Le musiche della mia vita, intervista a Vincenzo Consolo, Raitre Milano, 22 febbraio 2009

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

L’evidenza del nome nella scrittura di Vincenzo Consolo



Giulio Ferroni
Università La Sapienza


Nel capitolo VI de Il sorriso dell’ignoto marinaio si svolge un’intensa interrogazione del senso della scrittura dei «cosiddetti illuminati», dei «privilegiati» che pure tentano di dar voce ai villani che si sono ribellati alle ingiustizie; se ne rileva il carattere di impostura, di fronte alla
difficoltà e impossibilità di far parlare le lingue “altre”, di trovare «la chiave, il cifrario dell’essere», lo strumento di accesso al mondo delle classi subalterne, alla loro espressione, al loro essere, al loro sentire e al loro risentimento. Entro questa insuperabile difficoltà viene chiamata più specificamente in causa l’insufficienza dei nomi, delle parole del codice politico, fatto di termini che restano estranei alle classi popolari; anche le grandi parole come «Rivoluzione, Libertà, Egualità, Democrazia» mostrano la loro incorreggibile parzialità. Di fronte a questa situazione, si delinea l’attesa di parole nuove, di nomi capaci di afferrare quella realtà che sfugge al linguaggio attualmente disponibile, conquistati dagli stessi soggetti che da quello sono esclusi: “Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose”1 . I nomi vengono ad essere, in effetti, nella loro evidenza, gli strumenti essenziali di un contatto con le cose, qui con una proiezione utopica (che risente ancora delle utopie sessantottesche) verso il sogno di un legame futuro, solidale, tra nomi e cose, verso una conciliazione che cancelli ogni scissione, ogni lacerazione tra il linguaggio e la realtà. 56 Ben presto però, nell’esperienza di Consolo, al di là di questa proiezione in avanti, si impone un movimento opposto che conduce la scrittura, nel confronto con l’evidenza dei nomi, a risalire all’origine, o comunque ad un perduto passato di conciliazione tra la realtà e il linguaggio. Essi si porranno allora come segni persistenti di ciò che è stato lacerato, segni che recano in sé le stigme del dolore, che manifestano la necessità e insieme l’impossibilità di un riconoscimento, di una risposta all’offesa del male e della violenza. Nel testo eponimo de Le pietre di Pantalica lo sguardo agli oltraggi subiti da Siracusa rinvia ad uno scritto di Alberto Savinio (Nivasio Dolcemare), Fame ad Atene, con il terribile ricordo di uno degli oltraggi subiti da Atene nella seconda guerra mondiale (la morte per fame di ottocento persone), e al modo in cui lo scrittore cercò di rievocare e difendere la memoria della città proprio affidandosi ai suoi nomi: “Allora lo scrittore, per quest’offesa all’umanità, per quest’oltraggio alla civiltà, fa una rievocazione della sua Atene servendosi dei nomi: di vie, di piazze, di bar, di ritrovi; di persone, di oggetti; e soprattutto di cibi, di dolci. Nomi scritti nella loro lingua, in greco. Roland Barthes ci ricorda che in latino sapere e sapore hanno la stessa etimologia. E anch’io allora, come Nivasio Dolcemare, vorrei, se ne fossi capace, rievocare la mia Siracusa perduta attraverso i nomi: di piazze, di vie, di luoghi … Ma soprattutto di cibi, di dolci, magari servendomi di un prezioso libretto, Del magiar siracusano, di Antonino Uccello. Ma, Antonino, ha senso oggi trascrivere quei nomi?”2 . La coscienza della divaricazione tra l’originario mondo della tragedia greca e l’uso delle contemporanee rappresentazioni in traduzione (proprio nella disastrata Siracusa) fa poi sorgere un’allocuzione ai mitici personaggi di Argo, città «ridotta a rovine», il cui ricordo può persistere, come quello di Siracusa o di Atene, solo nella parola originaria della poesia: “Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città”
3 . 2. 3 Ibidem. 57
Il rilievo del nome sostiene l’ampio uso che Consolo fa della enumerazione caotica e dell’elencazione seriale, che dà assoluta evidenza ai sostantivi nei loro diversi tipi, dai nomi propri (luoghi, persone, dati della storia e del mito, ecc.) a quelli comuni di cose materiali e concrete a quelli di cose astratte e ideali, ecc. Queste enumerazioni di nomi si collegano talvolta a scatti improvvisi della sintassi, tra inversioni e alterazioni ritmiche: il linguaggio viene così forzato in una doppia direzione, sia costringendolo ad immergersi verso un centro oscuro, verso l’intimità delle cose e dell’esperienza, verso il fondo più resistente e cieco della materia, il suo inarrivabile hic et nunc, sia allargandone l’orizzonte, dilatandone i connotati nello spazio e nel tempo, portandolo appunto a “vedere” la distesa più ampia dell’ambiente e a farsi carico della sua stessa densità storica, di quanto resta in esso di un lacerato passato e di faticoso proiettarsi verso il futuro. Nel IV capitolo di Nottetempo casa per casa il «maestricchio» Petro Marano, chiuso nella torre del vecchio mulino avuto in lascito, meditando sul dolore della propria famiglia, dopo essersi abbandonato ad un urlo indistinto e senza scampo, si aggrappa alla forza delle parole, che sono prima di tutto «nomi di cose vere, visibili, concrete», nomi che egli scandisce come isolandoli nel loro rilievo primigenio e assoluto e da cui ricava un impossibile sogno di un ritorno alle origini, di un rinominare capace di trarre alla luce una realtà non ancora contaminata dal dolore e dalla rovina. Nuovo inizio potrebbe essere dato appunto dalla trasparenza assoluta di nomi che designano una realtà senza pieghe dolorose, in un nuovo flusso sereno della vita e del tempo: “E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: «Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno …» scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento 58 in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo”4 . Petro rinvia alla scaturigine dei nomi, che, quando designano cose concrete, sembrano mantenere ancora il nesso primigenio, la misura di quando nulla era ancora accaduto, di quando il male e il dolore non aveva ancora lacerato le possibilità dell’esperienza. E si noti come in questa elencazione, che la punteggiatura fissa in una sorta di forma pura, i vari nomi si succedano a gruppi, riferiti a diversi settori d’esperienza, secondo una progressione che va dalla solidità elementare della terra al richiamo aereo del volo e di uno spazio cosmico, fino alla colorata impalpabilità dell’arcobaleno. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio l’evidenza del nome si impone fi n dalle pagine iniziali, con lo sguardo del barone Mandralisca che si avvicina alla costa della Sicilia, la cui immagine si fissa nei nomi dei feudatari signori delle torri sormontate dai fani (si noti qui la quasi totale assenza degli aggettivi: c’è solo il generico grande e il numerale cinque). “Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte, i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo …”5 . Ai nomi dei feudatari che in quel momento dominano i luoghi succedono poi quelli delle città sepolte, evocate dalla sapienza archeologica del barone: “Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Calacte, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni”6 .  6 Ibidem. 59
Ecco poi più avanti un elenco dei pellegrini che procedono verso il santuario di Tindari e degli oggetti che recano con sé: “Erano donne scalze, per voto, scarmigliate; vecchie con panari e fiscelle e bimbi sulle braccia; uomini carichi di sacchi barilotti damigiane. Portavano vino di Pianoconte, malvasia di Canneto, ricotte di Vulcano, frumento di Salina, capperi d’Acquacalda e Quattropani. E tutti poi, alti nelle mani, reggevano teste gambe toraci mammelle organi segreti con qua e là crescenze gonfi ori incrinature, dipinti di blu o nero, i mali che quelle membra di cera rosa, carnicina, deturpavano”7 . E si ricordino ancora più avanti i nomi elencati dal Mandralisca di fronte ai pazienti visitatori della sua casa- museo: “Alle vetrine, alle teche delle lucerne e delle monete, dove il barone si lasciò andare ad una sequela infinita di date, di luoghi, di simboli e valori, quei quattro o cinque che appresso gli restarono, per troppa stima o estrema cortesia, afferrarono qualcosa come Mozia Panormo Lipara Litra Nummo Decadramma”8 . E del resto la figura stessa del Mandralisca, erudito e malacologo, raccoglitore e classificatore di oggetti, di dati e di date, è elettivamente disposta alla ricerca e alla sistemazione dei nomi, alla loro disposizione ed elencazione (e si può ricordare, sempre nel Capitolo primo, il sogno di farsi pirata per impadronirsi della «speronara» che sta trasportando chissà dove dei marmi: se potesse averli farebbe schiattare di rabbia altri collezionisti concorrenti, i cui nomi vengono anch’essi riportati in elenco)9 . Ma in tutta l’opera di Consolo si danno le più diverse variazioni, combinazioni, funzioni in questo uso dei nomi. Così nel racconto di cui qui presentiamo la traduzione di Irene Romera Pintor 7 Si noti qui la sottile scansione, con la successione dei tre membri introdotti nell’ordine da donne, vecchie, uomini, e poi il successivo elenco in cui risaltano i luoghi d’origine dei diversi prodotti, dove l’evidenza delle derrate alimentari è sottolineata dal complemento con il nome proprio, il tutto disposto in una sequenza di quattro settenari e di un endecasillabo: vino di Pianoconte,/ malvasia di Canneto,/ ricotte di Vulcano,/ frumento di Salina,/ capperi d’Acquacalda e Quattropani. 8  «Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina».
60 Pintor, Filosofiana, si può trovare una fitta presenza di nomi geografi ci e topografi ci, mentre fortissima suggestione ha l’elenco dei nomi delle erbe pronunciato dall’impostore don Gregorio: “E salmodiando, don Gregorio gettava sopra la balàta le erbe che prendeva a una a una dalla sporta, chiamandole per nome. «Pimpinella,» diceva «Petrosella, Buglossa, Scalogna, Navone, Sellerio, Pastinaca…»”10.
Ma vorrei insistere un po’ più diffusamente su Retablo, che prende avvio proprio da un nome, quello della donna amata da Isidoro, Rosalia, subito scomposto nelle sue due componenti, Rosa e Lia, poi ossessivamente ripetute. Ciascuna di queste due componenti dà avvio ad una serie di esaltate variazioni. La prima variazione scaturisce dal piano semantico di rosa, in un delirio floreale, carico di profumi e di colori, che dà luogo ad altre serie di termini moltiplicati. Dopo il nome e la sua scomposizione, rosa viene ripetuto quattro volte, ogni volta seguito da una relativa che ne specifica l’azione; poi si passa ad una negazione paradossale (Rosa che non è rosa) e a due nuove riprese di rosa, accompagnate ancora da relative, ma stavolta le relative danno luogo a predicati nominali, entro ciascuno dei quali si dispongono quattro termini con nomi di fiori (prima datura, gelsomino, bàlico e viola; poi pomelia, magnolia, zàgara e cardenia). A queste identificazioni della donna con i diversi fi ori succede l’immagine del tramonto, con il suo trascolorare (fissato nell’immagine della sfera d’opalina, cioè di un vetro traslucido e opalescente) e con l’addolcirsi dell’aria (forte l’espressività di sfervora, come se essa riducesse la sua febbre), seguita nel suo penetrare dentro il chiostro del convento e nel suo spandervi nuovi profumi (ancora con elencazioni seriali, prima dei predicati, coglie, coinvolge, spande, poi dei complementi aggettivati, odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi) che sembrano risultare da un’opera di

