Le firme storiche del Corriere

Il grande scrittore era curiosissimo di conoscere luoghi feste usanze linguaggi e personaggi della sua terra così amata. Per andarlo a trovare nella sua casa in città, lasciai in un giorno di luglio il mio mare ai piedi dei verdissimi Nébrodi. Poi di corsa in littorina tra stazioncine solitarie nella vallata di un torrente quasi asciutto dal nome enfatico di Fiumetorto.

 Nell’isola interna del latifondo e delle zolfare Io, smarrito, fino alla Caltanissetta di Sciascia.

 Avevo mandato a Leonardo Sciascia il mio primo racconto. (…) Mi rispose con la civile sollecitudine di cui sono capaci le persone attente e disponibili verso gli altri. Aggiungendo nella lettera questa postilla vergata a mano: «Mi piacerebbe sapere quali sono i luoghi del Suo racconto: per documentarmi su quelle particolarità storico-linguistiche che insorgono nel libro, e che hanno, a mio parere, peculiare carattere». I luoghi del racconto, i luoghi dei racconti: c’era allora, in quei primi anni Sessanta, usciti da molto dalla guerra, ma da poco dalle penurie del dopoguerra, c’era come un bisogno vitale da parte degli scrittori, almeno in Sicilia, di conoscere e riconoscere i luoghi, i paesi, di incontrarsi, di conoscersi (…). E Sciascia era curiosissimo di conoscere luoghi, paesi, feste, usanze, linguaggi, persone, personaggi di quella sua Sicilia tanto amata e per la quale poi negli anni fini per disperarsi. (…) Ma è certo che i luoghi più interessanti del racconto, tracciato fino a quel momento da Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Il consiglio d’Egitto e Il giorno della civetta, erano quelli di Sciascia, e luogo di attrazione, di convergenza fu allora Caltanissetta, dove a quel tempo lo scrittore abitava (…). Partii un giorno di luglio dal mio paese sul mare ai piedi dei verdissimi Nébrodi. A Termini Imerese, cambiato treno, m’inoltrai in un giallo aspro, desertico paesaggio che abbagliava e smarriva. Era quella la Sicilia interna del latifondo e dello zolfo che gli abitanti della costa settentrionale, al di qua della barriera appenninica, usi ad andare a Palermo, a Messina, a varcare lo Stretto, spesso ignoravano. La littorina correva dentro la vallata di un torrente quasi asciutto dall’enfatico nome di Fiumetorto e si fermava davanti a caselli, a stazioncine solitarie che servivano paesi nascosti dietro gole di monti: Sciara (il paese di Le parole sono pietre di Levi, dell’euripidea madre di Salvatore Carnevale), Montemaggiore, Roccapalumba, Valledolmo, Marianopoli, Xirbi.. .. Toponimi di lirismo vittoriano, ma avrebbe potuto essere, una di esse, la stazione dentro cui viene consumato il duplice omicidio di Una storia semplice, l’ultimo racconto di Sciascia. Perché qui, in questa vastità, in questo vuoto, nella finzione del racconto, nella realtà, si può scoprire la violenza  corpo squarciato del picciotto o del giudice inerme, la catena del servaggio, della pena d’una condizione disumana, nei calcheroni, nei tralicci arrugginiti della zolfara morta, la solitudine del bandito, del ribelle braccato nella bocca d’una grotta, il senso di desolazione e di morte nel grumo roccioso d’un crinale sopra cui volteggiano corvi, nel chiarchiaro de Il giorno della civetta o di Occhio di capra: «E il cuoco disse ai suoi piccoli / al chiarchiaro ci rivedremo tutti. Per dire dell’appuntamento che tutti abbiamo con la morte». Caltanissetta (…). A proteggerla (…) era in alto una gran statua del Cristo Redentore. E in via del Redentore era la casa dello scrittore. (.) Il mondo intorno si faceva sempre più ingiusto, violento, bugiardo, perdeva intelligenza, sentimento, umani-tà: si imbarbariva. E con questo dolore di pietra se ne andò al chiarchiaro, alla morte (…)


