Vincenzo Consolo come Verga

Nel 1893 Giovanni Verga lascia Milano, “stanco di anima e di corpo”, per ritornare nella sua Sicilia. A Milano aveva soggiornato per circa vent’anni, essendovi giunto nel novembre del 1872, ma se ne andrà alquanto deluso e risentito. In Sicilia Verga ritroverà i sedimenti profondi della sua memorialità e soprattutto la lingua delle origini; primordiale, robusta, incorrotta, da cui trarrà linfa vitale e sangue la sua fantasia e con cui darà forza, spessore, virulenza alle sue storie e alla sua poetica, come non gli era ancora accaduto. Questo generoso amalgama si rivelerà una felice epifania e lo trasformerà nel potente scrittore che conosciamo. Stilisticamente una vera e propria rivoluzione, pari a quella di altri giganti della letteratura europea del suo tempo. All’archetipo del ritorno degli scrittori siciliani moderni nella loro isola, Vincenzo Consolo dedica un breve capitolo “I ritorni” che chiude la sezione verghiana degli scritti compresi in Di qua dal faro. Ritorno nelle sue molteplici declinazioni, che non è solo tópos, mito, visionarietà, storia o civitas, ma soprattutto memoria e lingua; vale a dire, il corredo più acconcio e prezioso per uno scrittore. Ora è giunto il momento anche per lui, il momento del nóstos e del ricongiungimento, come lo fu per Verga più di un secolo fa; anche Consolo ripercorre a ritroso il suo cammino, di uomo prima che di scrittore, e da Milano dove era salito nel 1968 vivendovi e operandovi per oltre un quarantennio, inverte la rotta per riapprodare nella sua isola. “Torno nella mia terra. Voglio morire nella mia isola”‘ , confida in un’intervista al settimanale palermitano “a sud’ europa” (1) nel dicembre scorso. Ribadita all’età di 77 anni, Consolo è del 1933, questa volontà suona perentoria, asseverativa, ultimativa. Quando questo avverrà, si sarà compiuta la parabola naturale di un uomo e di uno scrittore che non ha mai scisso, per sua e nostra fortuna, il legame profondo, primigenio, ancestrale, con l’ónfalos, con la terra, con la mater, che è impasto di lingua, carne, affetti e visione. E su quell’isola, non dimentichiamolo, c’è sedimentato il respiro di Sciascia e di Lucio Piccolo, di Verga e di Lampedusa, di Antonello e di Pirandello con la fantasia del Caos, il profumo perduto del suo pino. E c’è il mare, cioè il mito dei miti.
Ritorna, Consolo, con lo stesso risentimento, con la stessa delusione di Verga. Delusione per le aspettative tradite di una città divenuta, secondo le sue stesse parole, “città centrale della menzogna” (2). E non possiamo fare a meno di andare con la mente alla Milano di Tangentopoli e al tradimento che ne è seguito: al leghismo bieco e reazionario, al berlusconismo disinvolto e immorale, alla deriva etica, al degrado civile, all’indegnità opportunista della cosiddetta società letteraria, sempre più stomachevole. Il ritorno di Consolo non è un ritorno alla fonte salvifica (come fu per Verga); egli non ne ha bisogno; non ha bisogno di purificare la sua lingua alle fonti primigenie perché di quella lingua Consolo è impastato. Della sua oralità e della sua sostanza. Non torna per arginare la crisi dell’artista, perché di quell’universo vitale, labirintico e fecondo non si è mai separato. E rimasto, pur vivendo fuori dalla sua isola, il più siciliano degli scrittori siciliani: come Sciascia, come Buttitta. E questa è stata la sua forza e la sua fortuna. Egli non ha dissipato, e, in linea con la grande lezione della tradizione, ha tenuto salde le radici per non “disperdersi”, come dice Giuseppe Bonura, “in un ambizioso quanto vacuo internazionalismo’, senza anima e senza storia. In sintesi: senza verità. Se, com’egli scrive, “la letteratura è essenzialmente scrittura, è espressione linguistica; è tempo, ritmo delle parole, eco poetica di suoni” (3), il plurilinguismo, la poeticità, il suono, e direi anche il colore stesso della parola, non possono prescindere dalle lingue madri. Nessuna lingua artificialmente ricostruita può eguagliarne la potenza espressionistica, la densità sapienziale, la ricchezza significante, l’umoralità, l’irriverenza iridescente, l’ironia sovversiva. E lingua madre significa una lingua talmente antica e così arcaicada aver sfidato il divenire; che ha saputo tener testa all’omologante egemonia, al livellamento sterile e banale del linguaggio, nato dalla società consumistica e della pervasività televisiva.
Quest’opera di resistenza ha operato il Consolo artista, il Consolo creativo, attento alla parola quant’altri mai, attratto come direbbe Bonura “dalla passione inappagata del senso primitivo della parola” (4), da quella “nostalgia dell’inizio, dell’origine, quando un vocabolo poteva illuminare una vita” (5). Questa nostalgia, questa “regressione strategica” (sono ancora concetti di Bonura), si ricollega a radici antichissime e dai risultati espressivi sorprendenti. Valga per tutti l’Aristofane delle Tesmoforiazuse e della sua guardia, che argomenta in un misto di siculo-calabrese divertentissimo, e che non ha perduto nulla, a distanza di tanti secoli, della sua vis comica e della sua efficacia. Non si dimentichi che questa regressione strategica ci ha dato un capolavoro come Il sorriso dell’ignoto marinaio, da un lato, e come contrappeso quella favola barocca e notturna che è Lunaria. Un discorso approfondito meriterebbe anche il Consolo intellettuale, il ricercatore erudito, il filologo, il cultore di storia e di tradizioni, il saggista. Il Consolo che invidia la scrittura geometrica, rigorosa, analitica di sodali come Sciascia, Pasolini o Moravia è in realtà altrettanto illuminista, analitico, ragionatore. Chi vuole la prova di quanto sto sostenendo, si vada a leggere le oltre 280 pagine che hanno dato vita ad un libro composito come Di qua dal faro. Tutti assieme ora, quei saggi, quelle conferenze, quegli articoli, quelle prefazioni, compongono il corpo unitario di un volume che io trovo, oltre che bellissimo, assolutamente necessario.

