, e la terza ritorna sul nome intero, Rosalia, questa volta associato a quello di Santa Rosalia, la
patrona di Palermo. A queste tre lasse, bisogna aggiungere il primo rigo del
paragrafo che le segue e che contiene l’emistichio, «Ahi!, non ho abènto»,
tratto dal celebre Contrasto di Cielo
D’Alcamo, Rosa fresca aulentissima.
Il
soggetto lirico dell’Inno è frate
Isidoro, pazzo d’amore per Rosalia, il quale dopo averla posseduta una sola
volta, la perderà per sempre. Nella prima lassa, l’oggetto cantato da Isidoro è
giustamente la rosa (segnalo en passant la coppia paronomastica Rosa-Isidoro), il fiore le cui lettere
formano la prima parte del nome dell’amata; a cui si aggiungono altri fiori,
che ne costituiscono delle variazioni sinonimiche.
Ciascuna
lassa è costituita da sequenze che contengono a loro volta delle piccole frasi,
separate da virgole, un punto e virgola e, a due riprese, da un punto
esclamativo seguito da una virgola. Questa punteggiatura, perfettamente
calcolata, separa dei segmenti narrativi allineati per asindeto o polisindeto,
seguendo un ordine principalmente paratattico ed enumerativo. Una prima e
fondamentale scansione ritmica discende da questa struttura paratattica, che fa
sì che una pausa intervenga alla fine di ogni piccola frase, di un sintagma, o
di un semplice vocabolo, marcati da un segno di interpunzione.
Prima lassa (5 sequenze):
Rosalia. Rosa e lia.
Rosa che ha
inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio
cervello s’è mangiato.
Rosa che non è
rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia,
magnolia, zàgara e cardenia.
Poi il tramonto, al
vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala
misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino,
scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge,
spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi.
Rosa che punto
m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
In
questo mirabile incipit, risalta in
posizione enfatica il nome di Rosalia,
un nome proprio immediatamente diviso in due lessemi, Rosa e lia. Si possono
contare dodici occorrenze del lessema rosa:
la prima parte del nome Rosalia (Rosa),
le varianti participiali e aggettivali róso
e odorosi, e anche, la disseminazione
sonora delle lettere r – o – s – a: misericordia, scorre, chiostro, grommosi, cuore. Inoltre il termine rosa
(il fiore) è il soggetto grammaticale della frase che chiude la prima lassa:
«Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore». Pertanto
la maggior parte delle occorrenze (nove, precisamente) denotano il fiore, salvo
quella incorporata in Rosalia, che rinvia sia al nome proprio sia al fiore.
Rosalia dunque, l’oggetto del desiderio che Isidoro non cessa di inseguire, è
assimilata a una panòplia di fiori (datura,
gelsomino, bàlico, viola, pomelia, magnolia, zagara, cardenia), di cui
alcuni contengono almeno due lettere del termine rosa, e altri almeno due lettere appartenenti al termine lia. Questa rosa dunque, che non è
solamente una rosa, ma che s’innesta su tutti gli altri fiori menzionati,
produce su Isidoro curiosi e inebrianti effetti di felicità e insieme di
infelicità, conformemente a una lunga tradizione letteraria.
Inoltre
il ritmo di questa prosa sembra obbedire a una scansione sintattica marcata
dalla pausa, l’arresto della voce e al contempo a una scansione che,
sovrapponendosi alla precedente, ne modifica l’andamento. A una prima lettura,
in effetti, il cambiamento d’accento tonico di alcune parole, dalla penultima
alla terzultima sillaba, genera una sorta di inciampo, una interruzione del
ritmo più spesso regolare, piano e quasi monotono («gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia,
magnolia, zàgara e cardenia. Poi il
tramonto, al vespero, quando nel
cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere
sfervora»). Bisogna leggere e rileggere la lassa per accorgersi che non è
così, poiché la regolarità, apparentemente ostacolata dall’irruzione
dell’accento sulla terzultima sillaba di alcuni vocaboli, è in realtà
rimodulata su un’altra linea di sonorità, che è quella del livello
soprasegmentale della scrittura (come per i termini: bàlico, zàgara, vèspero, àere, vàlica, bàlsami). Questa prima parte
dell’Innoa Rosalia si rivela così estremamente ricca di figure di fonetica
come: allitterazioni (rosa/rosa ecc.; sfera/aere/sfervora; cancello/scorre/coglie/coinvolge),
rime (Rosalia/Rosa e lia; inebriato/sventato/mangiato; pomelia/magnolia; datura/frescura/clausura;
fiati/distillati; odorosi/grommosi
ecc.), e figure metriche, tra cui una dialefe, m’ha, hai!, messa in evidenza da un polisindeto, un’elisione
iniziale e un punto esclamativo finale.
Nella
seconda lassa (2 sequenze) prevalgono invece le variazioni attorno a lia, termine lungamente reiterato, che si
congiungerà alla fine della lassa col termine Rosa, dunque di nuovo Rosalia,
seguito da un chiasmo: «Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?», che
contiene, per di più, una sintomatica citazione petrarchesca («De la dolce et
amata mia nemica», Canzoniere, v. 2
del sonetto CCLIV «I’
pur ascolto, et non odo novella»):
Lia che m’ha liato
la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno
sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio
dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia
che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal
pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece
dov’affogai, ahi!, per mia dannazione.
Corona di delizia e
di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine,
rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco
vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?
Infine
la terza lassa (3 sequenze) delinea, attraverso un’originalissima ekphrasis, il
corpo (piuttosto il simulacro) di Rosalia:
T’ho cercata per
vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai colli a la Marina, per piazze
per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo
sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e
perla scaramazza, mandola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai
ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e
pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare.
Ignoravano il mio
piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo
per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo
della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo, le rose
carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e
gli occhi rivoltati in verso il Cielo…
Rosalia, diavola,
magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola
quella vecchia bagascia di tua madre?
Ciò
che sembra emergere dall’analisi dell’Inno
a Rosalia è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto
femminile, forse inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle
due tradizionali Venere celeste e Venere terrestre (amor sacro e amor profano),
subentra in Retablo una sola figura
femminile dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e intensamente
desiderata. Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela
grazie all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali
appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione
di queste due Veneri, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera dell’amore
e della corrente sensuale del desiderio, che fa sì che i tratti ideali e i
tratti erotici si intrecciano.
L’Inno a Rosalia si svolge dunque seguendo un ritmo regolare, e tuttavia interrotto da alcuni inciampi o sospensioni. Una sorta di deviazione viene così prodotta dall’irruzione allucinatoria dell’oggetto del desiderio che il Soggetto crede finalmente di potere attingere e possedere. È l’impossibile cattura di questo oggetto meraviglioso o mostruoso, che impone al tempo regolare dell’Inno di arrestarsi, per poterlo aggirare e mascherarne il vuoto per mezzo di una momentanea discordanza ritmica.
Breve estratto dal volume di Rosalba Galvagno L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo (Milella 2023), presentato a San Mauro Castelverde per il III° Festival di Poesia Paolo Prestigiacomo (25-26-27 agosto 2023).
«Veritas»: è questo il titolo di
una delle tre parti che compongono Retablo,
romanzo pubblicato da Sellerio nel 1987.[1] Il
titolo fa riferimento al termine spagnolo utilizzato per indicare un polittico,
una pala d’altare composta da tre pannelli: tre infatti sono le sezioni del
libro, giustapposte una all’altra, in quanto tre versioni diverse della
medesima vicenda. Ma retablo è anche
una citazione del Retablo de las
maravillas di Cervantes, la cui trama viene dichiaratamente ripresa per
farne un breve episodio incastonato tra le pagine del romanzo: il Cavalier
Clerici, nobile milanese in viaggio attraverso la Sicilia, assiste per le
strade di Alcamo a una truffa da parte di due artisti di strada ai danni dei
loro ingenui spettatori, e si accorge che l’inganno è lo stesso sui cui si basa
l’atto unico di Cervantes.[2] Ma
non è questa l’unica citazione presente nel romanzo, che anzi è fittamente
intessuto di riferimenti ipertestuali. Un’altra fonte importante, per esempio, individuata
tra gli altri da Bellanova, è l’Italianische Reise di Goethe:
In
Italianische Reise di Goethe, in particolare, Consolo coglie la ricerca
di una rinascita, un cammino a ritroso verso le radici della civiltà e della
cultura che ha la sua necessaria conclusione proprio in Sicilia. Qui si svelano
al viaggiatore del Nord, come in una iniziazione misterica, gli straordinari
prodigi dei templi e dei marmi e, in questo, l’Odissea diventa “parola
viva”: attraverso l’arte figurativa gli si svela la grandezza della poesia
epica antica.[3]
Per comprendere a pieno questi
riferimenti ad altre opere letterarie, è utile rifarsi al saggio La metrica della memoria, in cui Consolo
ripercorre brevemente la sua produzione narrativa, fornendo le coordinate per
interpretare ciascuna delle sue opere, affermando, a proposito di Retablo, che «per i rimandi, le
citazioni esplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un
ipertesto letterario e di un palinsesto».[4] Proprio
alla luce di queste considerazioni dell’autore, si rende necessario soffermarsi
brevemente sulla nozione di «palinsesto» nell’uso specifico e particolare che
ne fa Consolo. A tal proposito credo possa essere illuminante un aneddoto di
Cesare Segre, il quale ricorda, a proposito di Lunaria:
Quando
Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io gli mostrai di
riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la
fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi
itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne
vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello
scrittore.[5]
Alla base delle citazioni di
Consolo vi è dunque l’idea che non si scrive mai nel vuoto, e la convinzione
che «bisogna sapere con esattezza cosa ci ha preceduto e cosa si sta svolgendo
intorno a noi», abbandonando qualsiasi illusoria pretesa di una letteratura
ingenua e vergine.[6]
Le citazioni e le riscritture sono in questo senso il segno evidente del fatto
che si scrive sempre su una pagina già scritta: da qui l’idea di una scrittura
palinsestica. È da notare che la nozione stessa di «palinsesto» sia una
evidente assonanza al lavoro di Genette che, proprio in quegli anni, aveva
tracciato un’esaustiva mappa di quella che aveva definito «la letteratura al
secondo grado».[7]
In particolare, dei cinque tipi di transtestualità
individuate in Palimpsestes, sono
due quelle che riguardano più da vicino l’opera di Consolo: l’intertestualità e
l’ipertestualità. L’intertestualità
viene definita come «la relazione di copresenza fra due testi», che solitamente
si risolve nella «presenza effettiva di un testo in un altro»: in questa
categoria rientrano la citazione, il plagio e l’allusione.[8]
Mentre il termine ipertestualità fa
riferimento a «ogni relazione che unisca un testo B […] a un testo A […] sul
quale si innesta in una maniera che non è quella del commento»: in questa
categoria molto ampia rientrano le varie forme di riscrittura o di pastiche.[9]
Le due forme di transtestualità
agivano già nella prima produzione di Consolo. In particolare Turchetta, a
proposito de La ferita dell’aprile, suggerisce la presenza di alcune
riprese intertestuali di testi fondamentali del modernismo europeo: non solo
già il titolo La ferita dell’aprile si
presta a essere letto come un rimando ad «April is the cruellest month», verso
incipitario di The Waste Land com’è
noto, ma vengono individuate analogie strutturali e tematiche (l’educazione di
un giovane in una scuola di preti) anche con A Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce.[10]
Ma il gioco intertestuale
raggiunge il suo apice in Lunaria, la cui natura di riscrittura al
quadrato è segno di un mutato rapporto tra la letteratura e il mondo, nella
misura in cui alla letteratura sembrano essere necessari un numero sempre
maggiore di «livelli di realtà» da frapporre tra sé e il suo oggetto. L’intertestualità
non si riduce però a quella che Genette ha definito ipertestualità, ma assume in Lunaria
l’aspetto di un’infinita trama di citazioni a tema appunto lunario, che attinge
a piene mani dalla tradizione letteraria italiana e non solo. Sono citati, e si
nominano solo i casi più lampanti a una prima lettura, Dante, Ariosto,
ovviamente Leopardi, ma anche Cyrano de Bergerac, Pascal, Galileo Galilei e
Pirandello.[11]
In Lunaria la realtà sembra essere sempre più distante e intangibile; il
sogno, l’evasione letteraria, la citazione come forma di presa di distanza dal
reale possono essere interpretati come chiari segni di un cedimento a istanze
tipicamente postmoderne, posizione qui non accolta per motivi che cercheremo di
spiegare più avanti.
In Retablo queste modalità di riscrittura diventano il fulcro stesso
della narrazione, e la natura di palinsesto del romanzo non è solo riconosciuta
a posteriori dallo scrittore, ma è apertamente dichiarata all’interno delle
pagine del libro. Il cavalier Clerici, protagonista della vicenda, esprime
infatti la convinzione che l’essenza di ogni arte sia di «essere un’infinita
derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto».[12]
Inoltre, quest’idea di letteratura che scrive sempre su qualcosa di già scritto
è resa icasticamente in un episodio emblematico del romanzo: il cavalier
Clerici, nella sua «peregrinazione» per la Sicilia, viene derubato delle sue
carte e delle sue chine, con le quali avrebbe voluto disegnare le antichità di
cui è alla ricerca, e con cui, soprattutto, avrebbe continuato a scrivere il
diario del viaggio – dedicato alla donna amata, Teresa Blasco – che è,
naturalmente, il testo che il lettore ha tra le mani. Per non interrompere la
narrazione, il Cavaliere riesce a rimediare delle vecchie pergamene da un convento,
sul cui verso è raccontata la storia
a tinte fosche di una fanciulla dal nome Rosalia, ingannata da un frate e
vendicata da un converso che si farà in seguito bandito, e sul cui recto può proseguire il suo diario. Il
gioco metatestuale è portato da Consolo alle sue estreme conseguenze: e così,
nella parte centrale del romanzo, si alternano effettivamente pagine scritte in
corsivo, in cui sono raccontate le vicende di Rosalia, e pagine in tondo in cui
prosegue il resoconto di Clerici, in quello che è un «palinsesto» nel senso
letterale del termine a dimostrazione che «qualsivoglia nuovo scritto che non
abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco
di altri scritti».[13]
Questo motivo dell’«infinita
derivanza» e del «furto continuo» ha portato la critica a considerare Retablo «uno degli esempi più
consapevoli e meglio riusciti di una via italiana alla letteratura postmoderna».[14]
Flora di Legami a tal proposito ha messo in evidenza come proprio questi tratti
facciano sì che «la funzione del romanzo novecentesco, e di questo in
particolare, si avvicina […] a quella del teatro barocco», nella misura in cui
la scrittura diviene il mezzo «con il quale si percepisce la molteplicità e il
disordine dei dati oggettivi, che la macchina del romanzo ricostruisce».[15] Questo
accostamento tra il postmoderno e il barocco non è nuovo – si ricorderà la
celebre definizione di Eco di postmodernismo come manierismo della modernità –
ed è stata più volte chiamata in causa per definire l’opera di Consolo nella
sua totalità, e di Retablo in
particolare. Se Traina fa riferimento a Lunaria
e Retablo come a un «dittico
barocco», forse la definizione migliore del secondo elemento del «dittico»
rimane quella proposta da Sciascia, che lo ha definito «un delirio barocco
riflesso in uno specchio illuministico».[16] Per
comprendere questa definizione apparentemente paradossale occorre soffermarsi
brevemente sulla struttura e sul contenuto del romanzo.
