Moniti per la contemporaneità dal palinsesto consoliano

Pubblicato il 1 luglio 2024 

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di Ada Bellanova

Nel 2008 Daragh O’Connell ha utilizzato il termine «palincestuoso» per definire Consolo evidenziando come, nell’imponente polifonia che caratterizza la sua scrittura, la voce letteraria acquisti un rilievo particolare e quanto intensa sia, rispetto ad altri autori pure attenti alla tradizione, la relazione con i testi anteriori. «La poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura»[1] che ne scaturisce è fortemente legata alla tensione etica dell’autore: la rottura che ne deriva nei confronti delle mode letterarie del momento è un tramite che concorre a definire la scelta dell’impegno. Ma questa modalità convive con la componente memoriale e autobiografica, con l’uso e il riuso dei propri testi, con le citazioni e le allusioni iconiche, in un’attenzione sempre presente per la Storia e per la contemporaneità. È allora arduo e perciò ancora più gratificante scavare alla ricerca del senso.

L’indagine in un’opera così densa di innesti può riservare sempre nuove sorprese, a seconda di dove si va a ‘scavare’. Ma è ancora più degno di interesse che i ‘reperti’ continuino a veicolare messaggi preziosi per il nostro tempo.  «Da paesi di mala sorte e mala storia». Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) è l’ultimo libro di Giuseppe Traina su Vincenzo Consolo, pubblicato da Mimesis, nella collana Punti di vista diretta di Gianni Turchetta. La raccolta di saggi, in parte inediti in parte rielaborazione di interventi già pubblicati, si riallaccia alla monografia del 2001 (Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001). Pur uscendo, come ammette lo stesso studioso nella premessa, in una fase particolarmente fertile degli studi su Consolo e pur toccando questioni variamente dibattute dalla critica, queste pagine presentano un taglio nuovo, individuando come corpus di indagine l’ultima fase dell’opera dell’autore – i testi che vanno dagli anni Novanta alla morte, ovvero da L’olivo e l’olivastro del 1994 (ma con riferimenti anche ai precedenti Retablo e Le pietre di Pantalica) ai vari contributi parzialmente confluiti ne La mia isola è Las Vegas (2012) e nel postumo Cosa loro (2018) –, e riconoscendovi una netta presa di posizione, ancora preziosa e illuminante, in merito a questioni socio-culturali, ambientali e politiche dell’Italia e del mondo.

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Il primo saggio I molti volti dell’ulisside, tra Sicilia e Mediterraneo: Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, che rielabora quello già uscito su Recherches (Studi per Vincenzo Consolo. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, n. 21, automne 2018: 99-111) si sofferma su una questione già molto presente nella critica consoliana, ovvero sulla presenza di Ulisse. La mappatura delle ricorrenze tende all’esaustività perché, partendo dal bagaglio degli studi precedenti, in particolare quello di Massimo Lollini [2], Traina passa in rassegna una serie di aspetti, anche minori e in parte trascurati, componendo le tracce e guidando alla comprensione del senso.

La precocità del tema del viaggio già presente ne La ferita dell’aprile, sebbene non in maniera massiccia; la struttura ‘a stazioni’ non sempre programmate ma anche determinate da accidenti di varia natura in RetabloL’olivo e l’olivastro, Lo Spasimo di Palermo; le allusioni omeriche in episodi o motivi riconducibili all’Odissea; l’influsso epico nelle scelte stilistiche (l’imperfetto durativo come tempo della ciclicità e il passato remoto come traccia epica nei verbi di dire o in quelli di movimento); la predilezione per protagonisti sempre in movimento, come Fabrizio Clerici, l’io di Le Pietre di Pantalica e di L’olivo e l’olivastro e Chino Martinez: il rilievo dato a tutti questi aspetti è testimonianza del dialogo intenso con l’ipotesto. Traina inoltre non manca di sottolineare che a questa ricorrente scelta di intertestualità si legano elementi autobiografici o caratteriali dell’autore, come il gusto-ossessione per il viaggio periplo in Sicilia o l’esilio a Milano. Proprio del tema dell’erranza, così pervasivo, precisa l’ambivalenza: intanto perché, anche se è ‘in esilio’ a Nord e pur non essendo un privilegiato, Consolo, per sua stessa ammissione, non vive la condizione degli emigrati poveri e ammassati in transito verso altre destinazioni, e poi perché c’è l’autoesilio generato dall’invivibilità della Sicilia, in L’olivo e l’olivastro, ma, accanto all’erranza generata dalla tragedia civile della mafia, in Lo Spasimo di Palermo, c’è anche quella che scaturisce dalla propria vicenda personale. Né mi sembra «una piccola divagazione» la nota finale sulla possibile conoscenza dell’Ulisse di Tennyson per il rifiuto di un nostos compiuto che coinciderebbe con il regno su un’Itaca imbarbarita dalla logica economica e la scelta di un nuovo viaggio che lascerebbe il potere a un più accomodante Telemaco. D’altra parte questo particolare referente viene forse evocato ma per negazione anche ne Lo Spasimo perché l’esilio ora tocca al figlio – neppure per lui c’è posto in un’Itaca distorta – e al padre non resta che un’erranza senza pace, senza slanci di conoscenza.

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Traina non si lascia sfuggire neppure l’occasione di precisare quanto il «monito periodico» dell’eliotiano Morte per acqua sia profondamente legato alla tematica odissiaca per la paura antica del viaggio per mare e del rischio della morte senza seppellimento. Tutti i compagni di Ulisse perdono la vita durante il difficile viaggio di ritorno e l’epos incarna il sentimento degli antichi Greci, mentre i morti per acqua di oggi, i migranti, sono ulissidi alla ricerca di una patria ideale che mai vedranno. C’è in queste tracce odissiache un fortissimo monito alla contemporaneità per quanto riguarda i drammi del Mediterraneo ma anche, come giustamente mette in evidenza Traina, l’avviso della profonda ambivalenza del rapporto dell’essere umano con la Natura.

A questo si collega un’altra riflessione interessante, sebbene più rapida, contenuta in questo primo saggio, sulla techne. Consolo ha senza dubbio pagine polemiche nei confronti della cultura tecnico-scientifica nella sua versione tecnologica. I poli industriali siciliani in particolare sintetizzano ne L’olivo e l’olivastro un’idea di sviluppo deteriore, che nega l’identità dei luoghi, distrugge la civiltà preesistente [3]. Altra cosa è la techne non meccanizzata, nei confronti della quale l’autore nutre un notevole interesse, evidente ad esempio nell’attenzione per botanica e arboricoltura in Retablo o ne Lo Spasimo di Palermo. In ciò Traina coglie una traccia ulissiaca perché riconduce queste aperture alla dicotomia tra olivo e olivastro e vi riconosce la valorizzazione di «una forma tra le più alte dell’intelletto umano e di una misura umana del vivere». Un altro avviso urgente per il nostro tempo.

Anche il secondo saggio, Nottetempo casa per casa: il potere, la lingua, l’esilio, rielaborazione di un intervento precedente, costruito attorno al tema chiave ‘lingua’, soffermandosi su una questione estremamente viva nella riflessione consoliana ovvero sulla peculiarità dello strumento linguistico con le sue ambivalenze, evidenza l’attualità del messaggio dello scrittore. Nel romanzo oggetto di analisi attraverso la narrazione di fatti misti di storia e invenzione degli anni Venti – la vicenda di Pietro Marano in una Cefalù che ha rinunciato a ogni forma di razionalità, stravolta dall’avvento del satanista Aleister Crowley e dai suoi riti orgiastici seducenti per alcuni cefaludesi pronti poi a schierarsi con il nascente fascismo – Consolo allude, per sua stessa ammissione, agli anni Novanta, «anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…» [4], ovvero all’irrazionalismo della cultura di massa a lui contemporanea, alla caduta delle ideologie e alla deriva degli italiani pronti a sostenere nuove forze politiche, Lega Nord e Forza Italia, e quindi a consegnarsi a un sistema di potere illiberale.

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Ma la violenza sembra essere ben più profonda e enigmatica di quella storico-politica: ha genesi antropologica e probabilmente anche autobiografica la malattia dei Marano, ma è solo apparenza, come ha messo in evidenza Galvagno [5], il legame esclusivo con la famiglia del protagonista e le implicazioni sono molto più vaste e riguardano la soggettività dolorosa dell’essere umano. L’indagine di Traina consegna al lettore alcuni importanti ‘ritrovamenti’, ipotesti della tradizione solo in parte affioranti, per riflettere sul ruolo della lingua nel romanzo. La parola poetica è per Petro Marano una possibilità di resistenza al dolore, mentre è nociva la retorica del linguaggio della politica, fascismo o antifascismo poca importa, perché anche nella lingua del vate poetico dell’anarchico Schicchi, Rapisardi, è rivelabile l’impostura. «Petro, con la sua sensibilità linguistica […] coglie il rischio che il terremoto grande che sconvolge politicamente l’Italia implichi una corruzione della lingua, uno slittamento tra significanti e significati che solo in apparenza può apparire un buffo calembour», e, nella sua alternanza tra melanconia, male catubbo da una parte e tentativo di resistere ad essi attraverso la scrittura, rappresenta dunque proprio la posizione dello scrittore che è consapevole dell’agguato in atto nei confronti della cultura umanistica e della razionalità, ma ha ancora fiducia in esse.

Alla base di questa riflessione Traina pone alcune sollecitazioni: l’idea di funzione utopica della lingua di Barthes, il principio di vacuità del linguaggio di Foucault, ma soprattutto il valore della leggerezza nelle Lezioni americane di Calvino. L’apparente distanza delle considerazioni calviniane – forse quelle che sorprendono di più tra i riferimenti suggeriti – è superata nella sottolineatura della presenza nel romanzo della «rutilante vitalità del fascismo», che è aggressivo, rumoroso, quindi facilmente ascrivibile a quello che Calvino definisce «regno della morte» [6], ma anche della coscienza della necessità di una riappropriazione della concretezza delle cose da parte del linguaggio. Inoltre se la pietrificazione dei Marano si lega alla pesantezza di cui le Lezioni americane invocano il superamento, nella percezione da parte di Petro del dolore individuale e nella  possibilità di una risposta collettiva alla sofferenza del mondo, Traina individua l’intreccio tra riflessione calviniana e echi leopardiani, in particolare nel passo del capitolo VIII: «Una suprema forza misericordiosa potrebbe forse sciogliere l’incanto, il grumo dolorante, ricomporre lo scempio, far procedere il tempo umanamente. O invocare ognuno, il mondo intorno, a capire, assumere insieme l’enorme peso, renderlo comune, e lieve» [7].

