La voce di Ulisse le azioni di Don Chisciotte e i baci di Casanova

Regali di Natale: La voce di Ulisse le azioni di Don Chisciotte e i baci di Casanova

di Vincenzo Consolo

1 DIRE «sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini / per tutte le astuzie, la mia fama va fino in cielo. / Abito ad Itaca chiara nel sole…» È il primo personaggio, nella storia della letteratura occidentale, che dice e dice, alla corte del re Alcinoo, la sua storia, racconta in prima persona la sua avventura per mare nel ritorno verso casa. La prima parte del «racconto», quella in terza persona, la Telemachia, l’ha fatta l’autore del poema, dell’Odissea, quel signore di nome Omero. E l’Odissea, in questo dire in prima persona, la si può riallacciare, nella letteratura moderna a un altro straordinario e sterminato racconto: Alla ricerca del tempo perduto del signor Marcel Proust.
2 FARE Nessuno, nella letteratura europea, ha più fatto infaticabilmente come il Don Chisciotte della Mancia di don Miguel de Cervantes. Fatto e fatto, il cavaliere dalla trista figura, come il nobile hidalgo e il suo fido scudiero Sancio Panza. Ha fatto anche, in tempi moderni, in modo infaticabile e penoso, un umile muratore che diviene ricco ma che muore solo e disperato, il Mastro-don Gesualdo di Verga.
3 BACIARE Di baci son pieni tutti i romanzi stranieri e italiani (tranne I promessi sposi, in cui non vi è, ohibò, nessun bacio), classici e moderni. Ma se il baciare lo volgiamo nel francese baiser, allora il verbo può prendere un significato ben più carnale, più profondo. E col baiser ci si può allora sbizzarrire, anche trascurando i stettecenteschi romanzi libertini o la sterminata e succosa Storia della mia vita di Giacomo Casanova, e arrivare a L’amante di Lady Chatterly o al dittico Tropico del cancro e Tropico del capricorno di Henry Miller.
4 LETTERA Se intendiamo lettera nel senso «letterale», nel senso vale a dire di lettera dell’alfabeto, allora bisogna segnalare il classico americano La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorn, la lettera A di adultera cucita sul vestito di Hester Prynne, là, nella puritana Boston. Ma se per lettera intendiamo un missiva, allora bisogna ricordare le lettere d’amore che il nasuto Cirano detta per il cadetto Cristiano e destinate alla bella cugina Rossana. Nel Cirano de Bergerac di Edmond Rostand sono forse le più belle lettere d’amore e passione della letteratura moderna.
5 TESTAMENTO Un grande romanzo, poco frequentato oggi, ahinoi, che è stato, come dire?, oscurato dall’omologo e inferiore Gattopardo è I Viceré di Federico De Roberto. Tutto parte, in questo romanzo, e le vite dei personaggi sono determinate, da un testamento, quello di donna Teresa Uzeda, dei prìncipi di Francalanza.

14 December 2003 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 21) nella sezione “Cultura

La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo

10947259_10205813487686608_4553638532405857203_n

La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S. Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato – guardando in alto – che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una rossastra luna notturna.