10 CONSOLO, V. (1988: 92). Vero tour de force quello della traduzione di Romera Pintor, in CONSOLO, V. (2008: 69): “Y mientras salmodiaba, don Gregorio echaba sobre la lápida las hierbas que tomaba una a una del capazo, llamándolas por su nombre./ «Pimpinella» decía «Petrosela, Buglosa, Chalote, Nabo, Apio, Pastinaca…»”. 61

distillazione (e i balsami sono grommosi perché sembrano carichi di incrostazioni, di una sensuale impurità): “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ah!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”11. Sul secondo termine della scomposizione si svolge tutta una serie di variazioni foniche a partire dal significante lia, in un viluppo di termini che contengono la sillaba li o la sola labiale l (daliato a lumia a liana a libame, licore, letale, ecc., fi no a liquame). Dal nome Lia si svolge, come un vero e proprio denominale, il verbo liare (che indica un’azione simile a quella che fanno sui denti agrumi come il cedro e la lumia), a cui segue tutta una serie di sostantivi caratterizzati dalla posizione iniziale della sillaba li, da liana (che contiene in sé il nome Lia); si notino le voci dotte libame (latino libamen), «libagione» che agisce come una droga (oppioso), lilio per «giglio», angue per «serpente»; limaccia indica una «lumaca» che lo avvolge nei suoi vischiosi avvolgimenti, attassò, (siciliano da attassari, «assiderare, freddare»); lippo è il siciliano lippu, che indica il musco e in genere ogni pellicola viscosa che si attacca: “Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione”12. 12 Ibidem. 62 Ruotando sul nome e scomponendolo, in queste cascate di sostantivi che solo in pochi casi sono accompagnati da aggettivi, si svolge così un canto d’amore cieco e sensuale che si riavvolge su se stesso e che trova una figura esemplare, nel serpe che addenta la sua coda, del riavvolgersi di ogni esperienza su se stessa (è una figura, questa, molto cara a Consolo, come quella simile della chiocciola, riavvolta su di sé, in un percorso circolare che sempre torna al punto di partenza). Dopo questa scomposizione del nome della sua Rosalia, il frate ricorda di averla cercata nei luoghi più diversi di Palermo, fino ad identificarla in modo blasfemo con l’immagine della santa protettrice della città, Rosalia appunto, venerandone il corpo racchiuso nel sepolcro di cristallo nel celebre santuario del Monte Pellegrino: esasperata sensualità, erotismo, ossessione funebre, ritualità spettacolare, senso del peccato e della dannazione si fondono qui in un nesso inscindibile. Il nome di Rosalia viene ripetuto poi più volte, in diversi punti del libro; e al diario della peregrinazione del pittore Fabrizio Clerici si intreccia una confessione di Rosalia, che si scinde e si confonde in un’immagine singola e doppia, la Rosalia di don Vito Sammataro e la Rosalia di Isidoro che è in realtà «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»13. Nell’attraversare i luoghi della Sicilia, Fabrizio Clerici ne assapora i nomi propri, trae in luce i signifi cati che addensano in sé; e dalle più semplici etimologie può lasciar scaturire altre cascate di nomi, come qui, che dal nome di Salemi vengono fuori in successione altri nomi astratti, altri nomi geografi ci, altri nomi concreti: “Ma era certo insieme quel paese Salem e Alicia, luogo di sale e luogo di delizia, del rigoglio e del deserto, dell’accoglienza e dell’inospitale, della sterilità e del fico bìfero, ché subito, appena pochi passi oltre l’aridume, ove la terra veniva ristorata dalle fonti di Delia, Ràbisi, Gibèli, Rapicaldo, dal Gorgo della donna, la terra si faceva, come la Promessa, copiosa di frutti d’ogni sorta, e di pascoli, di vigne, d’olivi, di sommacco”14.. 63 Poco più avanti si ascolta don Carmelo Alòsi, esperto nell’arte «degli innesti e della potatura», elencare, come «un unico giardino, unico e sognato, tutti i giardini» che ha conosciuto e in cui ha lavorato: “di Francofonte o di Lentini, della Conca d’Oro o del Peloponneso, di Biserta o d’Orano, di Rabat o di Marrakech o di Valencia. Come pure i giardini di capriccio e d’ornamento, piccoli come quelli di Mokarta, del Patio de los Naranjos sotto la Giralda di Siviglia, del Generalife sopra all’Alhambra di Granada o quello delle latomìe del Paradiso in Siracusa”15. Ma la campionatura dei nomi di Retablo può agevolmente condurre dai nomi geografi ci e topografi ci a quelli mitici. Così da una epigrafe greca di Selinunte sgorga una serie di nomi di classiche divinità: “Vinciamo per Zeus, per Phobos, per Eracle, per Apollo, per Poseidon e per i Tindaridi, per Athena, per Malophoros, per Pasikrateia e per gli altri dèi, ma per Zeus massimamente…”16. Ci sono poi i nomi storici, come quelli delle famiglie nobili di Trapani di cui don Sciavèrio Burgio presenta le dimore, a cui seguono i nomi delle chiese: “- Del barone Xirinda –dicea– del duca Sàura, dei signori Scalabrino, del marchese Fardella, del barone Giardino, Piombo, della Cuddìa, di San Gioacchino, dei signori Pèpoli, Staìti; e ancora: Poma, Todaro, Reda, Milo, Salina, Bartalotta, Riccio, Pandolfina, Rapì, Arcudaci… Quindi le chiese, più belle, più imponenti: del Collegio, di san Lorenzo, di Santo Spirito, della Badia, del Monserrato…”17. In questo delirio dei nomi, quello del poeta Giovanni Meli, ricordato dal pastore Alàimo, dà luogo ad una serie di variazioni paronomastiche: 64 “D’un poeta di qua, mi disse dopo, da tutti conosciuto e frequentato, di nome Meli. Ma Mele dico ei doversi dire, come mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male”18. Ecco poi gli elenchi di nomi di oggetti, come quelli che popolano la casa-museo del Soldano: “… mi parve d’entrare nel museo più stivato e vario. V’era per tutte le pareti, sopra mobili e mensole, capitelli e basi di colonne, dentro nicchie e stipi, pendenti fi nanco dal soffi tto, ogni più bello e prezioso o più orrido e peregrino oggetto. Integri e lucidi e con disegni limpidi, neri crateri sicoli e attici, anfore oriballi coppe pissidi lecane, teste e gambe e torsi di terre cotte e marmi, arcaici rilievi di frontoni, di corrose metopi, luminosi parii di dèe e divi e d’eroi mitici di grecanica, fattura nobilissima o nei rifacimenti de’ romani; tavole dorate bizantine, croci dipinte, pale dei Fiamminghi, e vaste tele delle scuole del Sanzio, del Merisi o del Vecellio; stemmi, pietre mischie, conche di porfido, retabli gagineschi, calici incensieri cantaglorie, teschi d’avorio o maiolica sopra le cartapecore di codici e messali; cereplaste di Vanitas, morbi, pesti, flagelli e di Memento mori…”19. Come sintesi esemplare di questa furia della nominazione che agisce in ogni momento di Retablo, che agisce allo stesso modo sul frate siciliano sfratato e sul viaggiatore milanese che attraversa la Sicilia (anche se questi mette in bocca molte di queste serie di nomi a siciliani, a ospitali personaggi incontrati durante il suo viaggio), si può ricordare la pagina seguente, che si svolge in accumuli successivi di nomi di ordini diversi, da nomi geografi ci a nomi di navi a nomi di merci di ogni sorta. Siamo davanti al porto di Trapani (come fatto riavvolgere su se stesso attraverso il gioco paronomastico porto/ porta, in più complicato dal superlativo importantissima), la cui immagine balena in tutta evidenza davanti al lettore grazie ad una sorta di litania, attribuita da quel don Sciavèrio che accoglie i viaggiatori (e proprio letàne viene chiamata, non senza una certa ironia, quasi un fuggevole. 65 do autoironico di Consolo alla propria così pervicace e suggestiva passione per i nomi): “In quel porto, ch’è porta importantissima d’ogni incrocio e scambio, d’ogni più vario mondo, d’ogni città di traffico e commercio d’infra e fuori Regno, del settentrione e del meridione, del levante e del ponente, d’ogni isola, costa o continente: di Cipro, Rodi, Candia, Malta e di Pantelleria, d’Amalfi , Procida, Livorno, Lucca, Pisa, Genoa e Milano, di Venezia e di Ragusa, di Barcellona, Malaga, Cadice, Minorca… Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmotte, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffi co, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, poi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favignana, Scopello e Bonaglia, e asciuttàme, vino, cenere di soda, pasta di regolizia, sommacco, pelli, solfo, tufi , marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscìna, orbàci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, bajettone d’Inghilterra, velluto, fl anella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca… Queste letàne me le cantò orgoglioso un trapanese, cònsolo del Corpo dei naviganti, patrone di vascelli, don Sciavèrio Burgio…”20.
 20 CONSOLO, V. (1987b:132). 66 BIBLIOGRAFIA: CONSOLO, V. (1987a): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Introduzione di Cesare Segre, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1987b): Retablo, Palermo: Sellerio. CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (2006): Nottetempo casa per casa, Prefazione di Giulio Ferroni, Torino: UTET, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci. CONSOLO, V. (2008): Filosofiana (relato de Las piedras de Pantálica), Edición, introducción, traducción y notas de Irene Romera Pintor, Madrid: Fundación Updea Publicaciones