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Il terzo saggio, finora inedito, cala il lettore nel mistero del marabutto (Nel marabutto: Lo Spasimo di Palermo) e dell’ultimo dei romanzi consoliani, portando alla luce, attraverso considerazioni sui molti significati del termine, anche il senso sepolto (inabissato) della narrazione. Il termine è di per sé polisenso – eremita, tomba mausoleo, cisterna sotterranea – ma a contare sono i significati che esso assume per Chino Martinez. Dapprima luogo sotterraneo, scoperto nell’infanzia con l’amico Filippino, il marabutto prelude forse al difficile destino di scrittore che deve impegnarsi a trovare ‘il motto giusto’. Ma diventa subito anche ricovero per sfuggire alla collera paterna e sarebbe segreto da condividere con Lucia, la sola che possa godere della bellezza delle pitture murali, ma i gemiti del padre e della siracusana lì rifugiatisi per fare l’amore lo rendono emblema del rimosso. Chino infatti, spinto da molteplici sentimenti, non ultimi odio e rivalsa, contribuisce suo malgrado alla morte del genitore e della sua amante per mano dei tedeschi e ciò diventa per lui causa di rimorso perenne e radice della futura pazzia per la ragazzina che è l’unica a vedere i cadaveri di sua madre e del padre del protagonista.

Così il marabutto è l’aleph, il punto di partenza e, nel senso borgesiano, il luogo in cui sono riassunti tutti i luoghi, la storia che le riassume tutte. Ma indica anche l’eremita e, se – è la premessa di Traina – nell’opera di Consolo questa figura è ricorrente e significativa e spesso ridotta all’afasia o ad un’ecolalia che non comunica, come nel caso del frate belga di L’olivo e l’olivastro, questa accezione è valorizzata nell’ultimo romanzo in vari modi. Innanzitutto Chino Martinez «opta per una sorta di romitaggio laico» che è illusorio nel caos di Palermo, ma soprattutto sceglie un’afasia di scrittore che diventa anche afasia nei rapporti umani, persino nei confronti del figlio. Inoltre l’auspicio «T’assista l’eremita» che chiude il proemio, ricondotto da Traina proprio all’incontro con il frate belga, va inteso in relazione con l’effetto del marabutto sulla vicenda di Chino e va collegato al motto del fioraio che precede l’esplosione letale alla fine del romanzo, «Ddiu ti scanza di marabutta». Ma lo studioso, provando a indagare tutte le accezioni della parola marabutto, suggerisce che forse eremita è anche il giudice obiettivo dell’attentato mafioso e la sua condizione rinvia alla vera solitudine sperimentata da Paolo Borsellino la cui vita si è svolta tra l’aleph della farmacia di famiglia di quel quartiere poverissimo che è la Kalsa, di cui Consolo si ricorda in Le macerie di Palermo, e il tremendo isolamento finale da cui nessuno l’ha protetto.

Il saggio successivo si concentra sulla scrittura d’intervento e sui testi confluiti in La mia isola è Las Vegas e Cosa loro verificando analogie e specificità di questi rispetto a quelli confluiti nel Meridiano curato da Turchetta. In particolare Traina si sofferma sull’uso dell’ironia costruita attraverso l’elencazione nominale, la deformazione onomastica, la scelta del dialetto o di forme regionali anche sul modello gaddiano, i rifacimenti mimetici ancora gaddiani, o con la prospettiva dell’io narrante, straniante e eticamente indifendibile come nel racconto La mia isola è Las Vegas. Inoltre in tutta la scrittura d’intervento, che si tratti di interventi sulla mafia o di articoli di politica internazionale, è riscontrabile un grande scrupolo documentario. Infine Traina segnala nella produzione estrema di Consolo una tendenza ad analizzare fenomeni di portata mondiale, a partire dal tema delle migrazioni del Mediterraneo e, a tal proposito, si sofferma sull’interessante ma poco noto Civiltà sepolta [8], articolo che nel richiamo del titolo all’archeologico Civiltà sepolte di C. W. Ceram allude antifrasticamente al «seppellimento morale della nostra attuale civiltà, emblematizzato dal perdurante ricorso alla tortura». Nel testo lo scrittore si sofferma sulle tante violazioni dei diritti umani, a partire da quelle compiute da fascisti e comunisti per arrivare alle moderne torture statunitensi. Traina vi rileva un ricorso preciso a toponomastica e onomastica – per citarne alcuni, Abu Ghraib, Baghdad, Nassiriya, Maurizio Quattrocchi, Nicholas Berg – fondato sulla convinzione che il nome possa facilmente, fissato sulla pagina, diventare emblema per tutti, in un crescendo apocalittico che l’ecfrasi finale del monumento ispirato alla fotografia di Lunchtime può, compensando la voragine angosciante di Ground Zero moltiplicata nelle immagini televisive dell’11 settembre 2001, riscattare con un moto di speranza – la profezia di una ricostruzione nella particolare scelta iconica che si riallaccia alle modalità dei grandi romanzi – la logica della guerra.

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L’ultimo saggio, Consolo e il Mediterraneo arabo: «tra un mare di catarro e un mare di sperma», rielabora un precedente intervento su «Italianistica» (n1, gennaio-aprile 2020). Vi si collega, per l’attenzione rivolta al tema del mare e alle modalità con cui si manifesta la presenza araba, l’appendice sciasciana, del tutto inedita. Ma in Consolo la componente araba mediterranea non esiste da sola, bensì mescolata con l’identità greca, ebraica, spagnola, con individuazione dell’arricchimento che nasce proprio dalla fusione di civiltà e culture diverse. Traina passa in rassegna le differenti forme della presenza araba nell’opera dell’autore: quella geografico-artistica che valorizza l’eredità monumentale, soprattutto a Palermo e a Trapani, e la valenza civilizzatrice della dominazione araba in Sicilia non senza mettere in risalto in controcanto la distruttiva barbarie mafiosa contemporanea; quella storico-sociologica che, partendo dall’arrivo degli arabi in Sicilia, sulla scorta di Michele Amari, giunge ad analizzare la doppia migrazione tra l’isola e il Nord Africa e gli esiti tragici delle traversate dei nostri giorni; quella letteraria che dalla conoscenza di Ibn Giubayr e degli altri antichi scrittori arabi siciliani giunge all’interesse per autori contemporanei palestinesi o maghrebini; infine quella politica con le riflessioni sulle guerre del Mediterraneo, su eventi come l’11 settembre, e, ancora una volta, sulle migrazioni.

Il saggio mette in luce un aspetto, secondo me, fondamentale nella riflessione consoliana, ovvero la forza vivificatrice della mescolanza tra popoli. La stessa rappresentazione, entusiastica, della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine elime, greche, puniche testimonia nell’opera dell’autore il valore degli incontri, degli scambi tra popoli di culture diverse, ciò che è, da sempre, motivo del cammino della civiltà.

Le considerazioni di Traina per l’interesse di Consolo nei confronti di Tahar Ben Jelloun, che evidenziano tra l’altro una comune predilezione per la dimensione dell’oralità, permettono di cogliere un auspicio di meticciato anche sul piano letterario. La soluzione alla crisi linguistica e letteraria – in particolare del romanzo, minacciato dalla comunicazione del potere in virtù della sua valenza comunicativa – risiederebbe in un incontro straordinario tra lingua della memoria e lingua scelta per comunicare, proprio come nel caso dello scrittore marocchino che pur scegliendo il francese – la lingua degli ex colonizzatori – per scrivere non ha rinunciato alla sua identità maghrebina. Ma il meticciato dovrebbe essere l’esito anche sul piano biopolitico: l’Europa vecchia – «un mare di catarro» – ha bisogno della vitalità giovane che possono portare i migranti. In consonanza con l’aforisma zanzottiano [9], Consolo evidenzia la necessità e la positività della mescolanza, non tanto o non solo per spirito umanitario ma per evidenti ragioni politiche e economiche: si tratta, d’altra parte, di riconoscere il cammino della Storia, tanto più della Storia di un siciliano, segnata da così tanti popoli e commistioni.

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In un Mediterraneo dilaniato da guerre e morte la speranza risiede, a sorpresa, in San Benedetto, nel santo nero di origini popolari. Soffermandosi in chiusura sull’analisi del racconto Il miracolo, che, con tono sarcastico e grottesco, narra di come una ragazza semplice e chiusa nella fede in un vicolo del centro storico di Palermo si convince di essere stata messa incinta da San Benedetto e non da un migrante nero che ha bussato alla sua porta, e sugli articoli dedicati al santo – con la proposta di eleggerlo copatrono accanto alla bianca e aristocratica Santa Rosalia proprio in virtù della presenza significativa di immigrati – Traina mette evidenzia la forza del simbolo che Consolo ci lascia in eredità: a Palermo, nell’isola e in tutto il Mediterraneo dovrebbe essere finita l’epoca delle madri sofferenti che piangono i loro figli, dovrebbe esserci invece «un nuovo tipo di padri, non legati all’atavica cultura mafiosa ma capaci di tenere in braccio un bambino, come il santo nero nell’allucinata narrazione della ragazza del Miracolo».

