Vincenzo Consolo, lo scrittore che ha dato voce alla Sicilia contro le ingiustizie

Vincenzo Consolo è stato un autore profondamente legato alla sua terra, capace di raccontare la Sicilia con uno sguardo critico.

Vincenzo Consolo

Oggi, 18 febbraio 2025, ricorre l’anniversario della nascita di Vincenzo Consolo, una delle voci più originali della letteratura italiana del Novecento. Nato nel 1933 a Sant’Agata Militello, in provincia di Messina, ha legato indissolubilmente la sua scrittura alla Sicilia, trasformandola in una dimensione narrativa capace di travalicare il semplice scenario geografico per diventare simbolo di una condizione esistenziale e storica. La sua rappresentazione dell’Isola, lontana da stereotipi folkloristici, offre una chiave di lettura complessa e stratificata della realtà.

Chi era lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo

Sesto di otto figli, Vincenzo Consolo è cresciuto in un ambiente familiare segnato da un’etica rigorosa, trasmessa soprattutto dal padre, Calogero. Proprietario della ditta “Fratelli Consolo Cereali”, l’uomo si oppose alla crescente influenza della mafia nel dopoguerra, difendendo la libertà economica e sociale della sua comunità. Questo senso di giustizia e responsabilità civile si riflette profondamente nelle opere dello scrittore, che ha sempre mantenuto un atteggiamento critico verso le distorsioni del potere e le ingiustizie sociali.

Due modi diversi dunque di contrastare le ingiustizie: da un lato quello imprenditoriale, dall’altro quello umanistico. L’infanzia di Vincenzo Consolo fu segnata infatti dalla scoperta della letteratura, inizialmente attraverso la piccola biblioteca di un cugino del padre. I libri di ManzoniBalzac e dei grandi romanzieri russi alimentarono la sua passione per la narrazione e per il racconto delle trasformazioni storiche e sociali.

Vincenzo Consolo foto fondazione Mondadori filigrana - Be Sicily Mag
Vincenzo Consolo nel 1976 a Milano, foto Giovanna Borgese

L’esordio letterario e il legame con la terra natale

Il primo romanzo di Vincenzo ConsoloLa ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963, è dedicato alla memoria del padre e rappresenta il punto di partenza di un lungo percorso letterario in cui la Sicilia assume un ruolo centrale. Il libro racconta la transizione dall’infanzia all’età adulta attraverso gli occhi del protagonista. Già in quest’opera emerge una visione ambivalente della sua terra: da un lato luogo di radici profonde, dall’altro teatro di contraddizioni e ingiustizie.

La sua scrittura, sin dalle prime pagine, si caratterizza per una forte sperimentazione linguistica e per la ricerca di una prosa densa e stratificata, in cui il dialetto siciliano si intreccia con l’italiano letterario in un gioco di rimandi e richiami culturali. Questo stile unico, che lo distingue come uno degli autori più originali della sua generazione, lo avvicina inoltre a Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo tra saggistica e narrativa, di cui era grande amico.

La Sicilia come protagonista letteraria

Nelle opere di Vincenzo Consolo, la Sicilia non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio. La sua narrazione si intreccia con la storia dell’Isola, in un continuo confronto tra passato e presente, tra memoria e disillusione. I suoi romanzi raccontano il destino di una terra che si trova costantemente al centro di trasformazioni epocali, spesso vissute con un senso di perdita e di lutto.

Vincenzo Consolo

Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), considerato il suo più grande capolavoro, l’autore rievoca le rivolte popolari in Sicilia durante il Risorgimento, offrendo un affresco storico che mette in discussione il mito dell’unificazione nazionale. L’opera, ispirata alla tradizione del romanzo storico di Manzoni e De Roberto, ma rivisitato in chiave modernista, rappresenta una riflessione profonda sulle dinamiche del potere e sulle illusioni della storia.

Con Le pietre di Pantalica (1988), Consolo si allontana invece dalla struttura tradizionale del romanzo per offrire una raccolta di racconti che esplorano il paesaggio siciliano come un archivio di memorie e sofferenze. Qui, la Sicilia diventa metafora di una storia collettiva, in cui si intrecciano voci dimenticate e storie di emarginazione. In Nottetempo, casa per casa (1992), poi, l’autore affronta il tema del fascismo in Sicilia, narrando la disillusione e la violenza di un’epoca che ha lasciato segni profondi nella memoria collettiva.

Il viaggio e la perdita delle radici al centro delle opere di Vincenzo Consolo

Uno dei temi centrali dell’opera di Vincenzo Consolo è il viaggio, inteso non solo come spostamento fisico, ma come attraversamento simbolico di tempi e luoghi. Questo tema richiama il grande archetipo dell’Odissea. Nella modernità, per l’autore, tuttavia, non c’è spazio per un rassicurante ritorno a casa: Itaca non è più raggiungibile, da qui la dolorosa consapevolezza della perdita.