L’elemento illuministico è
facilmente identificabile: la vicenda è ambientata nel Settecento e il
protagonista è un pittore milanese, appartenente alla cerchia dei fratelli
Verri e di Cesare Beccaria, suo rivale in amore. Proprio perché la parte
centrale del romanzo non è nient’altro che il diario del suo viaggio in
Sicilia, la narrazione è filtrata dal suo occhio di intellettuale illuminista,
con tanto di citazioni da Rousseau e accorati appelli contro la tortura e la
pena di morte.[17]
Lo spirito razionalista di Clerici si manifesta in tutto il racconto, a partire
dal suo infelice amore per donna Teresa, sul quale cerca sempre di tenere uno
sguardo sereno e misurato, facendo da contraltare al furor amoris di Isidoro, il fraticello smonacato che lo accompagna
nel suo viaggio. È stato notato come, in questa parte centrale del romanzo,
«invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava
la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose
conseguenze della passione del fraticello “che per amor venne in furore e
matto”».[18]
Il romanzo, sebbene il diario di
Clerici ne costituisca la parte centrale, nonché la più corposa e articolata, è
in realtà – come si è detto – tripartito, e a ognuna delle tre sezioni
corrisponde un diverso narratore che fornisce la sua versione dei fatti: da cui
deriva appunto il titolo Retablo. Dunque la prima parte, «Oratorio», è il
racconto, portato avanti da frate Isidoro, del suo amore per una giovane
ragazza del popolo di nome Rosalia (che, nonostante alcune somiglianze non è la
Rosalia della pergamena su cui scrive Clerici), per la quale ha smesso la veste
monacale. Al fine di guadagnare i soldi necessari a sposare la ragazza, Isidoro
accetta di accompagnare Clerici, incontrato per caso al porto, nel suo viaggio
ma, ritornato a Palermo dopo qualche settimana, scopre che la sua Rosalia lo ha
abbandonato, e, riconosciutene le fattezze in una statua (non a caso, allegoria
della Verità), impazzisce di dolore. La Rosalia amata da Isidoro, divenuta
cortigiana, è la modella da cui effettivamente lo scultore Serpotta si ispira
per la sua statua, e il povero frate, ignaro di tutto, riconoscendo i tratti
della fanciulla, «davanti a la Verità,
divenne matto». Ma proprio perché incarnata da Rosalia, personaggio sfuggente e
inafferrabile, che inganna e mente, la sovrapposizione tra i due volti assume
valore antifrastico, mostrando che la verità, per quanto possa essere «bella»,
sia una vana chimera, la cui ricerca non può che rimanere frustrata.[19] La
terza parte «Veritas» è lo speculare
racconto di Rosalia, la quale, venuta a conoscenza delle disgrazie occorse al
povero Isidoro, gli scrive per dirgli addio, spiegando che, sebbene non abbia
mai smesso di amarlo, ormai vive come cortigiana a palazzo ed è prossima a
partire per una tournée come cantante
d’opera.
Le tre tavole che formano il Retablo sono quindi tre punti di vista
sulla medesima storia, che viene però raccontata da prospettive diverse che si
integrano a vicenda.[20] Se
infatti Isidoro liquida in poche parole le settimane di viaggio, da lui
intrapreso solo nell’ottica di tornare al più presto a Palermo dalla sua amata
Rosalia, quel medesimo viaggio viene raccontano nei minimi dettagli dal
Cavalier Clerici, che al contrario annota solo di sfuggita la scena di
disperazione di Isidoro di fronte all’allegoria della Verità. Il romanzo si
configura quindi come un gioco di specchi decisamente barocco, in cui la
medesima vicenda assume connotati differenti in funzione del punto di vista da
cui è osservata, e in cui anche la Veritas
è una immagine illusoria dinnanzi alla quale la ragione può venire meno. La
moltiplicazione prospettica dei punti di vista è l’elemento strutturale forte
da cui prende le mosse l’intero impianto romanzesco. Il gioco degli sguardi
ricorda al lettore come ogni narratore sia inevitabilmente inattendibile in
quanto portatore di uno sguardo parziale, che si focalizza su aspetti che,
visti da una differente prospettiva, sono assolutamente marginali e
trascurabili. Come è stato giustamente notato, «Retablo avrebbe quindi
la funzione di rappresentare la realtà non nel senso di una manierata mimesi,
ma in quello di un avvertito e moderno racconto iconico. Il retablo
diventa dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare
il reale in maniera univoca e attendibile».[21]
Ma il barocchismo del romanzo
raggiunge il suo vertice a livello stilistico, in una lingua che, su una base
di italiano sostenuto e arricchito da arcaismi, atti a simulare quello settecentesco
dei personaggi, innesta virtuosismi, citazioni nonché innumerevoli inserti
metrici. Sono numerosi i passi che sarebbe possibile riscrivere in versi,
ottenendo serie endecasillabiche, con sporadici inserti settenari, sul modello
della canzone leopardiana.[22] Si
veda ad esempio, nelle prime pagine del diario di Clerici: «Mosse la carrozza
dal mio albergo / nel crepuscolo incerto del mattino, / io dentr’a la vettura
col valletto / e l’altri due di fora uno a cavallo / come caporedina e l’altro
a terra / come palafrenero / armati si schioppi e di terzette./ I passi nel
silenzio delle bestie, / il dondolio di cuna lo stridere / monotono dei cuoi,
precipitaro / nel sonno, se mai n’uscì levandosi / il povero Isidoro».[23] O
ancora l’incipit «Ga/i/gian/net/ti e/ no/vi/ let/ti/ca/ri», che peraltro
riprende il verso dantesco «Novi tormenti e novi tormentati».[24] O,
per rimanere nelle citazioni della più alta poesia italiana: «E sedendo e
mirando, e ascoltando»,[25] in
cui il calco leopardiano è talmente evidente da non dover essere esplicitato (a
cui sono da aggiungere anche calchi montaliani, e specificamente da Ossi di seppia e Occasioni).[26]
Fin dal vertiginoso incipit,
lunghissima invocazione di Isidoro alla donna amata, lo stile si impone come
protagonista indiscusso del romanzo, in un gioco di suggestioni e di assonanze
che fin da subito annulla la funzione referenziale della parola, per
restituirle il suo ruolo poetico e evocativo primario:
Rosalia.
Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato,
rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è
datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e
cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera
d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del
mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del
chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi
distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina
velenosa in su nel cuore.[27]
Per questo inizio tutto giocato
sul nome nella donna amata è stato giustamente chiamato in causa il celeberrimo
incipit di Lolita, ma, e non è niente
di più che una suggestione, un simile gioco sul termine «rosa», e sul suo ruolo
centrale nella storia della letteratura italiana, era stato accennato anche da
Eco nelle sue postille a Il nome della
rosa.[28]
Queste righe sono inoltre rivelatrici anche della propensione di Consolo per la
paratassi, e per quelle «enumerazioni a catena» che vengono da lui ricondotte a
«un bisogno di realismo», in quanto, eliminati i passaggi sintattici, diventa
possibile isolare il sostantivo «che indica immediatamente la cosa».[29]
È questo un passaggio su cui
occorre soffermarsi: quando Consolo afferma che il suo «bisogno di realismo»
viene appagato dal sostantivo isolato, sta implicitamente dando una definizione
ontologica della sua scrittura. E, sia detta come precisazione metodologica, nel
momento in cui si chiarisce il rapporto di un autore con la realtà, si definiscono
anche le sue implicazioni con la nozione di verità, e quindi, nel caso di
Consolo, la sua eventuale collocazione nell’alveo del postmodernismo. Appare
evidente come il termine «realismo» venga inteso da Consolo in un’accezione
particolare, che di sicuro non fa riferimento a quella dominante nella seconda
metà dell’Ottocento e rivitalizzata, almeno in Italia, tra gli anni Trenta e
gli anni Sessanta del Novecento. Eppure, anche assumendo con cautela «uno degli
‘ismi’ più ambigui e controversi di tutta la cultura occidentale, la cui
imprecisione nomenclatoria è direttamente proporzionale alla quantità e alla
varietà dei fenomeni che intende rubricare», è difficile comprendere in che
senso lo stile elencatorio di Consolo possa essere ricondotto nell’alveo del
realismo.[30]
Se è vero che, per dirla con Pellini, «a diverse idee di realtà corrispondono
diversi realismi», occorre allora in primo luogo capire quale sia la nozione di
realtà a cui lo scrittore fa riferimento.[31]
Spostando il baricentro del discorso
dai generi letterari a un livello più propriamente ontologico, si può dire che il
realismo di Consolo, per cui il nome designa «immediatamente» l’oggetto a cui
si riferisce, sembra indagare soprattutto la natura del rapporto tra le parole
e le cose. Se il romanzo di Eco – sette anni prima – si chiudeva con il trionfo
del nominalismo e con l’accettazione, tipicamente postmoderna, di un’assoluta
alterità tra i «nudi nomi», convenzionali ed effimeri, e la realtà, il
tentativo quasi ossessivo di Consolo di definire il suo oggetto con lunghissimi
elenchi di sostantivi, può al contrario essere letto come sintomo di una
perdurante fiducia nelle possibilità del linguaggio di afferrare e dire
l’oggetto, la cosa in sé. In quest’ottica il realismo è quindi da intendersi
nel senso di una concezione forte della parola, che, per quanto convenzionale,
ha ancora un rapporto diretto con il suo oggetto, e può – e deve – dire
qualcosa di esso. Infatti, se da una concezione assolutamente nominalista del
linguaggio, per cui questo non ha un legame forte con la realtà, discende la
logica conseguenza che la letteratura, proprio in quanto artificio linguistico,
non può avere nessun appiglio sul «mondo non scritto», una concezione realista
può al contrario condurre a esiti di maggior impegno sul reale, o quantomeno a
una problematizzazione, anche sofferta, del valore della parola scritta. Appare
quindi evidente come Consolo non possa in alcun modo essere accostato a un
postmodernismo per cui la letteratura è un gioco su sé stessa e con sé stessa,
e per cui la parola non ha più nessun contatto con il reale.
È proprio questa riflessione
della letteratura su sé stessa a rappresentare il filo rosso di tutta la
narrativa di Consolo; e Retablo, pur
nella sua apparenza di «svago affabulativo» e di «vacanze rispetto agli altri,
più esplicitamente impegnati romanzi», è, secondo Traina, il frutto più maturo
di una questa meditazione letteraria condotta alla luce del «confronto costante
fra storia e metafisica, tra destini collettivi e privati».[32]
Ancora una volta, come avveniva nel Sorriso,
in cui Consolo lasciava la parola al Barone Mandralisca, il demandare l’atto
narrativo a uno dei personaggi consente la rappresentazione della scrittura nel
suo farsi e la conseguente apertura a riflessioni metanarrative nonché a
definizioni di campo quasi programmatiche. Clerici, nello scrivere il suo
diario indirizzato a Teresa Blasco, si interroga innanzitutto su quale debbano
essere gli argomenti accolti nel suo racconto:
Ma
pure lo scrivente, io stesso intendo, che mi riprometto d’osservare, di
disegnare e riprodurre le sole antichitate, ogni residuo o testo di remoto o
evo, quieto e fermo, bagnato dall’incantanto e smemorante, dall’estatico mare
metafisico, non posso qualche volta dispensarmi di guardare immagini attuali,
di vita bruta, dolente e indecorosa.[33]
Nell’opposizione dell’«estatico
mare metafisico» alla «vita bruta» è racchiusa quella tensione tra ricerca
stilistica e impegno etico, che Turchetta ha indicato come motore primo di
tutta la narrativa di Consolo.[34] Per
quanto in Retablo prevalga
effettivamente un concezione della letteratura come consolazione e fuga dal
vivere quotidiano, esemplificata da alcune riflessioni di Clerici sulla
scrittura come sogno, la storia, nella sua drammaticità, non può essere
completamente esclusa dalla narrazione.[35] E la
storia entra nel racconto in forma duplice, come è proprio dei romanzi storici
(Retablo essendo anche un romanzo storico): da un lato sono infatti i tempi in cui
svolge la vicenda ad essere sottoposti a critica («peggiori di quanto noi
pensiamo sono i tempi che viviamo!» esclama a un certo punto il narratore), ma
ancora una volta è la contemporaneità di Consolo che emerge, metaforizzata e
nascosta dietro i velami della distanza cronologica. È già stato da altri
notato, per esempio, come l’invettiva di Clerici contro la Milano settecentesca
sia anche un’allusione alla «Milano “da bere” degli anni Ottanta e dell’era
Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo e corruzione».[36]
È tuttavia innegabile che il
nucleo tematico forte di Retablo non
sia più da ricercare nelle riflessioni sui destini collettivi, o nell’indagine
dei rapporti di egemonia culturale tra le diverse classi sociali, ma sia,
evidentemente, l’amore, autentico motore di tutte le azioni del romanzo. Anche
il razionalista Clerici, dietro il sorriso olimpico, cela un grumo di
sofferenza amorosa, per fuggire il quale ha intrapreso il suo viaggio erudito.[37] È lo
stesso Consolo ad ammettere che «Fabrizio Clerici è la rivendicazione di quanto
l’ideologia politica non poteva comprendere e contemplare: i sentimenti umani».[38] Il
ritorno al privato non è in alcun modo negato e, anzi, sembra anche in questo
caso essere accolto con un certo sollievo, ma non è mai portato avanti in
chiave intimistica o psicologica. Proprio la natura di palinsesto del romanzo
mette in salvo da un eccesso di intimismo e fa sì che la rivitalizzazione del
motivo amoroso avvenga sotto l’egida dei grandi modelli della tradizione
letteraria italiana e non solo: sono chiamati in causa Boiardo, Ariosto,
Shakespeare, massimi interpreti di quell’amore che è «inseguimento vano, è
inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre
inappagato»; sono inoltre evocati i sempre presenti Dante, Petrarca e Leopardi,
le citazioni dai quali non si contano, ma anche il Cyrano di Rostand e alcune novelle del Decameron.