Resta, alla fine della lettura di questi saggi, oltre ad una rinnovata vertigine di fronte alla ricchezza del palinsesto consoliano, l’apprezzamento per la pregevole opera di scavo operata da Traina il cui denso resoconto testimonia una cura attenta e consapevole dell’eredità dell’autore. Questa è percepita come propria nell’atto dell’indagine ma, nella scelta di uno specifico corpus di indagine e nel focus su questioni care a Consolo e assolutamente non risolte, come le migrazioni, la violenza, la violazione dei diritti umani, l’uso distorto della lingua, il rapporto tra uomo e natura, è proposta anche, ancora e urgentemente, a tutti.

Dialoghi Mediterranei, n. 68, luglio 2024
Note
[1]   D. O’Connell, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italià», 13, 2008: 161-184 (:163).
[2]   M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo, in «Italica», LXXXII, I, 2005: 24-43.
[3]  Ne ho diffusamente parlato in A. Bellanova, Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Milano 2021, in particolare: 230-245.
[4]  V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e la Milano, la memoria e la storia, a cura di Renato Nisticò, Donzelli, Roma, 1993: 47.
[5]  R. Galvagno, L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo, Milella, Lecce, 2022: 199.
[6]   I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano,2023: 16.
[7] V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano, 2015: 712.
[8] V. Consolo, Civiltà sepolta, in L’Unità, 15 maggio 2004. L’articolo è reperibile per intero online https://vincenzoconsolo.it/?p=2928
[9]  A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio, Conversazione con M. Breda, Garzanti, Milano, 2009: 68-69.
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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la monografia Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

Vincenzo Consolo, “Di qua dal faro”

Alfio Pelleriti
10 gennaio 2024

In “Di qua dal faro” Vincenzo Consolo veste i panni del critico letterario conservando tuttavia la prosa ammaliante e piena di vibrazioni emotive, regalando ai lettori un saggio ineludibile per cogliere sentimenti, contraddizioni, tragicità e poesia nell’universo siciliano nel quale l’autore conduce il lettore in una esplorazione culturale, storica, antropologica. Della Sicilia presenta gli elementi costitutivi della sua storia e delle sue tradizioni, oltre che le più importanti produzioni letterarie, non tralasciando informazioni che attengono i settori produttivi: la pesca del tonno, le miniere di zolfo, gli eventi tragici relativi ai terremoti del 1693 in Val di Noto e a quello di Messina del 1908; il mondo dei vinti nella produzione verghiana; lo smarrimento dell’identità personale nelle opere di Pirandello; l’analisi socio-politica della Sicilia pessimistica e scettica nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o nei romanzi di Leonardo Sciascia, fino alle “Parole come pietre” di Carlo Levi.

In “Di qua dal faro”, come in tutte le opere di Consolo, da Retablo al Sorriso dell’ignoto marinaio, alle “Pietre di Pantalica”, anche il paesaggio sembra indissolubilmente legato all’analisi delle caratteristiche comportamentali dei siciliani: “nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… e sopra vi volteggiano i neri corvi… sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disumana, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei tauri.”[1]

Un elemento che accomuna buona parte della letteratura siciliana, dice il Nostro, è il Nòstos, il ritorno in patria dopo esperienze in altri mondi, in altre culture, per riscoprire un legame forte e profondo con la cultura della propria terra, che si rivela unica, prodotto di molteplici influssi linguistici, storici e culturali. Alcuni intellettuali hanno negato tale peculiarità, in nome di un’apertura alla modernità e al progresso, chiudendo con lo stereotipo di una Sicilia contadina, chiusa alle novità e rassegnata ad una subalternità culturale, orgogliosa e velleitaria nel volersi isolare in nome di una unicità ormai inesistente. Fu questa la posizione di Elio Vittorini, dice Consolo, antesignano del neorealismo e dello sperimentalismo in letteratura, aperto alla cultura anglosassone e alla letteratura americana in particolare, convinto assertore della posizione gramsciana dell’intellettuale organico per approdare ad una egemonia culturale che potesse aprire le porte alla nuova società democratica, moderna e liberale. Era questa una posizione molto critica col dialetto, pur vivendo in un periodo di sperimentalismo linguistico come quello di Gadda, di Pasolini, di Stefano D’Arrigo, di Ignazio Buttitta. D’Arrigo, in particolare, viene presentato da Consolo come un autore appassionato e originale con il suo splendido “Horcynus orca”, pubblicato poi in una nuova edizione con il titolo di “I fatti della fera”, un romanzo straordinario che si colloca nella scia dei Malavoglia di Verga, che adopera una lingua aperta a vari innesti culturali ma al cui fondo c’è comunque il dialetto. Nel romanzo di D’Arrigo emerge una visione rassegnata e pessimistica sulla possibilità di riscatto della Sicilia in un’opera monumentale e affascinante, dalla scrittura affabulatoria e poetica che si può accostare, senza false modestie, all’Ulisse di Joyce, quanto a ricerca di nuovi canoni espressivi.

Vincenzo Consolo

Consolo, in questo suo viaggio nella produzione letteraria siciliana, non poteva tralasciare la presentazione di Pirandello, lo scrittore che cerca di uscire dalla “prigione” isolana e dai confini linguistici segnati dal dialetto con i riferimenti ad una tradizione piegata spesso ad anti valori, rassegnata al prevalere del male, all’inutilità dell’impegno politico. Pirandello è voluto uscire da tali confini, da lui percepiti come solide sbarre d’un carcere, per approdare ad una riflessione sull’uomo inserito in un mondo dai più vasti orizzonti e con uno sguardo volto al futuro, alla ricerca di soluzioni nuove. I risultati, tuttavia, saranno quelli tipici di un approdo allo smarrimento e all’angoscia esistenziale, alla necessità dell’isolamento rispetto a un contesto sociale che annulla e reifica.

Altre pagine interessanti sono quelle dedicate a Zola e al tema del rapporto tra intellettuale e scrittore. Afferma Consolo che lo scrittore francese col suo J’accuse contro i giudici che avevano condannato il capitano Dreyfus, ha vestito i panni di un intellettuale prestato alla politica e tuttavia egli avverte che quello non è il suo ruolo, poiché più che dalla politica e dall’impegno sociale egli è attirato da “altro”, cioè da quella dimensione del reale in cui lo scrittore indaga sull’uomo cercando le risposte al senso della vita.

E a proposito dell’impegno sociale degli scrittori italiani emerge in Consolo una certa amarezza dopo aver constatato che spesso preferiscono non accostarsi a problematiche sociali e politiche che porterebbero a scontrarsi con chi s’è assunto la responsabilità di amministrare quegli ambiti. Dice Consolo: “Gli scrittori italiani, i letterati, considerati dal potere superflui o esornativi, hanno da sempre stabilito col potere stesso un patto di silenziosa servitù e di convenienza per ricevere protezione ed emolumenti. Solo pochi scrittori, isolati, ‘non protetti’, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia. Pasolini, tra gli ultimi, è stato uno di questi: da poeta s’era fatto intellettuale, polemista, lanciando dalle prime pagine dei giornali i suoi j’accuse, processando il palazzo per farsi processare… e Leonardo Sciascia. Scrittori isolati.[2]

Il saggio di Vincenzo Consolo è essenziale per la comprensione del contesto culturale nel quale si inscrive la produzione letteraria italiana e siciliana in particolare. Non manca niente e nessuno in questa sua analisi e, a ragione, essa può definirsi completa, esaustiva, con uno stile elegante e leggero, qui e là venato dal rosso della passione, perché della sua terra egli parla e dei suoi amici scrittori, di quelli con cui s’è accompagnato, come Sciascia, e di quelli che ha apprezzato leggendone le opere, sulle quali s’è formata la sua sensibilità e la sua peculiarità creativa. Costoro si ritrovano in questo suo lavoro, insieme ad autori che, sbrigativamente, sono considerati “minori”, come lo storico Michele Amari, di cui parla nel capitolo “La Sicilia e la cultura araba”[3], davvero illuminante per cogliere il profondo apporto dato da quella cultura alla lingua, all’architettura, alla letteratura, all’economia, all’agricoltura con l’inserimento di colture che diventeranno fondamentali in tale settore economico: l’ulivo, la vite, il limone, l’arancio, il cotone. E ancora, grazie a quello scambio culturale e commerciale, la pesca divenne un importante settore economico, soprattutto con la lavorazione del tonno. Ma la presenza araba in Sicilia fece registrare anche un miglioramento della macchina amministrativa: fu in quel periodo che si introdusse la divisione dell’isola in tre valli: Val di Mazara, Val Demone, Val di Noto e si affermò un nuovo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza tra popoli di cultura, razza e religione diverse.

Del resto, tutti gli interventi di Consolo in questo suo prezioso viaggio nella storia e nella cultura siciliana, sono chiarificatori e illuminanti per capire le radici di quella che viene definita “sicilianità”, ma qualcuno dei suoi capitoli risulta davvero interessante oltre che elegante come, ad esempio, quello sul rapporto tra spazio fisico e produzione letteraria. Esso presenta un percorso che ha inizio con i poemi omerici, in particolare con l’Odissea seguendo il Nòstos di Ulisse, ma anche il viaggio di Telemaco alla ricerca del padre e della sua iniziazione e maturazione, e continua con l’Eneide di Virgilio, “seconda grande Odissea”, e ancora l’Odissea di Dante, La Divina Commedia, con i luoghi adibiti alla condanna dei peccatori, all’espiazione delle colpe nel Purgatorio e ai premi nel Paradiso celeste. E presenta ancora lo spazio vasto (Europa, Africa, Asia) in cui si svolgono le vicende dell’Orlando furioso di Ariosto, e poi segue La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il cui spazio tocca Gerusalemme, l’Egitto e Costantinopoli, e ancora il Don Chisciotte di Cervantes, la letteratura anglosassone con Robinson Crusoe, Moby Dick, L’isola del tesoro.