La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


Un ritratto di Elio Vittorini a cento anni dalla nascita di Vincenzo Consolo

Vittorini
da Siracusa
alle città del mondo

(“Il Manifesto”, quotidiano comunista,

24 luglio 2008)

Jole, sorella di Elio Vittorini: e viene subito in mente la più famosa sorella della letteratura italiana, Maria, la Mariù di Zuanì, di Giovanni Pascoli. Ma Jole Vittorini è quanto di più lontano si possa immaginare da quel precedente. Il suo libro, Mio fratello Elio non è una imbarazzante agiografia, ma una breve memoria remota, un piccolo quadro di vita familiare, d’una famigliola siciliana dei primi anni del Novecento in cui i genitori, i figli, i nonni, gli zii risultano avvolti in una tenera luce, la jonica luce di Siracusa, in cui il primogenito Elio, luminoso per nome, risulta il più ricco d’inventiva, il più assetato d’avventura. Sembra, il racconto di Jole Vittorini, ubbidire innanzitutto al pudore, alla discrezione in cui sempre avvolgeva l’autore di Conversazione in Sicilia la sua famiglia, la sua vita privata, in cui era avvolta la madre Lucia, luminosa per nome anche lei.

Scrive Jole: «Mia madre era gelosa dei suoi sentimenti; e non permetteva che altri frugassero nella sua vita sentimentale. Un po’ come Elio». È quella madre che, scoperta un giorno la figlia intenta a leggere le lettere che il marito le aveva inviato, le strappa, una per una. (Questa ritrosa e orgogliosa Lucia ricorda Clementina, la protagonista del racconto di Giuseppe Antonio Borgese La Siracusana). «Non avrà più di sedici anni, ma gli si sente addosso l’odore della gonna di mamma. Oh, altre donne ha per il capo» pensa del ragazzo che è con lei nello scompartimento del treno la procace e vitale canzonettista Montalbano del racconto Piccolo amore di Piccola borghesia. Questo è il racconto di Jole. Salvatore Vittorini, diplomato maestro, decide d’imbarcarsi su un bastimento. La sua carriera di marinaio si interrompe però al primo viaggio dopo una tempesta nel canale di Sicilia e un fortunoso approdo nel porto di Pozzallo. Il mare lo regala alle ferrovie. È il 1906. L’anno dopo il giovanotto sposa la bella Lucia Sgandurra, figlia di un barbiere appassionato lettore di libri (De Amicis, a Siracusa, di cui scrive splendidamente in Ricordi di un viaggio in Sicilia, capita nella bottega dello Sgandurra e dirà di non aver mai incontrato un barbiere così colto).

Epiche avventure tra case di fango

I due sposini Salvatore e Lucia raggiungono Sant’Agata di Militello, un paese di pescatori e di contadini sulla costa tirrenica. È la prima stazione di tante altre, il primo di altri paesini, di luoghi sperduti in cui dimoreranno i coniugi Vittorini con i quattro figli che con gli anni verranno. «Si stava in piccole stazioncine ferroviarie con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno. Era un deserto ovunque di malaria; e ovunque di latifondo incolto; in qualche luogo con un allevamento di pecore a un tiro di schioppo, in qualche altro luogo con una miniera di zolfo nelle vicinanze» (Elio Vittorini, Pesci rossi, 1949, n. 3 della rivista bollettino editoriale di Bompiani in Diario in pubblico).

È la smarrente solitudine, l’angosciante desolazione del povero, nudo paesaggio del racconto La signora della stazione ancora di Piccola borghesia, o di Conversazione in Sicilia. È la solitudine più toccante della bambina Jole, unica femmina e ultimo rampollo di una nidiata di maschi: Elio, Ugo, Aldo, che per i campi s’inventavano epiche avventure, si costruivano mondi favolosi. «La mia unica distrazione erano gli arrivi e le partenze dei treni. Li guardavo dalle finestre, dietro le grate metalliche che dovevano proteggerci dalla zanzara anofele», scrive Jole. Ma pure, tra le case di fango davanti alla stazione, la piccola scopriva persone, vicende, destini umani: donna Luigia, i sei figli e il marito cantoniere avventizio e cacciatore di conigli e di istrici; Mariannina, moglie dello zolfataro Gueli e sorella di Salomone, fattosi bandito per un delitto d’onore, che nella solitudine della montagna legge la Divina Commedia.

Nel ’24 il ferroviere Vittorini viene trasferito finalmente nella sua Siracusa, in Ortigia, bianca come il miele ibleo e azzurra come il Ciane o la fonte Aretusa. La famiglia va ad abitare nella casa dei nonni materni, nella via Mastrarua, nella Siracusa teatro del Garofano rosso e di Piccola borghesia. E a Siracusa, proveniente da Licata, si trasferisce pure la famiglia del ferroviere Quasimodo. Elio s’innamora subito di Rosina, la sorella del poeta Salvatore. I due ragazzi, per l’opposizione delle rispettive famiglie, compiono la famosa fuga d’amore, la fuitina, e passano la loro prima notte sotto le stelle, sui gradini del Teatro Greco: si può immaginare una prima notte d’amore più «siracusana» di questa? Dice De Amicis, trovandosi nel silenzio di quel teatro: «Sentii le grida dei ventiquattromila spettatori del teatro greco, plaudenti alla rappresentazione dei Persiani». Non sappiamo cosa sentirono i due giovani Elio e Rosa in quella solitudine notturna del teatro greco.

Dopo il matrimonio riparatore, i due si trasferiscono a Gorizia, dove Elio lavora come assistente alla costruzione di un ponte. Il successivo trasferimento sarà a Firenze. Ma dopo, conclusa questa breve, epifanica storia, comincia l’altra storia di Elio Vittorini. Ma il narratore Vittorini, il suo accento favoloso, lirico, il suo tono civile, la sua tensione all’ottimismo, al movimento, l’intellettuale Vittorini libero e orgoglioso, attivo e generoso, non si può capire senza la sua famiglia, la sua Siracusa, il mondo libertario dei ferrovieri, senza le stazioncine sperdute nel vasto teatro dell’infelicità sociale della Sicilia. «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori: non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto». Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia. E aveva, quell’attacco, il ritmo di un rintocco di campana, lento e triste, che dava suoni, voce, nell’atrocità del regime fascista e della guerra in corso, nel ricordo dell’atroce guerra civile di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno. Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo della ideologia. Ed è insieme, come quello di Odisseo e di Enea, un nòstos e un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli inferi, nel regno delle ombre, dei morti per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, attraversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, approda in una Sicilia invernale, livida, in una patria di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma in una patria anche di fieri e indomiti «gran lombardi», di uomini che parlano di «nuovi doveri», di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblio del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio bloccandolo a una patologica, infinita adolescenza, come succede al Giovanni Percolla del Don Giovanni in Sicilia di Brancati, ma è una madre, quella di Vittorini, che spinge il figlio a ritornare al suo lavoro di linotipista, di compositore di parole, ai suoi doveri di uomo, di scrittore, di intellettuale.