Vincenzo Consolo: il dovere di scrivere sulla «mala pianta»

di Laura Pisanello

Settant’anni li ha compiuti nel 2003. Vincenzo Consolo, scrittore raffinato e schivo, nasce infatti, nel 1933, a Sant’Agata di Militello, paese costiero in provincia di Messina. Ma fin da giovane si trasferisce a Milano e cosi, da scrittore meridionale immigrato al Nord, nella memoria e nell’impegno ha trovato le sue principali fonti di ispirazioni. Settant’anni – scrive Consolo – che hanno fatto di me un «testimone, una lastra memoriale di eventi cruciali svoltisi in questo lungo tempo, il Novecento appena tramontato» nel Paese e in particolare in Sicilia. In Sicilia ho visto concludersi la guerra, iniziare la nuova vita civile, l’imporsi della necessità di emigrare al Nord.  «Ho visto – scrive ancora nella prefazione a Per Vincenzo Consolo (Piero Manni editore,2004) – la fine del mondo contadino, lo spopolarsi di paesi e di campagne, il nascere di quell’illusione industriale che avrebbe creato i pozzi mefitici di Augusta, di Priolo, di Gela; ho visto, nel vuoto creato dall’esodo della parte più consapevole del popolo, ricrescere e ingigantirsi la mala pianta siciliana della mafia, quell’osceno olivastro che, in simbiosi col potere politico, ha devastato il paesaggio, fisico e umano dell’isola».

Msa. La Sicilia di oggi è molto cambiata rispetto a quella della sua infanzia?

Consolo. Moltissimo. Nessuno pretende che tutto si fermi, si cristallizzi, ma avrei desiderato che lo sviluppo fosse un progresso più armonico nel rispetto della dimensione umana.

Invece, si è costruito selvaggiamente, spesso – lo apprendiamo dalle cronache – eludendo qualsiasi legge e contro le istituzioni. Poi, siccome c’e questo Stato paternalistico che condona, allora tutti osano.

lo ho cercato di esprimere questo mio rammarico, questo dolore per questa mia terra sfigurata, in L’olivo e l’olivastro che racconta un viaggio in Sicilia di uno che se ne era andato via da parecchi anni. E, quando ritorna, trova questo degrado non solo da un punto di vista paesaggistico, ma anche da un punto di vista umano. Un po’ sullo schema omerico del ritorno di Ulisse. E’ un Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, che durante la sua assenza è sparita.

Ovviamente questo Ulisse è lei stesso, con i suoi continui allontanamenti e ritorni alla terra natale…

Non posso fame a meno perché e il luogo della memoria, degli affetti. Quando nasciamo veniamo incisi dai segni della cultura e della natura. E la Sicilia ha una grande ricchezza, anche nella stratificazione linguistica e culturale (civiltà greca, latina, araba, spagnola). Nel nostro dialetto ci sono ancora queste matrici di lingue del passato: io scavo da filologo nella lingua, per un bisogno di memoria.

Bisogna avere la consapevolezza dei luoghi dove si è nati, ma questo ci deve servire per aprirci alla conoscenza degli altri, non a chiuderci e a regredire.

foto Mike Palazzotto

Lei ha visto l’esodo dal Sud al Nord negli anni Cinquanta?

Vengo da una terra di immigrazione e di emigrazione (a Tunisi agli inizi del secolo c’erano novantamila italiani). Quando ero studente a Milano, negli anni Cinquanta, ho visto il grande esodo di braccianti meridionali verso il Nord. Ho visto in piazza Sant’Ambrogio il Centro orientamento immigrati, dove arrivavano contadini dalla stazione centrale in quei nebbiosi inverni milanesi e venivano scaricati lì dove c’erano le delegazioni dei Paesi stranieri, del Belgio, della Francia e della Svizzera e da lì venivano avviati o nelle miniere di carbone del Belgio o nelle fabbriche francesi. Capii in quel momento il dramma dell’immigrazione.

Come si comportano oggi gli italiani con gli immigrati?

C’è un sentimento di paura, di xenofobia, verso gli immigrati, che vengono immediatamente «criminalizzati» (anche chiamarli «clandestini» li marchia). Voglio dire che questo è un sentimento cieco perché la storia dell’umanità è fatta di incontri e arricchimenti reciproci, di spostamenti di popolazioni da un luogo all’altro. Oggi il nostro Paese sta invecchiando e questi immigrati sono giovani e portano veramente nuove energie.

Nelle cronache sull’immigrazione Siciliana dell’Ottocento ho letto che i primi passaporti venivano dati ai delinquenti, mentre la gente che non aveva conti in sospeso con la legge veniva sottoposta a visite mediche e spesso veniva scartata. Ci sono anche tra gli immigrati di oggi quelli che delinquono, ma la maggior parte di loro sono persone oneste che scappano da luoghi di violenza, di miseria e vengono a cercare speranza.

Tornando alla Sicilia, in questi ultimi tempi sembra che il problema della mafia non esista più  …

Dopo ii 1992, che è stato l’anno dell’impegno, della mobilitazione, è sceso il silenzio. Questo silenzio sulla mafia è un silenzio anche inquietante. L’interesse della mafia è sempre stato quello di stabilire rapporti con il potere politico. Ora, quando la mafia tace evidentemente si desume che questi rapporti sono ben saldi e ben stabiliti. Nel momento delle rotture avvengono le vendette e i fatti eclatanti.