Infine, afferma Consolo, per ciò che riguarda la letteratura italiana moderna, gli spazi riguardano soprattutto la provincia e qualche città, ma si tratta sempre di spazi ristretti, dai Promessi sposi di Manzoni, ai Malavoglia di Verga, per giungere a Pirandello, che restringe ulteriormente gli spazi dove si muovono i suoi personaggi. Con lui si passa alla “stanza” come luogo in cui si svolgono le sue storie e spesso diventano “stanze di tortura”, lì “dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento in quella storia è solo verbale.[4] L’analisi del tema del rapporto tra spazio e letteratura si chiude con “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini, dove il protagonista, Silvestro, ritorna dopo tanti anni in Sicilia, nei luoghi della sua infanzia e lì ritrova la sua casa, la madre, che da Torino avevano assunto l’aura del mito ma che si rivelavano adesso senza più quei riferimenti ideali che aveva custodito nella lontananza. Col ritorno si dipana ogni velo e la realtà appare povera, esangue, banale perfino. Riferendosi ad una successiva pubblicazione di Vittorini, “L’olivo e l’olivastro”, Consolo chiude il capitolo con un’amara considerazione che riguarda anche la sua condizione di esule: “Noi oggi, esuli, erranti, non aneliamo che a ritornare ad Itaca, a ritrovare l’olivo. Lo scacco consiste nel fatto che sull’olivo ha prevalso l’olivastro, l’olivo selvatico.[5]


[1] Ibidem, pag. 12

[2] Ibidem. Pag. 197

[3] Dall’827 al 1072 si colloca la dominazione araba in Sicilia. Ad essa succederà quella normanna.

[4] Ibidem, pag. 269

[5] Ibidem, pag. 270
foto postate di Giuseppe Leone e Claudio Masetta Milone

Kalasìa. Parole contro il potere.

“Kalasìa” è termine dialettale raro e tipico di Sant’Agata di Militello che proviene dal greco e sottintende una memoria antica della bellezza. Con questo titolo sono raccolte alcune delle più interessanti interviste a Vincenzo Consolo rilasciate a Concetto Prestifilippo tra il 1992 e il 2011. Questo omaggio al Premio Strega di Retablo è arricchito da un racconto fotografico di rara intensità del maestro Giuseppe Leone, nonché da un prezioso scritto inedito dedicato a un tema ricorrente in Consolo e quanto mai attuale: il Mediterraneo e la tragedia dei migranti. A distanza di anni, la rilettura di questi articoli colpisce per l’analisi lucida, a tratti spietata, di alcuni momenti epocali della storia repubblicana.

Vincenzo Consolo, “Kalasìa. Parole contro il potere”.

“L’ultimo pensiero di Consolo per i migranti”

«Era la mattina di martedì10 maggio 2011, l’ultimo soggiorno di Vincenzo Consolo in Sicilia – Il ricordo è di Claudio Masetta Milone, uno degli amici più intimi dello scrittore di Sant’Agata di Militello – “Dimmi cosa ne pensi” mi chiese, indicandomi un foglio poggiato sul tavolo». Il testo evocato è composto da due pagine scritte a mano con una grafia tonda e chiara. Due le frasi sottolineate con un tratto risoluto, rimandano alle opere letterarie “L’Orlando furioso” di Ariosto e “Civiltà ed imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” di Fernand Braudel.

«È stato questo l’ultimo scritto di Consolo. Il riferimento è alla tragedia dei migranti alla deriva nel Mediterraneo. Un tema che gli stava molto a cuore. Forse era stato commissionato da qualche giornale o rivista. Non è mai stato pubblicato perché tutto precipitò, subito dopo, al cospetto di una serie di terribili accadimenti. Fino alla successiva evoluzione delle sue condizioni di salute».
foto: Claudio Masetta Milone

Perché questo testo non è mai stato pubblicato?

«Consolo aveva deciso, dopo ripetuti tentativi, di tornare definitivamente a Sant’Agata. Aveva cominciato anche a cercare una casetta sulle colline che guardano il mare. Ma un terribile lutto familiare lo aveva profondamente colpito. La morte del nipote Rino, un grande intellettuale, studioso di filosofie orientali che per Consolo era come un figlio, fu per lui una vera tragedia. Una vicenda che lo segnò profondamente, accelerando il decorso di una grave malattia che, dopo il suo ritorno a Milano, lo stroncò nel giro di pochi mesi. Dopo la scomparsa del nipote non solo non scrisse più nulla ma si isolò. Non volle più parlare e incontrare nessuno, solo una ristretta cerchia di amici. In un primo momento mi aveva chiesto di pubblicare questo brano sul suo sito ufficiale e sulla sua pagina social, poi mi chiese di ritirarlo. Il testo che mi aveva mostrato quella mattina è dunque rimasto nel cassetto per tutti questi anni. La signora Caterina Pilenga Consolo lo aveva però annotato in una sorta di libro mastro, dove puntualmente registrava tutti gli scritti e gli interventi del marito. Riordinando un fascicolo dell’archivio ho ritrovato questo lavoro che appare ancora tragicamente attuale».

Come mai alla fine del testo, firmando, lo scrittore scrive: Sant’Agata Militello, omettendo la preposizione di?

«Era una cosa che lo divertiva. Anche una semplice preposizione per lui non era un dettaglio di poco conto. Continuava a spiegare che eliminare quel “di” equivaleva a sottolineare un’autonomia, quella conquistata rispetto alle località che rimandavano alla fondazione del paese. Come ripeteva sempre, Sant’Agata è stato per tutta la sua vita il luogo dello scontro e del riscontro. Aveva scritto che non si nasce in un luogo impunemente. La geografia santagatese, la sua peculiare collocazione tra la dorsale dei monti Nebrodi e l’affaccio sul mare Tirreno, lo avevano dotato di una duplice radice, terrena e marina. Dualità che si intrecciava con l’altra biforcazione, quella storica e naturale tra est e ovest dell’Isola».

Questo testo inedito rimanda a Lampedusa e al Mediterraneo.

«Erano temi centrali nel suo lavoro. Scriveva che il Mediterraneo doveva essere il luogo dell’incontro delle culture. Questo trasformarsi in un tragico cimitero era per lui una tragedia insopportabile. Nel brano ricorda come siamo stati noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e approdare nel Maghreb. Scrive che nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani».

foto: Claudio Masetta Milone

Il suo ultimo ricordo dello scrittore?

«A Milano dove ero andato a trovarlo a Natale, pochi giorni prima della sua scomparsa. Mi regalò una copia della prima edizione del libro “Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Sul frontespizio una dedica straziante, il cui ricordo mi commuove ancora. Mi chiese di stare vicino a Caterina. Prima di congedarci, volle ricordarmi una parola che amava particolarmente: Kalasìa. È un termine dialettale, tipico di Sant’Agata, pressoché ignoto in altre parti della Sicilia. Serve a designare la bellezza. Un termine che, mi spiegò con il suo ultimo sorriso, proveniva sicuramente dal greco e sottintende una memoria antica della bellezza».

                                                                                              Concetto Prestifilippo

Giovedì, 20 luglio 2023 Repubblica

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Lampedusa, lepidusa, isola pietrosa, aspra , dove ci racconta l’Ariosto nel suo grande poema Orlando Furioso, si conclude la guerra tra cristiani e infedeli con lo scontro dei “tre contro tre”. Ma altri scontri, sappiamo, avvengono oggi in Lampedusa, di poveri migranti che li affrontano, migranti che non sono morti come migliaia d’altri, inghiottiti dalle acque del Canale di Sicilia. Migranti approdati fortunosamente a Lampedusa contro i quali si scontra il nostro feroce egoismo di italiani, di europei ben pasciuti, sazi. Egoismo quando non è xenofobia, razzismo. Ma siamo stati noi per primi, noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e ad approdare nel Maghreb, in Tunisia. Nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani e lì si sono impegnati, facendo i pescatori, i contadini, o gli operai nelle miniere di Sfax. La storia del mondo è storia di emigrazione da un paese all’altro, da un continente all’altro. Più di venti milioni di italiani sono emigrati sono emigrati nei vari paesi del mondo negli anni passati. Ma, rimanendo nel Mediterraneo, vogliamo qui riportare quel che ha scritto Fernand Braudel in Civiltà ed imperi nel Mediterrano nell’età di Filippo II: “Su tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ ”.

Sant’Agata di Militello, 10 maggio 2011

Vincenzo Consolo

Le firme storiche del Corriere

Il grande scrittore era curiosissimo di conoscere luoghi feste usanze linguaggi e personaggi della sua terra così amata. Per andarlo a trovare nella sua casa in città, lasciai in un giorno di luglio il mio mare ai piedi dei verdissimi Nébrodi. Poi di corsa in littorina tra stazioncine solitarie nella vallata di un torrente quasi asciutto dal nome enfatico di Fiumetorto.

 Nell’isola interna del latifondo e delle zolfare Io, smarrito, fino alla Caltanissetta di Sciascia.