Fallimenti e speranze perdute

«La parola utopia rappresenta nell’uso comune lo stadio ultimo della umana follia o della umana speranza» scrive Lewis Mumford, autore di una Storia dell’utopia. E aggiunge «che quasi tutte le utopie criticano implicitamente le civiltà in cui nascono e sono implicitamente un tentativo di scoprire le possibilità che le istituzioni originano o seppelliscono sotto la crosta delle vecchie usanze e abitudini». Ed è dall’utopia, parola coniata da Tommaso Moro, dall’utopia, come «stadio ultimo dell’umana speranza», che bisogna partire per leggere Le città del mondo di Vittorini. La concezione utopica credo che sia la matrice del libro. E dobbiamo dunque partire da Platone e, giù giù, passare per Bacone e Campanella, il monaco calabrese che, con la sua Città del sole, aveva inventato la comunità ideale, in cui gli uomini «sono ricchi perché non hanno bisogno di nulla; sono poveri perché non posseggono nulla; di conseguenza non sono schiavi delle loro circostanze, ma sono le circostanze che li seguono». Partire da Platone, dicevo, e arrivare agli illuministi lombardi, ai Verri, al Beccaria, al Cattaneo; arrivare a Melville, De Foe; arrivare forse fino ad Adorno, Horkheimer, Marcuse. E se nei filosofi antichi l’utopia sorge da un connubbio di religione e di ragione, nei filosofi moderni l’utopia o le «città del mondo» sono le città dell’uomo, le città a misura d’uomo, dove l’uomo può essere felice. Ne Le città del mondo ancora una volta il siracusano Vittorini ritorna alla Sicilia. Ma vediamo per quali occasioni nasce questo romanzo. Nel 1950 compie un viaggio in Sicilia, insieme al fotografo Luigi Crocenzi e a un gruppo di amici, per preparare un’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (nel ’49 era uscito Le donne di Messina). Nel ’50 erano successe molte cose. Vittorini, dopo la famosa polemica con Togliatti, era uscito dal partito comunista. Aveva anche visto, lo scrittore, il fallimento di una certa politica meridionalista e perso la speranza di una soluzione a questo annoso problema. E aveva visto forse fin d’allora che il mondo contadino meridionale era ormai «perduto alla storia».

Il viaggio in Sicilia del ’50 fu molto stimolante. Da una parte, incominciò a maturare in lui l’idea utopica, utopia come superamento di condizioni statiche inaccettabili (e l’idea già in qualche modo era espressa ne Le donne di Messina, nella costruzione di una nuova comunità democratica) e dall’altra, si andava definendo in lui l’idea di illuminismo-razionalismo lombardo, della Lombardia o della Milano, ripetiamo, dei Verri e del Beccaria, illuminismo contrapposto alla irrazionalità, alla staticità, al verghiano fatalismo. Contrapposizione che diventerà poi quella tra mondo neo-industriale e mondo contadino. Tema che teorizzerà e svilupperà ne Le due tensioni e nei fascicoli della rivista Il menabò, a cominciare dal famoso numero quattro dove si parla di «industria e letteratura». Questa idea, questa utopia vittoriniana, sorta forse per la scoperta del petrolio in Sicilia e per l’impresa di Mattei, ma sorta anche per la frequentazione di quell’industria a misura d’uomo che era rappresentata dalla Ivrea di Adriano Olivetti. Questa generosa idea, questa utopia, sappiamo, s’infrange poi, contro gli scogli della storia, della mala storia, la mala storia che creerà gli inferni ambientali e antropologici di Priolo, di Melilli, di Gela.

Il castello di Lombardia

Dietro la sua idea utopica, aveva scritto Vittorini Le città del mondo, opera che, a causa della delusione storica vuole distruggere. Le città del mondo, fortunatamente salvato da Ginetta Varisco, seconda moglie di Vittorini, è l’ultima opera prima del silenzio narrativo e, come scrive Pampaloni, il romanzo può «essere letto in positivo e in negativo». Poeticamente (e affettivamente) esprime le sue idee, la sua utopia già in Conversazione in Sicilia con il tema, lì allora accennato, del Gran Lombardo che «doveva essere di Nicosia o Aidone; parlava il dialetto ancora oggi quasi lombardo di quei posti lombardi del Val Demone: Nicosia o Aidone». Ne Le città del mondo sviluppa pienamente il tema con la contrapposizione città-lombarde belle, altre città brutte. Dice Rosario, il pastorello che arriva a Scicli col padre: «…e la gente è contenta nelle città che sono belle… e si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente ! Lo stesso ogni volta che entriamo ad Enna. Ma che bella gente!». Diciamo qui per inciso che per fortuna l’ideale Lombardia siciliana di Vittorini non era, non corrispondeva all’attuale atroce fascistica razzistica Lumbardia di Bossi e della Lega Nord, Nicosia e Aidone non hanno nulla da spartire con Pontida, Pontedilegno o Casalpusterlengo.

Ma torniamo a Enna, la città che nomina il pastorello Rosario. È la città, Enna, dove c’è il castello di Lombardia, alto, con le sue alte torri. La città, così alta che è tutta un castello di Lombardia ha un monumento in una delle sue piazze. È il monumento al socialista Napoleone Colajanni, di Leonardo Ximenes, e questo monumento Vittorini fa fotografare a Crocenzi, nell’edizione illustrata di Conversazione, facendolo riprendere da più parti. Vittorini identifica Colajanni con il Gran Lombardo. Ne Le città del mondo, Colajanni compare proprio come statua assieme a quella del re Ruggero, di Garibaldi, della regina Giovanna. Il protagonista storico del movimento contadino, dei Fasci Siciliani, così lombardo, cioè così ricco di volontà di superare il momento storico è il suo eroe positivo. Vitalità, movimento, atteggiamento attivo, questo ama Vittorini (e arriva per questo sino alla bestemmia letteraria per il suo contrapporsi al fatalismo di Verga: «il nostro schifosissimo Verga, il più reazionario tra gli scrittori moderni» scrive ne Le due tensioni). Ed è per questo che Le città del mondo è il libro più antinaturalistico della letteratura meridionale.

Qui tutto brucia nella metafora. I personaggi sono in figura di funzione, hanno perso la consistenza realistica; parlano in modo metaforico, declamatorio, parlano ritualmente e profeticamente. «Ciò che interessa l’autore non è una mimesi della realtà (…), ma una utilizzazione della realtà che possa rendere immediatamente, subito, e costituire subito, per le forze storiche, un’arma, uno strumento di trasformazione, o insomma una chiamata a trasformare…» scrive ancora Vittorini in Le due tensioni. E quindi i personaggi del romanzo sono in continuo movimento sul palcoscenico della Sicilia, il movimento fisico e psicologico, in ribellione e in tensione di felicità e di dolore.

Ma che cosa narra infine questo romanzo, uscito postumo, ricordiamolo, nel 1969? Così riporta la nota in chiusura del curatore Vito Camerano, riprendendola dalla rivista «Galleria d’arte e lettere» del ’53: «Con questo romanzo che ha per titolo provvisorio Le città del mondo e che forse finirà per intitolarsi I diritti dell’uomo, Vittorini ritorna alla sua Sicilia, ma a una Sicilia diversa da quella di Conversazione, una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi, che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, prostitute, zolfatari e campieri, paesi e città sono come vie, piazze, angoli di una medesima città, e, nello stesso tempo, è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l’universo, poiché tutto ciò che è nel libro viene citato come estraneo all’Isola, è ancora come se fosse Sicilia. Così i Pirenei, così Gerusalemme e Samarcanda e Tucuman e Ur dei Caldei. E un episodio della Bibbia è anche un fatto accaduto in Sicilia, proprio come un parlamento di siciliani radunatisi in un vallone, diciamo delle Madonie o dei Monti Erei, per far festa o cospirare. Una Sicilia che potrebbe essere quella dei Borboni come quella di sempre, la Sicilia fertile e desolata, isola felice e terra di fame». La trama di questo romanzo è quanto mai aperta e libera. C’è la Sicilia, immensa e areosa, biblica e da Mille e una notte, di Ariosto e di Cervantes. Vittorini, in una di quelle classificazioni che vogliono esemplificare, aveva diviso i romanzi in arteriosi e venosi. Ecco, questo suo libro postumo è certo il più arterioso, il più ricco di ossigeno, di flusso vitale. È ricco di luce, di cristallina luce siracusana, del «dolce color d’oriental zaffiro».

Conversazioni-in-Siciliaelio-vittorini

Presentazione del libro Filosofiana, di Vincenzo Consolo racconto tratto dal libro le “Pietre di Pantalica”. Madrid istituto Cervantes. Il 17 di aprile 2008 Presenta: Manuel Gil Esteve (Cattedratico de Filologia Italiana. Universidad Complutense. Partecipano: Renzo Cremante, Cattedratico de Filologia Italiana Director del Fond de Manuscritos de Autores Contemporaneos. Università di Pavia. Salvatore Trovato, Cattedratico de Linguistica Universidad de Catania. Irene Romera Pintor: Professora Titular de Filologia Italiana. Univesidad de Valencia.

Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Prima parte.
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Seconda parte
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Terza parte.

“Un sogno perso” por PASQUALE SCIMECA


“Un sogno perso” è il mio secondo film, ed è un film che deve molto a Vincenzo Consolo, ma questo lui non lo sa. Nel 1988, io facevo l’insegnante. Come spesso accadeva a tanti della mia generazione, dopo la laurea, sono andato a lavorare nelle regioni del nord Italia; perché lì c’erano più possibilità.
Durante l’estate tornavo al mio paese per stare un po’ con i miei e ritrovare i vecchi amici. Quella estate del 1988, al mio paese, avevano indetto un concorso di fotografia. Il mio è un piccolo paese con poco più di mille abitanti, nel centro del feudo della Sicilia. I miei amici, che sapevano della mia passione per la fotografi a, mi esortavano a presentare le mie foto a questo concorso. Io, sinceramente, non ero molto interessato alla cosa e non volevo farlo; però quando mi dissero che il Presidente della giuria era Vincenzo Consolo, ho deciso di partecipare per avere così la possibilità di conoscerlo. Il primo premio, per chi vinceva questo concorso, consisteva nella solita “targa”, e cosa più importante, in un milione di lire (circa cinquecento euro di oggi). Così cominciai ad andare in giro per le campagne a fotografare i pastori e i contadini, (quelli che ancora resistevano a quella vita di stenti). Alla fi ne fui io che vinsi il primo premio, e con i soldi mi comprai una cinepresa Arriflex 16 mm di seconda mano. Il possesso di questa cinepresa stimolò la mia antica passione per il cinema; e fu così che iniziò la mia carriera cinematografica. Vincenzo Consolo, suo malgrado, ha dunque una responsabilità molto grande per quello che poi sarebbe diventato il mio lavoro. Anche perché senza quel milione del premio non avrei mai comprato quella cinepresa (che conservo ancora come un cimelio) e non avrei mai iniziato a fare cinema.
I miei due primi film (La donzelletta e Un sogno perso) li ho fatti con quella cinepresa, e questo mi ha permesso, soprattutto, di sviluppare la mia idea di cinema autoriale; dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio alla produzione. Eravamo un gruppo di amici ai quali piaceva il cinema e abbiamo coinvolto altre persone, e così abbiamo fatto, a bassissimo costo, La donzelletta. Poi questo fi lm è stato comprato da Enrico Ghezzi per Fuori Orario che andava (e va ancora) in onda su Rai Tre. E sempre Rai Tre ci ha dato i soldi (cento milioni di lire —cinquantamila euro circa di oggi—) per il secondo film: Un sogno perso.
Dopo questa piccola parentesi, vorrei tornare a parlare dei temi, che in questi due giorni di convegno, hanno affrontato l’opera di Vincenzo Consolo, partendo proprio dal mio secondo film Un sogno perso.
I due primi episodi del film sono tratti dalle opere di due grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini e Vincenzo Consolo. Dico scrittori siciliani e non italiani, perché una parte importante della letteratura italiana del secolo scorso è stata opera di autori siciliani (Pirandello, Brancati, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, per citare solo i più noti). Una cosa, questa, che mi ha sempre colpito; perché fi no alla metà del secolo scorso, in Sicilia, l’ ottanta per cento della popolazione era analfabeta. Mi sono sempre chiesto; come è possibile che da un popolo di analfabeti siano potuti uscire questi grandi scrittori? Io credo, che in qualche modo, questo abbia a che fare col fatto che l’arte del racconto, il gusto e il piacere del racconto
(che purtroppo oggi si è perso) è un qualcosa di insito nell’animo del popolo siciliano. In tutti i paesi c’erano delle persone: artigiani, contadini, pescatori, minatori, ecc., che erano stimati e amati solo perché avevano il dono del racconto. Da bambino passavo anch’io il mio tempo seduto nelle botteghe dei barbieri o dei calzolai a sentire i loro racconti. E poi c’erano i Cantastorie con le loro chitarre e i loro cartelloni dipinti, e i pupari, questi artigiani dell’arte che intrattenevano il pubblico, non una sera o due, ma trecento sessanta sere all’anno, ogni sera c’era una puntata, con racconti straordinari che assomigliavano molto a quelli delle Mille e una notte. Un sogno perso è un film di tanti anni fa: del 1992. Un film su un sogno, perso per l’appunto. Il sogno di un mondo, quello della mia infanzia, della civiltà contadina spazzata via da una nuova forma di civiltà che P. P. Pasolini chiamava del consumismo, dove ci sono tutte quelle cose che dicevo prima, ma c’è soprattutto la letteratura. Il primo episodio è tratto da Filosofiana di Consolo e il secondo dall’ultimo romanzo (incompiuto) di Vittorini Le città del mondo.
Quello che ho fatto, rispetto al racconto di Consolo, è un’ opera, diciamo così, di tradimento. Perché dal momento che faccio un film tratto da uno scrittore è chiaro che lo tradisco. Lo tradisco nella forma e nella sostanza. Per me, l’episodio del libro di Consolo Filosofiana è anche un modo per raccontare un’altra cosa (che poi, credo, sia insita, sostanzialmente anche in Consolo), ma per me è una cosa più esplicita. Nel mio caso è una scusa per raccontare qualcosa di questo mondo che andava scomparendo; della Sicilia vista come metafora della civiltà contadina, questa millenaria civiltà contadina che si è riprodotta quasi uguale nel tempo. Per secoli e secoli ha riprodotto se stessa, con pochissime innovazioni, però anche con una pratica culturale e sociale, con un’idea del rapporto con la natura, con la cultura, l’educazione, e che nell’arco di qualche decennio è stata completamente annientata, distrutta. E questo in Sicilia è avvenuto anche fisicamente attraverso l’ emigrazione. Milioni di contadini, che avevano iniziato ad andare via già verso la fi ne dell’Ottocento, quando partivano a migliaia e migliaia, sui piroscafi che li portavano in America, in Argentina, in Brasile e perfino in Sudafrica. Ma negli anni cinquanta del secolo scorso, la cosa è diventata una vera e propria desertificazione, di una civiltà, di una cultura ma anche di una terra che cambiava. Prima di partire in massa i contadini, a dire il vero, avevano tentato una qualche forma di resistenza, disperata, folle, eroica. L’ultimo tentativo di resistenza, sono state le lotte contadine. Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di contadini hanno tentato di cambiare se stessi, di cambiare le cose, di scardinare quelle forme di potere feudale che si basavano sulla mafia, sulle classi aristocratiche, sulle gerarchie ecclesiastiche, sulle burocrazie del nuovo Stato unitario. Purtroppo queste lotte sono fallite, e il movimento contadino non si è più ripreso. Non solo il movimento contadino, ma l’intero popolo siciliano ha perso la sua identità e la sua anima. Ho parlato di popolo, ma in realtà, in Sicilia vi erano almeno tre popoli: quello dei pescatori, quello dei minatori e quello dei contadini. Erano mondi separati che spesso non avevano alcun rapporto fra di loro. Il minatore la mattina scendeva in miniera e non sapeva se la sera sarebbe tornato in superficie. Questo fatto determinava un modo di essere, una caratteristica esistenziale che lo distingueva da tutti gli altri. I contadini, ad esempio, si vestivano a festa soltanto in rarissime occasioni (funerali, matrimoni, battesimi, ecc.), mentre i minatori, ogni fi ne settimana si vestivano di modo elegante e andavano ad ubriacarsi nelle taverne, spendevano tutti i soldi che avevano guadagnato e che rimanevano, dopo le spese per la famiglia, perché tanto poi, chi sa se sarebbero tornati vivi dalle viscere della terra, l’ indomani tornando al lavoro. Per non parlare dei pescatori, che spesso parlavano dei dialetti propri, incomprensibili agli altri. Erano veramente tre mondi diversi l’uno dell’altro, ma accumunati da un’ unico destino; quello dell’estinzione. Questi popoli, scomparendo, hanno lasciato un deserto, ed è di questo che si parla nel mio film “Un sogno perso”, che poi è anche il mio sogno perso. Io vengo da un piccolo paese contadino… Per qualsiasi ragazzo del mio paese, Cefalù (la stessa Cefalù dove Consolo ha ambientato II sorriso dell’ignoto marinaio) era la civiltà, era il mondo. Sono andato a studiare a Cefalù dopo le scuole elementari, e quando uscivo per strada, spesso rimanevo sbalordito da questo nuovo mondo: i negozi, le ragazze in costume che si vedevano in estate, la cattedrale imponente, i palazzi signorili… Questo film mi ha aiutato a cercare un sogno che non esiste più. Un sogno che non potrà più ripetersi e qual è il modo migliore di cercare i sogni? Cercare nella letteratura; ecco perché Consolo, ecco perché Vittorini. Questi due episodi che i due grandi scrittori raccontano nei loro libri, mi sembravano fossero molto importanti perché in qualche modo erano degli episodi che seguivano in un arco di tempo (dalla fi ne della guerra fi no agli anni cinquanta), la delusione provocata dal fallimento delle lotte contadine. Vito Parlagreco che cerca di rifarsi una vita comprando questo pezzetto di terra pieno di pietre, perché erano delle vere e proprie pietraie le terre che una falsa riforma agraria dava ai contadini. Così come Vittorini in Le città del mondo ci racconta di quello che succede dopo. L’incomunicabilità tra padri e figli, la paura dei padri per l’ignoto e il desiderio dei figli di partire, di cancellare le orme dei padri. La rottura del Mito, l’inutilità della parola e della scrittura che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita di Vittorini, e la ricerca spasmodica, quasi maniacale che Consolo dedica alla scrittura, sono le due facce della stessa medaglia. Si può scrivere di un mondo che sta scomparendo? Si può scrivere con parole che per le generazioni future non avranno più alcun significato? Lo si può fare a condizione di guardare alla storia come fosse l’anima del popolo, a condizione di rinunciare a qualsiasi forma di verismo e di andare all’essenza; “Eschilo, è nato qui, in terra di Sicilia” fa dire Consolo a don Gregorio, l’imbroglione che leva a Parlagreco l’ultima vana illusione. Eschilo il grande tragico… Chissà attraverso quale associazione d’idee mi viene in mente Verga. Forse perché penso che Verga è anche lui un grande tragico. Vittorini non è stato un grande tragico, ma tendeva in qualche modo alla tragedia attraverso la costruzione del mito. Consolo cerca la tragedia attraverso la parola, attraverso questo altro modo di lavorare la parola, di alzare il livello della realtà alla metafisica, scavando le parole come un minatore. Io quando sento parlare di letteratura regionalistica provo un po’ fastidio perché penso che la letteratura siciliana non ha niente di regionale, è pura metafora. È un caso che parla di Sicilia, anche se senza Sicilia non potrebbe esistere. Come diceva Vittorini (in Conversazioni in Sicilia) “È per caso che questa storia si svolge in Sicilia”. Dunque la Sicilia —come diceva un altro grande: Leonardo Sciascia— è una metafora del mondo. Quindi è una bella miniera per uno scrittore, dalla quale poter estrarre i minerali che si sciolgono nella lingua, che tra l’altro è una lingua molto ricca (c’è dentro qualcosa della lingua araba, di quella greca, spagnola, francese, italiana). Una lingua profonda che ha radici, che si nutre della terra. Questo è un po’ l’origine di questo film. Dove non c’è solo un riferimento letterario, ma un processo che parte dalla letteratura e diventa altro – perché il cinema è altro – Un bisogno esistenziale, un tentativo di raccontare la desertificazione di un mondo, la scomparsa di un popolo che può tornare a vivere solo nel sogno. Perché senza questo sogno non c’è letteratura, ma non c’è neanche il cinema. Grazie.