Questa idea emerge con forza in molte delle sue opere, in cui il protagonista è spesso un intellettuale esule, diviso tra il desiderio di fuga e la nostalgia per la terra natale. Vincenzo Consolo stesso ha vissuto a lungo lontano dalla Sicilia, trasferendosi a Milano negli anni ’50 per motivi di studio e di lavoro. La sua scrittura è rimasta tuttavia sempre profondamente legata all’Isola.

Zaira Conigliaro

Studia Scienze della comunicazione all’indirizzo Cultura Visuale, ha un debole per l’arte, la moda e il cinema. Da marzo 2024 scrive con passione per Be Sicily Mag, sognando una carriera nel giornalismo. Determinata e creativa, cerca costantemente di migliorare le sue abilità, trasmettendo emozioni attraverso le sue parole.

Della felicità del leggere

della-felicitaVincenzo Consolo
” Della felicità del leggere “.
con una nota di
Antonio Franchini
Edizioni Henry Beyle
Illustrazione di Lucio Passerini

 

*

In una casa senza libri, in un paese senza biblioteca e librerie mi sono trovato nella remota infanzia, nell’adolescenza, trovato in un deserto con brama e miraggi di letture che intuivo necessarie ad aprirmi varchi, sentieri di conoscenza e salvezza, letture diverse da quelle velenose della scuola nel fascismo o dalle altre tristi e mortificanti dispensate dai preti dell’oratorio.

  Scoprii per prima una polla d’acqua fresca nella casa d’un cugino di mio padre, un piccolo proprietario terriero che viveva d’una magra rendita, solo e scapolo, a cui la fantesca aveva regalato un figlio.  Nei momenti d’odio, di furia verso il mondo, verso il podestà e il regime, don Peppino s’affacciava al balcone e declamava versi dell’Inferno, brani di “Vittor Ugo”, dei Miserabili.  Scoprii nella sua casa nove o dieci libri (“I libri giusti per capire chi sono questi tiranni! “ diceva), che non mi dava in prestito, ma mi faceva leggere là, seduto a un tavolo di marmo, sotto il suo sguardo vigile.

  E quindi fu la volta della malaria e di Silvio Pellico.

  Prima dell’arrivo degli americani e della disinfestazione di paesi e di campagne con il DDT, nel mezzo dei giochi e dello studio, venivamo assaliti all’improvviso, noi ragazzi, da brividi di freddo, da tremori.  Dovevamo allora correre subito a casa, metterci a letto, seppellirci sotto montagne di coperte fino a che non arrivava la violenta febbre a riscaldarci, a buttarci nel delirio.  Fu durante uno di questi attacchi di febbre malarica, per la suggestione forse del racconto del maestro che riemergeva dall’inconscio, che chiesi piagnucolando Le mie prigioni.

E i miei, costernati (non seppi mai in quale modo e dove) riuscirono a trovare un esemplare squinternato delle memorie dell’eroe piemontese.  Tornato alla coscienza, divorai il libro, ma ne rimasi inappagato, per la mestizia che dentro vi stagnava, la rassegnazione.

  Un’oasi poi scoprii, ricca di zampilli, di ruscelli, d’alberi dai frutti prelibati, in casa del mio compagno delle scuole medie Beniamino, figlio d’un avvocato.  Andavo da lui a fare i compiti, a fargli i compiti, i temi, le versioni, ché Beniamino, grasso e pigro, non aveva amore per la scuola, per lo studio, e in cambio ottenevo in prestito i libri in mostra per arredo negli scaffali neri dello studio di suo padre, bei volumi intonsi in finissima carta d’India, rilegati in marocchino.  Fu grazie a quella biblioteca che potei leggere Shakespeare e Molière.

  Boccaccio e Goethe, Stevenson e Defoe, Manzoni e Nievo, Melville e Poe, Tolstoj e Dostoevskij, D’Annunzio e Deledda…  Leggere con furia, con disordine, come se dentro quei boschi fitti di parole, fra quegli immensi alberi, di cui non sospettavo la profondità delle radici, non sapevo vedere la prodigiosa altezza, il rigoglio delle chiome, andassi alla ricerca d’un tesoro.  E non capivo che il tesoro consisteva nell’ossigeno che respiravo di quel bosco, nelle erbe, nei muschi, nelle bacche di cui camminando mi nutrivo.

   Calmatasi la furia adolescenziale, il cieco bisogno di impostare muscoli e ossa ( se non avremo letto in quella tumultuosa stagione, forse mai più conosceremo il piacere, la felicità del leggere, mai scopriremo i tesori nascosti in isole lontane, mai la vera ricchezza di questo nostro mondo), comincia a sistemare, a mettere ordine nella mia biblioteca ideale, nella biblioteca anche materiale che man mano poi cominciai a formare, a possedere.

