Della felicità del leggere

della-felicitaVincenzo Consolo
” Della felicità del leggere “.
con una nota di
Antonio Franchini
Edizioni Henry Beyle
Illustrazione di Lucio Passerini

 

*

In una casa senza libri, in un paese senza biblioteca e librerie mi sono trovato nella remota infanzia, nell’adolescenza, trovato in un deserto con brama e miraggi di letture che intuivo necessarie ad aprirmi varchi, sentieri di conoscenza e salvezza, letture diverse da quelle velenose della scuola nel fascismo o dalle altre tristi e mortificanti dispensate dai preti dell’oratorio.

  Scoprii per prima una polla d’acqua fresca nella casa d’un cugino di mio padre, un piccolo proprietario terriero che viveva d’una magra rendita, solo e scapolo, a cui la fantesca aveva regalato un figlio.  Nei momenti d’odio, di furia verso il mondo, verso il podestà e il regime, don Peppino s’affacciava al balcone e declamava versi dell’Inferno, brani di “Vittor Ugo”, dei Miserabili.  Scoprii nella sua casa nove o dieci libri (“I libri giusti per capire chi sono questi tiranni! “ diceva), che non mi dava in prestito, ma mi faceva leggere là, seduto a un tavolo di marmo, sotto il suo sguardo vigile.

  E quindi fu la volta della malaria e di Silvio Pellico.

  Prima dell’arrivo degli americani e della disinfestazione di paesi e di campagne con il DDT, nel mezzo dei giochi e dello studio, venivamo assaliti all’improvviso, noi ragazzi, da brividi di freddo, da tremori.  Dovevamo allora correre subito a casa, metterci a letto, seppellirci sotto montagne di coperte fino a che non arrivava la violenta febbre a riscaldarci, a buttarci nel delirio.  Fu durante uno di questi attacchi di febbre malarica, per la suggestione forse del racconto del maestro che riemergeva dall’inconscio, che chiesi piagnucolando Le mie prigioni.

E i miei, costernati (non seppi mai in quale modo e dove) riuscirono a trovare un esemplare squinternato delle memorie dell’eroe piemontese.  Tornato alla coscienza, divorai il libro, ma ne rimasi inappagato, per la mestizia che dentro vi stagnava, la rassegnazione.

  Un’oasi poi scoprii, ricca di zampilli, di ruscelli, d’alberi dai frutti prelibati, in casa del mio compagno delle scuole medie Beniamino, figlio d’un avvocato.  Andavo da lui a fare i compiti, a fargli i compiti, i temi, le versioni, ché Beniamino, grasso e pigro, non aveva amore per la scuola, per lo studio, e in cambio ottenevo in prestito i libri in mostra per arredo negli scaffali neri dello studio di suo padre, bei volumi intonsi in finissima carta d’India, rilegati in marocchino.  Fu grazie a quella biblioteca che potei leggere Shakespeare e Molière.

  Boccaccio e Goethe, Stevenson e Defoe, Manzoni e Nievo, Melville e Poe, Tolstoj e Dostoevskij, D’Annunzio e Deledda…  Leggere con furia, con disordine, come se dentro quei boschi fitti di parole, fra quegli immensi alberi, di cui non sospettavo la profondità delle radici, non sapevo vedere la prodigiosa altezza, il rigoglio delle chiome, andassi alla ricerca d’un tesoro.  E non capivo che il tesoro consisteva nell’ossigeno che respiravo di quel bosco, nelle erbe, nei muschi, nelle bacche di cui camminando mi nutrivo.

   Calmatasi la furia adolescenziale, il cieco bisogno di impostare muscoli e ossa ( se non avremo letto in quella tumultuosa stagione, forse mai più conosceremo il piacere, la felicità del leggere, mai scopriremo i tesori nascosti in isole lontane, mai la vera ricchezza di questo nostro mondo), comincia a sistemare, a mettere ordine nella mia biblioteca ideale, nella biblioteca anche materiale che man mano poi cominciai a formare, a possedere.