La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


foto di Marino Ciardi

Forme della visione nel Sorriso dell’ignoto marinaio.


Giulio Ferroni Università La Sapienza

La lingua di Vincenzo Consolo sembra come scavare la realtà,
sfidandone la sostanza fisica, l’evidenza visiva, la materia pullulante
che la costituisce: e il capitolo iniziale de Il sorriso dell’ignoto
marinaio, subito dopo la sintesi dell’ Antefatto si muove subito
in due direzioni essenziali, verso l’apertura “geografica” e storica
su di vastissimo ambiente fisico e umano, con la visione della
Sicilia che il Mandralisca ha dalla nave che si avvicina, e verso la
presa in carico del dolore umano, con il «rantolo» del malato, il
cavatore di pomice di Lipari, che sorge dal buio della stessa nave.
È un vero e proprio “quadro”, in cui l’eco di quel lacerante dolore
sembra come sovrapporsi allo svelarsi e al progressivo definirsi
del paesaggio, che quella lingua a forte caratura “poetica” sembra
come voler catturare nella densità delle presenze che lo abitano:
con un’espressività che si addensa intorno alle cose, che mira a
rivelare il loro pulsare, il loro sofferto palpitare, la loro espansione
nella luce o nel buio, ma che non si risolve mai in liricità
pura, producendo movimento, procedendo anche verso atti e gesti
fulminanti (che spesso giungono improvvisamente a rilevarsi
e fissarsi nei finali dei capitoli, nelle clausole quasi lapidarie che
li serrano).
Il primo circostanziato segno visivo, dopo la più indefinita
rivelazione della «grande isola», è costituito dai «fani sulle torri
della costa», con i loro colori e l’incerto oscillare della loro luce
(«erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci
»). Dopo questa prima apertura l’attenzione ritorna all’interno
del bastimento, sembra come ritrarsi nel buio, nel fragore delle
acque e nel cigolio delle vele squassate dal vento che avevano segnato
il percorso notturno della nave e nel presente silenzio del
«mare placato e come torpido», lacerato dal «respiro penoso» e dal
«lieve lamento» del malato. Questo respiro suscita l’immagine del
corpo sofferente, dei «polmoni rigidi, contratti», delle contrazioni
della «canna del collo», della «bocca che s’indovinava spalancata»:
s’indovinava, appunto, perché questa visione di dolore è solo
intuita, non vista; quello che il Mandralisca vede è solo «un luccichio
bianco che forse poteva essere di occhi». Ma proprio a partire
da questo bianco che sinistramente viene a fendere il buio,
la visione viene ad allargarsi verso il cielo ed ancora verso i fani
sopra le torri, che ora definiscono più nettamente il loro aspetto
ed evocano i nomi dei feudatari:
“Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte,
i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i
lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangersi di
tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella,
del Lauro e Gioiosa, del Brolo…”.
La serie dei nomi fa sì che dall’ultimo appaia improvvisamente
uno squarcio di un passato, con l’immagine di una dama affacciata
sul «verone», ma in posa molto realistica, lontana da ogni stilizzazione
cortese: è Bianca de’ Lancia di Brolo, che ha in grembo
Manfredi, figlio di Federico II e che ha la nausea e i contorcimenti
della gravidanza («Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna
Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte»): è Federico
II, evocato in termini danteschi (il «vento di Soave», da Paradiso,
III) ad aver segnato le sue viscere, è il suo seme ad agire
nervosamente sul suo corpo («il vento di Soave la contorce»); e da
tutto si svolge la parola stessa dell’imperatore, con la citazione di
versi che si immaginano rivolti direttamente al falcone, strumento
essenziale della sua passione per la caccia. Ma ancora, dopo la
citazione, lo sguardo si apre sulla costa, verso le città sepolte, che
non ci sono più ma che sono vagheggiate dall’avidità conoscitiva,
dal gusto storico ed archeologico del barone:
“Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano
Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa… Città nelle
quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni,
fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una
moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente
vaghi, suoni, sogni”.
Ma questo pensiero alle città sepolte, all’improbabile ipotesi di
un loro ritorno alla luce, riconduce poi il Mandralisca alla certezza
della tavoletta «avvolta nella tela cerata» che stringe al petto e
in cui sente persistere gli odori della bottega dello speziale che
gliel’ha venduta. Ma poi questi odori sono sopraffatti da quelli
che ormai provengono da terra, come il buio è sopraffatto ormai
dalla luce («svanirono le stelle, i fani sulle torri impallidirono»):
e ciò porta finalmente alla visione del malato e della donna che
lo assiste e lo soccorre. Da questa visione scaturisce poi la voce
che designa il male dello sventurato; e solo dopo la voce si rivela
la figura dell’ignoto marinaio, col suo «strano sorriso sulle
labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro,
di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce
del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e
da un moto continuo di pietà». Il sorriso dell’ignoto marinaio è
insomma affidato soprattutto allo sguardo (di uno che molto sa
e molto ha visto); la descrizione si appunta sui suoi occhi («E gli
occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia»);
e anche se è vestito come un marinaio, a guardarlo si evidenzia
tutta la sua stranezza («in guardandolo, colui mostravasi uno strano
marinaio») e la forza penetrante della sua «vivace attenzione».
E dopo aver parlato dei cavatori di pomice di Lipari e delle loro
malattie, l’ignoto sorride, mentre il barone si chiede dove mai
l’aveva già visto e, sotto il suo sguardo, vede balenare dentro
di sé le immagini dei cavatori di pomice, del loro duro lavoro e
della loro sofferenza, sotto cui si nascondono ed emergono altre
immagini, quelle per lui consuete dei molluschi che studia e
colleziona e dei volumi degli studi ad essi dedicati, il tutto come
sottoposto ancora allo sguardo criticamente ironico del marinaio.
Si tratta di una formidabile serie di passaggi visivi, segnati da
questo sguardo che tocca il personaggio sconosciuto e che da lui
si svolge: passaggi che toccano le immagini che sorgono dentro
la coscienza stessa del barone e che, pur se solo interne a lui,
egli sente come scrutate e indagate dal marinaio, che gli sembra
addirittura leggere i titoli di quei libri, ironizzando sulla futilità di
quelle così minute ricerche:
Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione.
Quel sorriso sembra come suscitare il senso di colpa del ricco
intellettuale e amateur, per le sue così marginali predilezioni,
confrontate con la dura realtà dei cavatori di pomice. Ma a questo
punto si sentono i clamori e i rumori dell’ancoraggio, dell’arrivo
ad Olivèri, che fa sorgere un nuovo, vastissimo sguardo all’affollato
paesaggio che pullula sulla riva; sguardo che si svolge a partire
dalla luce che dal sole sorgente riceve la rocca in alto, per scendere
giù fino agli splendori mattutini della spiaggia, alle presenze
animali, alle barche immobili come relitti; distesa visione da cui
balenano ancora le immagini di un passato sepolto, del crollo
dell’antica città, dei «tesori dispersi» vagheggiati dal barone. E poi
ancora uno sguardo indietro, ad una scena del passato, ancora
ad una donna del medioevo, Adelasia (o Adelaide) di Monferrato,
la moglie giovanissima del sessantenne Ruggero I e fondatrice
di un convento a Patti, nei pressi di Tindari, la cui figura, fissata
nell’«alabastro» di un sarcofago, sembra aver atteso impassibile
la rovina del convento, e infine l’immagine del santuario della
madonna nera: «sopra la rocca, sull’orlo del precipizio, il piccolo
santuario custodiva la nigra Bizantina, la Vergine formosa chiusa
nel perfetto triangolo del manto splendente di granati, di perle,
d’acquemarine, l’impassibile Regina, la muta Sibilla, líbico èbano,
dall’unico gesto della mano che stringe il gambo dello scettro,
l’argento di tre gigli». Dopo la discussione col «criato» Sasà, la
spinta visiva si rivolge allo sciamare dei pellegrini che si affollano
per scendere dalla nave, alle offerte e agli ex-voto che essi portano
con sé: e tra di essi viene come centrata ancora la figura del
cavatore malato e della moglie che lo accompagna. Al barcone
che raccoglie i pellegrini che scendono dalla nave fa poi come
da pendant la «speronara» che porta via marmi antichi e piante
di agrumi e si allontana dalla riva, passando sotto il veliero da
dove la osserva il Mandralisca («ebbe modo così di osservare
a suo piacimento»); e infine, dopo la riflessione (appoggiata su
una citazione in corsivo da un testo del Landolina) si ritorna alla
visione dei pellegrini, che stanno salendo in processione verso il
santuario; dal loro canto si svolge improvvisamente quello osceno
di una ragazza che è nel barcone, tra i pellegrini scesi dal
veliero, fermata dalla madre che nella concitazione lascia cadere
in acqua una testa di cera.
La successione e i passaggi continui di dati visivi, intrecciati a
più riprese a dati sonori, vengono a creare, in questo avvio del
romanzo, una sorta di disteso movimento panoramico, in continui
passaggi tra campi lunghi e primi piani, formidabili zoomate
che procedono attraverso distensioni e concentrazioni della parola.
Lo sguardo di Consolo, quello del barone Mandralisca, quello
dell’ignoto marinaio (che, sappiamo è lo stesso della tavoletta di
Antonello e di Giovanni Interdonato), sono come animati da una
tensione a “vedere” che tocca le grandi distese dello spazio, la
vita che variamente si muove in esse, e mette a fuoco non solo
ciò che vi è direttamente visibile, ma anche il peso di quanto
esse hanno alle spalle, ciò che sono state, nel passato storico e
biologico: la visione coglie l’esistere che si distende, il suo carico
di presenze, di memorie, di suggestioni, l’agitazione che lo
sommuove, l’offerta che esso sembra fare di sé, l’ostinazione e la
volontà di vita che lo corrode, il suo stesso disperdersi e consumarsi
nell’aria.
Se si attraversa tutto il romanzo, emerge in piena evidenza
l’intreccio e l’essenzialità dei dati visivi, fissata del resto già nello
stesso riferimento del titolo alla tavola di Antonello. In questa
dominante della visività, è determinante la disposizione ad allargarne
i confini: il volto e il sorriso dell’individuo effigiato dal pittore
sono il punto di irradiazione di una apertura verso i grandi
spazi, verso una moltiplicazione delle presenze e delle evidenze.
Consolo “vede” la Sicilia come un grande corpo brulicante di
vita, esuberante, malsano, appassionato, lacerato, ne vuol rendere
conto come di una totalità; cerca di comprenderne il senso
afferrandone un’evidenza visiva che in ogni squarcio sembra
voler rivelare la densità, la fascinazione e la tremenda rovinosa
disgregazione del tutto, di un insieme di corpi che vi annaspano,
vi soffrono, vi si espandono, vi si mostrano.
La disposizione di Consolo a seguire l’evidenza degli slarghi
che si presentano all’occhio agisce del resto in modo vigoroso anche
nella sua scrittura saggistica, nei suoi larghi percorsi sul territorio
siciliano (in primis ne Le pietre di Pantalica). Qui nel Sorriso
un altro eccezionale squarcio d’insieme è quello su Cefalù, a cui
l’Interdonato si avvicina entrando in porto con il San Cristoforo,
all’inizio del capitolo secondo. Si comincia con la visione dell’affollarsi
di barche nel porto, salendo poi verso le case più vicine:
“Il San Cristoforo entrava dentro il porto mentre che ne uscivano