La chiusura della stagione dell’engagement aveva definitivamente
svincolato gli scrittori dall’obbligo morale di una letteratura in grado di
agire direttamente sulla realtà. A questa mutata situazione Consolo non
reagisce però con una reazionaria chiusura della scrittura su sé stessa, ma,
proprio perché ormai libero da qualsiasi istanza ideologica proveniente
dall’esterno, giunge alla consapevolezza che «lo scrittore deve fare il proprio
mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può
guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non
meno che estetiche».[39] Nel
momento in cui la letteratura è di nuovo solo
letteratura, può effettivamente interrogarsi sul suo valore e sulle sue
possibilità. E questa riflessione nulla concede all’autocompiacimento dell’arte
per sé stessa, se si pensa all’episodio del giovinetto di Mozia, che si
conclude con queste parole: «Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema
civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più
volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo».[40]
La medesima alterità profonda
tra arte e vita è dichiarata a chiare lettere da Consolo nelle ultime pagine di
Retablo, in cui don Gennaro, il
protettore di Rosalia, grande artista, cantate lirico di fama mondiale, ma,
proprio per questo, castrato, esprime tutto il suo rimpianto per un’esistenza
vissuta da spettatore:
Siamo
castrati, figlia mia.[…] Siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare
questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… stiamo ai margini,
ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con
nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre
davanti.[41]
Sebbene l’arte sia altro
rispetto alla vita, e sebbene anche la scrittura sembri tendere
irrimediabilmente verso il silenzio, la posizione di Consolo, ancora a questa
altezza cronologica, rimane quella di una concezione etica della letteratura,
costantemente tesa ad afferrare il mondo, seppur consapevole dell’inevitabile
sconfitta. Ha pertanto ragione dunque Turchetta quando afferma che
Consolo
non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla
percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del
proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente
segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un modo che pure egli intende
cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza.[42]
D’altro canto Martinengo ha
potuto notare come nella produzione consoliana «la sperimentazione linguistica [sia]
il corrispettivo letterario della fiducia dell’autore nel ruolo civile e
sociale della letteratura e dei letterati; i picchi della sperimentazione si
raggiungono nei momenti in cui questa fiducia è massima».[43] In
questo senso si può affermare che Retablo rappresenta un momento di medietas
stilistica, in cui i picchi sono presenti (si pensi al già citato incipit),
ma vengono immediatamente ricondotti a una scrittura certamente meno
sperimentale rispetto a quella del Sorriso, ma comunque ancora impegnata
in un confronto corpo a corpo con il reale.
In conclusione, possiamo affermare che è necessaria una sofferta indagine della scrittura su sé stessa, affinché questa possa prendere autocoscienza di sé e, non più succube di obblighi morali, assumere una piena e coerente consapevolezza etica: ricorda Adamo che «Consolo non credeva nell’innocenza dell’arte: gramscianamente sosteneva che bisogna sempre sapere da dove si parte per sapere dove si vuole andare».[44] In questo senso si è potuto parlare di «aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della sua distanza dall’azione reale», consapevolezza che avvicinerebbe Consolo ad alcune riflessioni di Sereni e Fortini.[45] Di fronte alla scoperta che «la poesia / non muta nulla», la risposta di Consolo sembra infatti essere la medesima formulata da Fortini, in un imperativo categorico che non ammette repliche: «nulla è sicuro, ma scrivi».[46]
SINESTESIEONLINE SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE» XI, n. 37, 2022
[1]V. Consolo, Retablo, Sellerio, Palermo 1987, ora in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Mondadori, Milano 2015. [2] «L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vuole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza.» (V. Consolo, L’opera completa cit., p. 397). [3] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 190. [4] V. Consolo, La metrica della memoria, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di G. Adami, Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189. [5] C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XV. [6] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo, in «Bollettino di italianistica», Carocci, anno V, n. 2, 2008, p. 70. [7] G. Genette, Palimpsestes. La littérature au second degré, Éditions du Seuil, Parigi 1982. [8] Ivi, p. 5. [9] Ivi,pp. 7-8. [10] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. XXXVIII. Sul rapporto tra Consolo e Dedalus si veda anche M. Martinengo, Il debito modernista di Vincenzo Consolo: ‘La ferita dell’aprile’ e ‘Dedalus’, in La funzione Joyce nel romanzo italiano, a cura di M. Tortora, A. Volpone, Ledizioni, Milano 2022. [11] Sui riferimenti intertestuali in Lunaria si vedano: C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voce. La polifonia nella letteratura del Novecento, Einaudi, Torino 1991; N. Messina, ‘Lunaria’ dietro le quinte, in Lunaria vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor,Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia 2006 pp. 179 – 191; I. Romera Pintor, Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón, in La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo cit., Manni, San Cesario di Lecce 2006, pp. 177-189; P. Baratter, ‘Lunaria’: il mondo salvato dalla luna, in «Microprovincia, n. 48, 2010, pp. 85-93. [12] V. Consolo, Retablo, cit., p. 398. [13] Ivi, pp. 421-423. [14] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fielsole 2001, p. 82. [15] F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43. [16] L. Sciascia, Il sogno dei Lumi tra Palermo e Milano, in «Corriere della Sera», 18 dicembre 1987 (citato in F. Di Legami, Vincenzo Consolo cit. p. 43). [17] Cfr. ad esempio la seguente citazione: «Fu allora che m’accorsi, dal punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare. […] La vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e ammirante.» (V. Consolo, Retablo cit., p. 381). [18] N. Izzo, Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo, in «reCHERches» [Online], 21, 2018, online dal 05 ottobre 2021, p. 116. [19] V. Consolo, Retablo cit., p. 465. [20] A proposito di questa moltiplicazione dei punti di vista, interessante è l’osservazione di Bisanti, che ha notato come «la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia. Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta.» (in T. Bisanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in ‘Retablo’ di Vicenzo Consolo, in «Cahiers d’études italiennes», 5, 2006, pp. 62-63). [21] A. Chmiel, Rompere il silenzio. I romanzi di Vincenzo Consolo, Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego, Katowice 2015, pp. 64-65. [22] Sul rapporto tra la prosa consoliana e la poesia si veda M. Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», 10, 2005, pp. 19-30, in particolare: «Una vera e propria “struttura-azione” di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia» (p. 21). [23] V. Consolo, Retablo cit. p. 382. [24] Ivi, p. 400. [25] Ivi, p. 415. [26] Ivi, pp. 442-443. Per i rimandi montaliani mi permetto di rimandare a quanto ho già scritto in A. Macori, Tra modernismo e postmoderno. Echi montaliani in Retablo, in «Mosaico italiano», n. 213, agosto 2022, pp. 12-15. [27] V. Consolo, Retablo cit., p. 369. [28] «L’idea del Nome della rosa mi venne quasi per caso e mi piacque perché la rosa è una figura simbolica così densa di significati da non averne quasi più nessuno: rosa mistica, e rosa ha vissuto quel che vivono le rose, la guerra delle due rose, una rosa è una rosa è una rosa è una rosa, i rosacroce, grazie delle magnifiche rose, rosa fresca aulentissima» (U. Eco, Postille al nome della rosa, Bompiani, Milano 2010, p. 508). [29] S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 72. [30] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 17. [31] P. Pellini, Realismo e sperimentalismo, Il modernismo italiano, a cura di M. Tortora, Carocci, Roma 2018, p., 138. [32] G. Traina, Vincenzo Consolo cit. p. 79. [33] V. Consolo, Retablo cit. p. 399. [34] G. Turchetta, Vincenzo Consolo, in Il romanzo in Italia. vol. IV – Il secondo Novecento, a cura di G. Alfano, F. de Cristofaro, Carocci, Roma 2018, p. 356. [35] «Perché viaggiamo, perché veniamo fino in questa isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni, intendo, come sostanza dei nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione de presente, del viver quotidiano» (V. Consolo, Retablo cit., p. 413). [36] G. Turchetta, Il luogo della vita: una lettura di ‘Retablo’, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro, ETS, Pisa 2014, p. 650. [37] «Ah, doña Teresa, cos’è mai questa febbre malsana dell’innamoramento, quest’insania, questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello, che come colombella o essenza sublimata se n’è volato al cielo, alle silenti valli della luna! Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo rosseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio, laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?» (V. Consolo, Retablo cit., p. 393). [38]S. Gentili, Letteratura, storia e realtà. Conversazione con Vincenzo Consolo cit., p. 73. [39] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa cit., p. XXIX. [40] V. Consolo, Retablo cit., p. 453. [41] Ivi, p. 473. [42] G. Turchetta, La letteratura come nostalgia della vita. ‘Retablo’ di Vincenzo Consolo, in Sguardi sull’Asia e altri scritti in onore di Alessandra Cristina Lavagino, a cura di C. Bulfoni, E. Lupano, B. Mottura, LED, Milano 2017, p. 349. [43]M. Martinengo, Quando teoria e prassi non vanno all’unisono. Sperimentazione formale e impegno civile nell’opera di consolo, in «L’Ellisse», XV, 2020, 2, p. 134. [44] G. Adamo, Ricordo di Vincenzo Consolo, in «Italica», Winter 2012, Vol. 89, n. 4, p. V. [45] Ibidem [46] F. Fortini, Traducendo Brecht, in Una volta per sempre [1963], ora in F. Fortini, Opere, Mondadori, Milano 2014, p. 238.
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia. Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo 1. Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé un’immagine di Itaca come luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo avventuroso e minaccioso e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà 2. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile3 . Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare 3 la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. Patria dolcissima solo nel ricordo è anche la città di Argo per Ifigenia. La sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma che ormai, senza che lei lo sappia, è luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura4 – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È questa la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo, infatti, non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico. Il mito e la letteratura, come si vede, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi. 2. Itaca non c’è più: la voce di Consolo. A chi percorre le pagine di Consolo non sfugge l’insistente riflessione, che nasce da più di uno spunto autobiografico, sul rapporto travagliato tra l’esule e la propria patria. In tutta la sua opera lo scrittore pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci –, al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – quasi Enea che abbandona un’Ilio compromessa –, prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato. Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, come scrive Consolo, «costruita dai Proci»5 , ha perso cioè l’identità della tanto sospirata patria delle radici in uno stravolgimento sociale e culturale: gli usurpatori hanno avuto la meglio e l’esule è impotente di fronte a un mondo che non gli appartiene e a cui non appartiene. Nella seconda opera, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. È un’Itaca stravolta allora, quella dell’approdo, una terra in cui l’ulivo non ha posto, perché in essa non c’è più ombra di civiltà, e scomparso, irrimediabilmente, è anche il conforto della famiglia, già fagocitato dalla debole salute mentale di una moglie ormai morta, che niente ha a che fare con la Penelope omerica. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiaman5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali do in causa i simboli della tragedia euripidea6 , tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno7 , che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità8 . La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui era ancora possibile un equilibrio. 3. Itaca con tutti i sensi. Nell’esilio la patria lontana – nello spazio e nel tempo – appare luminosa, contrapposta a un Nord, anche fuor di metafora, decisamente grigio. Una complessa trama di paesaggi visivi, con evidente omaggio al mondo dell’arte e della pittura, ma anche di paesaggi sonori, olfattivi, persino gustativi, che si sovrappongono e si intersecano, concorre a definire la Sicilia. Se indubbia è in ciò una ricca componente letteraria, al di là del topos però la pagina consoliana rivela una sensibilità che si lega al vissuto dell’autore: memoria e confronto personale con i luoghi determinano l’immagine che questi assumono sulla pagina scritta9 . Alla Milano affollata che propone sollecitazioni da grande città del Nord alla vista e all’udito – ben oltre il modello letterario va l’apprezzamento per l’umanità multicolore di Porta Venezia e per il suo vario patrimonio gustativo, mentre il fetore di Seveso10 è traccia olfattiva di un progresso feroce, dell’inquinamento e della deriva politica che a questi si accompagna – la Sicilia si contrappone con la sua festa dei sensi. Retablo, in particolare, è una straordinaria esibizione di percezioni sensoriali che testimoniano la scoperta e la sorpresa di fronte alla ricchezza e alla diversità dell’isola. Fin dal suo approdo a Palermo Clerici deve fare i conti, alla maniera dei viaggiatori del Grand Tour, con la novità delle sollecitazioni visive, sonore, olfattive11. Ma il protagonista e voce narrante accoglie soprattutto le capacità percettive del suo autore: la Sicilia è l’isola della memoria e gli straordinari paesaggi sensoriali che descrivono le rovine di Segesta o di Selinunte, l’universo arcano di Mozia, rivelano un compiacimento nella percezione che appartiene a Consolo, siciliano alla scoperta della propria terra. Pur senza abbandonarsi all’idillio a tutti i costi – attraverso la prospettiva di Clerici emergono anche tracce sensoriali non edificanti – l’autore tratteggia la propria Itaca come una terra che seduce con le sue innumerevoli sollecitazioni sensoriali. È in particolare nelle descrizioni gastronomiche di cui abbonda il racconto che emerge il compiacimento di Consolo12: non vi si può rintracciare dunque solo il modello letterario – la meraviglia del viaggiatore di fronte alle offerte culinarie – ma anche il gusto dello scrittore che ricorda i sapori della sua terra. L’interesse per pietanze dolci e salate è d’altra parte presente anche nella produzione giornalistica e saggistica e confessato in testi scopertamente autobiografici in cui emerge come tratto intimo la predilezione per i cibi del Sud, in contrasto con quelli evidentemente meno invitanti del Nord13. Itaca insomma nutre con il suo gusto anche a distanza e preziosa è la riserva d’antichi sapori e nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. odori che nei lunghi e grigi inverni del Nord riporta al ricordo del paese14. E anche se un nuovo approdo all’isola, in Ritorno al paese perduto, sottopone al rischio di nuove e per nulla confortanti sensazioni – non solo la casa non è più la stessa, pure la vista dal terrazzo è mutata, e più forte del senso della vista diventa quello dell’udito nel registrare un nuovo, invadente e sgradevole paesaggio sonoro15 – più forte del tempo resiste nella vivacità dell’allocuzione al lettore nel più tardo Natali sepolti il gusto delle radici: l’offerta diretta di un pasto appartenente alla Sant’Agata del passato, fatto di salsiccia, vino dell’Etna, profumatissime mele d’oro, interrompe il flusso narrativo e sembra testimoniare, nell’immediatezza dell’uso del presente, che qualcosa si è salvato16. 4. Proteggere le radici. Al di là della permanenza delle percezioni gustative, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento. La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi. Illuminante è la riflessione dello scrittore sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado e i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità. Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono in maniera rapida e feroce – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. La sua opera invita dunque – e in ciò risiede la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi. Il passato, come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica, può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo? Sei nato dal carrubo e dalla pietra da madre ebrea e da padre saraceno. S’è indurita la tua carne alle sabbie tempestose del deserto, affilate si sono le tue ossa sui muri a secco della masseria Brillano granatini sul tuo palmo per le punture delle spinesante17. Solo se ripartiamo da questo, quindi, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Solo salvando le radici, come le piante, possiamo avere speranza di non perire. *** 3 V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371. 4 B. Westphal, Le miroir barbare. Géocritique de la Tauride, in A. Le Berre (a cura di), De Prométée à la machine à vapeur: cosmogonies et mythe fondateur, Pulim, Limoges 2005, pp. 13-33. 5 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869. 6 V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, pp. 615-621. 7 Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico-XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982. 8 «Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. 9 La percezione di un luogo e la sua rappresentazione, come insegna la geocritica, non si possono limitare all’unica componente visiva. B. Westphal, Geocritica: reale, finzione, spazio, trad. di L. Flabbi, Armando editore, Roma 2009, p. 184. Sulla necessità di cogliere la presenza delle percezioni sensoriali nella caratterizzazione letteraria dei luoghi reali, si veda anche D. Papotti, Istruzioni geopoetiche per la lettura della città di Napoli, in F. Italiano, M. Mastronunzio (a cura di), Geopoetiche. Studi di geografia e letteratura, Unicopli, Milano 2011, pp. 43-63, a p. 49. 10 V. Consolo, Replica eterna, in Id., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, p. 180. 11 Id., L’opera completa, cit., p. 403. 12 A proposito W. Geerts, L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in B. Van den Bossche (a cura di), Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, Cesati, Firenze 2000, pp. 307-316. 13 «Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa, olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete», V. Consolo, Un giorno come gli altri, in “Il Messaggero”, 17 luglio 1980, ora in Id., La mia isola è Las Vegas, pp. 87-97, a p. 92. 14 Id., E poi la festa del patrono, in “Corriere della sera” 15 agosto 1990, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 139-42, a p. 141. 15 Id., Ritorno al paese perduto, in “Il manifesto” 5 aprile 1992; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 146-149, a pp. 146-147. 16 «Ecco, io allora infilzerò con lo spiedo un rocchio di quella salsiccia fresca, condita con grani di pepe e semi di finocchio, lo farò arrostire sopra la brace, e l’offrirò a te, gentile lettrice, a te, caro lettore, insieme a un bicchiere rosso dell’Etna e a una mela d’oro, di quelle che mandava a casa nostra il compare Panascì. […] Erano mele gialle e lucide, dolcissime, che impregnavano la casa di profumo. Sovrastava il loro odore di pomelia e cedro, quello delle arance, dei fichi secchi, delle sorbe, delle zizzole, dei melograni e delle cotogne», Id., Natali sepolti, in AA.VV., Cantata di Natale. Racconti per venticinque notti di attesa, San Paolo, Milano 2001, pp. 83-89; ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 191-194, a p. 193. 17 Id., Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
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In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vincenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva: Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultanze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’iperletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1
1 G. Raboni, E nevicò con cocci
lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .
Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spiccatamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilinguismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto)»2
2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,
1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dalle pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrittura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.
I tre aggettivi scelti da
Raboni per definire l’iperletterarietà consoliana appaiono quanto mai esatti:
essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di
un contesto in cui i riferimenti si confondono, si amalgamano con la
scrittura, diventano allusione, tonalità di un racconto; è elegante, perché
spesso sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso
quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di
particolare ricercatezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinconica,
perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra
natale, la fine del mondo contadino, il livellamento operato dalla lingua dei
media.
La letteratura di Consolo è
una letteratura dal limite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima
che essa decada nel non essere. È proprio questa malinconia ciò che collega
l’iperletterarietà all’altro elemento centrale, e apparentemente discordante,
della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromissione costante della
scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi
romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del
presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del
passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione
dell’uomo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annientamento. «La storia
è sempre uguale»3
3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,
scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, romanzo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La letteratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.
In un’intervista rilasciata a
Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle
ragioni profonde delle sue scelte narrative:
Credo di avere
un progetto letterario che perseguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di
raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti
critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4
4 V. Consolo, Autobiografia della
lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli
uomini, Bologna, 2016, p. 13.
In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:
Io credo che la letteratura debba […] imporsi appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umiliazione e sfruttamento (isolate ed estranee al flusso principale della storia). Supremo compito della letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.
In questa propensione verso
gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana.
Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlando del suo
sguardo sul Risorgimento siciliano espresso nel romanzo Il sorriso
dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi
degli emarginati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una
strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto
marinaio racconta, tra le altre cose, la rivolta contadina di Alcara Li
Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una
serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo delle truppe
garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più
complesso di quanto potrebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una
condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano
un circolo vizioso di violenza e dolore. In una delle pagine finali del
romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che possiamo
considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio
amico? una scrittura continua di privilegiati»6
6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .
La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La
5 riflessione è
ancora veicolata dal personaggio di Mandralisca: «Ed è impostura sempre la
scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi
e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .
Si nota insomma come la
questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comunque
da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con
l’impegno professato dallo scrittore. A spiegarcelo è Consolo stesso,
nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di
Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come
Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella
che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di
tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera
illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamente e
idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società
che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore
equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instaurarsi «di un potere
politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta
stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel
segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice
linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le
periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Consolo
non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il
grande deposito linguistico» lasciato in Sicilia dallo stratificarsi di popoli
diversi è così diventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno
stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione,
che rappresentava un importante ingranaggio di quella macchina di integrazione
e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti
e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota,
d’altronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul
racconto della fine del mondo contadino sopraffatto dalla nuova realtà
industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la
scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancellazione del passato,
che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il
mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conservare la
memoria di ciò che era prima:
Credo che sia proprio questo
il dovere della letteratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto
con le nostre matrici linguistiche, che erano anche matrici etiche, matrici
culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e
perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è
memoria e soprattutto memoria linguistica. (Autobiografia della lingua,
p. 12)
La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’interno dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che meglio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrittore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6
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Per quanto le pagine di Vincenzo Consolo siano disseminate di figure femminili, per alcune di esse non è facile delinearne i contorni o il profilo secondo i moduli tradizionali del ritratto o del personaggio a tutto tondo, anche perché spesso tali figure sono metaforizzazioni di oggetti naturali o culturali. La Sicilia ad esempio (e con essa il Mediterraneo tutto), nella sua complessità di «esistenza» e di «storia», di bellezza e di orrore, di attrazione e di repulsione, di natura e di cultura, di storia e di arte, di guerra e di pace, di mafia e di eroi, è sicuramente l’oggetto femminile più emblematico della scrittura di Consolo. Tutti gli altri non sono che degli avatars, dai più orridi ai più teneri, di questo oggetto fondamentale che egli ha inseguito durante tutto il suo percorso di uomo e di artista, approssimandosi forse di più ad esso e perfino attingendolo (immaginariamente, s’intende) nei resti archeologici, nelle pietre antiche. I personaggi femminili consoliani consistono sovente in semplici nomi di figure mitologiche o di sante, in mere elencazioni caotiche di questi nomi, che si configurano come delle vere e proprie antonomasie. Nomi di divinità o ninfe mitologiche talvolta accompagnati da un predicato (Afrodite, Artemide, Aretusa, Ciane, Demetra, Persefone, Hera, Athena, Venere celeste, Diana delle cacce, Cerere delle messi siciliane, Malophòros, Ecate, Medusa, Core, Sfinge, Europa, Scilla, Antigone, Circe, Sirene ecc.); di sante o comunque di figure cristiane (Giovanna d’Arco, Santa Rosalia, Santa Lucia, la Madre, Annunziate, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne ecc.). Ora, queste semplici citazioni onomastiche non sono certo delle eccedenze barocche, dei meri ornamenti retorici, ma sono appunto delle antonomasie che vanno lette come autentici significanti, cioè nomi. 1 Tutti i romanzi di Consolo sono citati da questa edizione. attraverso i quali il testo veicola ed evoca una pluralità, spesso contraddittoria, del femminile, come accade ad esempio col termine Malophòros al quale è accostato, tra gli altri, il termine mele (miele), che ricorre in altre due pagine dello stesso capitoletto (In Egesta degli Elìmi) del romanzo Retablo, in particolare nel contesto fortemente erotizzato della Confessione di Rosalia Granata: «come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele»1. Questo significante della dolcezza, specie quella erotica e materna, si riverbera anche nel capitoletto successivo (In Selinunte greca), nella mirabile descrizione della dea Malophòros, descrizione generata di fatto dalla prima parte del nome della dea: «e il tempio sacro in fondo e segretissimo in cui nel recesso più interno e proibito era Lei, la Molle, l’Umida, la dèa che porta la mela e che la dona, l’inconoscibile, insondabile padrona» (p. 437), dove a «Molle» si affianca qui il termine «mela», l’attributo proprio della dea, che designa il frutto e connota al contempo la fertilità. Accanto a questi nomi propri femminili appartenenti alla nostra tradizione mitologica e cristiana, incontriamo anche dei nomi comuni di parentela come madre, moglie, sorella, figlia, signora, fidanzata, i nomi cioè dei legami familiari più intimi spesso dolorosamente drammatici, come ad esempio il termine «sorella» riferito all’anonima fanciulla portata in corteo funebre sempre nel capitoletto intitolato In Selinunte greca del romanzo Retablo. O le sorelle di Petro Marano, Lucia e Serafina, intaccate anch’esse dal male catubbo (dalla melanconia) nel capitolo IV, La torre, del romanzo Nottetempo, casa per casa. D’altronde il capitolo VIII, la cui epigrafe è una citazione tratta dalla Nedda di Verga2, si intitola significativamente Le donne, mentre il capitolo X, Pasqua delle rose, introduce la tenera figura di Grazia la Piluchera, l’accogliente amante (prostituta?) di Petro (pag. 731 ss.). Da L’olivo e l’olivastro preme ricordare almeno la Lucia del Seppellimento di Santa Lucia del celebre dipinto di Michelangelo Merisi: Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente […]. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. (pp. 828-829) E la stessa madre dello scrittore, toccante e indimenticabile «vecchia Euridice»: La guardava, ne studiava la faccia, la pelle sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti, i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli orecchini. Ma presto provava imbarazzo, disto- glieva lo sguardo, gli sembrava di violare l’intimità indifesa di quella donna ch’era sempre stata candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi. […] Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma come, quando?) e s’era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto della partenza, far tornare lei, vecchia Euridice, di là dall’ombra dell’oblio? (pp. 848-849) Accanto a queste due ultime figure (Santa Lucia e la madre) delle quali, a differenza delle precedenti antonomasie, lo scrittore ci consegna un ritratto rapido ed essenziale, sono anche presenti nei suoi testi delle metaforizzazioni del femminile, come quella, notissima, della «chiocciola» del Sorriso dell’ignoto marinaio (pp. 233-238), o in Retablo quella dell’«arancio » (p. 427) o del «corallo» (pp. 454 ss.) e persino del tempio: il tempio di Segesta all’occorrenza, nella cui descrizione insistono le «madri» e la gran «Madre» (p. 414). Ma, tra gli oggetti inanimati, o più precisamente cosmici, bisogna annoverare la luna disseminata ovunque nelle pagine consoliane, 20 al centro, segnatamente, della splendida favola teatrale Lunaria. La luna come figura per eccellenza del femminile («Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via») 3 ha una lunga tradizione nella nostra letteratura, basti qui citare l’esempio massimo del Canto di un pastore errante dell’Asia, e anche delle altre numerose lune di Leopardi, come quella dell’Odi Melisso e del Tramonto della luna letteralmente evocate in Lunaria. Dopo questa rapida rassegna di figure femminili, vorrei soffermarmi sul capolavoro di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, che si apre su una interessante figura di donna, Catena Carnevale, un personaggio dal nome altamente simbolico, per quanto lo scrittore si sia ispirato a una donna reale di Lipari di nome Maria Maggiore. Se il nome proprio Catena rinvia immediatamente alla scrittura, alla catena significante, il cognome Carnevale non può non evocare una straordinaria eroina popolare immortalata da Carlo Levi in Le parole sono pietre: Francesca Serio madre di Salvatore Carnevale, una donna che non aveva paura di pronunciare, per ottenere giustizia per il sacrificio del figlio ucciso dalla mafia, «parole di pietra»4. Il ritratto di Catena viene presentato dapprima nell’Antefatto del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e quindi ripreso e arricchito di ulteriori tratti, nel secondo capitolo intitolato L’albero delle quattro arance. Di Catena sappiamo che è bella e irraggiungibile, la sua bellezza però non s’incarna in un corpo reale di donna, piuttosto in una sorta di raggio luminoso che al tempo stesso la vela e la svela «al rapido saettar d’occhi traversi […] dei giovani che passano e ripassano per la strada di San Bartolomeo » (p. 127)5. Ricama e sa decifrare la scrittura barocca delle ricette, sicché torna utile al padre speziale in Lipari. È «un’intellettuale»6, nervosa, irritabile, meteoropatica, un mistero quanto all’amore. A tal punto furiosa, da infierire sul ritratto dell’Ignoto perché somigliante al suo fidanzato lontano, con 3 Lunaria, p. 315 4 Cfr. C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 1955, pp. 138-152. Consolo ha dedicato allo scrittore torinese un denso saggio raccolto nella settima e ultima sezione di Di qua dal faro (Milano, Mondadori, 1999, pp. 251-257) intitolata significativamente Le parole sono pietre. 5 Vincenzo Consolo ha svelato, nel corso di un Convegno a lui dedicato e tenutosi a Capo d’Orlando nell’ottobre del 2006, che l’immagine alla quale questa descrizione di Catena rinvia è quella di una Annunciazione. 6 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma, 1993, p. 43. 7 Ivi, p. 46. 8 «il povero esclama / al fondo di tanto abisso / terra pane / l’origine è là / la fame senza fine / di libertà» (pp. 250-251). quel sorriso che l’affascina tanto quanto la perseguita, un sorriso inafferrabile che potrà incatenare, lei già incatenata da quel sorriso, solo sfregiandolo col punteruolo d’agave da ricamo, solo lasciandovi sopra, tale un’erinni, il segno della sua passione assoluta (p. 127). Vorrei ancora, prima di passare a Rosalia, forse la figura princeps della ricca galleria di figure femminili consoliane, soffermarmi sull’ultimo capitolo (IX) del Sorriso dell’ignoto marinaio, che contiene le famose scritte graffite sui muri del carcere dai rinchiusi colpevoli dell’eccidio di Alcara Li Fusi. Paradossalmente e perfino scandalosamente, questo carcere a forma di chiocciola rappresenta forse il luogo per eccellenza del ‘femminile’, della scrittura autentica, corale e acefala, «indipendente da un corpo o da una mente» (p. 222), una scrittura capace di tradurre in linguaggio il trauma originario del Soggetto e della Storia. Un trauma che, nel punto finale della riscrittura storico-metaforica degli eventi riportati nel romanzo, si mostra quasi allo stato puro senza i «colori dell’affresco»7, graffito di carbone e messaggio poetico per chi può leggerlo e intenderlo. L’ultima strofe dell’ultima scritta sul muro è infatti in lingua sanfratellana, incomprensibile per lo stesso Mandralisca e per noi lettori: U pauvr sclama Suogn ‘nta u mar Au Faun di tant abiss Terra pan L’originau è daa La fam sanza fin Di Libirtaa 8 Di questa strofe in sanfratellano la prima edizione del romanzo non forniva alcuna traduzione. Ora, proprio gli ultimi cinque, poeticissimi versi rinviano ad una parola mancante (propriamente la parola muta del desiderio), una parola fondamentale perché generatrice dell’intero canto. Si tratta della parola ‘lontananza’ intesa come separazione dall’oggetto d’amore, vera e propria parola ombelicale che si iscrive nell’ordine silenzioso della lettera, e che coincide con quello che Freud nell’Interpretazione dei sogni chiama ‘ombelico del sogno, kern-punkt, punto opaco e non più decifrabile del desiderio del sogno, ma anche punto di generazione plurima e sovradeterminata della scrittura del sogno. Ma c’è di più. Soggetto di questa ‘lontananza’ è una fanciulla, una figura femminile dunque. È stato possibile risalire a questa parola ombelicale grazie all’eccellente studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano nel Sorriso. Lo studioso afferma che il verso: au faun di tant abiss, rigo 28 della scritta, è ripreso dall’ottava num. 19 (dal titolo La lontananza) della raccolta di Luigi Vasi (p. 286), un’ottava d’amore che tratta appunto il tema della lontananza (Suogn ‘nta u mar au faun di tant abiss ‘sono nel mare al fondo di tanto abisso’ piange la fanciulla per la lontananza dell’amato nell’ottava popolare) da cui Consolo sa trarre elementi per la costruzione di un testo che tratta il tema della rabbia sociale, dell’odio di classe e del desiderio di vendetta9. D’altronde l’intera strofe è costruita con versi presi da varie altre ottave del Vasi e abilmente intrecciati dallo Scripteur, al fine di trasmettere un messaggio innanzi tutto etico-sociale, rivoluzionario, rivendicativo. Ma, mi permetto di postillare, questo messaggio è strutturato poeticamente e per di più in una lingua ‘altra’. Inoltre la voce che emana dal fondo dell’abisso, frammento di corpo staccato dal soggetto che la enuncia, è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato, la stessa voce profonda, anonima ed enigmatica che modula il canto della strage, del trauma, della separazione, della lontananza. E passiamo infine alla figura di Rosalia nel romanzo Retablo, un romanzo diviso, com’è noto, in tre parti: due portelli laterali Oratorio e Veritas, e un portello centrale, Peregrinazione. Esso narra il 9 S. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del «Sorriso dell’ignoto marinaio» e di «Lunaria», in Dialetto e letteratura a cura di Giuseppe Gulino ed Ermanno Scuderi, Pachino 1989 (Atti del 2° Convegno di studi sul dialetto siciliano – Pachino 28/30 aprile 1987), p. 135. 10 «Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei» (p. 371). viaggio e le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Fin dal celebre prologo di Retablo da me chiamato Inno a Rosalia, la figura femminile non si riduce a una mera rappresentazione realistica. Essa soggiace piuttosto a delle figurazioni metamorfiche, che vanno dal ritratto a tutto tondo della protagonista Rosalia all’«ottuso vortice» (p. 422) del corpo del godimento. Non a caso Rosalia è esattamente definita in due luoghi, e fuori da ogni figurazione possibile, come «la causa di tutto, il motore primo» (p. 372) secondo le parole di Isidoro, e «il motore primo del miracolo» (p. 420) secondo le parole dell’altra Rosalia, perché di «Rosalia» ce ne sono almeno due in Retablo. Il romanzo non farà che dispiegare dall’inizio alla fine ciò che il prologo annuncia: la perdita e quindi la quête di Rosalia, cioè dell’oggetto del desiderio e dei suoi avatars, che si incarna nelle figure di Rosalia Guarnaccia, l’amata di Isidoro; Teresa Blasco, l’amata di Fabrizio Clerici; alle quali bisogna aggiungere Rosalia Granata, la donna sedotta da Frate Giacinto da Salemi e salvata da Vito Sammataro, un frate costretto a farsi brigante. O, infine, «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 423). Accanto a queste vi sono altre importantissime figure femminili come quelle mitologiche e religiose già citate all’inizio di questo saggio o altre figure minori come Luzìa o Lucia Barraja (p. 467), che fa parte anch’essa della galleria delle Rosalie. E se si volesse delineare un ritratto fisico, esteriore (secondo la terminologia dei teorici del Rinascimento italiano) di Rosalia10, è vero che esso consiste soltanto di alcuni tratti quali l’età (ha 15-16 anni), lo sguardo acceso da lampi d’un fuoco di smeraldo, i capelli colore del rame, i denti di cagnola, mentre il suo ritratto interiore è fissato dall’ossimoro angelo/ diavolo, permanendo inestricabili i tratti angelici e diabolici. È anche fresca, odorosa, bella di sette bellezze ecc., ma soprattutto ha un bel nome, infatti l’inno inaugurale del romanzo è una variazione attorno 22 al nome di Rosalia. Isidoro, d’altronde, risponderà a Fabrizio Clerici che Rosalia «È solamente il nome» (p. 386). Ciò che sembra emergere dall’analisi testuale dell’Inno a Rosalia11 è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile forse del tutto inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse). Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due figure di donna, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengono interscambiabili. Le figurazioni del corpo di Rosalia vanno dunque dal ritratto della giovane adolescente paragonata per la sua bellezza al corpo della statua di Santa Ro- 11 Per questa analisi dettagliata cfr. Rosalba Galvagno, «Hymne à Rosalia» dans «Le Retable» de Vincenzo Consolo, in «Revue des Études italiennes», dirigée par François Livi et Claudette Perrus, Varia, Tome 63, n. 3-4/2017, pp. 41-53. salia, all’allegoria della Veritas scolpita dal Serpotta, ad una panòplia di metonimie del corpo (sguardo, capelli, denti, ossa, reliquie, voce), alla ‘lettera’ e, per finire, al corpo del godimento difficilmente rappresentabile: si tratta piuttosto di una figura senza figura del reale, ma al quale Consolo riesce addirittura a dar voce e nella cui specifica e originalissima articolazione si situa la scrittura dell’eros. La mise en abyme di questa scrittura si situa nel bel mezzo del romanzo, in quell’eccentrico capitoletto intitolato Confessione, voluto in corsivo da Consolo. Ora, la grandezza e l’importanza letteraria di questa Confessione risiede proprio nella scrittura, difficilissima, dell’estasi mistica e al contempo arditamente sensuale del corpo di Rosalia ridotto qui a puro strumento del godimento, pura voce, pura onomatopea di una «gioia grande e senza nome»: «O bona, o bella, o santa creatura!» dissemi con quella sua voce flautata stringendo forte nelle sue le mani mie.
«O padre, o padre, per me pietate, vi chiedo abènto!…» riuscii a sospirare, e venni meno. Mi ritrovai, al risveglio, riversa su un giaciglio dentro un casalino ov’erano gli attrezzi per la selva, la testa sul grembo del mio frate, che la mano, ora con forza e ora lievemente, passava sul mio petto, mentre il core affannoso mi battea come del coniglio stanato dal furetto. E dal petto quindi in giuso si moveva, fin su la nicchia ove natura pose il nocciolo del caldo, il seme, il fomento d’ogni brama, godimento, levitando, sfiorando tratteggiando, come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele, mentre che l’origlier crescendo s’impetrava. O foco, foco! Foco che in segreto ardi su la lampa, fiamma che bruci e non consumi! Foco che avvampi il core, l’ossa, ardi il midollo, ogni fibra dell’anima, del corpo! […]. Ah il furore, il delirio, l’ottuso vortice, la danza, da cui sortiva sempre inappagata, sempre anelante all’amor di lui, di lui che a poco a poco si negava, di Lui che m’appariva irraggiungibile! E prona pecora belava, guaiva cagna cana, hau hau, lamentava, ma’, ma, tata cicia caca, ohu ohu, nerva rova urìca, ahi ahiahi, mala mele fima… (pp. 416-422) 23
1 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano, 2015, p. 418. 2«… faceva altri lavori più duri che da quelle parti stimavansi inferiori al compito dell’uomo» (p. 710).
“Mese Consolo”, una serie di eventi per celebrare i dieci anni dalla scomparsa dello scrittore Vincenzo Consolo
Sbeffeggiando chi lo accusava di essere anacronistico, con un
sorriso sardonico, rispondeva che era anche anacreatico. Sono trascorsi dieci
anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, uno dei più grandi scrittori del
Novecento italiano. Era un gelido pomeriggio milanese del 21 gennaio 2012. L’anniversario
sarà ricordato nel corso di un intenso “Mese Consolo”, una serie di eventi curati
da Ludovica Tortora de Falco, regista nel 2008 del film “L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo”. Manifestazioni che
si snoderanno dalla Sicilia a Milano in collaborazione con la “Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori”. Vincenzo
Consolo, per tutta la vita, ha difeso, custodito, una lingua feriale che non
esisteva più, conferendo incessantemente asilo alle parole espunte
dall’imperante linguaggio televisivo plastificato.Ma ad un certo punto della sua carriera è come se l’autore di “Retablo” avesse avvertito la fatale
stanchezza della parola.
“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”. Così scriveva Vincenzo Consolo ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998). La riflessione maturata tra le pagine del romanzo era affidata al protagonista, Gioacchino Martinez, scrittore di libri difficili, fratti, complessi. Il protagonista, invecchiando, si sentiva uno sconfitto, un vinto verghiano. Si interrogava sul significato, sull’efficacia del suo lavoro, sulla funzione della letteratura. Vincenzo Consolo raccontava spesso del triste finale di partita scelto da Giovanni Verga, l’afasia, il suicidio del narratore. Il grande scrittore catanese, abbandonata Milano, fece ritorno in Sicilia e decise di non scrivere più. Il rimando all’autore de “I Malavoglia”, alla sua scelta estrema, Consolo lo aveva affidato al suo duale letterario Martinez. Il silenzio, come già per l’Empedocle di un altro suo testo, “Catarsi”.
Scrittore
eccentrico e irregolare.
Consolo aveva dunque deciso per la progressiva ritrazione. Disubbidienza
e continua sottrazione che lo avevano sempre caratterizzato. Non aveva mai ceduto
alle lusinghe dell’esposizione televisiva. Non aveva mai accettato di affollare
talk-show, librerie e classifiche. Le
scansioni temporali che separano le uscite dei suoi libri non attengono ai continui
singulti nevrotici dell’industria letteraria. Consolo era un irregolare, non
era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica
diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e
anche in Sicilia. “È siciliano, non
scrive in italiano. È barocco. È oscuro. È pesante come una cassata. Le sue
narrazioni non sono filanti: ma chi si crede di essere, ma come si permette?”. Era questo il paradigma declinato dai suoi
detrattori. Erano tanti i suoi nemici: cardinali della letteratura italiana, maggiordomi
untuosi di consorterie politiche, raccontatori a cottimo delle gazzette di
palazzo, maestri di inenarrabili gilde e di buie consorterie. Avevano ragione a
detestarlo, perché a ognuno di loro aveva dedicato parole di disprezzo
ineguagliabili. Vincenzo Consolo era un impertinente, irriguardoso, sprezzante,
fiero, severo e inflessibile. “Credo che
uno scrittore debba essere comunque contro, scomodo. Se un intellettuale non è
critico, diventa cortigiano. È stato così per Vittorini, per Pasolini e per
Sciascia, intellettuali contro che il sistema non è riuscito a fagocitare,
assoldare, arruolare, ostentare”. Un intellettuale contro, questo è stato
il suo paradigma esistenziale.
Milano
approdo di ragione.
Come l’amato Verga, Consolo era approdato a Milano. La città lombarda era stata per una fitta schiera di scrittori siciliani luogo di speranza, approdo di ragione. La stessa città che, presto, si trasformerà per lui in illusione infranta, amara realtà. La città lombarda dell’approdo e la Sicilia disperante sono state il suo cruccio, una Tauride duale. Come lo zio Agrippa di vittoriniana memoria, Consolo continuava a fare la spola tra la Sicilia e Milano. Operava un continuo dettato esplicito di denuncia all’indirizzo di una Sicilia irredimibile e disperante. Non perdevano occasione per rinfacciarglielo i sicilianuzzi dileggiati. Facevano garrire sul pennone più alto lo stendardo abusato della Trinacria rinfacciandogli la fuga, l’abbandono. Un proclama di palazzo aveva messo al bando i libri di Consolo. Libri bollati come inadeguati, colpevoli di un insopportabile rimando a una Sicilia cupa, operando così l’isolamento e la sconfessione, consolidate pratiche criptomafiose. Il continuo dileggio operato da certa intellettualità isolana è stato un vero tormento per Consolo. Non amava le piccole patrie lo scrittore di Sant’Agata di Militello, non firmava manifestini autonomisti, non rivendicava insulse predominanze culturali.
Ignoto
antigattopardo
La sua è stata una letteratura alta, di respiro internazionale. Lo testimoniano i numerosi riconoscimenti, come il “Premio dell’Unione Latina”, una sorta di Nobel per gli scrittori di lingua latina. Lauree honoris causa gli sono state conferite dagli atenei più autorevoli. Riconoscimenti accademici tributati a Parigi, Madrid, Salamanca, Dublino, Amsterdam. Mirabile l’attacco del suo romanzo Retablo : “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato (…)”. Libro che gli varrà il “Premio Grinzane Cavour” nel 1988. La figura centrale è il pittore lombardo, Fabrizio Clerici giunto a Palermo in un vago Settecento. Il libro fu pubblicato dalla casa editrice “Sellerio” con una nota introduttiva di Leonardo Sciascia. Scrittura icastica quella consoliana, connaturata da un’intensa immaginazione pittorica. La pittura era la sua seconda grande passione. Esemplari le sue prefazioni di mostre. Inserti, racconti, prove d’autore che lo scrittore traslava, successivamente, nei capitoli dei suoi libri. Raffinata la pittura delle sue ricercatissime copertine, opere di grandi artisti: Antonello da Messina, George de la Tour, Fabrizio Clerici, Ruggero Savinio, Caravaggio, Raffaello. Giungevano sempre dal mare i protagonisti dei romanzi di Consolo. Dal mare giunge il protagonista del suo primo grande successo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Cesare Segre fu il primo a intuire la specificità dell’invenzione linguistica consoliana. Lo studio di Segre era incentrato sull’eccentricità di quel giovane scrittore siciliano che non forniva al lettore nessuna indicazione didascalica. Il lettore attento di Consolo, aveva dunque fatto l’abitudine all’improvviso cambiamento di registro, all’enciclopedismo ipnotico della sua scrittura, alle scansioni ritmiche in battere e levare, ai capovolgimenti di fronte. Era una compitazione musicale da cuntista, quella dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Parole antiche che tracciavano l’ordito complesso delle sue pagine. Come accade per i grandi, per i classici, ogni successiva rilettura dei libri di Consolo disvelava una trama invisibile, texture impercettibili, un’architettura accennata, una raffinatezza impareggiabile, il recupero di una lingua extraletteraria, financo del dialetto. Il rinvenimento di memorie antiche, forme dialettali è stata la sua cifra stilistica controcorrente: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati”. Come ha scritto il critico Massimo Onofri, rileggere i libri di Consolo è come entrare a occhi chiusi in una miniera e uscirne, ogni volta, con un’insospettata nuova pietra preziosa. “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” è stato il libro risolutore, non solo nel senso della rivelazione dell’autore. Un libro che, a distanza di anni, appare quanto mai attuale e urgente. Il protagonista è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un aristocratico siciliano ottocentesco. Vive un’esistenza di ordinaria beauté aristocratique, sconvolta dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e dalle rivolte dei contadini. Accadimenti che gli imporranno di mettere cultura e ricchezze al servizio della causa risorgimentale. Nell’edizione parziale del romanzo (1975), Corrado Stajano salutava l’opera come: “Un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso”. Il critico Antonio Debenedetti scrisse un articolo dal titolo “L’ignoto Antigattopardo”.
Il
sorriso di Consolo il marinaio
Il falso ritratto che di lui si tratteggiava, quello di uno
scrittore scorbutico e irriverente, non corrispondeva all’immagine privata,
quella vera. Un uomo che appariva invece solare, ironico, dal sorriso ineffabile,
quello di un Vincenzo Consolo privato, insospettato, autoironico. Scherzava
spesso prendendo in giro la radice stessa del suo cognome: “Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia,
che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. O
dall’incrocio, di questo di Giudea o Samaria, con semierranti per venti
d’invasioni terremoti carestie, d’Arabia, Bisanzio Andalusia”. Come accade
per le grandi invenzioni della letteratura, Vincenzo Consolo, ha anticipato con
i suoi libri gli avvenimenti della storia di questa nazione infetta. Così come
è accaduto con il romanzo “Nottetempo, casa
per casa” (1992). Il libro, ambientato nei primi anni Venti del Novecento, racconta
dell’avvento del fascismo. I luoghi del romanzo sono quelli che vanno da Cefalù
a Palermo. Si narra delle vicende della famiglia Marano. In realtà tratteggia l’Italia
della fine degli anni Novanta, con l’avvento della destra violenta, l’insorgere
di nuove metafisiche, misticismi e sette misteriche. Milano, Cefalù e Palermo,
nella sua personale geografia letteraria compongono l’invisibile triangolo
della complessa scenografia linguistica di Consolo.
