“Nottetempo, casa per casa” di Vincenzo Consolo commento di Luca Rachetta

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“Nottetempo, casa per casa” di Vincenzo Consolo
Luca Rachetta

IL “MALE CATUBBO” E LA RISCOPERTA DELLA PAROLA

Muoveva brancolando, mugolando, come ferito, ferito da parte a parte dentro il cuore dalla lama che non sorgeva da causa, che non aveva nome. E si mordeva le mani, si strappava al collo la camicia. Il volto scarno, sotto il nero crespo della barba, era del color della malaria.

    Il racconto di Consolo si apre con la descrizione di un episodio di licantropia che, carico di valore simbolico e intriso di evidenti riferimenti antropologici, ci cala subito nel contesto in cui si svolge la vicenda. La condanna alla licantropia patita dal padre di Petro, vero e proprio protagonista e personaggio connettivo di un’opera con una forte propensione allo svolgimento corale, nasce da causa oscura, “che non aveva nome”; essa presenta i sintomi di una “nostalgia per un diverso lido” difficilmente collocabile nello spazio e nel tempo, forse perché si tratta di un non luogo, di un’utopia di felicità e di senso che è soltanto possibile vagheggiare. La sua presenza nell’animo, quanto meno a livello ideale, è tuttavia sufficiente a indurre il “luponario” a guardare alla luna, inoltrando in tal modo una richiesta al “dio della distanza e dell’assenza”, a “un ignoto dio, impassibile o efferato” che non consola il supplice delle proprie sofferenze e non alimenta in lui alcuna speranza di elevarlo a sé e di liberarlo così dai ceppi che lo avvincono alla materia e alla storia.

Davanti a quella vastità deserta, a quell’ottusa quiete, sentì ancora più la pena, lo sgomento – se è in serbo per noi un altro approdo, se aleggiando va l’anima nostra, la nostra nostalgia per un diverso lido, è certo figura d’esso quest’apparenza notturna e scolorata, questa squallida scena, questo livido limbo, quest’esistenza anemica, è nel fuoco, nel guizzo della fiamma la natura della vita. 

   Il “limbo” in cui licantropo si barcamena penosamente non è dunque compromesso tra due dimensioni, quella umana e quella divina, né designa un rapporto privilegiato con la natura, vale a dire la possibilità di attingere a quella purezza originaria che sgorga soltanto dalla condizione animale, spontanea e immune dal compromesso sociale; nulla di sovrumano e di mitico risiede in una condizione che di inveterato e tristemente ricorrente presenta solo la sofferenza, lo stato di servaggio e la negazione del libero arbitrio inteso come possibilità di essere artefici del proprio destino. Non il privilegio di sentirsi qualcosa in più degli uomini, ma l’atavico senso di persecuzione provato dagli ultimi degli uomini.

Sembrava il supplice, l’orante disperato del dio della distanza e dell’assenza, d’un ignoto dio, impassibile o efferato. Ai suoi singhiozzi, ai suoi strazi non rispondeva che il fiotto morto e lento frangersi sugli scogli e il silenzio torpido, come il respiro sordo e beffardo di quel cielo e di quel mare.

     Il discendere da una stirpe maledetta e l’assurda pretesa di migliorare la propria posizione sociale sono le uniche motivazioni che Petro riesce a ricondurre non solo all’origine della malattia paterna, ma anche a quella costante propensione all’amarezza e alla rassegnazione che cova in lui come nel padre e nelle due sorelle, afflitte da forme di nevrosi che le portano di fatto ad autoescludersi dalla vita.

Da quale offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?” si chiedeva Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. (…) Oppure pagava il prezzo, il padre, del passaggio dalla povertà e soggezione alla condizione di padrone d’una casa, di ettari di terra a Santa Barbara, avuti in lascito, per pura affezione, per l’onestà e cura di mezzadro, dallo stravagante don Michele, avverso alla nobiltà, al nipote don Nené, al paese intero, vissuto in volontario esilio, con i Marano, con i suoi libri, in quel ritiro orgoglioso di campagna (ma il barone Cicio, i pari suoi, saputo il testamento, malvagiamente avevano preso a oltraggiar l’erede col nome di Bastardo).

      Il male oscuro che attanaglia la famiglia di Petro sembra dunque da intendersi come una sorta di pessimismo cosmico di cui il presente è una delle tante sue manifestazioni succedutesi nel corso della storia. Si distingue infatti in modo assai nitido nelle pagine di Consolo un retroterra culturale che rimanda a Verga, Pirandello, Vittorini, Sciascia, cioè a una linea di autori siciliani che riscontrano nella realtà dell’isola, amara metafora di una condizione umana che va ben al di là delle coste di Trinacria, una situazione di immobilità che nega qualsiasi prospettiva di autentico progresso morale e civile, nella quale i più deboli soffrono un inesorabile destino di povertà, dolore e discriminazione sociale.

E il dolore suo sembrò a Petro sorto non solamente dalla madre troppo presto assente, dal padre malinconico, piagato, da Serafina torpida, di pietra, da Lucia che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada, ma da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?