le barche, caicchi e, coi pescatori ai remi alle corde vele reti lampe
sego stoppa feccia, trafficanti, con voci e urla e con richiami,
dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata
di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati;
altra folla alle case saracene sopra il porto: finestrelle balconi
altane terrazzini tetti muriccioli bastioni archi, acuti e tondi, fori
che s’aprivano impensati, a caso, con tende panni robe tovaglie
moccichini sventolanti”.
Poi l’obiettivo si muove rapidamente al polo opposto, concentrandosi
sulla rocca lassù in alto e scendendo poi più lentamente
sulle torri del duomo, che addirittura sembrano generate dalla
rocca stessa:
“Sopra il subbuglio basso, il brulicame chiassoso dello sbarcatoio
e delle case, per contrasto, la calma maestosa della rocca,
pietra viva, rosa, con la polveriera, il tempio di Diana, le cisterne
e col castello in cima. E sopra la bassa fila delle case, contro
il fondale della rocca, si stagliavano le due torri possenti del
gran duomo, con cuspidi a piramidi, bifore e monofore, soffuse
anch’esse d’una luce rosa sì da parere dalla rocca generate,
create per distacco di tremuoto o lavorio sapiente e millenario
di buriane, venti, acque dolci di cielo e acque salse corrosive di
marosi”.
Si torna poi all’agitazione furiosa del porto per la pesca abbondante,
alla gara delle barche per piazzarsi «sul filo giusto dei sessanta
passi», allo sbattere delle imposte e ai bagliori del sole che
si distende poi su di un ampio spazio geografico, slargando verso
le località della costa, con un gioco di immagini (il palpitare «a
scaglie» della luce sulla costa) che riconduce dentro il duomo, ai
dorati mosaici del Pantocratore:
“Tanta agitazione era per le pesche abbondanti di quei giorni.
Si diceva di cantàri e cantàri di sarde sàuri sgombri anciove,
passata portentosa di pesce azzurro per quel mare che manco i
vecchi a memoria loro rammentavano.
E venne su la febbre, gara tra flotta e flotta, ciurma e ciurma,
corsa a chi arrivava primo a piazzarsi sul filo giusto dei sessanta
passi. E gara tra famiglie, guerra. Smesso lo sventolio dei
pannizzi, il vociare, si chiusero le imposte con dispetto. I vetri
saettarono bagliori pel sole in faccia, orizzontale, calante verso
la punta là, Santa Lucia, e verso Imera Solunto l’Aspra il Pellegrino”.
Quando più tardi l’Interdonato scende dalla nave, si para in
modo più diretto davanti a lui e al ragazzo che l’accompagna il
pulsare della «gran vita» della città, delle diverse figure umane,
con il loro muoversi affaccendato, su cui echeggiano i segni sonori
del lavoro di chi non si vede, che è intento all’opera nel buio
degli interni:
“Discesi che furono sullo sbarcatoio, passata la Porta a Mare,
imboccarono la strada detta Fiume. Giovanni era eccitato e divertito
per la gran vita che c’era in questa strada: carusi a frotte
correndo sbucavano da strada della Corte, da Porto Salvo, da
Vetrani, da vanelle, bagli e piani, su da fondaci interrati, giù da
scale che s’aprivano nei muri e finivano nel nulla, in alto, verso
il cielo; vecchi avanti agli usci intenti a riparare rizzelle e nasse;
donne arroganti, ceste enormi strapiene di robe gocciolanti in
equilibrio sopra la testa e le mani puntate contro i fianchi, che
tornavano dal fiume sotterraneo, il Cefalino, alla foce sotto le
case Pirajno e Martino, con vasche e basole per uso già da secoli
a bagno e lavatoio. Sui discorsi, le voci, le grida e le risate, dominavano
i colpi cadenzati sopra i cuoi dei martelli degli scarpari,
innumeri e invisibili dentro i catoi.
Il mercatante, come dal San Cristoforo allo spettacolo dello sbarcatoio,
guardava dappertutto estasiato e sorrideva”.
E una Cefalù distesa e panoramica ritorna ancora, più avanti,
nello studio del barone visitato dall’Interdonato, nella copia della
pianta della città del secentesco Passa fiume, «ingrandita e colorata,
eseguita su commissione del barone dal pittore Bevilacqua»:
“La citta era vista come dall’alto, dall’occhio di un uccello che
vi plani, murata tutt’attorno verso il mare con quattro bastioni
alle sue porte sormontati da bandiere sventolanti. Le piccole
case, uguali e fitte come pecore dentro lo stazzo formato dal
semicerchio delle mura verso il mare e dalla rocca dietro che
chiudeva, erano tagliate a blocchi ben squadrati dalla strada
Regale in trasversale e dalle strade verticali che dalle falde scendevano
sul mare. Dominavano il gregge delle case come grandi
pastori guardiani il Duomo e il Vescovado, l’Osterio Magno, la
Badia di Santa Caterina e il Convento dei Domenicani. Nel porto
fatto rizzo per il vento, si dondolavano galee feluche brigantini.
Sul cielo si spiegava a onde, come orifiamma o controfiocco,
un cartiglione, con sopra scritto CEPHALEDUM SICILIAE URBS
PLACENTISSIMA. E sopra il cartiglio lo stemma ovale, in cornice
a volute, tagliato per metà, in cui di sopra si vede re Ruggero
che offre al Salvatore la fabbrica del Duomo e nella mezzania di
sotto tre cefali lunghi disposti a stella che addentano al contempo
una pagnotta”.
La visione dello stemma con i tre cefali dà poi luogo ad un
vero e proprio corto circuito con una visione precedente, quella
di una «guastella» gettata in mare dal ragazzo che accompagna
l’Interdonato e rapidamente divorata da un branco di cefali; e da
qui sorge una riflessione “politica” su Cefalù, la Sicilia, la speranza
del superamento della feroce lotta per la vita e di un trionfo
dell’eguaglianza, della solidarietà, della ragione:
“L’Interdonato, alla vista dello stemma, si ricordò della guastella
buttata dentro l’acqua da Giovanni e subito morsicata dai cefali
del porto. La sua mente venne attraversata da lampi di pensieri,
figure, fantasie. Stemma di Cefalù e anche di Trinacria per via
delle tre code divergenti, ma stemma universale di questo globo
che si chiama Terra, simbolo di storia dalla nascita dell’uomo
fino a questi giorni: lotta per la pagnotta, guerra bestiale dove
il forte prevale e il debole soccombe… (Qu’est-ce-que la propriété?)
… Ma già è la vigilia del Grande Mutamento: tutti i cefali
si disporranno sullo stesso piano e la pagnotta la divideranno
in parti uguali, senza ammazzamenti, senza sopraffazioni animalesche.
E cefalo come Cefalù vuol dire testa; e testa significa
ragione, mente, uomo… Vuoi vedere che da questa terra?…”.
In un romanzo successivo come Nottetempo casa per casa si
aprono altri squarci eccezionali su Cefalù e dintorni, che sembrano
seguire un movimento che attraversa lo spazio casa per casa
e ne coglie l’effetto globale, la configurazione rivelatrice: affidandosi
in primo luogo alla forza evocativa dei nomi, alla precisione
dell’onomastica geografica e topografica, che viene come ad addensare
in sé la vita vibrante del mondo, le esistenze molteplici,
esuberanti e disperate, trionfanti e rapprese, le luci e le ombre
che lo abitano. Nello stesso romanzo il capitolo IV, La torre, apre
anche uno squarcio su Palermo, seguendo il percorso compiutovi
dal protagonista Petro, venuto a partecipare ad una manifestazione
socialista: ai nomi che fissano i dati urbanistici, architettonici,
storici, si mescolano i dati “moderni” delle insegne pubbliche e
della pubblicità e poi quelli delle scritte dei cartelli di un corteo
(mentre dal palco del comizio, su Piazza Politeama, si svolge un
nuovo slargo verso il paesaggio marino, riconosciuto nei suoi più
definiti dati geografici).
Lì, come nel Sorriso, e nelle stesse pagine che abbiamo citato,
i nomi costituiscono un strumento più determinante della resa
espressiva: nomi propri e nomi comuni, sostantivi rari e preziosi,
di forte sostanza letteraria o di rude carica realistica, nomi che
emergono da un passato ancestrale o nomi legati al più dimesso
fare quotidiano, nomi radicati nel fondo dell’esperienza popolare,
nelle pratiche artigiane o contadine o portati dall’invasione della
modernità, dalle sue spinte liberatrici o dai suoi miti più distruttivi
e perversi. L’elencazione seriale, che costituisce il dato stilistico
più diffuso e ben riconoscibile della scrittura di Consolo, agisce
soprattutto nell’ambito dei nomi, collegandosi talvolta a scatti
improvvisi della sintassi, tra inversioni e alterazioni ritmiche: il
linguaggio viene così forzato in una doppia direzione, sia costringendolo
ad immergersi verso un centro oscuro, verso l’intimità
delle cose e dell’esperienza, verso il fondo più resistente e cieco
della materia, il suo inarrivabile hic et nunc, sia allargandone
l’orizzonte, dilatandone i connotati nello spazio e nel tempo, portandolo
appunto a “vedere” la distesa più ampia dell’ambiente e a
farsi carico della sua stessa densità storica, di quanto resta in esso
di un lacerato passato e di faticoso proiettarsi verso il futuro.
Chiuso nella torre (il vecchio mulino avuto in lascito da don
Michele) a meditare sul dolore della propria famiglia (oltre la malattia
del padre, la disperata follia della sorella Lucia), il Petro di
Nottetempo si aggrappa alla forza delle parole, che sono prima di
tutto «nomi di cose vere, visibili, concrete», nomi che egli scandisce
come isolandoli nel loro rilievo primigenio e assoluto e da
cui ricava un impossibile sogno di un ritorno alle origini, di un
rinominare capace di trarre alla luce una realtà non ancora contaminata
dal dolore e dalla rovina. Nuovo inizio potrebbe essere
dato dalla trasparenza assoluta di nomi che designano una realtà
senza pieghe dolorose, in un nuovo flusso sereno della vita e del
tempo:
“E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete.
Scandì a voce alta: «Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo.
Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna.
Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno…» scandì come a
voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento
in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si
svolgeva serena, sereno il tempo” (IV, La torre).
Si noti qui come nell’elencazione, che la punteggiatura fissa
in una sorta di forma pura, i vari nomi si succedano a gruppi,
riferiti a diversi settori d’esperienza, secondo una progressione
che va dalla solidità elementare della terra al richiamo aereo del
volo e di uno spazio cosmico, fino alla colorata impalpabilità dell’arcobaleno.
Nel Sorriso, peraltro, nel capitolo sesto, rivolgendosi
all’Interdonato nel presentare la sua Memoria sui fatti d’Alcàra Li
Fusi, il Mandralisca rifletteva sulla lingua e sull’«impostura» della
scrittura e proiettava verso il futuro l’utopia di «parole nuove»,
vere anche per gli esclusi dal linguaggio colto, per coloro che
non hanno avuto ancora la possibilità di comprendere le parole
della moderna democrazia:
“E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità,
Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi,
pandette, costituzioni, noi, che quei valori abbiamo già conquisi
e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati
dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli
altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la
terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione,
questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle
parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno
quei valori, ed essi allora li chiameranno con parole
nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i
nomi saranno interamente riempiti dalle cose”.
Ma sappiamo (e ce lo mostrerà il Petro di Nottetempo) che forse
la piena solidarietà tra i nomi e le cose si dà solo nella fantasia
del ritorno alla loro origine, nell’utopia della letteratura, di quella
scrittura che certo tradisce la vita col suo dolore e con la sua
evidenza, ma che sola cerca di dirla e di “vederla”, più a fondo
possibile.