Odiosamata
Palermo
Palermo era, dopo Milano, l’altra città-tormento dello
scrittore siciliano. Come si fa con i grandi amori e le passioni insopprimibili,
all’odiosamata Palermo, Consolo ha riservato pagine di esaltazione e invettive
furibonde. Il suo snodo centrale era
l’Isola, la Sicilia il tema dominante di tutti i suoi libri: “Io non
so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e
girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno,
sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie
persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo
in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, unvolerla vedere e toccare prima che uno dei due
sparisca”. Consolo operava un distinguo ineludibile tra scrittore e
narratore. La sua scrittura sconfinava con rapide incursioni nella poesia, come
nella favola teatrale “Lunaria”. Il protagonista
è un viceré malinconico e misantropo, costretto a vivere in una città solare e
violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza. Sogna la caduta della
luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando
scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il
prodigio con la loro povera scienza. La poesia è legata anche a un grande
personaggio che compare tra le pagine del suo libro “Le pietre di Pantalica”, il barone magico Lucio Piccolo. Consolo
ricordava spesso l’immenso poeta aristocratico di Capo d’Orlando e i suoi versi
lunari: “Spento il rigore dei versetti a
poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende
al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco”.
Tragico
finale di partita
In una gelida Milano, Vincenzo Consolo lascia tutti orfani
della bellezza delle sue parole. Consolo il marinaio lascia libri straordinari,
un romanzo inedito al quale lavorava da anni che non sarà mai pubblicato, l’amata
moglie Caterina, l’inseparabile compagna: “A
Caterina devo tutto. Mi ha conferito coraggio, fiducia, serenità”. Un addio
crudele dunque. Ogni finale di partita è sempre tragico, solenne. Come accade all’Empedocle
consoliano tra le righe del testo teatrale Catarsi:
“Ánthropoi therés te
kai ichthúes”.
Concetto Prestifilippo
Centro di studi e iniziative culturali Pio la Torre Rivista: ASud’europa direttore Angelo Meli 16 gennaio 2022
Da ogni testo emerge il rigore della sua scrittura. “Su un’opera lavorava anche dieci anni”
Un tonnellaggio di carte, pressappoco. Tra epistolari, manoscritti e dattiloscritti, articoli per riviste e quotidiani, reportage, ricerche, bozze di stampa tormentate dalle correzioni, materiali di studio, soggetti, appunti di lavoro, documenti legati all’attività di lettore di professione, la rassegna stampa della critica nazionale e internazionale. Ecco servito, in sintesi, l’archivio di Vincenzo Consolo, sul quale si accendono i riflettori in occasione del decennale della morte del grande scrittore siciliano. Si intitola “Mese Consolo” il tributo reso dalla società di produzione Arapàn, dall’associazione “Amici di Vincenzo Consolo” e dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, al romanziere di Sant’Agata di Militello. Sono previsti più di dieci appuntamenti, spalmati tra il 21 gennaio e il 18 febbraio da Nord a Sud: incontri, conferenze, rappresentazioni, proiezioni, presentazioni di libri. Tra le sedi prescelte c’è proprio la Fondazione Mondadori, dove l’archivio dell’autore di “Lunaria” è custodito e che per tre anni, in realtà quando ancora aveva sede nell’abitazione dello scrittore, è stato compulsato forsennatamente da Gianni Turchetta, ordinario di Letteratura italiana contemporanea alla Statale di Milano. Dall’estate del 2011 alla fine dell’autunno del 2014 lo studioso e critico letterario ha passato al vaglio le carte di Consolo, in vista della realizzazione del Meridiano Mondadori, uscito poi l’anno successivo col titolo “L’opera completa”.
Proviamo a entrare, dunque, nell’officina dello scrittore, a varcare la soglia della sua stanza d’alchimia, assistiti da Turchetta appunto, massimo conoscitore di Consolo e oggi indiscusso sacerdote della sua memoria: “La valanga di materiale che l’archivio allinea – spiega l’italianista che di recente ha curato la ristampa del volume “La Sicilia passeggiata” con le foto di Giuseppe Leone – e che riguarda l’elaborazione dei suoi testi letterari ma pure i saggi, le conferenze, gli articoli giornalistici e gli epistolari, dà perfettamente la misura dell’entità dell’impegno di Consolo, della sua etica feroce della scrittura. Si tratta di un autore che ha tenuto insieme la vocazione sperimentale e l’impegno civile, occupando la scena del dibattito culturale e politico per un lungo periodo, intervenendo su questioni grosse, diciamo così, e di dettaglio. Dalla difesa di Sciascia, quando uscì il pezzo incriminato sui professionisti dell’antimafia, alla presa di posizione in merito a questioni che potevano riguardare il Teatro Biondo di Palermo, quando si dimise da presidente, come pure la gestione di un premio letterario”.
Stiamo parlando, infatti, di uno degli ultimi intellettuali italiani: spesso Consolo, alla maniera di Paul-Louis Courier, usava la penna come la spada. Una penna che quasi sempre incrudeliva sulla pagina: da “variantista” accanito quale era, lo scrittore tornava di continuo su una frase, su una parola, nel tentativo di trovare la quadratura stilistica del cerchio. “Attraverso le carte dell’archivio – spiega Turchetta – si può perfettamente cogliere in profondità la dedizione, la vocazione, la tensione che l’hanno animato. Era in grado di lavorare anche dieci anni di seguito su un’opera. Ma c’è di più: le carte del “Sorriso dell’ignoto marinaio”, ad esempio, ci conducono dalle parti di “Nottetempo casa per casa”. Voglio dire che le ricerche su Cefalù, svolte da Consolo per scrivere il romanzo che trae spunto dal ritratto di Antonello da Messina, confluiranno poi nel libro in cui compare la figura perturbante di Aleister Crowley. Dagli anni Sessanta dunque ai Novanta: tre decenni di vera e propria ossessione narrativa”.
Una volta lo stesso Consolo spiegò a Grazia Cherchi il suo modus operandi: le disse che elaborava una sola stesura, lavorando molto su un giro di frase, su una pagina. Scriveva a mano, trasferendo subito i brani o lacerti che gli sembravano definitivi sul foglio della sua vecchia Olivetti studio 44. In realtà, precisa Turchetta, le dinamiche della scrittura consoliana erano più complesse: “Ci sono dattiloscritti sui quali Consolo scriveva a mano, oppure su di essi attaccava a volte dei pezzi di carta che erano a loro volta riscritture a macchina di periodi interi. Ma non finiva qui: ogni tanto interveniva a penna sui pezzi di carta incollati. Riscriveva un periodo intero sul margine del foglio del dattiloscritto, anche cinque o sei volte. In certi casi cambiava un dettaglio, ma non si placava fino a quando non aggiustava il tiro a dovere. Poi tutto questo lo ricopiava di nuovo con la sua Olivetti.
Insomma, i dattiloscritti di Consolo sono veri e propri materiali di battaglia. In alcuni casi siamo in possesso di otto, nove versioni dattiloscritte. Da qui anche la difficoltà di ricostruire la cronologia interna delle opere. Ne viene fuori un lavoro portato avanti fino allo sfinimento, di grande attenzione e di grande concentrazione nel tempo”. Tra le tante carte dell’archivio spiccano pure gli epistolari, che testimoniano una vita di relazioni molto ricca: ci sono quelli più corposi con gli amici Basilio Reale, il poeta e psicoanalista di Capo d’Orlando che lo fece esordire, e Leonardo Sciascia (quest’ultimo scambio di missive è uscito nel 2019): due figure che hanno giocato un ruolo assai rilevante anche nella vita professionale di Consolo. Ma sono pure da segnalare i carteggi con Sebastiano Addamo, Ignazio Buttitta, Gesualdo Bufalino. Quelli con colleghi e amici: Fabrizio Clerici, Andrea Zanzotto, Roberto Cerati, il giovane Roberto Saviano, che Consolo accolse come un figlio a casa sua a Milano e col quale però poi entrò in rotta di collisione. C’è poi la corrispondenza con Corrado Stajano che ci riserva una sorpresa: il libro “Le pietre di Pantalica” era nato dall’adesione alla proposta di scrivere un reportage storico-giornalistico sul processo ai frati di Mazzarino, per una collana dedicata ai processi celebri diretta da Giulio Bollati e, appunto, da Corrado Stajano.
“Consolo – racconta Turchetta – firma il contratto per un lavoro storico e giornalistico. Ma poi la storia gli si dilata tra le mani e diventa qualcos’altro. La narrazione, infatti, avrebbe dovuto raccontare il periodo dello sbarco americano in Sicilia, nell’estate del 1943, le lotte contadine per la proprietà delle terre. Ma anche questo progetto venne poi nuovamente riorganizzato. Stajano si scoccia e lo minaccia in un certo senso, intimandogli di pagare una penale”.
Non c’è traccia cartacea, invece, del famigerato romanzo pornografico che Consolo, con uno pseudonimo, pubblicò in vita: “Si sa qual era l’editore.
Vincenzo si divertì moltissimo a scriverlo, l’avevano pure pagato bene. Ogni tanto leggeva con grande spasso pagine di questo romanzo, la sera, a qualche amico e alla moglie Caterina”.
Di Ada Bellanova, laureata in lettere classiche e insegnante di liceo, conoscevo la prima tesi di dottorato (sulla presenza dei classici greci e latini nell’opera di Borges) e avevo letto con interesse i racconti L’invasione degli omini in frac (e altre piccole nostalgie) (Siena, Pascal, 2010), Le mal du pays (vincitore del Concorso Scrivere Altrove – Associazione MaiTardi Nuto Revelli) e il romanzo Papamusc’ (Arcidosso, Effigi, 2016); mi trovo ora a sfogliarne la ponderosa monografia Un eccezionale baedeker: la rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (rielaborazione della seconda tesi di dottorato discussa presso l’Université di Lausanne), accolta nella collana «Punti di vista. Testi e studi di letteratura italiana contemporanea» di Mimesis (2021), prova in cui la vocazione narrativa si sposa felicemente con l’attitudine allo studio assiduo e ponderato.
Narrativo ne è certamente l’incipit («Quando, alcuni anni fa, sono andata nella Sicilia occidentale per la prima volta, Retablo è stato il mio eccezionale baedeker»); narrativo è senz’altro l’avvio delle Conclusioni («Chiusi i libri, riposti gli articoli, resta un nastro di immagini, ‘fotografie’ accostate e sovrapposte: boschi, strade, aranceti, giardini, profili di palme e castelli, spiagge e isole, chiese e dimore di santi, rovine e musei, città che non esistono più e altre che restano eterne, altre ancora “invisibili” o chiuse l’una nell’altra in mirabile convivenza»); narrativi sono certi slanci esegetici, come la rêverie sulla pianta secentesca del Passafiume collocata di fronte all’Ignoto di Antonello da Messina, «quasi che lo sguardo penetrante del ritratto sia impegnato a scrutare e sorvegliare costantemente il microcosmo in cui è stato collocato»; ma rigorosa, oculatissima e ben documentata è l’indagine, suggerita dalla ragguardevole presenza, nell’opera di Consolo, di «indicazioni toponomastiche, direzionali, localizzative», dalla «segnalazione ricorrente di aree territoriali, contrade, vie, piazze, edifici», dall’«insistenza e l’accuratezza nel nominare i luoghi»: fenomeni ricondotti al «piacere precocemente sperimentato nella scoperta della stessa Sicilia, quando da ragazzino, al seguito del padre, imparava la novità e la varietà del paesaggio, pur segnato dalle macerie della guerra, al di là dei ristretti confini della natia Sant’Agata di Militello».
Sulla scorta di testi come Maps of the imagination: the writer as cartographer, di Peter Turchi, e con una preventiva discussione delle prospettive teoriche fiorite dallo spatial turn (geocritica, geopoetica, geotematica, ecocritica) e delle proposte della narratologia cognitivista, l’autrice cerca di definire il «principio territoriale» della scrittura di Consolo, di individuarne le cartografie (le mappe che orientano le sue esplorazioni e le mappe, reali o immaginarie, che lui stesso costruisce), distinguendovi in via preliminare due caratteri precipui: la natura ‘palinsestica’ (o, secondo il suggestivo battesimo di Daragh O’Connell, ‘palincestuosa’), ovvero il loro «legame particolarmente intenso e stretto con i testi anteriori»; i segni di «suggestioni sensoriali, risultato di una conoscenza ravvicinata e personale», di Storia (una «Storia che si può sperimentare, che si vive, una Storia dal basso, lontana dunque da quella dei grandi eventi») e di attività umane che vi sono impressi.
Quanto all’uso dei «testi anteriori», la ricerca stabilisce che il contributo dei classici greci e latini diventa apprezzabile «a partire dall’esperienza di traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri euripidea del 1982», per costituire in seguito «un riferimento ricorrente, quasi un marchio presentato come garanzia di solennità e autorevolezza», che lo spazio ‘classico’ di Retablo si incista nella letteratura odeporica settecentesca (Von Riesedel, Brydone, Goethe), che L’olivo e l’olivastro si contagia (in specie nel cammino delle Latomie e nell’entusiasmo per la Venere Landolina) del Maupassant di La vie errante, che Di qua dal faro adotta lo sguardo tutto umano di Carlo Levi («un antiGoethe in carne e ossa»), valutando infine l’apporto degli scrittori siciliani plasmati dall’Isola che a loro volta plasmano in tratti memorabili: Pirandello, Sciascia e Tomasi di Lampedusa per l’area agrigentina; Cattafi e D’Arrigo per lo Stretto; Verga per il territorio dominato dall’Etna; Piccolo per l’arcadia dei Nebrodi; Vittorini per il simbolismo del nóstos.
Insieme a queste orditure intertestuali, Ada Bellanova prende in esame l’impiego originale di «geografie letterarie già divenute simbolo in forza di una lunga tradizione»: la Sicilia-Itaca (terra «irriconoscibile, luogo di mostruosità, di efferatezze, reggia in cui hanno vinto i Proci […] diventata Troia, perché non esiste più, se non nel ricordo», e dall’Ulisse-Enea che vi approda «in cerca di una nuova patria nella consapevolezza che la propria è ormai consumata dalle fiamme»; il «personale criterio di associazioni» che sovrintende al modello odissiaco di L’olivo e l’olivastro (esemplato dal particolare ‘trattamento’ delle Eolie: «La memoria delle regolari visite di un tempo a Lipari rende le isole un luogo intimo e l’elemento affettivo e personale prevale anche quando compare l’evocazione della vicenda odissiaca: il dio dei venti è l’oggetto della narrazione di Consolo ai nipoti, mentre la tempesta sull’equipaggio di Ulisse dopo l’incauta apertura dell’otre è sostituita dal tremendo mare che accompagna la fuga precipitosa dall’isola a causa della lettera di leva»); la declinazione dell’incontro con la madre a Sant’Agata «come ritorno a Itaca e insieme Nekya». Una particolare attenzione è poi riservata allo scenario di Ifigenia fra i Tauri (per la sorprendente associazione di Milano con la Tauride, come terra «gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste», e per il suo contraltare di una Sicilia-Argo, oggetto del desiderio che può a suo luogo trasfigurare in violenta e prevaricatrice Tauride), alle suggestioni manzoniane di Il sorriso dell’ignoto marinaio (nel capitolo V, dove risuona, ma in un ambiente del tutto diverso, lo «scampanìo che prelude al mutamento d’animo dell’Innominato», e nel capitolo VII, per l’allusione alla peste e per lo «scendea per uno di quei vicoli», che «richiama alla mente l’immagine della madre di Cecilia che coltiva la compostezza e il decoro nella pietosa consegna dell’amato corpo della propria bambina al monatto»), all’eco, in Filosofiana, del Pitrè di Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, dell’Agamennone di Eschilo e delle Rane di Aristofane.