 Avevo mandato a Leonardo Sciascia il mio primo racconto. (…) Mi rispose con la civile sollecitudine di cui sono capaci le persone attente e disponibili verso gli altri. Aggiungendo nella lettera questa postilla vergata a mano: «Mi piacerebbe sapere quali sono i luoghi del Suo racconto: per documentarmi su quelle particolarità storico-linguistiche che insorgono nel libro, e che hanno, a mio parere, peculiare carattere». I luoghi del racconto, i luoghi dei racconti: c’era allora, in quei primi anni Sessanta, usciti da molto dalla guerra, ma da poco dalle penurie del dopoguerra, c’era come un bisogno vitale da parte degli scrittori, almeno in Sicilia, di conoscere e riconoscere i luoghi, i paesi, di incontrarsi, di conoscersi (…). E Sciascia era curiosissimo di conoscere luoghi, paesi, feste, usanze, linguaggi, persone, personaggi di quella sua Sicilia tanto amata e per la quale poi negli anni fini per disperarsi. (…) Ma è certo che i luoghi più interessanti del racconto, tracciato fino a quel momento da Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Il consiglio d’Egitto e Il giorno della civetta, erano quelli di Sciascia, e luogo di attrazione, di convergenza fu allora Caltanissetta, dove a quel tempo lo scrittore abitava (…). Partii un giorno di luglio dal mio paese sul mare ai piedi dei verdissimi Nébrodi. A Termini Imerese, cambiato treno, m’inoltrai in un giallo aspro, desertico paesaggio che abbagliava e smarriva. Era quella la Sicilia interna del latifondo e dello zolfo che gli abitanti della costa settentrionale, al di qua della barriera appenninica, usi ad andare a Palermo, a Messina, a varcare lo Stretto, spesso ignoravano. La littorina correva dentro la vallata di un torrente quasi asciutto dall’enfatico nome di Fiumetorto e si fermava davanti a caselli, a stazioncine solitarie che servivano paesi nascosti dietro gole di monti: Sciara (il paese di Le parole sono pietre di Levi, dell’euripidea madre di Salvatore Carnevale), Montemaggiore, Roccapalumba, Valledolmo, Marianopoli, Xirbi.. .. Toponimi di lirismo vittoriano, ma avrebbe potuto essere, una di esse, la stazione dentro cui viene consumato il duplice omicidio di Una storia semplice, l’ultimo racconto di Sciascia. Perché qui, in questa vastità, in questo vuoto, nella finzione del racconto, nella realtà, si può scoprire la violenza  corpo squarciato del picciotto o del giudice inerme, la catena del servaggio, della pena d’una condizione disumana, nei calcheroni, nei tralicci arrugginiti della zolfara morta, la solitudine del bandito, del ribelle braccato nella bocca d’una grotta, il senso di desolazione e di morte nel grumo roccioso d’un crinale sopra cui volteggiano corvi, nel chiarchiaro de Il giorno della civetta o di Occhio di capra: «E il cuoco disse ai suoi piccoli / al chiarchiaro ci rivedremo tutti. Per dire dell’appuntamento che tutti abbiamo con la morte». Caltanissetta (…). A proteggerla (…) era in alto una gran statua del Cristo Redentore. E in via del Redentore era la casa dello scrittore. (.) Il mondo intorno si faceva sempre più ingiusto, violento, bugiardo, perdeva intelligenza, sentimento, umani-tà: si imbarbariva. E con questo dolore di pietra se ne andò al chiarchiaro, alla morte (…)


Vincenzo Consolo si racconta: un contributo autobiografico inedito

Il 18 febbraio 1933 ricorre la nascita di questo autore centrale nella storia della letteratura italiana del Novecento. Attraverso le sue stesse parole ne ripercorriamo la biografia e il senso della sua opera.
Un articolo di Giulia Mozzato

Vincenzo Consolo è stato un autore centrale nella storia letteraria italiana del Novecento. In modo particolare per lo studio sistematico della lingua e della sua evoluzione, per il recupero della forma narrativa poetica, per la raffinatezza della scrittura, per le tematiche sociali che sono state al centro del suo lavoro.
Un uomo fisicamente non alto, non imponente, ma che entrando in una stanza portava con sé una presenza carismatica molto forte, pur con un atteggiamento di estrema disponibilità.

Nel 2004 fu protagonista di una lezione nell’ambito del corso di scrittura creativa che organizzammo. Abbiamo sempre conservato la registrazione di quella lezione, sapendo che si trattava di un contenuto importante, unico.

In quelle parole ritroviamo oggi la sua biografia e il senso della sua opera.

Un contributo prezioso che in occasione dei 90 anni dalla nascita (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933 ed è purtroppo scomparso nel 2012) vogliamo condividere con i nostri lettori.

Non ho mai creduto all’innocenza, innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica… certo ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Quando si intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quanto sia importante ciò che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

Sono nato in Sicilia, ma volevo vivere a Milano

Sono nato in Sicilia e ho fatto i miei studi a Milano, la Milano degli Anni ’50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni.
In piazza Sant’Ambrogio ho frequentato l’Università Cattolica, non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; in questa piazza vedevo arrivare la sera un tram, senza numero, pieno di migranti provenienti dal meridione. Lì c’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, in parte destinato alla caserma della celere, e in parte a un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, o in Svizzera o in Francia. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa stesse succedendo; mi ricordo però queste persone già equipaggiate con la mantellina cerata, il casco e la lanterna.
Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere dello zolfo perché la crisi ne aveva causato la chiusura, e quindi passavano a quelle di carbone; poi sapete che a Marcinelle ci fu quella grande tragedia con numerosi italiani morti… Osservavo questa realtà, mentre in quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore pur frequentando la facoltà di giurisprudenza.
Milano per me era la città dove era stato Verga, dove c’erano Vittorini e Quasimodo, quindi per me era la città giusta dove approdare. Ho insistito coi miei per spostarmi a Milano, specie perché avevo il desiderio di incontrare Vittorini: Conversazione in Sicilia per me era una sorta di vangelo che mi accompagnava da tempo. Ma insieme a Conversazione in Sicilia, dal punto di vista essenzialmente letterario e narrativo, c’era stato tutto un bagaglio di letture che mi aveva formato in quegli anni, ed era tutta la letteratura meridionalista, come Gramsci o Salvemini sino a Carlo Doglio, a Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.

Tutte letture non propriamente letterarie ma di ordine storico-sociologico sulla questione meridionale.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia.
Tornato in Sicilia dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare il notaio o l’avvocato o il magistrato e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, perché era questo il mondo che volevo conoscere: i paesi sperduti di montagna. La mia curiosità e la mia felice voracità di lettore – non c’era la televisione a quell’epoca e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri – mi portava verso letture di riviste, dibattiti culturali. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, come l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni”, una collana di ricerca dove sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani o lo stesso Sciascia; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”.

Non c’era l’affollamento che c’è oggi di un’enorme quantità di libri pubblicati, all’epoca i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva come collocarli, l’importanza che potevano avere. Comunque, quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era di restituire la realtà contadina in forma sociologica, mettendomi sul coté “leviano” di Sciascia, invece poi sia l’istinto sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria e narrativa, narrativa però nel senso più ampio della parola.
Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali, che non erano dei temi assoluti, ma erano dei temi relativi. Questo mi permetteva di svolgere attraverso la scrittura quella che era la mia visione del mondo, quella che era la mia visione storico-sociale, non esistenziale, che era poi il bagaglio di cui mi ero nutrito.

Scrittura e tematiche

Il problema principale era scrivere sì del mondo che conoscevo, del mondo che avevo praticato, di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura?
In quegli anni si esauriva una stagione letteraria che è andata sotto il nome di “neorealismo”, tutta la letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, una scrittura nobilissima, certamente, ma una scrittura assolutamente referenziale, comunicativa.
Ho riflettuto: gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, ma neanche, con lo scarto di dieci anni (e parlo di scrittori autentici, grandi, come per esempio Moravia, o Elsa Morante, o Calvino, o lo stesso SciasciaBassani e tanti altri) avevano vissuto il periodo del fascismo e della guerra, e avevano continuato a scrivere anche nel secondo dopoguerra in uno stile assolutamente comunicativo, in uno stile razionalista o illuminista che dir si voglia.
Non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua. Mi sono convinto che questi scrittori, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che con l’avvento della democrazia potesse nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica con la quale poter comunicare.
Avevano un po’ lo schema della Francia dell’Illuminismo, la Francia del Razionalismo, dove una società si era già compiuta, già formata all’epoca di Luigi XIV, ma poi, con le istanze della rivoluzione, era avvenuta quella novità di riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Pur avendo vissuto l’esperienza della guerra, ai tempi ero un bambino, mi sono formato nel secondo dopoguerra e ho visto che la speranza che questi scrittori avevano nutrito non c’era più. C’erano state le prime elezioni in Sicilia del ’47, con la vittoria del blocco del popolo, la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale, ed erano seguite le intimidazioni. C’era stata la strage di Portella della Ginestra, e poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC; io osservavo, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, che si sperava e a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie e molti problemi ereditati dal passato.
Quindi per me la scelta di quella lingua, di quello stile comunicativo, era assolutamente impensabile, io non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico “centrale”, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia… anzi di Moravia si diceva che scrivesse con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera. A Moravia interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un tale mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare; e quindi la mia scelta fatalmente andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma fatalmente mi collocavo in una linea stilistica che partiva nella letteratura moderna, che partiva da Verga, e arrivava agli ultimi epigoni: GaddaPasoliniMastronardiMeneghello. Sperimentatori o espressivi che dir si voglia, una linea che ha sempre convissuto nella letteratura italiana con l’altra.
Però le tecniche degli sperimentatori-espressivi naturalmente sono personali, variano da autore ad autore; per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni. Manzoni voleva “sciacquare i panni in Arno”, cioè riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una lingua unica, e così, dopo aver scritto Fermo e Lucia  ha scritto I promessi sposi nella lingua “centrale” toscana, ma pure lui i panni li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche con l’illuminismo francese.

Verga è stato il primo che ha rivoluzionato questo assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai stata scritta, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto) ed era una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, in primo grado, diciamo, quella che Dante, nel De vulgari Eloquentia chiama “la lingua di primo grado”; Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”.
Verga rappresenta i contadini di Vizzini oppure i pescatori di Aci Trezza che non avrebbero mai potuto parlare in toscano, sarebbe stata un’incongruenza.
Io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale milanese del 1872, e arrivava, man mano negli anni, al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era simile perché partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana; sennonché in Gadda c’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre al romanesco gli altri dialetti italiani; invece in Pasolini troviamo la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano; in Meneghello ci sono altre implicazioni, in Mastronardi altre, e potrei fare il nome di un altro scrittore siciliano come D’Arrigo autore di quell’opera enorme che si chiama Horcynus Orca.

La tecnica che mi sono imposto è stata la tecnica dell’innesto. Ho trovato a mia disposizione un giacimento linguistico ricchissimo, quello della mia terra, la Sicilia. Senza mitizzare, enfatizzare questa mia terribile terra, c’è in essa una stratificazione linguistica enorme. Oltre ai templi greci o arabo-normanni, vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dal greco, poi l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese… Ho pensato che bisognava reimmettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, che avevano una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere.
Non era il cammino inverso, cioè la corruzione dell’italiano che diviene dialetto, ma era l’opposto cioè la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire che venivano reimmessi da queste antichità nel codice centrale, ubbidendo a un’esigenza di significato, perché il vocabolo greco, il vocabolo arabo o spagnolo, mi dava una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, era più pregno di significato e portatore di una storia più autentica.
Ecco: la ricerca era proprio in questo senso e poi l’organizzazione della frase e della prosa, in senso ritmico e prosodico.