  L’incontro che non diceva più di mondi bellissimi e lontani, di isole e avventure, di folli cavalieri erranti, di re e di battaglie, di amori e di contrasti, l’incontro che per la prima volta mi fece poggiar lo sguardo sul mondo in cui ero nato e mi trovavo a vivere, sugli uomini e le cose del paese, sui pescatori e i contadini, sui baroni proprietari, su me e i miei parenti, fu con Verga.  Verga mi fece decifrare il mondo complesso, intricato della mia Sicilia, quel mondo mi fece vedere, duro e pietroso, riflesso come in uno specchio, mi fece sentire la musica sommessa, il mormorio doloroso e risentito del suo dire.  E capii che da quell’incontro, da quel mondo, e dall’altro parallelo e più moderno di Pirandello, sarei dovuto ripartire per percorrere e capire, per decifrare ogni altro mondo.  Ripartire da Acitrezza, da Vizzini e da Girgenti.

*

È difficile trovare così tanto di un autore in una singola pagina, ma forse questo Della felicità del leggere, più che essere un prodigioso emblema dell’arte di Consolo, ne è soprattutto l’ennesima riconferma. Sempre Consolo è così: ogni passaggio è stato talmente pensato, introiettato, elaborato da porsi come micro-cosmo, come goccia di mercurio, condensato di un universo.

Così in queste parole c’è il profumo di tutto Consolo e la tensione del suo intero arco creativo. C’è quel senso di asfittico e di chiuso dell’educazione religiosa contro cui si leva La ferita dell’aprile, c’è l’odore del dopoguerra, del DDT, dei boschi dei Nebrodi che si respira in Le pietre di Pantalica, c’è il senso dello scavo storico, il bisogno di retrocedere negli anni per comprendere i fatti, secondo il metodo inaugurato da Il sorriso dell’ignoto marinaio. E c’è una dichiarazione di fede letteraria che si ritrova, pressoché identica, in più luoghi di Nottetempo casa per casa: «Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskii Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l’Italia da Manzoni e Verga… Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà come i numeri e le figure della geometria, verso l’astrazione, il generale. Come l’allontanavano gli scrittori privi di verità e rispetto per la vita d’ognuno…».

C’è, infine, dovunque, una tensione duplice e contraria : un senso di malattia, un male ancestrale, incistato nella terra ma prodotto dall’incuria della storia, e un rimedio fragile eppure tenace, quello offerto dalla letteratura, che quando è vera e sofferta e rimuginata, è più autentica e salvifica della politica.

La lettura, per Consolo come per molti altri scrittori, conosce due tempi: quello dell’adolescenza e quello della maturità. Nel primo è fame, furia e disordine. Nel secondo diventa strumentale, si fa appoggio, fondamenta per costruire il proprio edificio di parole.

Non a caso parla di carne, di muscoli. Il primo tempo della lettura serve a costruire il corpo dello scrittore.

Nel secondo tempo, che coincide con il secondo tempo della vita, con la maturità e il regime inflessibile della scrittura, la lettura è ordine, è materiale da utilizzare in tempi stretti, ancella della creazione in proprio. Prima, attraverso la lettura, l’aspirante scrittore si prende il mondo. Poi, attraverso la scrittura, lo scrittore diventato tale lo restituisce. Distillato con fatica, con una poesia grave, che talvolta è capace di distendersi e di aprirsi in canto. Ma ormai, rispetto all’impegno dello scrivere, la felicità del leggere è solo un lontano ricordo.

Antonio Franchini

La solita tromba americana.

Prendendo tono e vigore dalla solita tromba americana, d’un risibile dandy da music hall, nel caso, nostrani cavalieri del vento o uragano dell’informazione (l’immagine è di Joyce, che nel settimo episodio dell’Ulisse, dal virtuale titolo di Eolo, ironizza sul vento che spira dall’Evening telegraph, dai giornali, su certe prose d’arte, false come fiori di cera o porcellana, di cui i giornali, per degnificarsi, sentono il bisogno d’adornarsi) hanno sentenziato che la narrativa non rappresenta più la realtà presente, ch’essa è agonizzante, è morta; che i veri scrittori d’oggi, on yes !, sono i giornalisti.

Ha spazzato, spazza l’uragano ogni possibilità di rappresentare “immediatamente” la realtà. Spazza finanche la realtà (non parliamo della verità) spacciando: per realtà quella fata morgana che ci restituisce la pagina stampata o lo schermo opalescente, facendo credere che l’unico vero linguaggio sia il fischio continuo e assordante della comunicazione: ha spazzato l’uragano memoria e poesia. Non siamo più, si sa, ai beati tempi di Balzac, e il blanchotiano spazio letterario è sempre più relegato in un altrove che lo scrittore si danna a ricercare.
Sa intanto, il tapino, io so, che siamo alla fine di una civiltà e di una cultura; che certe narrazioni sono ormai impossibili (Calvino – ricordo al bravo Volponi – aveva dimostrato questo già con Se una notte d’inverno… E il titanico progetto del pasoliniano Petrolio mi è sembrato il tentativo di fronteggiare letterariamente l’infinita estensione dei media); che l’unico racconto praticabile mi sembra quello storico-metaforico (non le consolatorie e consumistiche storie romanzate) ;che un modo per praticale ancora una letteratura non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia: riaccostarlo, per renderlo irriducibile, al linguaggio liturgico dei

poemi.

Vincenzo Consolo
doveva essere pubblica su,
Il Messaggero – 15 gennaio 1993