L’inventario considera poi gli apporti dell’universo figurativo (le ecfrasi dichiarate del Ritratto di ignoto, del Seppellimento di Santa Lucia, dello Spasimo di Sicilia, di una foto di Robert Capa, di reperti archeologici e beni architettonici, le citazioni pittoriche di Lo sposalizio della Vergine e di Los desastres de la guerra, le allusioni all’Ave Maria a trasbordo di Segantini e all’Angelus di Millet), delle recensioni artistiche dello stesso autore (sulle mostre di Michele Spadaro e di Franco Mulas), delle «trame sensoriali» che disegnano «paesaggi sonori, olfattivi, persino paesaggi gustativi» (come le offerte culinarie che accompagnano il viaggio di Clerici in Retablo, la fiera di San Calogero e la Pasqua in La ferita dell’aprile), delle fantasie scaturite da un «confronto personale con i luoghi», e del loro «uso simbolico» (così nel racconto giovanile Un sacco di magnolie «il profumo conturbante dei fiori e poi il nero delle corolle marcite rinvia alla morte del protagonista», in L’olivo e l’olivastro «il gelsomino lasciato marcire delle raccoglitrici in sciopero […] allude ai morti dell’industria di Milazzo», in Un filo d’erba al margine del feudo «il nero dominante sulle case e sulle persone del borgo di Tusa […] si lega alla morte drammatica di Carmine Battaglia»), dei tasselli di storia che, attraverso una «lingua non compromessa con il potere», danno voce «agli esclusi e alle loro utopie» e mettono in mora l’impresentabile presente, dei quadri che attestano il sofferto lavoro dell’uomo (la vita del latifondo in Ratumeni, la vendemmia in Nottetempo, casa per casa, la famiglia contadina in Il fosso, il museo contadino di Antonino Uccello in La casa di Icaro, gli agrumeti di Arancio, sogno e nostalgia, i cavatori di pomice di Il sorriso dell’ignoto marinaio, i pescatori in La ferita dell’aprile e La pesca del tonno).
Ma il cuore del libro è la sua seconda parte, Un percorso tra luoghi-simbolo, che verifica, per così dire, sul campo l’ampia e motivata premessa costituita dalla prima, Strumenti per percorrere i luoghi, nonché dall’Introduzione, perlustrando partitamente le sedi privilegiate della scrittura di Consolo: Sant’Agata; Cefalù; Palermo; Siracusa; le rovine dell’Isola; Milano.
Il paese natale – «limen», discrimine «tra un oriente e un occidente» che calamita una «grande ricchezza di notazioni affettive e di riferimenti a percezioni sensoriali» e diviene il prototipo di «un’immagine della Sicilia metafisica, arcaica e magica, e nel contempo viva e palpitante nei problemi sociali, economici e politici» – è chiamato, nel Sorriso, a una cruciale missione diegetica (per la scelta di mappare il suo castello Gallego con le scritte dei prigionieri di Alcara: «Lo spazio reale si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e confonde»), laddove in L’olivo e l’olivastro vi si incidono «i dettagli del ritorno doloroso […] mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta, spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde la vista della spiaggia e del mare».
Il microcosmo cefaludese, scena del Sorriso e di Nottetempo, è per Consolo già Occidente, una Palermo in miniatura (dove si può più facilmente leggere il meticciato arabo-normanno sotteso all’identità siciliana), epperò infinitamente espansibile come una «faulkneriana yoknapatawpha». In questo «labirinto di vicoli e strade» che – sebbene non sia «precisamente collocato nel territorio, tra la Rocca e la spiaggia della Calura, che ha il suo centro nel Duomo», come invece, in un volo poetico, lo vede l’autrice: la Calura si trova in verità dietro la Rocca, nel fianco opposto a quello che dà sull’abitato, e il Duomo sta semmai tra la Rocca e il porticciolo – è fedelmente restituito nei due romanzi (con l’ausilio di mappe a loro volta oggetto di ariose descrizioni), i percorsi dei personaggi sono delineati, con una ricca e persuasiva analisi, come itinerari sonori e luminosi. Quello di Sasà, nel Sorriso, è dapprima scandito dal «latrato dei cani», dal «gemito dei mulini attivi», da «galline ruspanti», dal «ronzìo di vespe e zanzare», dalle grida dei pescivendoli, dalle imprecazioni dei carcerati, mentre nella piazza del Duomo predomina «il senso della vista» e più innanzi le due percezioni sfociano nel «si videro oscillare le campane», dove «è proprio il propagarsi del suono che suggerisce uno sguardo più ampio sul paese, altrimenti impossibile».
Similmente, in Nottetempo, il suono dello zoccolo del cavallo di don Peppino «mentre si propaga, ci fa vedere» e, nell’incipit, «Il procedere dolorante del luponario, accompagnato da un ululato profondo, mostra i luoghi a gara con la luce. Le reazioni al suo passaggio […] costruiscono un itinerario sonoro. È proprio questa la prima immagine di Cefalù del romanzo, quella disegnata dal percorso disperato dell’uomo, sotto l’altro, luminoso, della luna». Altre epifanie del ‘sentiero luminoso’ saranno il ferino crepuscolo dal balcone di Don Nené (colto come controcanto ironico all’incipit del Piacere), il sole che illumina «la vista dei pascoli di Janu, quindi la Rocca» e «scandisce poi con le sue gradazioni le tappe dell’incontro e dell’amore con la thelemita», per culminare nel fulgido trionfo del Duomo che sarà ancora celebrato nella visitazione satanico-mistica di Crowley e nel racconto La corona e le armi.
«Se Cefalù è la porta del mondo, Palermo è il mondo», e la sua rappresentazione sarà quindi più complessa, attuata «integrando una varietà di sguardi letterari e testimonianze della stratificazione urbanistica e accogliendo innumerevoli stimoli sensoriali, alternativamente seducenti e inquietanti». Il palinsesto letterario (che annovera prelievi da Boccaccio, Ibn Giubayr, Amari, Tomasi di Lampedusa, Lucentini, Falcone, Goethe, Brydone, Pitrè, La Lumìa, Lucio Piccolo) si intreccia con le sontuose quanto ambigue «sollecitazioni sensoriali» cui è impossibile sottrarsi, tanto che «Solo l’immedesimazione permette di fare esperienza dell’universo multiforme di Palermo», e con il «multistrato» delle sue architetture, distribuito fra le sopravvivenze arabo-normanne e i più recenti misfatti urbanistici: un coacervo che trova il suo emblema nella pasta con le sarde, perfetta versione culinaria della feconda contaminazione di culture differenti che costituisce «l’identità più vera» della città che nello Spasimo di Palermo giunge a configurarsi come un’Itaca, se pure stravolta (dato che «non sa offrire consolazione all’esule nel momento del ritorno, ma non ha saputo offrirne neppure un tempo»), o a esibire finte topografie, come quella del palazzo di Martinez in cui Consolo trasferisce «la vicenda della propria casa natìa di Sant’Agata».
La Siracusa di Consolo (scoperta precocemente nel 1950, in una gita scolastica) è luogo di luce che prende un corpo di donna in cui confluiscono la statua di Venere Anadiomene, divinità del mito (Aretusa, Atena, Afrodite, Artemide, Kore), Santa Lucia, e ogni altra femminea sembianza, «a partire da quelle che per i loro capelli e il portamento apparvero diverse, nuove, nel primo incontro con la città ricordato in Siracusa il mio primo talismano» (caratteri restituiti con una insolita «ricchezza di riferimenti intertestuali», un «collage di citazioni e richiami» in cui entrano in gioco gli itinerari di Caravaggio, Maupassant, Von Platen, del ceroplasta Zummo, della Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse di Vincenzo Mirabella, i versi di Pindaro, Virgilio, Ibn Hamdis, Ungaretti), ma è insieme, soprattutto nelle ultime prove, icona del tramonto di una civiltà, divenuta (per il suo odierno degrado, per i mostri delle raffinerie, per il suo «squallore sonoro») «Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dall’omicidio».
Con il pellegrinaggio nelle rovine siciliane Consolo continua a coltivare un gusto appreso già nell’adolescenza, una consuetudine che vale anche a «evadere dal presente», in una «prospettiva idealizzante» anch’essa affidata a una «fitta trama intertestuale in cui spiccano pause ecfrastiche, memorie di autori antichi, narrazioni di miti, evasioni arcadiche». Con questa singolare contaminazione di fatti sensibili e fatti libreschi, Segesta, Selinunte e Mozia acquisiscono «tutta l’intensità di luoghi fisici, di cui si può fare esperienza, in una ricchezza di suggestioni non solo mentali – l’imponente passato a cui rinviano – ma anche visive, olfattive, uditive». Se Segesta induce anzitutto «la contemplazione estatica del paesaggio e l’evocazione del passato, delle infinite epoche trascorse, fino al rapimento nel passato», la Selinunte di Retablo è, nelle metope che la finzione restituisce al luogo d’origine, pietra che parla ed è parlata: nella descrizione del riquadro di Zeus e Era la studiosa ipotizza un attendibile richiamo «a uno specifico passo dell’Iliade, ovvero XIV 346-351» e nella bellissima fanciulla del témenos di Demetra Malophoros intravede l’allusione «ad uno dei Desastres de la guerra di Goya, ovvero Murió la verdad». Mozia è invece, sempre in Retablo, mistero: il mistero dei naufragi, nel passo suscitato dai relitti intravisti nei fondali al momento dello sbarco di Clerici (al cui riguardo si congettura «la conoscenza di Naufragio con spettatore di Hans Blumemberg»); il mistero dei reperti, oggetto di un «procedimento ecfrastico originale che restituisce la natura delle antiche opere d’arte ipotizzandone la collocazione settecentesca, quindi lo stato d’abbandono e l’accumulo casuale»; il mistero dell’efebo greco in terra fenicia, che il racconto destina ancora a un fondale marino, includendo, secondo l’autrice, una «reminiscenza di Morte per acqua di Eliot, IV sezione di The Waste Land», con lo scambio fra il ragazzo ellenico e Phlebas il Fenicio.
La rassegna dei ‘luoghi-simbolo’ si chiude con Milano, contrada della speranza divenuta inospitale e difficilmente narrabile, spazio ostile che respinge il migrante cresciuto nel suo mito: la relazione di Consolo con la città «non arriva mai ad essere equilibrata, pacifica». Con l’eccezione dell’oasi multiculturale e versicolore di Porta Venezia, «uno spazio di riconciliazione», la metropoli lombarda appare scialba e sorda e, nello Spasimo (dove l’amaro congedo di Chino profila «un Addio ai monti capovolto»), «recinto dei moribondi di manzoniana memoria», mentre in Retablo la corrotta città del Settecento filigrana «il degrado della Milano craxiana», deriva morale che provoca in ultimo le requisitorie contro i successi elettorali di Mascelloni/Berlusconi.
La terza parte del libro, Ecologie consoliane, articolata nelle sezioni Per un’ecologia del paesaggio e dell’identità e La prova della ricostruzione. Per un’ecologia del dopo disastro, ritaglia le zone che in Consolo investono il «delicato rapporto tra uomo e ambiente in Sicilia e nel Mediterraneo».
I casi dei poli industriali di Milazzo, Gela e Siracusa, gli incendi e la speculazione edilizia ne rappresentano, nella prima sezione, il versante negativo. A formare l’immagine di Milazzo concorrono un’antica familiarità con il luogo (l’adolescente Consolo era solito sostarvi «di ritorno dalle Eolie dove viveva una delle sorelle»), le notizie dello storico locale Giuseppe Piaggia (che ne fanno una terra d’idillio, promossa in La mia Sicilia «giardino di Alcinoo» e «sicula terra dei Feaci») e, con un «effetto straniante», il racconto odissiaco degli armenti del Sole (tradizionalmente posto nella piana di Mylai), quando l’empietà degli industriali e dei politici che hanno voluto la raffineria a spese del paesaggio e degli esseri umani viene assembrata a quella dei compagni di Ulisse, e l’esplosione è il momento in cui essi «banchettano con le carni dei buoi sacri, autoassolvendosi nella promessa del futuro sacrificio». Un analogo straniamento raggiunge il polo industriale siracusano, accostato a sorpresa, in L’olivo e l’olivastro, «al culmine di una descrizione che, per quanto cupa, ha tratti realistici», al paese dei Lestrigoni (che un passo tucidideo vuole in Sicilia), e dove si rileva che il modello omerico lotta con quello virgiliano («l’area si presenta come un’Itaca impossibile, non approdo del ritorno ma regno dei Lestrigoni, ed è allo stesso tempo la città di Troia devastata dalla guerra»), mentre il petrolchimico di Gela attira, per evocare l’inferno, anche morale, della città, la parola di Eschilo (quando condanna il delitto di Clitennestra), proponendo inoltre l’«associazione del petrolio alla trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne saracene».
Passando alle devastazioni prodotte dagli incendi e dalla speculazione edilizia, l’accurato scandaglio dell’intera produzione di Consolo, soprattutto giornalistica, permette di concludere che esse sono per lui «il risultato di quella profonda e repentina trasformazione che consiste nella fine della civiltà contadina e nell’avvento forzato del miracolo industriale». Viceversa, il lato positivo del ‘pensiero ambientale’ di Consolo è comprovato dalla sua autentica militanza a favore di «una biodiversità naturale e umana ancora possibile», manifestata dalle pagine sui Nebrodi (che prevedono anche «un impegno attivissimo a favore dell’istituzione del parco») e sull’area dei monti Iblei («tratteggiata come un’alternativa di rinascita», con la necropoli di Pantalica a rappresentarvi «la resurrezione, la vita, pur essendo un luogo di morte, poiché in essa riposa la memoria identitaria», e presidiata dalle straordinarie persone di Antonino Uccello, del mielaio Blancato, del «vecchio Paolo Carpinteri, che intaglia il legno, costruisce zufoli e narra storie di erbe e animali fantastici», di Gina e Pino Di Silvestro, di Sebastiano Burgaretta), e annunziata dal pastore Nino Alaimo di Retablo, che raffigura «l’equilibrio, la serenità, un modo più umano e sostenibile di vivere».