In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi in Continente per dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e romanziere, mandato in altitalia a spese del comune di Catania per completare e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo Bellini, che in Continente aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni il suo primo romanzo “Amore e Patria”, a 20 “ I carbonari della montagna”, a 23 “Sulla laguna”.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi, passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La “Storia di una capinera” e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante, olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e fatale insomma, fanno subito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce –oltre che a un certo razzismo- di Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un vigliacco, ridicolo, “parvènu”. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira schiumosa del vate d’ Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei “Drammi intimi” di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo” che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una aventura amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’ troppo puntigliosa nel suo “tight”, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia. Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga: quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi, pur così…; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi” così scrive nel ’ 74 Verga al suo più caro amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno milanese, sente come il bisogno – di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi – di un compagno di strada, di un amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano quando Verga vi giunse nel ‘ 72?
Nel ’ 72 Milano contava 250.000 abitanti; era una città in pieno fermento industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato aperto al pubblico il Teatro “Dal Verme”, quel teatro “Dal Verme” dove si darà poi la “prima” della Cavalleria rusticana. Sempre nel ‘ 72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘ 75 e il ‘ 76 le inchieste in Sicilia promosse dal Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e disinteressati, come dice Capuana nel saggio “La Sicilia e il brigantaggio”. Dalla Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo supplementare dal titolo “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane”; si alzava per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto – di cui diremo più avanti – se “Nedda” del ‘ 75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo ipotizzare che “Jeli il pastore” e “Rosso malpelo”e “Vita dei campi” dell’ 80 siano stati dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle sopradette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli, della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare, labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei contadini e dei “carusi” delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ 81. Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte, e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia, occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il “Ballo Excelsior”, l’opera Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione, il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: ”Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”: ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’ “Excelsior”, il suo ingenuo declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili” del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della “Ginestra”, o nel volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere; e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da “Per le vie”, un racconto intitolato “Piazza della Scala” di Verga). A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione.
Ben vicino e tangibile, eppure indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato e anche al soggetto narrante, che poi significa – per la teoria dell’impersonalità di Verga – al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui nasce la poesia, come dici Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
L’81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei “Malavoglia”, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ’74 almeno, dall’anno di pubblicazione di “Nedda”, e ancora dal ’75, quando Verga pubblica sull’Illustrazione Universale di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: “Storie del Castello di Trezza”; quel racconto è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella” scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa, si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri; poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad un “introibo”, e qui forse bisognerebbe – dopo aver raffrontato questo Castello di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo – soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti dal complesso del “signor Marchese con… asterischi” del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con “Nedda” e con “Storie del Castello di Trezza”, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare alla superficie con “Cavalleria Rusticana” e con “La Lupa”, ancora intrise nel loro impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con “Fantasticheria” siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le vette di “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo” e si dispiegherà nei due grandi poemi dei “Malavoglia” e di “Mastro don Gesualdo”
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna, tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei vinti “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia, la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira. Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di lavorare alacremente alla “Duchessa di Leira”, ma pubblica i due bozzetti teatrali “Caccia al Lupo” e “Caccia alla Volpe” e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte socialiste del ’93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, “Dal tuo al mio”, un dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”. Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e approdare a Milano, al centro “ideale”, a quella che Salman Rushidie chiama la “patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880. Verga “scrive” Milano nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e Capuana, nello stesso volume, appare il brano In Galleria.
È Verga che terrorizza la necessità della ” distanza “, della lontananza dalla Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “… da lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi… “. Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol’: ” io posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità “.
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio Borgese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè , che si svolge tra Milano, il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive già da anni, Borgese, sul Corriere della Sera, e a Milano insegna alla Accademia Scientifico-Letteraria; nel ’26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel palco e riconobbe Mussolini.
” Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e disse a bassa voce:’ Quell’uomo no!’. Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso anno.
” Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si pensa che il mondo è coperto di case… ” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di “classe” e un atteggiamento attivo nei confronti della storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. “Scrive” Milano, Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro, nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive la Milano della ‘ 43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo… E c’è ancora un altro grande Vittoriani “milanese”, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come Il Politecnico e Il Menabò, il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i Gettoni…
Un anno dopo Vittorini, nel ’34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore della guerra, a lasciare la “terra impareggiabile”, l’isola della memoria, per scrivere di Milano, scrivere le liriche di Giorno dopo Giorno.

“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’uomo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillava arrivi al testamento”.

Così cantava con dolore e orrore il poeta civile Quasimodo. Cantava della Milano straziata dalla guerra, oltraggiata dal fascismo, della Milano”insudiciata”, come ha scritto Alberto Savinio, dalla distruzione e dalla morte.