Struttura e lingua

Dal primo libro – La ferita dell’Aprile -, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, provando ad accostare quella che è la prosa illuministica, comunicativa, in cui l’autore “autorevole” alla Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione e riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre un ragionamento di tipo filosofico.
Nietzsche fa una divisione parlando della nascita della tragedia greca: il passaggio dalla tragedia antica, di Eschilo e di Sofocle, alla tragedia moderna di Euripide. Dice che nella tragedia di Euripide, che lui chiama la tragedia moderna, c’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, dove usciva l’”anghelos”, che era il messaggero che si rivolgeva al pubblico e narrava l’antefatto, quello che era avvenuto in un altro momento e in un altro luogo; da quel momento poteva iniziare la tragedia, cioè i personaggi iniziavano ad agire, a parlare.. poi c’era il coro che commentava e lamentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche dice che nella tragedia antica c’è lo spirito dionisiaco, musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna prevale lo spirito socratico, cioè la filosofia e la riflessione.


Può apparire eccessivo da parte mia ricorrere a paragoni talmente aulici, ma in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa, con la rivoluzione tecnologica, sulla scena non può più apparire l’”anghelos”, il messaggero non può più usare quel linguaggio della comunicazione con cui fare iniziare la tragedia perché l’autore non sa più a chi si rivolge. Quindi ho spostato la prosa verso la forma del coro, del coro greco, dandole un ritmo di tipo poetico, eliminando la parte autorevole dell’autore e quella della riflessione. La prosa si presenta così come un poema narrativo, come quello che praticavano nel Mediterraneo i famosi Aedi di omerica memoria. Penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, perché si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il conteso, quello che si chiama il contesto “situazionale”. Non c’è più rapporto, a meno che non si vogliano praticare le forme mediatiche e quindi si scriva nell’italiano più corrente, più corrivo, quello che non denuncia la profondità della lingua, una lingua che è portatrice di storia, memoria anche collettiva.


La  mia ricerca è proseguita negli anni con gli altri libri, dal primo libro sino all’ultimo Lo spasimo di Palermo, in modo sempre più accentuato. Non solo ho organizzato la frase in forma metrica, ritmica, ma nel contesto della narrazione invece di inserire riflessioni di tipo filosofico, di immettere la scrittura saggistica dentro alla scrittura narrativa – come teorizzato da Kundera, il quale, nella sua teoria del romanzo, sostiene la necessità di interrompere la narrazione e d’inserire delle parti riflessive-saggistiche –  interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, in una forma ancora più poetica, un po’ come se subentrasse il coro della tragedia greca: sono parti corali che fanno da commento all’azione che sto raccontando, alla narrazione che sto svolgendo, alle vicende che sto narrando.

Le opere

Torno al mio primo libro che parla del secondo dopoguerra in Sicilia, un libro scritto con un io-narrante adolescente, dove parlo della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni, del ’48. Lì ho scelto questo stile, usando anche nell’organizzazione della frase le rime e le assonanze, ma in senso comico-sarcastico, come parodia della società degli adulti che l’adolescente che scrive critica e non condivide.
Il mio primo libro è in prima persona, come spesso accade agli esordi perché si attinge a quelli che sono i ricordi: il primo libro è una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale.
Credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna invece trattare quello che è il proprio progetto letterario, cioè cercare la propria identità: che cosa sono, dove voglio arrivare, chi voglio essere.

Il secondo mio libro si chiama Il sorriso dell’ignoto marinaio, e qui devo fare un‘altra digressione autobiografica: dal primo al secondo libro sono passati quasi 13 anni in cui venivo considerato quasi un latitante dalla scrittura letteraria. Ma questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968, dopo essermi reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile perché il mondo contadino era finito, come aveva osservato Pasolini.
Milano mi sembrava la città più interessante -, che io tra l’altro già conoscevo – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, cioè tra gli imprenditori e gli operai. Mi sembrava importante e interessante approdare non a Roma o a Firenze ma a Milano, sollecitato, allora, dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, proprio in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, studiando la grande trasformazione italiana perché il mondo contadino era finito sostituito da un nuovo paese che bisognava narrare, che bisognava rappresentare.

Così mi trovai qui nel ’68, ma spaesato e spiazzato perché di fronte a una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e di cui mi mancava il linguaggio: se posso permettermi di fare un paragone, la stessa sorte l’ha avuta Verga, approdato a Milano nel 1872 nel momento della prima rivoluzione industriale, una città che si ingrandiva, aprendo nuove fabbriche: la Pirelli era nata proprio nel 1872 per la lavorazione della gomma… dove vi erano stati i primi scontri, i primi scioperi dei lavoratori per richiedere diritti. Pure il signor Verga rimase spiazzato e qui a Milano avvenne la sua famosa conversione: non riuscendo a capire questo nuovo mondo lui, come scrive Natalino Sapegno, ritornò con la memoria alla Sicilia “intatta e solida” della sua infanzia; iniziò il nuovo ciclo di Verga con Le novelle rusticane e poi con il suo capolavoro I Malavoglia.


Anch’io rimasi spiazzato, ma non feci la stessa scelta di Verga. Credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenite nella storia; non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ma ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto Milano di quegli anni, le grandi istanze, le grandi richieste di mutamento di questa nostra società, dovevo assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia, scegliendo un topos storico qual è il 1860 che mi pareva somigliante al 1968 in Italia, e non solo. Ho pensato appunto di scrivere un romanzo storico – Il sorriso dell’ignoto marinaio -, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia con le speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani all’arrivo di Garibaldi, concependo il Risorgimento e l’unità d’Italia come un mutamento anche politico e sociale. Speranze deluse dell’unità che ha compiuto il progetto politico dell’unione ma senza mutare le condizioni degli strati popolari.

Da qui poi è nata tutta quella letteratura di tipo sociale di cui vi dicevo: la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma anche una letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, fatta da Verga, sia nei Malavoglia che in Mastro don Gesualdo, o da De Roberto con I ViceréPirandello con I vecchi e i giovani, fino ad arrivare a Lampedusa.
Naturalmente la letteratura sul Risorgimento è espressa in maniera diversa: in Lampedusa si trova una visione scettica e deterministica. Lui veniva da una classe nobile, Il Gattopardo è il libro di uno scettico che pensa che le classi sociali si avvicendano nella storia con una determinazione quasi fisica, come succede con il principe di Salina, uno studioso delle stelle: come accade alle stelle che prima si accendono e poi si spengono e finiscono, così le classi sociali. Però le classi alte, quelle nobiliari, vengono da lui assolte perché attraverso la ricchezza l’uomo si raffina e dà il meglio di sé, producendo poesia e bellezza. Per ciò che mi riguarda posso dire che me ne frego della poesia e della bellezza, mentre esigo più giustizia e più equità tra gli strati che formano una società.

Ho concepito partendo da Il sorriso dell’ignoto marinaio un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia. Il secondo è Notte tempo, casa per casa, che parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni venti con la nascita del fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia che si chiama Cefalù, parlando delle crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, l’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, le sette religiose, di segno bianco e di segno nero. L’ultimo della trilogia, è Lo spasimo di Palermo, che parla della contemporaneità, degli anni’90 e si svolge sempre in Sicilia però con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino. Naturalmente non faccio nomi, ma si capisce che il tema è la tragedia di questi magistrati che sono massacrati dalla mafia.
Poi sono usciti altri libri che potrei definire collaterali, per esempio Retablo oppure L’oliva e l’olivastrodove ho cercato di praticare la riflessione sulla realtàL’oliva e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia dove non c’è la finzione letteraria, ma un viaggio nell’isola degli anni ’80 e ’90, con tutte le perdite e sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse, che non ritrova più la sua Itaca, o meglio la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

Giulia Mozzato, per MaremossoMagazine – La Feltrinelli
17 febbraio 2023



Consolo poeta. foto di Giovanna Borgese


Vincenzo Consolo. La storia, il mito, l’impegno (II)

Il pastiche de Lo Spasimo di Palermo: tra lingua poetica e lingua politica


Elisiana Fratocchi

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) consistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro
contesto occidentale, nella cancellazione della memoria, e quindi della continua minaccia della cancellazione della letteratura, soprattutto di
quella forma letteraria dialogante che è il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante,
in una forma poetica1 Tra le fonti di cui Vincenzo Consolo si serve per la stesura del Sorriso dell’ignoto marinaio Gianni Turchetta2 riconosce un ruolo significativo al saggio di Hans Magnus Enzensberger, Letteratura come storiografia. Nella riflessione di Enzensberger – ospitata nel 1966 dalle colonne del «Menabò» – si delinea un’idea di letteratura come trascrizione più diffusa, particolareggiata e soggettiva della Storia, ma non meno veritiera e storicamente attendibile della scrittura storiografica. L’autore di letteratura, secondo il parere dello scrittore tedesco, rielaborando il dato storico in chiave 24 personale, oltre ad affermare una propria visione del reale e di conseguenza la centralità del ruolo autoriale nella narrazione, riesce più finemente dello storico a produrre un racconto polifonico in grado di dare voce a una molteplicità di «figure senza nome che emergono dalla folla»3. Il racconto della Storia da parte del letterato si traduce così in un prodotto artistico di cui il lettore può avvertire la decisa paternità autoriale, verosimilmente attraverso la voce narrante, ma anche
la plurivocità delle diverse figure che partecipano all’evento espressa da una varietà di lingue. Al momento della stesura de Lo Spasimo la fonte
enzensberghiana risulta dunque già acquisita e presente nella memoria consoliana. Muovendo da questa persuasione appaiono più chiare alcune scelte stilistiche adottate nel romanzo; fra le altre, si nota la presenza di una voce narrante che si esprime in forma monologante e poetica ma anche l’emergere di una plurivocità generata da una lingua polifonica.
Se per Enzensberger la letteratura rappresenta una possibilità di restituire la Storia in modo particolarmente incisivo, ancor meglio si comprende l’assunto consoliano secondo il quale la letteratura costituisce un argine alla cancellazione della memoria. Lo spasimo, ultimo romanzo dell’autore, si mostra così come un estremo tentativo di salvezza di una Storia e della letteratura stessa, che per svolgere tale funzione non può che riaffermare il proprio carattere «letterario» attraverso una «iperletterarietà». Le componenti di tale iperletterarietà possono individuarsi in due fattori principalmente: da una parte si avrà nel romanzo un’amplificazione della funzione poetica, da Jacobson in poi individuata come funzione
preponderante nel testo di carattere letterario; dall’altra si osserva un ricorso reiterato alla letteratura inserita nella letteratura, ovvero alla pratica dell’intertestualità, secondo la nomenclatura genettiana4.
Il presente studio si pone l’obiettivo di indagare le forme di questa plurivocità e di passare in rassegna le modalità dell’intertestualità, aspetti sostanziali e complementari dello stile «iperletterario» de Lo Spasimo di Palermo.