  L’incontro che non diceva più di mondi bellissimi e lontani, di isole e avventure, di folli cavalieri erranti, di re e di battaglie, di amori e di contrasti, l’incontro che per la prima volta mi fece poggiar lo sguardo sul mondo in cui ero nato e mi trovavo a vivere, sugli uomini e le cose del paese, sui pescatori e i contadini, sui baroni proprietari, su me e i miei parenti, fu con Verga.  Verga mi fece decifrare il mondo complesso, intricato della mia Sicilia, quel mondo mi fece vedere, duro e pietroso, riflesso come in uno specchio, mi fece sentire la musica sommessa, il mormorio doloroso e risentito del suo dire.  E capii che da quell’incontro, da quel mondo, e dall’altro parallelo e più moderno di Pirandello, sarei dovuto ripartire per percorrere e capire, per decifrare ogni altro mondo.  Ripartire da Acitrezza, da Vizzini e da Girgenti.

*

È difficile trovare così tanto di un autore in una singola pagina, ma forse questo Della felicità del leggere, più che essere un prodigioso emblema dell’arte di Consolo, ne è soprattutto l’ennesima riconferma. Sempre Consolo è così: ogni passaggio è stato talmente pensato, introiettato, elaborato da porsi come micro-cosmo, come goccia di mercurio, condensato di un universo.

Così in queste parole c’è il profumo di tutto Consolo e la tensione del suo intero arco creativo. C’è quel senso di asfittico e di chiuso dell’educazione religiosa contro cui si leva La ferita dell’aprile, c’è l’odore del dopoguerra, del DDT, dei boschi dei Nebrodi che si respira in Le pietre di Pantalica, c’è il senso dello scavo storico, il bisogno di retrocedere negli anni per comprendere i fatti, secondo il metodo inaugurato da Il sorriso dell’ignoto marinaio. E c’è una dichiarazione di fede letteraria che si ritrova, pressoché identica, in più luoghi di Nottetempo casa per casa: «Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskii Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l’Italia da Manzoni e Verga… Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà come i numeri e le figure della geometria, verso l’astrazione, il generale. Come l’allontanavano gli scrittori privi di verità e rispetto per la vita d’ognuno…».

C’è, infine, dovunque, una tensione duplice e contraria : un senso di malattia, un male ancestrale, incistato nella terra ma prodotto dall’incuria della storia, e un rimedio fragile eppure tenace, quello offerto dalla letteratura, che quando è vera e sofferta e rimuginata, è più autentica e salvifica della politica.

La lettura, per Consolo come per molti altri scrittori, conosce due tempi: quello dell’adolescenza e quello della maturità. Nel primo è fame, furia e disordine. Nel secondo diventa strumentale, si fa appoggio, fondamenta per costruire il proprio edificio di parole.

Non a caso parla di carne, di muscoli. Il primo tempo della lettura serve a costruire il corpo dello scrittore.

Nel secondo tempo, che coincide con il secondo tempo della vita, con la maturità e il regime inflessibile della scrittura, la lettura è ordine, è materiale da utilizzare in tempi stretti, ancella della creazione in proprio. Prima, attraverso la lettura, l’aspirante scrittore si prende il mondo. Poi, attraverso la scrittura, lo scrittore diventato tale lo restituisce. Distillato con fatica, con una poesia grave, che talvolta è capace di distendersi e di aprirsi in canto. Ma ormai, rispetto all’impegno dello scrivere, la felicità del leggere è solo un lontano ricordo.