“Invano cercai tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del naviglio…”
( Milano, agosto 1943)
Milano 14 dicembre 2003

Finita la carrellata sugli scrittori siciliani a Milano, mi si perdoni se parlo anche di me.
Sono arrivato a Milano con l’idea di una città diversa da tutto il contesto italiano, la Milano dove abitavano Vittorini e Quasimodo, attratto dalla presenza di questi due scrittori.
C’era già allora una corrente di scrittori che migrava dalla Sicilia per approdare a Roma, io non pensavo a Roma perché era la città del potere politico, io pensavo che la mia necessità di lasciare l’estremità, di lasciare l’isola era naturalmente per Milano.
Sono arrivato nel ‘51 per studiare all’università, in una Milano con ancora tutte le ferite del secondo dopoguerra. Sono andato a studiare all’Università Cattolica, non per convinzioni di natura religiosa, ma perché il collegio universitario mi dava allora la possibilità di avere una stanza ed i pasti a 20mila lire al mese. C’erano molti meridionali che approdavano allora a questa università, c’erano molti che sarebbero diventati la futura classe dirigenziale italiana, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco futuro onorevole democristiano,…
Io stavo molto “in periferia”: sono stato un anno al collegio universitario, quando andai a salutare il direttore del pensionato, mi chiese se ero stato lì da loro, infatti io ero stato sempre defilato, mi interessavano altre cose, mi interessava la Milano culturale, la Milano di Vittorini. Invidiavo il mio compagno di università Raffaele Crovi che era amico del figlio di Vittorini e frequentava casa Vittorini, io lo odiavo per questo suo privilegio e non osavo presentarmi in casa di Vittorini perché non avevo delle carte con cui presentarmi. Conobbi Vittorini poi molti anni dopo, nel ’63, quando arrivai a Milano per la pubblicazione del mio primo romanzo presso Mondadori. Vittorini allora aveva un ufficio presso quella casa editrice e fui presentato.
Dopo un anno di collegio mi trasferii nella pensione della signora Colombo che parlava solo in dialetto milanese, allora c’era molta popolarità e dialettalità milanese.
Osservavo in quegli anni la piazza Sant’Ambrogio che poi ho chiamato “la piazza dei destini incrociati” approdavano nella piazza schiere infinite portate dai tram senza numero dalla stazione centrale. Erano immigrati che arrivavano dal meridione, che approdavano in questa piazza perché c’era allora il “centro orientamento immigrati”. Io osservavo gli immigrati e mi ricordo quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, che dopo avere passato le visite mediche venivano già equipaggiati con il casco la cerata e la lanterna, credo che questi 200 minatori furono poi vittime della tragedia di Marcinelle. Altri venivano mandati in Francia in Svizzera e via discorrendo.
In questo edificio di piazza Sant’Ambrogio vi era anche una caserma della Celere, e quindi si incrociavano i destini: da una parte gli studentelli privilegiati, dall’altra i migranti, e poi i celerini dell’onorevole Scelba, ed ad uno studentello come me poteva capitare di incontrare un mio compaesano.Incontrai Giacomino, un ragazzo del mio paese, con la divisa di poliziotto ed il manganello in mano pur essendo un ragazzo molto mite. Capitava di incontrare quelli che sarebbero stati mandati alla scuola sociale di Bologna per diventare onorevoli e classe dirigente democristiana italiana.
Mi ero convinto in quegli anni di voler fare lo scrittore, i miei due vangeli erano stati “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi e “Conversazione in Sicilia” di Vittorini, erano due poli di attrazione. Mi ero convinto che dovevo fare lo scrittore e che non potevo farlo se non in Sicilia: errore gravissimo, sono stato lì 11 anni e poi ho capito che non c’era nulla da fare… Ho frequentato in quegli anni due personaggi antitetici per me entrambi molto importanti, uno era un poeta “puro” Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Lampedusa, poeta straordinario, barocco di tipo mistico e spagnolo con riferimenti quali San Giovanni della Croce, dall’altra parte Leonardo Sciascia. Viaggiavo fino a Caltanissetta dove allora abitava Sciascia e a Capo d’Orlando dove abitava Lucio Piccolo, che mi diceva “venga pure a fare conversazione”, ma per me la conversazione era una vera lezione di letteratura, che andavo a prendere da lui che era di una cultura sconfinata.