Lo Spasimo assume la forma di un nostos, in cui si racconta la storia dello scrittore Gioacchino Martinez, siciliano trasferitosi a Milano, che dopo tanti anni sceglie di fare ritorno nella terra natale, dopo aver fatto visita al figlio stabilitosi a Parigi. La microstoria si direbbe conclusa se non fosse caratterizzata da incontri decisivi con la macrostoria. Gioacchino Martinez fin da bambino accusa l’urto della Storia, l’incursione degli eventi esterni, storico-politici, nella sua dimensione privata. Dapprima irrompe la guerra, l’occupazione nazi-fascista che gli sottrae il padre, poi la mafia, le contestazioni giovanili che lo priveranno della vicinanza del figlio, e infine sarà di nuovo la mafia: «La storia è sempre uguale»5. La decisione di tornare in Sicilia si risolve in un viaggio spazio-temporale verso il principio, l’origine di tutto, un percorso la cui circolarità viene affidata sinteticamente alle parole di Eliot: «In my beginning is my end» (SP, p. 5)6.
Il modello archetipico del nostos nella letteratura occidentale è certamente il racconto del ritorno di Ulisse verso Itaca, ipotesto volutamente esibito non solo attraverso puntuali occorrenze e citazioni7 ma anche conferendo accenti mitici alla narrazione. La patina ancestrale è assicurata al dettato da una lingua poetica e letteraria abbondante di arcaismi e termini desueti.
Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, andiamo. (SP, p. 5) Metrica, istituti retorici, sintassi e lessico, ogni fattore concorre a far sì che lo stile possa sottrarsi al campo della prosa per essere ascritto al terreno della poesia. L’incipit del romanzo è isolato dal resto della narrazione anche graficamente: l’interruzione di pagina e il carattere corsivo danno evidenza dell’eccezionalità di questa porzione testuale, cornice che il narratore riserva a sé stesso per intervenire direttamente nella narrazione. In tale spazio proemiale la voce narrante apostrofa il suo personaggio («allora tu […], ed 25
io, voce fioca […], relatore manco lungo tuo viaggio, andiamo») e indirettamente il lettore, come d’uso nei proemi. La voce è «fioca» e il relatore si definisce «manco»: un altro topos d’ascendenza tradizionale si
individua nella presenza di una excusatio in fase proemiale, attraverso la quale il narratore annuncia la propria inadeguatezza all’alto compito della narrazione. Ma a differenza della maggior parte dei testi della tradizione, l’excusatio in questo caso non appare propriamente una scelta di maniera. Sottesa all’affermazione del narratore vive la consapevolezza della concreta difficoltà che si riscontra nella restituzione del reale. Da qui deriva all’autore la necessità di una ricerca faticosa della parola essenziale e dunque poetica. Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. (SP, p. 5)
Il carattere poetico è conferito anche a partire da fattori metrici: i blocchi del periodo separati da punteggiatura si pongono spesso tra loro – soprattutto in posizione incipitaria – in rapporto isometrico. «Muro
che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla» (SP, p. 37): valga come esempio la sequenza posta in apertura del IV capitolo nella quale si osserva l’alternarsi cadenzato di quinari e settenari.
Se per molti secoli la rima è stata riconosciuta come «l’avamposto della poesia»8, l’istituto retorico che distingueva i versi dalla prosa, neanche la rima mancherà al dettato de Lo Spasimo. Tra la rima interna e la rima al mezzo potrebbe classificarsi il rimando fonetico che caratterizza alcuni passaggi: «s’aggruma la falda della spuma» (SP, p. 5), si legge in apertura; «si nascose nel vano di bambù e di banano, udì i passi stridenti sulla ghiaia, spiò e vide Don Aspano» (SP, p. 39); «grandioso mare, all’isola che appare e che dispare all’orizzonte» (SP, p. 60); o ancora – «dicevi del
veliero sopra il Monte, dei fuochi sopra l’onde» (SP, p. 35), sequenza che oltre a produrre assonanza fornisce un esempio di alternarsi di endecasillabi e settenari. Parole in rima e omoteleuti individuano passaggi
particolarmente densi sul piano semantico: «Piano, vai piano… tu e i soavi letterati siete le epigrafi di ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio di annientamento
» (SP, p. 33), rinfaccia il figlio Mauro al padre facendosi portavoce dell’accusa che un’intera generazione muoveva alla precedente, del rimprovero dei rivoluzionari ai letterati che osservano non agiscono.
Le figure di suono non si concentrano soltanto nei finali di parola: ricorrono allitterazioni dall’effetto onomatopeico (Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime
del tempo […]. S’è placata la tempesta, nella grotta, sulla giara sepolta s’aggruma la falda della spuma», SP, p. 5), paronomasie e calembour («Lo strazio fu di tutti, di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta», SP, p. 18), che partecipano ad assegnare una valenza fonosimbolica alla lingua. Gualberto Alvino, riflettendo sul Sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo, e Nottetempo casa
per casa legge «l’esaltazione del livello fonosimbolico» come «pura virtualità, crudo istituto, citazione culturale; preponderanza dell’interesse formale congiunta al più sfrenato edonismo pluristilistico»9. Nel caso de Lo
spasimo la presenza di fonosimbolismo andrebbe piuttosto ricondotta a una volontà extra-linguistica, non risolvibile in puro «feticismo linguistico»10. Gli artifici stilistici in questo contesto non sembrano avere lo scopo di un barocco di maniera, quanto piuttosto potrebbero servire il desiderio di creare un discorso più segnatamente letterario al fine di contrastare la già citata, paventata minaccia di sparizione della letteratura.
Tutti i livelli della lingua contribuiscono all’operazione. La sintassi viene frequentemente sconvolta nel suo ordine consueto: la sequenza soggetto-verbo-oggetto caratterizzante la disposizione degli elementi degli elementi della frase in prosa risulta talvolta scomposta da anastrofi e iperbati, note figure della costruzione poetica: «Ma pure in questa cala urlano sirene» (SP, p. 5); «Scivolava lenta la nave» (SP, p. 83)11. Colpisce la presenza reiterata dell’accumulatio, spesso asindetica e priva di verbo, egnatamente poetica, melica, ma propria anche di un gusto espressionista già riconosciuto alla prosa consoliana. Cesare Segre, introducendo l’opera dello scrittore, segnala questa 26 caratteristica come tratto distintivo dell’autore rispetto al resto degli scrittori meridionali12. «L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici» – prosegue il critico – «e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco,
è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la “vera” storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi»13. L’osservazione di Segre invita a considerare ancora una volta la centralità della lettura di Enzensberger nell’ottica di una riflessione sulle soluzioni linguistiche de Lo Spasimo: la rinuncia alla Storia non coincide affatto con l’esclusione della
dimensione storica dalla narrazione; si tratta piuttosto di una rinuncia quantificabile piuttosto a partire dalla distanza che corre tra lo stile consoliano e quello cronachistico – storiografico che tanto aveva permeato le narrazioni novecentesche che tematizzavano la Storia.