Antonio Franchini

Un gioco di specchi

Giuliano Gramigna

Lunaria è un cuntu, una narrazione (tecnicamente), a dispetto dell’elenco dei personaggi e della struttura a scene? […] Il dilemma, posto che sia essenziale, non è ancora sciolto. Il lettore apre il libretto, e subito incontra: «Città caduta affranta, misericordia di quiete dopo il travaglio, silenzio, pace». Di li a poco, una voce recita: “Origine del tutto, / fine di ogni cosa, / eco, epifania dell’eterno, / grembo universale, / nicchia dell’Averno, / sosta pietosa, oblio». In qualche modo, l’orecchio può cogliere un’eco del coro dei morti nello studio di Federico Ruysch. La citazione, meglio: la criptocitazione, volentieri dedotta da testi famosi, risulta una componente significativa di Lunaria. Più avanti, il Viceré che parla dietro il manichino, inciamperà con mirabile anacronismo nel Cimitero marino di Valéry (la piana che palpita di scaglie», gli «uccelli bianchi, tanti fiocchi», che «predano» la superficie del mare…). I cerusici, chiamati a diagnosticare i “desvanecimientos” del Viceré, rifanno il verso un po a Molière ma anche al dottor Azzeccagarbugli. Non mancherà anche un’entrata di Pirandello. Tutto ciò vuol dire qualcosa. L’accensioni i rimandi ad altre opere, più o meno evidenti, qui sembra preordinata a soffocare fin dall’inizio qualunque slancio fabulatorio ossia dinamico; a fomentare piuttosto un gioco di specchi moltiplicatorio e immobilizzante. Terrificato dal primo raggio di luce che entra nella sua camera, il Viceré si lamenta: «No, no, no… Avverso giorno, spietata luce, abbaglio, città di fisso sole, isola incandescente.. Porfirio, Porfirio, torcia di catrame, selvaggio figlio di terre inospitali, lucifero crudele, ahimè, i miei nervi nudi, le mie vene, la mia pelle, i miei occhi». La sintassi rincalza – con il dominio quasi assoluto della frase nominale con la sequela delle apposizioni – il rifiuto, quasi ribrezzo, del moto, del cambiamento, insomma della narrazione. Nell’auspicio più profondo del Viceré, tutto dovrebbe restare fermo, in un nodo di assenza, di svenimento. Ha visto in sogno, come nei versi leopardiani, cadere la Luna dal cielo, lasciandovi una nicchia, un buco. In effetti, in una contrada innominata della Sicilia, su cui regna il Viceré, la Luna viene giù a pezzi, spaventando i contadini. Un frammento è portato a corte, oggetto di disputa dotta da parte degli accademici; finché una cerimonia lustrale, ancora dei contadini, non farà riapparire la Luna in cielo. Al Viceré, dubitoso della propria e altrui consistenza, non resterà che rivolgerle un ultimo saluto: “cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Questa pantomima “verbale”, immaginata per una Sicilia possibilmente settecentesca, in effetti fuori tempo, assume nella sua struttura fragile, direi perfino divertita, valori di opposizione astronomica che sono, alla base, di opposizione metafisica: il Sole contro la Luna la necessità imperiosa, violenta della vita, dell’agire, contro l’estinzione, il non-essere. La Luna è pura iscrizione siderale, dietro la quale, per poco che si frantumi o cada, si scopre il vuoto, il niente. Questo niente, che sta sotteso alla favola del libretto, è dirò così rammendato da un verbalismo sfrenato, ostentatorio nel suo eccesso, che adibisce latinismi e ispanismi, barbarità dialettali, rotondità barocche, figurazioni di un’estetica del vuoto un po’ manganelliane (dico come riferimento…). Il lettore vede ricomparire moduli e processi già degustati in un precedente libro di Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio. Là era la Storia, dichiarata vacua e inscrivibile se non per mano del potere; qui l’intimazione o il sospetto di non-esistenza investe l’intera realtà umana, o almeno ciò che ne può apparire a un Viceré, manichino del potere. Altro è il rapporto che mantengono istintivamente con il mondo, con la Luna, i contadini, li abitatori delle ville, i terragni», forze, realtà animali incomprensibili.

(Corriere della sera, 15 maggio 1985)