    Petro avverte comunque che l’epoca presente è forse la più infelice di tutte. Sono gli anni del fascismo, in cui dilagano, reclutando un numero sempre crescente di adepti e di scherani, non soltanto ideali politici improntati a una cieca irrazionalità, ma anche nuovi modelli di vita fondati sull’ignoranza e sull’edonismo sfrenato, che trovano nella conventicola di Aleister Crowley, trapiantatasi nella Cefalù degli anni ’20 in cui è ambientata la narrazione, una superstiziosa e perversa sublimazione. Non sarà un caso quindi se proprio i personaggi più corrotti di quel microcosmo siciliano verranno risucchiati nel cono oscuro della setta: tra di essi anche il pastore Janu, simbolo panico di una innocenza primigenia che viene traviata e strumentalizzata non solo dalla scelleratezza del Crowley, ma anche, a ben vedere, da una modernità allo sbando che annichilisce qualunque forma di purezza.

Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stramangiava le parole, il senso loro – il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno… 

   Parimenti all’innocenza e all’onestà anche la cultura è disprezzata in quanto minaccia costante al privilegio e alla prevaricazione nei confronti dei più deboli; allo stesso modo la lingua, veicolo della cultura e alfiere di verità e giustizia, è brutalizzata e stravolta al punto da risultarne impoverita e da vedere neutralizzata la propria carica potenzialmente eversiva.

Petro non aveva trasporto per quei fogli, quei linguaggi, che tante volte gli riuscivano grevi, oscuri, come oscuro era per lui, e pauroso, il presente, il vicino, tutto quanto nel mondo si svolgeva, guerra e pace, penuria e sciali, soprusi e avvilimenti, privilegi e angherie, scontri fra ceti, assassinii dei re, dei tiranni, rivoluzioni popolari, come quella del Diciassette nella Russia… Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskij Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l’Italia da Manzoni e Verga… Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà, come i numeri e le figure della geometria, verso l’astrazione, il generale.

    Non è un caso che il racconto sia nutrito di suggestioni metaletterarie che dispongono il lettore a riflettere sulla natura, sulle forme e sugli intenti comunicativi della letteratura: Consolo sembra infatti affidare un ruolo di reazione allo squallore e alla pochezza morale proprio alla scrittura e allo stesso Petro, il quale, attraverso un percorso di crescita da vero e proprio romanzo di formazione, di essa scoprirà gradualmente il valore di testimonianza e la funzione di strumento di denuncia. Una concezione della letteratura come garante di verità contro la lettura adulterata e tendenziosa della realtà imposta dal potere ai suoi sudditi come dogma di fede.    Il cambiamento semantico delle parole e la corruzione del linguaggio sono conseguenza della perdita di senso della vita stessa, che investe anche il lessico comunemente destinato ad indicarne gli aspetti e a spiegarne i meccanismi e le dinamiche: una sorta di impotenza della lingua attuale che mostra la necessità di rifondare la realtà su basi nuove e sincere col contributo di un codice comunicativo rinnovato, che recuperi l’antico significato delle cose. Una palingenesi della parola che l’esilio tunisino di Petro e di altri siciliani, come lui “ribelli”, sembra, se non annunciare, quanto meno auspicare come antidoto al caos e al non senso.

dal blog La setta dei giovani vecchi… pubblicato il martedì, 28 agosto 2012

Commemorazione di Vincenzo Consolo al premio Racalmare 2012

Commemorazione di Vincenzo Consolo al Premio Racalmare 2012
Di Gaspare Agnello il 29 agosto 2012

Gaspare Agnello: Gentili signore e Signori,

tocca a me, come decano del Premio Racalmare Leonardo Sciascia Città di Grotte, di commemorare la grande e nobile figura dello scrittore Vincenzo Consolo che ci ha lasciato il 21 gennaio di quest’anno 2012.

Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933, sesto di otto figli.

Vincenzo Consolo 1933 2012

Si laurea in Filosofia del Diritto a Milano dove si era trasferito per seguire gli studi universitari; nella città dove erano stati Verga, Capuana, De Roberto, Vittorini.

Fa il militare a Roma e quindi torna in Sicilia.Insegna presso le scuole agrarie e scrive sul giornale “L’Ora”.

Nel 1968 vince il concorso alla RAI e quindi si trasferisce a Milano.

Nel 1963 pubblica “La ferita dell’Aprile”, nel 1976 “Il sorriso dell’ignoto marinaio, quindi “Lunaria”, “Retablo”, “Le pietre di Pantalica”, “Nottetempo casa per casa”, “L’ulivo e l’olivastro”, “Lo Spasimo di Palermo”. E per ultimo “La mia isola è las vegas”, uscito dopo la sua morte.

Nel 1998 Sciascia e la Giuria gli vollero assegnare la IV edizione del premio Racalmare con il libro “Retablo”.

E in quella occasione Consolo disse:

“E’ la prima volta che mi trovo in una serata così affettuosa, affabile, pregna di verità: non mi è mai capitato. Conosco Grotte da venti anni.