Leonardo Sciascia, dopo aver scritto i primi libri (II Consiglio d’Egitto, Morte dell’Inquisitore) incominciò la serie dei romanzi gialli con II giorno della civetta. Quando lo andavo a trovare, gli comunicavo la mia disapprovazione da lettore per questa svolta. Lui sorrideva perché aveva scelto questa tecnica del romanzo poliziesco per dire altro. Capii, dopo, che lui aveva sentito l’urgenza di affrontare un tema come quello della mafia, servendosi di uno strumento collaudato come ii romanzo poliziesco. Nei suoi romanzi non si arriva mai all’individuazione del colpevole. Sciascia voleva dire che erano delitti politico-mafiosi, erano delitti del potere e li potere non poteva processare e condannare se stesso. Sciascia con questi romanzi ci ha dato il quadro di quella che è stata la storia d’Italia dagli anni Sessanta in poi.

Mi chiedo se sappiamo qualcosa di preciso, per esempio, sul delitto Moro …

Lei seguì anche, come cronista, dei processi di mafia?

Su invito del direttore de «L’Ora» di Palermo, nel 1975 presi aspettativa dalla Rai e andai a Palermo. Avrei dovuto dirigere le pagine culturali, ma non si videro mai: feci molti servizi, inchieste, poi mi mandarono a Trapani a seguire un processo in corte d’Assise. C’era un pubblico ministero che si chiamava Gian Giacomo Ciaccio Montalto, intelligentissimo, preparato. Dietro questo processo c’erano la mafia, il traffico della droga. Una sera Montalto mi invitò a casa sua, a Val d’Erice, sopra Trapani. E alla fine mi disse che riceveva moltissime telefonate e lettere anonime con minacce di morte: «Se mi dovesse succedere qualcosa, lei lo scriva». Gli chiesi perché non lo raccontasse alla polizia e lui rispose: «Dei miei superiori non mi fido». Mi sembrava di vivere in un romanzo giallo. Tornai a Milano e qualche anno dopo Montalto fu ucciso. lo raccontai la vicenda, Sciascia, che allora era deputato a Roma, fece una interrogazione alla Camera; il ministro rispose che a loro non risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto minacce.

Lei si è laureato in legge ma non ha intrapreso la carriera forense…

Avrei voluto studiare Lettere, ma era considerata una facoltà da donne. Mi laureai in

Giurisprudenza a Milano e poi tornai in Sicilia dove andai a insegnare diritto in scuole agrarie di montagna. Lo feci per cinque anni, ma mi accorsi che il mondo contadino stava finendo e i ragazzi erano destinati anch’essi a emigrare.

Sentivo il desiderio di andarmene via e mi consigliai con Sciascia. Lui mi disse che se fosse stato giovane e senza famiglia se ne sarebbe andato anch’egli perché in Sicilia non c’era più speranza.

Come è finito alla Rai a Milano?

Milano mi sembrava l’unica città dove potevo andare: seppi che c’era un concorso per funzionario in Rai e lo vinsi. Ero l’unico senza ipoteche politiche. Quando mi vidi proiettato nel mondo del lavoro, ebbi subito un rifiuto.

Come è stato il suo rapporto con la Rai?

II mio rapporto con la Rai fu difficile: fui anche sospeso per indisciplina. Sono rimasto sempre ai margini, non ho fatto carriera, sono uscito con la stessa qualifica con cui sono entrato. Dicevo ironicamente: «Lavoro in una fabbrica di armi». Ho tentato tante volte di lasciarla.

Dopo la pubblicazione de II sorriso dell’Ignoto marinaio, Einaudi mi propose di andare a lavorare in casa editrice. Ma dopo una settimana scappai anche da Torino.

A che cosa sta lavorando adesso?

Sto lavorando a un romanzo ambientato ancora una volta in Sicilia, alla fine del Seicento (ho trovato documentazione su un processo nell’archivio centrale di Spagna).

In un mondo che sembra dominato da violenza e caduta dell’etica, quali segni positivi lei ha trovato?

Ci sono delle luci di speranza. i movimenti pacifisti e l’impegno dei giovani a vedere al di là dei confini, in modo globale. Poi ci sono fenomeni poco conosciuti come il volontariato. All’ estero ho incontrato giovani, cattolici e laici che operano nei luoghi più infelici. Si vede che l’essenza umana ancora brilla. In Bosnia, in Libano, in Palestina con Saramago abbiamo incontrato pacifisti che lavorano in modo meraviglioso, ma questo i nostri politici lo ignorano.

Dal Messaggero di Sant’Antonio
novembre 2014