Irene Romera Pintor (coord.)
Editores: Generalidad Valenciana = Generalitat ValencianaConselleria de Cultura, Educació i Esport : Universidad de Valencia = Universitat de València
Año de publicación: 2007
Recoge los contenidos presentados a:Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1. 2006. Valencia).

    Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

    20 GIUGNO 2007
    TOPOGRAFIE LETTERARIE

    di Natale Tedesco

    Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

    In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore.Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo,La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

    Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

    In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

    Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

    Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

    Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

    L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

    Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

    Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di PantalicaFascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

    Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

    Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

    Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

    Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

    Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagementDi quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

    Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

    In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

    Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

    Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

    La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

    E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

    In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si gioca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

    20 giugno 2007

    Parliamo di Vincenzo Consolo

    di Natale Tedesco

    Laudatio per Vincenzo Consolo di Natale Tedesco in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia moderna (Palermo, Steri 20 giugno 2007)

    “Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura” di Natale Tedesco.
    Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

    In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

    Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

    In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

    Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

    Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

    Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

    L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

    Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

    Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

    Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

    Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

    Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

    Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

    Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

    Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

    In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

    Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

    Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

    La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

    E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

    In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

    Palermo 20 GIUGNO 2007
    Lo specchio di carta
    Osservatorio italiano sul romanzo contemporaneo

    nella foto Sergio Spadaro e Vincenzo Consolo

    Vincenzo Consolo, viene intervistato in occasione della mostra alle scuderie del Quirinale dedicata a Antonello Da Messina – 2006