La seconda sezione di Ecologie consoliane si concentra sui luoghi colpiti da disastri naturali e sulle «implicazioni antropologiche, identitarie, relazionali, storiche» del ricostruire. Le eruzioni dell’Etna, guardate attraverso il Leopardi della Ginestra e la filosofia di Empedocle, chiamano in causa il mito: il selvaggio Polifemo è identificato con il vulcano, e Ulisse con l’«uomo tecnologico», capace, con le sue arti, di fronteggiarne la devastante potenza. I brani sul terremoto di Noto si muovono invece, mediante l’«associazione Kore-ape-Noto», tra le note gaudiose che inneggiano alla mirabile ricostruzione dopo il terremoto del 1693 e il rammarico per il successivo degrado che ha prodotto la «dimenticata marcia scenografia teatrale» di L’olivo e l’olivastro, facendone l’«Argo amara, in guerra» di una «Ifigenia smarrita»: uno sfacelo che diviene «l’emblema di una rovina che non riguarda solo gli Iblei, ma la Sicilia, l’Italia, il mondo» e che si fa ancor più evidente nel caso di Gibellina e della sua discussa ricostruzione. In L’olivo e l’olivastro il sito «è innalzato a simbolo: è Ilio nel momento della partenza dopo il disastro, non sa essere Itaca nel ritorno, perché troppo diversa si presenta all’esule» (in Metamorfosi di una melodia, sarà «emblema della negazione dell’identità e della memoria», come la Gerusalemme distrutta dai Romani), mentre nei testi del 2008, chiamati a ricordare il quarantesimo anniversario del sisma, «prevale l’invito alla rinascita della Valle del Belice».
La quarta parte del libro, Leggere e scrivere il Mediterraneo, si sofferma sui modi in cui l’interesse di Consolo per la Sicilia e il sud si riverbera sull’intero spazio del mare nostrum. Se la Sicilia si identifica nel «flusso incessante di energie umane e culturali», tutta l’area mediterranea è «crocevia di popoli differenti»; ed entrambe sono insieme «scenario di devastazione» e «archivio di eredità preziose». Il loro Ulisse «non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante», condannato a un esilio perenne. Nel suo viaggio, «insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane». Il Mediterraneo è per Consolo un «mondo unico». L’arancio diffuso nelle sue coste è «sogno di un Eden perduto», simbolo di «uno spazio sano in cui le piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato». In Palestina le colline di roccia e deserto gli ricordano i prediletti Iblei, e il lamento delle donne per i guerriglieri morti la tragedia greca. La Casbah di Algeri gli fa pensare al centro storico di Palermo. Di Utica lo colpiscono le rovine e il basilico, ma «tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica».
Come la Sicilia, tutto il Mediterraneo è oggi «una Tauride senza speranza». In Le pietre di Pantalica Beirut è come Palermo. Le macerie di Sarajevo 1997 cancellano la civiltà. La Palestina 2002 è un inferno appena mitigato dalla rugosa matrona di Ramallah che offre nepitella. Ma, come il suo Ulisse è un migrante, il Mediterraneo di Consolo è soprattutto «spazio di migrazioni». Il suo mare «non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando». La presenza degli Arabi in Sicilia ha lasciato segni profondi sia nell’ambito agricolo che in quello artistico-culturale. L’antica emigrazione megarese nel versante orientale dell’Isola è piegata, forzando l’anodino referto di Tucidide, a modello di uguaglianza, progresso e raziocinio. Le migrazioni italiane verso il Maghreb e l’emigrazione maghrebina in Italia tradiscono la contiguità dei due mondi. Di qui l’impegno civile di Consolo: la coraggiosa denuncia di episodi di xenofobia e persecuzioni, di leggi disumane, del cinismo politico, della barbarie dei cosiddetti centri di accoglienza, dell’ipocrisia di chi vuole per Lampedusa, prima che un’ospitalità degna di questo nome, il sepolcro imbiancato di un Museo, la beffa di un Monumento.
Terminato il viaggio cartaceo, riposto il voluminoso volume, la ricognizione di Ada Bellanova nell’ideale baedeker di Consolo ci appare a sua volta come una preziosa ‘guida alla guida’, un’appassionata quanto precisa cartografia che registra le concrezioni che vi sono depositate, i fili sotterranei che ne muovono le piste. Fra i suoi esiti, giustamente rivendicati nelle Conclusioni, piace qui rimarcare la esaustiva mappatura dei numerosi rimandi a Omero, Virgilio, Euripide, Tucidide e agli storici greci, svolta con acribia e sulla base di solide competenze: apprendiamo così che le geografie omeriche hanno in Consolo una funzione connotativa, interrogano la natura dei luoghi attraversati; che l’Eneide è adottata come «racconto di migrazione», dove «i simboli dell’epos latino integrano e correggono quelli dell’Odissea omerica nella rappresentazione di uno spazio compromesso con l’esperienza dell’esilio»; che l’Argo di Ifigenia fra i Tauri «concorre a definire i tratti della patria lontana, desiderata», quando la Tauride «è la terra dell’esilio, ovvero dell’estraneità, della perdita culturale, non solo luogo geograficamente definito, ma anche tempo di condanna e di sconfitta».
Ugualmente significative mi sembrano le considerazioni sul ruolo dei termini dialettali (adoperati da Consolo per restituire «un’affettività dello sguardo e testimoniare il legame del ricordo», ma anche per rendere «tratti non altrimenti riferibili con altrettanta precisione»). Ma le notazioni che più mi hanno sorpreso sono quelle che toccano la passione civile di Consolo (rivelata soprattutto dal sistematico spoglio della sua vasta produzione giornalistica), milizia che trasforma il suo baedeker in uno strumento insolito, obliquo (portato com’è all’indignazione e alla protesta), e dove l’invettiva contro la profanazione dei luoghi e della loro identità richiama un plurilinguismo che è anch’esso un ‘gesto politico’: il ricorso al dialetto, a termini greci, bizantini, arabi, normanni, sancisce il rifiuto dell’«im-mondo», il monocorde presente che annulla le differenze, nega le nostre singole storie.
Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
La ristampa
di un volume illustrato dalle foto di Giuseppe Leone e arricchito ora da nuove
immagini
“La vita o si vive o si scrive”.
Parafrasando il Pirandello de “Il fu Mattia Pascal”, anche la Sicilia
la si vive o si ammira nei libri. Come quello di rara bellezza pubblicato
dall’editore Mimesis, “La Sicilia passeggiata”, con un testo di
Vincenzo Consolo e fotografie di Giuseppe Leone (pag. 176, 16 euro). Il volume,
curato al professore Gianni Turchetta, è inserito nella collana “Sguardi e
visioni” diretta da Francesca Adamo.
Si tratta di una riproposizione arricchita di una
prima edizione presentata in occasione della 42a edizione del Premio Italia,
tenuto a Palermo nel settembre del 1990. Il titolo muove da un’opera secentesca
di Ambrogio Maia. Sono pagine connaturate da un ritmo gioiosamente mozartiano.
Un continuo rimando tra la scrittura ipnotica e onirica di Vincenzo Consolo e
lo stupore affatturante delle immagini di Giuseppe Leone.
La filosofia che sottende questa pubblicazione sta
tutta nelle parole dello scrittore siciliano: “Io non so che voglia sia
questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di
percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in
città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone,
conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un
posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e
toccare prima che uno dei due sparisca”.
Il libro svela una Sicilia sognante, forse illusoria,
popolata da monumenti, chiese, piazze, paesaggi, un continuo racconto di
prodigi, sortilegi, incantamenti. “Da molti anni speravo di ripubblicare
“La Sicilia passeggiata” – sottolinea Gianni Turchetta, docente di
Letteratura italiana all’università Statale di Milano e curatore dell’opera
completa di Vincenzo Consolo per i Meridiani della Mondadori – Mi piace ricordare
subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo
desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli
specialisti, questo testo, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di
leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate
e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di
condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone”.
Grazie anche al contributo di Claudio Masetta Milone,
è stato possibile recuperare le postille al testo di Consolo che hanno
consentito non solo di ampliarlo materialmente, ma hanno anche contribuito a
spostare l’intonazione verso l’alto. Questa nuova edizione si avvale di una
appendice fotografica integrativa, oltre cento immagini firmate dal celebre
fotografo ragusano.
“Questo libro, grazie al testo di Consolo è tra i
più belli che io abbia mai pubblicato – commenta Giuseppe Leone – Ricordo
ancora, con intensa emozione, le lunghe conversazioni con Vincenzo nella sua
casa di via Volta a Milano. Abbiamo scelto con cura le immagini che compongono
questo racconto fotografico. Ancora oggi, sfogliando queste pagine, assumono
un’intensità di rara bellezza, soprattutto in questo triste momento di crisi
mortale dell’editoria d’arte Sono felice di aver firmato questo volume, lo
interpreto come un omaggio dovuto in ricordo di un grande scrittore, un artista
raro, un intellettuale contro”.
Il testo di Consolo è una narrazione che fonde felicemente poeticità e saggismo. L’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, dal suo esilio milanese, la sua aspra Tauride, evoca una Sicilia sognante: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare sulla costa siciliana tra Thapsos e Megara Hyblaea, dove gli uomini dell’età del bronzo costruirono villaggi, dove giunsero i coloni di Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto; oppure d’inoltrarci nel golfetto, più in su di punta Izzo”
Questo è l’attacco di Consolo, marcato a ogni passo
dai verbi di moto, in una continua sosta e ripartenza: “Siamo giunti:
all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che
vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della
Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti
d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per
conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio
d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione”. Una
scrittura che rapisce, questa cifra dello scrittore di Sant’Agata di Militello.
Un’elencazione ipnotica, dalle sonorità antiche e mediorientali, un’architettura
linguistica perfetta, tonda e fratta allo stesso tempo, come certe partiture
musicali.
Un innesto continuo da saggio storico, trattato di botanica, testo di archeologia. Quello proposto è un viaggio in verticale attraverso le stratificazioni storiche della Grande Isola. Come era già accaduto nel romanzo “Retablo” che vede protagonista Fabrizio Clerici, un pittore lombardo giunto in una Sicilia di un vago Settecento. Consolo e Leone, in questo libro, come Clerici e Isidoro, intraprendono un viaggio da oriente a occidente, dal Mito alla storia. Le pagine più intense sono quelle dedicate a Palermo, l’approdo finale: “Rossa, Palermo, come immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici; di terra rossa e grassa, con polle d’acqua, da cui alto e snello, pieghevole ai venti, s’erge il palmeto fresco d’ombra, eco e nostalgia di oasi, verde moschea, tappeto di ristoro e di preghiera, immagine dell’eterno giardino del Corano”.
È il 1985 quando Vincenzo Consolo scrive la prefazione al saggio Sirene siciliane. L’anima esiliata di Lighea di Basilio Reale, uno studio che, seguendo i precetti del pensiero junghiano, analizza l’ultimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La sirena. In poche pagine, Consolo delinea una sorta di geografia della letteratura siciliana, non prima però di espletarne un’altra: quella di alcuni suoi esuli. Ricorda infatti il suo primo incontro con Reale, avvenuto a Milano nel 1953: i due esuli dalla terra del mito, la Sicilia, provengono della stessa provincia (di Sant’Agata di Militello, Consolo, di Capo d’Orlando, Reale). Ma in questi esili ci fa ricordare quello di Vittorini e quello più antico di Verga.
“Scoprimmo subito, io e Reale, d’avere le stesse aspirazioni e ispirazioni, che da una parte si declinavano in prosa, dall’altra in poesia”.
Dal mito e dai vagheggiamenti sulla loro terra del mito, passano entrambi alla storia, alla necessità dell’impegno. Da qui parte la divisione ideale della letteratura siciliana in due indirizzi: “quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura o del mito). Filoni che possono coincidere con le due parti dell’Isola”, dove a Occidente si riscontra il primo, a Oriente il secondo, con numerose e straordinarie eccezioni:
“E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia e lo storicismo d’Occidente”.
E, da quella Finisterre, ‘di qua dal faro’, la Sicilia, Consolo intercetta un luogo, incrocio tra le due anime dell’Isola: Capo d’Orlando, che significa Lucio Piccolo. A lui è dedicata una sua opera, Lunaria, divagazione nel sogno con queste parole: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”.
Piccolo tra l’altro fu figura di riferimento anche per Reale, ed è individuato da Consolo come l’ispiratore della sirena per il cugino Tomasi di Lampedusa. Quest’ultimo alla storia aveva dedicato Il Gattopardo, ma si spostò nella Sicilia orientale per scrivere di Lighea e, appunto, per rivisitare il mito. La sirena di Piccolo appartiene più a quelle entità di “ninfe campestri, boscherecce, sia pure in apparenza stregonesche il senso panico della natura”. Ma certamente l’influsso di Piccolo determinò sul cugino la deposizione “dell’armatura teutonica del Principe Fabrizio di Salina” per l’approdo alla seduzione e a un ricongiungimento con lo spirito della Natura. Ma cosa è dunque Lighea per Consolo? Alla fine della prefazione al saggio ci dice che Lighea è un ipogeo, un profondo scavo archeologico. E tra questo andare e tornare tra storia e mito, Lighea è dunque la ricerca dell’originario, attraverso l’eterno femminino. Come i dialetti greci del professor La Ciura, protagonista del racconto La sirena di Tomasi, tutta l’opera consoliana è una ricerca continua dell’arcaico e dell’originario. Lo si riscontra anche nelle sue scelte linguistiche.
La ricerca di questo ipogeo, prima che nella Sicilia orientale de Le pietre di Pantalica – indimenticabile quell’incipit: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” – possiamo riscontrarla nell’unica opera consoliana, pubblicata nel 1987, che ha come tema la seduzione erotica e conoscitiva: Retablo. La seduzione, in quest’opera ambientata nella Sicilia del Settecento – e che racconta due storie di amori infelici – è rappresentata da due donne: Teresa Blasco, nonna del Manzoni, amata da Fabrizio Clerici e Rosalia, la bella popolana per cui fugge il monaco Isidoro. Fabrizio Clerici, lombardo, discende in Sicilia per conoscere la terra degli antenati di Teresa, in un viaggio iniziatico che lo riporta al mito. Proprio le Sirene vengono evocate nell’ascolto del canto di alcune donne al bagno di Segesta nell’episodio centrale del romanzo tripartito:
“o chi si perse ascoltando una volta il canto stregato di Sirene, come mi persi anch’io nel vacuo smemorante, nel vago vorticare, nella felicità senza sorgente e nome, nel profondo jato che disgiunge il futuro dal passato”.
Ma è nella sezione iniziale e nella storia di Isidoro che l’eterno femminino prende forma. Da tensione irrazionale si fa monumento e si fa storia sotto l’effigie della bella Rosalia, prima presagita nelle forme muliebri della santa patrona palermitana, di cui la donna porta il nome: “Lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne”, poi nel riconoscimento (una vera e propria agnizione) che avviene nell’Oratorio di San Lorenzo di Palermo: la statua in gesso della Virtù della Veritas, realizzata da Giacomo Serpotta, viene riconosciuta da Isidoro come l’amata Rosalia, che dello scultore era stata modella: “Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dìa, m’arrestai. VERITAS portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino a cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti”.
La figura archetipica e la tensione erotica si trasformano per sempre, passando dalla Natura alla storia e consolidando in Consolo ciò che aveva anticipato nella prefazione al saggio di Reale: “un andare e tornare, un perenne oscillare, è un sondare e riattivare il sepolto e riportarlo alla luce”. Diventa dunque sintesi di movimenti opposti e incontro tra il primigenio e istintuale mito e la storia.