Nel ‘68 ho fatto le valige in un giorno emblematico per ritornare a quella che ho chiamato “la patria immaginaria”, ritornando a Milano il 1 gennaio del ’68. Mentre nel novembre del 52 avevo trovato la città piena di nebbia, quel primo di gennaio la trovai piena di neve, allora nevicava a Milano, adesso non nevica più… Dovevo presentarmi al lavoro, avevo vinto un concorso e quella era la ragione per cui mi trasferivo, avevo bisogno di lavorare. Ho vissuto questa città e mi sono sentito sempre milanese perché ho creduto in questa città diversa dal contesto italiano, diversa dalla mia Sicilia, ma anche da Roma e da qualsiasi città italiana.
L’ho vista trasformarsi negli anni, con molta pena. Era la città delle utopie e delle fantasie, che, come sempre, si frantumano contro gli scogli della realtà, sappiamo tutto quello che è successo in questa città e nel paese. Viviamo in una città che nessuno di noi riesce ad accettare, diventata il simbolo della regressione e del degrado del nostro paese.
Ho scritto un libro che si chiama “Retablo”, che descrive il desiderio ed il bisogno di allontanarsi da questa città attraverso un personaggio che si chiama Fabrizio Clerici. E’ un personaggio contemporaneo, ma con un cognome che già appariva nel libro di Savinio “Ascolta il tuo cuore città” che io ho trasferito nel Settecento. Fabrizio è un pittore innamorato di una signorina che si chiamava Teresa Blasco, figlia di uno spagnolo e di una siciliana. Teresa e una donna molto bella, corteggiata dai giovanotti illuministi milanesi, dal Beccaria e da tanti altri in quel di Gorgonzola, dove la famiglia Blasco aveva la villa.
Quindi Fabrizio Clerici, non corrisposto nella sua passione amorosa decide di compiere un viaggio nella terra della donna che lui ama, cioè nella Sicilia. Viaggio romantico alla ricognizione di una Sicilia ideale del Settecento, dove come tutti i viaggiatori romantici si cerca di vedere l’Arcadia, la Grecia, ma la Grecia non c’è più in Sicilia, esiste l’infelicità sociale, che esisteva anche nel Settecento, i conflitti, il banditismo, l’ignoranza, le malattie… Fabrizio apre gli occhi come uomo coscenziale e vede la realtà che non conosceva e rimane coinvolto, anche linguisticamente in questo suo viaggio attraverso la Sicilia classica.
Poi ho esplicitato il disamore e la disillusione nei confronti di Milano in un libro più recente che si chiama “Lo Spasimo di Palermo”, che rappresenta non solo lo spasimo di Palermo, ma lo spasimo anche di Milano e dell’intero paese. Il romanzo comincia con un flash back che dal secondo dopoguerra ci porta fino al 1992; il protagonista è uno scrittore che si chiama Gioachino Martinez, il quale aveva scelto Milano per sfuggire all’orrore e alla violenza siciliana, era approdato a Milano quale sua città ideale ed anche qui, dopo anni di consolazione, trova violenza e trova orrore, terrorismo e degrado culturale. Decide di tornare a Palermo dove ancora troverà violenza e morte. Il paese è ormai omologato e non c’è più una Itaca, un luogo dove tornare, per nessuno di noi in questa società. Le città ideali si sono frantumate sotto i nostri occhi e l’Itaca che abbiamo lasciato durante la nostra assenza è stata distrutta ed è stata conquistata dai Proci, oggi viviamo in un mondo di Proci, in un mondo di orrore dove niente più è accettabile.
Voglio ricordare una pagina di addio a Milano, sullo schema dell’addio manzoniano, dello scrittore Gioacchino Martinez:

“Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’ asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità.
Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tecnologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.”

“Addio ai campanili in cotto, alla romanica penombra, a Chiaravalle, a Morimondo. Addio alla casa di Manzoni, a San Fedele, all’alto marmo nel centro del Famedio. Alle vie verghiane, alla gaddiana chiesa di san Sempliciano. Allo Sposalizio della Vergine, emblema saviniano della città chiusa di Milano, del suo equilibrio, e della sua utile mediocrità. Addio a Brera di Beccaria e Dossi, addio a Porta a Tessa Quasimodo Sereni, al Montale del respiro vasto della bufera, dei meriggi assorti, degli orti, dei muri di salino costretto nella depressione della pianura, nel dorato cannello dell’imbuto cittadino. Alla casa dei fervori e dei furori di Vittorini, delle utopie infrante e dei lirici abbandoni. Al rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese. Addio alla Vetra, al Mora e al Piazza, alla Banca del tritolo e della strage, all’anarchico innocente steso a terra come il Cristo del Mantegna, ai marciapiedi insanguinati, alle vite straziate di giudici civili militari studenti giornalisti…Amaro a chi scompare. Qui è la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’Eea dei filtri della mutazione, del grugnito inverecondo…”

l’emigrazione impossibile. In leggere Milano collana dell’edizione unicopli Le città letterarie, dicembre 2006.
Conferenza tenutasi nell’aula magna dell’università statale di Milano il 4
dicembre del 2003.

Pasolini il corpo della città

Presentazione di Vincenzo Consolo
di introduzione al volume “Pasolini. Il corpo della città”
di Gianni Biondillo, ed Unicopli, 2001, pagg. 7-12
*
Presentazione
di Vincenzo Consolo
di introduzione al volume “Pasolini. Il corpo della città” di Gianni Biondino. ed Unicopli. 2001. pagg. 7-12