Passavo da Grotte quando venivo a trovare le prime volte Leonardo Sciascia in campagna, alla Noce. Ci passavo velocemente, poi ho imparato a conoscerlo attraverso gli studi, i libri.

Anche io ho scritto sulle zolfare: mi sono occupato della cultura dello zolfo e della sua storia. La presenza dello zolfo ha portato in Sicilia, nell’agrigentino, una sorta di rivoluzione culturale.

Qui, al contrario che nel resto della Sicilia, dove la cultura contadina è stagnante, c’era una sorta di presa di coscienza della realtà; una realtà molto dura. E l’uomo ha dovuto risvegliare la forza della volonta e la forza dell’intelligenza. C’erano gli uomini migliori.

Hanno imparato, per difendersi, a ragionare. E’ la terra di Pirandello, è la terra di Leonardo Sciascia”.

Nel 1999 viene nominato consultente del Premio e sarà lui a consegnare il premio allo scrittore spagnolo Manuel Vazquez Montalban.

Vincenzo Consolo saluta Manuel Vasquez Montalban al Premio Racalmare Grotte

Nel 1990, premiata Luisa Adorno con “Arco di Luminara”, Consolo si dimette clamorosamente da consulente del premio, dopo l’uccisione del Giudice Livatino, con la seguente lettera indirizzata al Sindaco del comune di Grotte e al presidente della Giuria che era Gesualdo Bufalino:

“Nel 1964, anno del suo rifiuto del premio Nobel, Jean Paul Sartre dichiarava: “finchè ci sarà un bambino che muore di fame, non pubblicherò una sola parola”.

Alla luce di questa alta lezione del filosofo, voglio affermare, invitando ad affermare con me, il Sindaco e il Consiglio comunale di Grottte, il Presidente e i componenti della Giuria del Premio letterario Racalmare-Leonardo Sciascia: “finchè in Sicilia la mafia continuerà ad ucidere, non possiamo permetterci di celebrare cerimonie letterarie sovvenzionate da pubblico denaro”.

Penso che così, in questo momento, possiamo rendere onore al supremo sacrificio del Giudice Rosario Livatino, omaggio alla memoria di Leonardo Sciascia, alla sua eredità morale e letteraria.

Mie foto storiche di Consolo:
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Per Sciascia, si sa, la letteratura non era attività dello spirito separata dalla società, non era puro esercizio di stile, ornamento di una classe o scherno alle inadempienze dei gruppi dirigenti, ma era impegno civile, critica di contesto politico, opposizione al potere.

Quanto detto sin qui valga a chiarire il motivo della mia assenza alla cerimonia di consegna della VI edizione del premio e a dichiarare le mie dimissioni dal ruolo di consulente della giuria.

Cordiali saluti. Milano 26 settembre 1990. Vincenzo Consolo”.

Per la verità Consolo si dimette anche dallo scrivere con il libro “Lo Spasimo di Palermo” che io raccomando a tutti di leggere.

“Ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nella angoscia mia e generale. Non scrivo neanche dediche”.

Consolo prende atto del fallimento della sua generazione: “Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo. Nel vostro temerario azzardo”. E conclude : “ Ho fatto la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.”

Nel 1998 ritorna ad essere consulente del premio e nel 1999 ne diventa Presidente con la XII edizione vinta da Fabria Ramondino con il libro “L’isola riflessa”.

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Rimane Presidente fino alla XX edizione celebratasi nel 2007.

Durante questa lunga e proficua collaborazione vincono il premio, oltre alla Remondino, Maria Attanasio, Carmine Abbate, Pino Di Silvestro, Maria Rosa Cutrufelli, Giovanna Giordano, Domenico Cacopardo, Amara Lakhous, Vincenzo Rabito, Salvana La Spina.

Sciascia, Bufalino, Maria Andronico Sciascia, Vincenzo Consolo hanno fatto grande questo premio che, grazie alla loro presenza, ha avuto risonanza internazionale.

Ed io voglio dire ai giovani che questo premio rappresenta l’evento più importante della nostra comunità e quindi bisogna preservarlo. Per ora si celebra grazie alla ditta emiliana CMC che lo finanzia. Se un giorno dovessero mancare i finanziamenti lo dovete celebrare lo stesso anche con un premio del valore di “Nummum unum” perché il valore del premio non consiste nell’ammontare della cifra che si eroga, ma nella pregnanza storica e letteraria della manifestazione che oggi vede protagonista lo scrittore Gaetano Savatteri che vuole rappresentare i suoi quattro grandi predecessori con uno sforzo di cui gli va dato atto.

Gaetano Savatteri si è laureato grande scrittore con “La congiura dei loquaci” che è il suo libro più bello e che sembra essere scritto dal grande Leonardo di Regalpetra.

Grazie Gaetano: in te noi vediamo i tre grandi della letteratura italiana Sciascia, Bufalino e Vincenzo Consolo che oggi ricordiamo assieme a Maria Andronico.

Nel nome di Sciascia, Bufalino, Maria Andronico e Vincenzo Consolo auguro Buona fortuna alla Melluso, ad Andò e a Fontana.

Grotte, lì 25.8.2012