Lo stile de Lo Spasimo può considerarsi una delle soluzioni più distanti dal racconto storiografico, ma al tempo stesso non esente da profondità storico – cronologica apprezzabile sul piano linguistico e in particolare a livello lessicale. L’atemporalità di vocaboli, stilemi poetici e letterari (stimme14, leuci, ora antelucana, mestizie), arcaizzanti e desueti (macule, spegnare, credea, introibo, dolorarsi) convive con la puntualità del lessico tecnico soprattutto politico e militare (camerati, bunker, colonna, zolfanello,
bombe a mano, ordegni, polveriere, pistole, giberna, spallorm, scavatrici, ruspe, impastatrici), con marche della contemporaneità storico-politica (la mafia, la polizia, i rilievi, gli appalti, le licenze, il delirio costruttorio) e nomi propri di cose e luoghi che non potrebbero appartenere a nessun altra epoca e a nessun altro luogo. Il romanzo si apre con la visione
di Judex, una serie girata nel 1916, non una pellicola d’invenzione. Le parole che ancorano il discorso a un dato momento storico e a un luogo preciso fanno la loro comparsa in modo più massiccio da metà romanzo,
quando l’originario equilibrio familiare viene sconvolto senza possibilità di restauro. Dopo aver tentato di ricostruire con la parola essenziale, poetica, ma pur sempre incompleta («Ogni parola ora, povera, incapace, riduce quell’incanto, quel dono unico sospeso») un tempo di ancestrale bellezza, irrompe la tragedia della Storia: «Cominciò la storia con il boato
enorme» (SP, p. 61). In questo pluriliguismo fatto di lessico poetico,
letterario, lessico tecnico, lessico della storia e della contemporaneità si incontrano frequenti dialettalismi e regionalismi che non ottengono l’effetto di un abbassamento stilistico, ma al contrario concorrono
a spostare il cronotopo del romanzo verso una dimensione mitica e arcaizzante. Il dialettalismo non è un espediente per raggiungere più efficacemente una mimesis linguistica, a parte in rari casi («I ladri, i
ladri, professore, vengono la notte, sono come spirti, non saccio come fanno», SP, p. 66); la prova di ciò è offerta dalla presenza di dialettalismi non realmente attestabili, ma ricreati da combinazioni autoriali15. 27
In questa polifonia lessicale si riconosce la «Babele di lingue soggettive e obiettive»16 che Enzensberger faceva nascere dal desiderio di assicurare una voce alla molteplicità delle componenti che partecipano alla Storia. «Reclames, agitazione politica, gergo, tedesco di Lutero, terminologia giuridica e così via», scrive il critico a proposito della lingua di Berlin
Alexanderplatz, racconto letterario della classe operaia. Così, anche la lingua consoliana si caratterizza per una compresenza di varietà lessicali, un pastiche che non darà mai vita a significative variazioni di registro,
che si attesta sempre costantemente su una variante alta, grazie alle particolari combinazioni metriche, alle forme sintattiche, all’impiego di particolari istituti retorici di suono, posizione e significato. Anche l’intero sistema di citazioni e rimandi intertestuali partecipa alla costruzione del pastiche17 genettianamente inteso, ovvero, come risultato finale del riuso di prodotti letterari preesistenti rimestati e trasformati. La presenza di una letteratura al «secondo grado» è imponente e diversificata all’interno de Lo spasimo e si presenta nelle forme più immediate della citazione o in quelle dissimulate della 16 H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, p. 10.
allusione che il lettore avverte per lo più attraverso occorrenze, immagini, particolari soluzioni stilistiche. Tra le citazioni dirette troviamo versi di Omero, Dante, Cervantes ed Eliot; mentre rientrano in una modalità meno diretta di intertestualità l’impiego del correlativo oggettivo, teorizzato da Eliot e tradotto in Italia dai versi montaliani. Così, in immagini e occorrenze, si ritrova l’Inferno dantesco, richiamato nell’incipit dalla presenza delle «gru», delle «schiere di anime» e delle «porte d’ingresso»18.
Lo studio degli ipotesti presenti nel romanzo meriterebbe certamente ben altro approfondimento. In questa sede vi si accenna in quanto si considera
l’intertestualità un aspetto stilistico determinante per la trasmissione dei significati. Tanto la funzione poetica quanto l’intertestualità finiscono per accentuare il carattere spiccatamente letterario dell’opera, neppure in parte incrinato dalla presenza di un lessico tecnico o storicamente più marcato. Il registro resta alto, il pastiche linguistico e letterario non
si risolve nei caratteri della parodia o della critica satirica, in cui sfocia la maggior parte delle volte il pastiche. Come osserva ancora Cesare Segre:
Consolo va certo avvicinato a un altro grande romanziere plurivoco e pasticheur, al massimo anzi del nostro Novecento, Gadda. Essi hanno
in comune la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico. Tuttavia c’è una differenza sostanziale:
la plurivocità di Gadda […] irride ai rappresentanti della società […]. Consolo realizza soprattutto un. Consolo realizza soprattutto un accostamento vivacissimo, materico di materiali fonici, lessicali, sintattici […].19 Lo stesso Segre ammette la presenza di «movenze ironiche o parodiche» nel racconto consoliano, ma tali movenze non possono certamente considerarsi preponderanti nell’impasto stilistico de Lo Spasimo, che complessivamente, per usare ancora una categoria
contemplata da Genette, resta un pastiche «serio».

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

1 V. Consolo, Per una metrica della memoria, «Bollettino ‘900», n. 6-11, 1997, pp. 25-29. In questa sede le citazioni verranno mutuate dalla versione online
https://vincenzoconsolo.it/?p=1872 (ultima visita 25/05/2022). 2 G. Turchetta, Soggettività e iterazione nel romanzo storico-metaforico di Vincenzo Consolo, in «Studi per Vincenzo Consolo», «Recherces», n. 21, 2018, pp. 23-54. 3 H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, «Il menabò», n. 9, Einaudi, Torino, 1966, p. 10. 4 Consolo ne La metrica della memoria si esprime in termini genettiani parlando di Retablo, che definisce prima di tutto un «ipertesto». Cfr. Gérard Genette, Palinsesti, La Letteratura al secondo grado, trad. Raffaella Novità, Torino, Einaudi, 1997, I ed. Paris, Ed. du Seuil, 1982. 5 V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 2020 (I ed. 1998), p. 5. Da ora in poi SP. 6 La citazione è mutuata da Four Quartets di T. S. Eliot. 7 La sola citazione puntuale si legge in SP p. 59: «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi //quando odi la sorte…», da Odissea, trad. di Giovanni Aurelio Privitera, Milano, Mondadori, 1981-1986. 8 C. Betocchi, Le poesie del sabato, Milano, Mondadori, 1980, p. 112. 9 G. Alvino, La lingua di Vincenzo Consolo, «Oblio», a. VIII, n. 32, p. 72. 10 Ibidem. 11 SP, p. 83 12 C. Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, Opere, Milano, Mondadori, pp. XI-XII. 13 Ivi, p. XX. 14 Lemma non attestato nei principali dizionari dell’uso, presente nel GIDLI: «si chiamano stimme in entomologia quelle aperture che si trovano lungo il corpo degli insetti…». Occorenza poetica si legge in Montale, L’ombra della Magnolia, La Bufera e altro, 1956 e in Gozzano, Epistole entomologiche, laddove indica però indica la parte interna del fiore. 15 È il caso di «Nòzzoli», forma che non attestata dai dizionari dell’uso né da quelli dialettali. Si può pensare che si tratti di una formula di invenzione dell’autore basata sul meccanismo di formazione proprio dell’area ragusana, dove il nesso -cl- latino dà vita all’affricata alveolare sorda geminata -zz-. Si può ipotizzare che da noclus latino (nucleo, nòcciolo) possa derivare nòzzolo. Pertanto, i «nòzzoli delle capre» potrebbero rappresentare l’escremento dell’animale che del nòcciolo condivide la forma. 16 H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia, p. 10. 17 Gérard Genette, Palinsesti, cit. p. 107 e sgg. 18 Le gru sono notoriamente presenti nel canto V dell’Inferno usate come metaforizzante per i dannati lussuriosi che vengono trasportati dalla bufera. Lo stesso animale si incontra nel canto XXVI del Purgatorio, ancora in un canto dedicato ai lussuriosi. Le porte, dopo ben due occorrenze dantesche («gru» e «schiere di anime») non possono non evocare le porte infernali, da quella di entrata ai varchi della città di Dite. 19 C. Segre, La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento,
Torino, Einaudi, 1991 pp. 85-86. La citazione viene già ricordata da Gualberto Alvino, La lingua di Vincenzo Consolo, cit., p. 78.

Il posizionamento di Consolo: per un’etica dell’iperletterario

foto Giovanna Borgese

Daniel Raffini

In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vin­cenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva:
Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultan­ze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’i­perletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1

1 G. Raboni, E nevicò con cocci lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .

Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spic­catamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilin­guismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, natu­ralmente, ipotesto)»2

2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,

1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dal­le pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrit­tura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.

I tre aggettivi scelti da Raboni per definire l’iperlet­terarietà consoliana appaiono quanto mai esatti: essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di un contesto in cui i riferimenti si confon­dono, si amalgamano con la scrittura, diventano allu­sione, tonalità di un racconto; è elegante, perché spes­so sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di particolare ricer­catezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinco­nica, perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra natale, la fine del mondo con­tadino, il livellamento operato dalla lingua dei media.

La letteratura di Consolo è una letteratura dal li­mite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima che essa decada nel non essere. È proprio questa ma­linconia ciò che collega l’iperletterarietà all’altro ele­mento centrale, e apparentemente discordante, della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromis­sione costante della scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione dell’uo­mo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annienta­mento. «La storia è sempre uguale»3

3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,

scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, roman­zo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il rac­conto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La lette­ratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.

In un’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle ragioni profonde delle sue scelte narrative:

Credo di avere un progetto letterario che per­seguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4

4 V. Consolo, Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli uomini, Bologna, 2016, p. 13.

In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:

Io credo che la letteratura debba […] impor­si appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umilia­zione e sfruttamento (isolate ed estranee al flus­so principale della storia). Supremo compito del­la letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.

In questa propensione verso gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana. Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlan­do del suo sguardo sul Risorgimento siciliano espres­so nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi degli emargi­nati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto marinaio racconta, tra le altre cose, la rivol­ta contadina di Alcara Li Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo del­le truppe garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più complesso di quanto po­trebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano un circolo vizioso di vio­lenza e dolore. In una delle pagine finali del romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che pos­siamo considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? una scrittura continua di privilegiati»6

6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .

La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La

5 riflessione è ancora veicolata dal personaggio di Man­dralisca: «Ed è impostura sempre la scrittura di noi co­siddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .

Si nota insomma come la questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comun­que da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con l’impegno professato dallo scrit­tore. A spiegarcelo è Consolo stesso, nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamen­te e idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instau­rarsi «di un potere politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Con­solo non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il grande deposito linguistico» lascia­to in Sicilia dallo stratificarsi di popoli diversi è così di­ventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione, che rappresentava un im­portante ingranaggio di quella macchina di integrazio­ne e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota, d’al­tronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul racconto della fine del mondo con­tadino sopraffatto dalla nuova realtà industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancella­zione del passato, che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conser­vare la memoria di ciò che era prima:

Credo che sia proprio questo il dovere della let­teratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto con le nostre matrici linguistiche, che era­no anche matrici etiche, matrici culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è memoria e soprattutto me­moria linguistica. (Autobiografia della lingua, p. 12)

La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’inter­no dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che me­glio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrit­tore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6

Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil

Consolo e i Nebrodi