Cesare Garboli, Federico Zeri ed altri hanno voluto giustamente vedere in Pasolini e Caravaggio due personaggi simili: simile la loro tragica vita e ancor più la loro tragica morte; simile il loro scandalo artistico, la loro innovativa, dirompente forza poetica. Scrive Carbon: “E’ difficile scindere tutta l’esperienza eversiva del Pasolini -romano” degli anni Cinquanta dall’immagine del Caravaggio che ci è stata a più riprese offerta dal Longhi fino alla grande mostra caravaggesca da lui organizzata nel ’51. Proprio in quegli anni il Pasolini scendeva dal Nord a Roma, cambiando la giovanile e lirica vena friulana in tragedia, nella direzione del drammatico realismo religioso e plebeo de Le ceneri di Granisci, dei Ragazzi di vita e di Una vita violenta”. E Zeri: “C’è una forte affinità fra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio perché in tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi”. Roma dunque, e la -vita violenta” per le sue strade, per le sue borgate; e i litorali squallidi, desertici di Ostia e di Porto Ercole, su cui due corpi esanimi, disfatti rivela la livida luce dell’alba. C’è uno scarto di 365 anni nella conclusione delle due vicende umane. Ma c’è, nel tempo storico del Merisi c in quello di Pasolini. e. se si vuole. nel tempo di Pasolini e la nostra attualità, c’è l’immobilità di questo nostro cattolico Paese, eternamente secentesco, controriformistico, c’è la dura tenebra dell’ignoranza e della protervia del potere. Ancora una privata ferita, un dolore iniziale e sempre vivo affratella il pittore e il poeta. e insieme l’orrore di fronte alla terribilità del mondo, l’infinita loro disperazione. Più chiaramente: calano, i due artisti, da un Nord di lunghi, gelidi inverni, calano rispettivamente dal borgo Caravaggio e da Milano. da Casarsa e da Giunge a Roma, Pasolini, durante il Giubileo del 1950. “Qual falange di Cristo Redentore / la Gioventù cattolica è in cammino …” cantano i “baschi verdi” per le vie di quella che era stata la città fascista e ora divenuta papale. Le elezioni nazionali del 1948 avevano dato la maggioranza assoluta del potere al partito della Democrazia cristiana, il contropotere al Partito comunista. Le due chiese avrebbero disegnato il nuovo assetto o il volto del Paese, lo avrebbero mutato antropologicamente, culturalmente, linguisticamente e. soprattutto. urbanisticamente. Pasolini soffre fin nelle più intime fibre questa mutazione. Soffre per la repentina distruzione, per il crollo, delrarchitettura”, del mondo rurale, dei verdi suoi prati, delle acque delle sue fontane. Fontàne d’àghe del mie pais A no è àghe pi frescie che tal mè pais… aveva cantato. Ora anche le lucciole sono scomparse. Ora non è che inquinamento, degrado urbano. non è che triste, anonima periferia. squallida borgata. uniforme agglomerato dove i ragazzetti del sottoproletariato. ancora dialettale, consumano rapidamente la loro vitalità. innocenza, grazia, la loro tragedia. Biondillo segue con sapienza, capitolo dopo capitolo lo sguardo di Pasolini sul corpo della città, dal Friuli, da Casarsa, alla Roma di Monteverde. Pietralata, Garbatella, Testaccio, Portuense. a Ode, Orvieto, a Napoli, Matera, Sabaudia. a Bombay. a San’a, fino al Marocco, all’Uganda… Segue. Biondillo, lo sguardo sul corpo della città, del mondo, che Pasolini volge dalle poesie, dai romanzi, dai saggi, dai film, dai documentari, da Poesie a Casarsa e La meglio gioventù fino al grande testo, alla grande costruzione, all’opera-cattedrale che è Petrolio, romanzo postumo e incompiuto come la Sagrada Familia di Gaudi. E’ certo che nel Secondo dopoguerra nessun poeta o scrittore, né il Pavese delle colline e della città, né il Vittorini de Le città del mondo, né il Calvino de Le città invisibili è stato cosi “architetto” come Pasolini, vale a dire come lui ha pianto e rimpianto un mondo sepolto un’umanità e un umanesimo violentemente cancellati (lo sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore”), nessuno come lui ha dolorato e inveito per la repentina distruzione della grande bellezza italiana, la bellezza di questo Paese eternamente controrifonnistico divenuto una immensa, squallida borgata. un Agrigento di abusivismo, “una Atene di cemento”. Bologna, calano in una Roma solare, in una città in preda al fervore edilizio, nel pullulare del pellegrinaggio giubilare (1600-1950). Caravaggio si porta dentro il ricordo del padre morto di peste. della giovane madre morta pochi anni dopo. Pasolini, il ricordo del fratello Guido, il partigiano azionista Ermes, assassinato da “una banda di garibaldini degeneri”, dai Gap della brigata Garibaldi. E’ segnato anche dall’accusa infamante di corruttore di minorenni, dall’espulsione dal PCI e dall’allontanamento dalla scuola. “… fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo”. Non sappiamo se dallo stesso scandalo fu investito Caravaggio, se la sua fuga a Roma, in compagnia di Francesco Boneri, il “Cesso del Caravaggio”, il modello tante volte effiggiato, fu dovuta a una simile cacciata. Per il Giubileo del 1600, Roma si presenta ai pellegrini nel nuovo, aulico volto urbanistico voluto da Sisto V, e quindi ancora, con Clemente VIII e Urbano VIII. l’Urbe avrà l’imponente e definitiva scenografia barocca. Ma dietro le quinte c i fondali fastosi, dietro i palazzi di principi e cardinali, sono i ruderi antichi, i medioevali borghi e le strade del degrado e del malaffare. dove circolano poveri, prostitute. bari, ragazzi di vita, squadracce di bravi… non sappiamo se Caravaggio, frequentando a Milano la bottega del Peterzano, andando con questi per chiese e abbazie fuori mano, guardando la pittura del Foppa. Bergognone, Lotto, Moretto, Savoldo, abbia steso le sue “Poesie a Casarsa”, dipinto vale a dire, il suo dialettale idillio lombardo. A Roma però, con un incontenibile empito eversivo, a sciabolate di luce squarcia le buie cortine controriforrnistiche. sconvolge la grammatica manieristica, porta in primo piano i “sacri corpi di cortigiane, zingarelle, ragazzotti, castrati. efebi vestiti da Madonne e Maddalene, suonatori, angeli, Narcisi, Bacchi. Giovanni Battisti… Lo spazio, l’ambiente, la cui mancanza lamenta Berenson, compare soltanto negli ultimi e più drammatici suoi quadri: compare l’esterno della prigione nella Decollazione del Battista di Malta e la latomia o catacomba nel Seppellimento di Santa Liscia di Siracusa. Ma lasciamo questo seicentesco fratello di Pasolini, lasciamolo nella grandezza sua luminosa che squarcia le tenebre controriformistiche di ogni secolo, il nostro compreso, e seguiamo il poeta contemporaneo, il Pasolini dell’idillio e della furia, della perorazione e dell’invettiva, dell’amore e del dolore, del rapimento e della disperazione. Seguiamolo in questo originale, puntuale bel saggio di Gianni Biondillo, Pasolint il corpo della città. Uno degli ultimi quadri di Caravaggio, un quadro-messaggio che il pittore invia da Napoli al cardinal Del Monte, fu il tristissimo David-Cecco Boneri che regge la testa di Golia-Caravaggio. Ed è anche questo l’ultimo messaggio di Pasolini, la sua atroce fine per il vagheggiamento, la nostalgia della verità e della bellezza.

Vincenzo Consolo

Un comunista dalla coscienza pulitaDall’intransigente lotta alla mafia alle accuse di collusione

Un comunista dalla coscienza pulita Dall’intransigente lotta alla mafia alle accuse di collusione: la «storia capovolta» di Giovanni Parisi

di Vincenzo Consolo

«Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia! Tregua di Dio per la Sicilia!» declamava, alla prima seduta dell’Assemblea regionale, il presidente (per anzianità) Francesco Paolo Lo Presti. A Palermo, nel pomeriggio di domenica 25 maggio 1947. Nella sala detta d’Ercole per gli affreschi alle pareti d’un Giuseppe Velasquez palermitano, che raffigurano le fatiche del semidio enfio di coraggio e di muscoli, di quel palazzo che era stato sede di emiri, di re e di vicerè, i novanta deputati erano disposti secondo gli schieramenti politici a sinistra, i comunisti e i socialisti del Blocco del popolo, i saragattiani e i repubblicani, al centro, democristiani e separatisti, a destra, monarchici, liberali e qualunquisti. Tra di essi, i protagonisti della infuocata battaglia politica che aveva preceduto le elezioni del 20 aprile: Li Causi, Colajanni, Finocchiaro Aprile, Alessi, Aldisio, Alliata… E in prima fila, al centro, tra le autorità, il cardinal Ruffini, il quale implorerà «di cuore sul nuovo Parlamento siciliano abbondanza delle celesti benedizioni». Una travolgente abbondanza di voti, di potere e di vantaggi s’abbatterà invece da lì a poco solo su quel gruppo democristiano che con il cardinal Ruffini, e non solo con lui, aveva intrecciato unità di intenti e di voleri. E, detto questo per inciso, pur senza l’implorazione di un cardinale, ma con misteriose strategie, stabilendo ignoti patti, un’ancor più travolgente abbondanza di voti otterrà in Sicilia il centrodestra di Berlusconi-Dell’Utri-Miccichè, di Fini-Lo Porto e di Buttiglione-Totò Cuffaro alle ultime elezioni politiche del 2001. Ma torniamo alla storia degli inizi nel dopoguerra dell’attività politica in Sicilia, nella Regione, dotata d’una autonomia a statuto speciale, «specialissimo». Che cosa voleva dire quella invocata «concordia sacra», quella «tregua di Dio» del presidente Lo Presti? Voleva dire che nella sala d’Ercole, tra gli scanni, un profondo fossato s’era aperto, tra la sinistra e il resto degli schieramenti, entro cui scorreva il sangue di dodici morti e dei trentatré feriti della strage di Portella della Ginestra del 1° maggio del 1947. E ancora, dopo quella fatidica data, in vista delle elezioni politiche del ’48, «microfoni di Dio», calati da Roma, e intimidazioni, assassini di sindacalisti, di capilega, di militanti, assalti e incendi a sedi di partito e sindacati, perpetrati dalle forze politico-mafiose, hanno fatto calare sulla Sicilia e sul Paese quel potere politico che è durato mezzo secolo e che è finito per autodisfacimento, per corruzione interna. Questo lungo preambolo, questo excursus sulla storia politica in Sicilia, della Regione siciliana, per dire quanto duro, di totale impegno, di sacrificio, di valore sia stato il lavoro degli uomini della sinistra, dell’allora Partito comunista, a partire dai dirigenti fino all’ultimo militante («In Sicilia, per essere almeno liberali, bisogna essere comunisti» affermò una volta con ironico paradosso Vitaliano Brancati). Il lungo preambolo per parlare del libro di uno dei militanti, dei dirigenti più attivi, più intelligenti, più limpidi e intrasigenti del Pci-Pds-Ds, per parlare de La storia capovolta di Giovanni Parisi. Figlio di comunisti, da ragazzino Parisi ha avuto il privilegio d’essere il destinatario della lezione politica e morale di Girolamo Li Causi, ospite allora o rifugiato nella casa dei suoi genitori perché braccato, con l’intento di assassinarlo, dal bandito Giuliano. Li Causi, spiegava per esempio al dodicenne Parisi il perché, appena sbarcato in Sicilia, era andato a Villalba a sfidare in un comizio il capomafia don Calò Vizzini: per la pubblica proclamazione che tra comunisti e mafia non poteva esserci coesistenza, ma solo lotta, guerra. Parisi poi, da segretario di una federazione giovanile cittadina, arriva a ricoprire, in più di un quarantennio di attività politica, le più alte cariche del partito. Una vita limpida, integerrima, la sua, spesa in un totale impegno nell’aspra lotta al potere politico-mafioso, in difesa dei principi della democrazia, della dignità umana. Sennonché, quest’uomo, questo politico, un giorno (20 settembre 2000) assurdamente, come l’impiegato di banca Josef K., viene risucchiato nelle spire di un incomprensibile processo, viene incriminato, dai Pm della Procura di Palermo Gaetano Paci e Gaspare Sturzo, per «concorso esterno in associazione mafiosa». Lo accusa il pentito di mafia Angelo Siino, il borghese amministratore finanziario della mafia e assiduo frequentatore dei salotti palermitani. Secondo Siino, dice Parisi, «Avrei procacciato appalti agli imprenditori di sinistra Potestio e alle famose coop rosse con il beneplacito di Lima, essendo io, secondo l’accusa, il referente del Pci per la spartizione degli appalti (…) Ero allibito. Ma chi aveva mai avuto a che fare con Siino o Lima? E aggiunge: «Con serenità e certezza della mia coscienza pulita e con l’orgoglio delle mie battaglie, affronto anche questa prova, dura, inaspettata, amara». La coscienza pulita e la dura prova portano dunque Parisi a scrivere questa «storia capovolta» quasi come memoria difensiva e insieme come racconto della propria vita, privata e pubblica. E di questo racconto sono le pagine più belle e più toccanti. In cui dice dei politici che ha conosciuto e frequentato, dice dei familiari, della moglie Svetlana, dei figli Carlo e Diana. E della figlia diciottenne Elena, morta in Francia in un incidente stradale. Il 12 marzo 2003, il Gip Gioacchino Scaduto ordinava l’archiviazione del procedimento nei confronti di Gianni Parisi. Questa volta però non vi è stata conferenza stampa dei magistrati, non vi è stato clamore alla televisione e sui giornali. Solo questo giornale, «l’Unità», ha scritto dell’archiviazione. Storia capovolta-Palermo 1951-2001 di Gianni Parisi Sellerio pagine 261, euro 15

3 December 2003 pubblicato nell’edizione Nazionale (pagina 24) nella sezione “Cultura