ANGELO GACCIONE

NOTE (1) “a sud’europa” anno 3° n. 45, Palermo 21 dicembre 2009, pag. 18. Intervista a cura di Concetto Prestifilippo. (2) Idem. (3) Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, 1999, cit. pag. 137, nel saggio “Verga fotografo” (4) LE LUCI DEL BAUHAUS – Linee/Voci, a cura di Angelo Gaccione, Gutenberg, 2001, pag. 7, “I labirinti della poesia”. (5) Idem.

Lunaria, una favola teatrale



Questa mia intervista a Vincenzo Consolo risale all’aprile 1985, poco dopo l’uscita di Lunaria presso Einaudi, ed è rimasta inedita salvo poche righe che citai in una recensione apparsa su “l’Unità” il 7 maggio.
Ho ritrovato fra le mie carte il manoscritto originale, nel quale Consolo aveva trascritto le mie domande e scritto le mie risposte. E’ un intervista interessante che tocca alcuni temi fondamentali di Consolo: la visione conflittuale della storia, la diversità come disvelamento, la commistione dei generi, la sperimentazione plurilinguistica, il discorso critico sul potere e sugli umili, e altro ancora.

D. La storia di questo libro: com’è nato, dall’ interno?
R.  Ho sentito sempre il bisogno, nello scrivere, di appoggiarmi a una salda, precisa trama storica. La storia è stata sempre il supporto di ogni narrazione. Lunaria è nato invece come da uno scarto, è qualcosa che dalla trama storica si stacca e plana sopra. Il potere è sempre una “vastasata”, una sconcezza, ma può esistere un viceré che, come in Lunaria, non crede nel potere, che, al di sotto dell’ottuso livello della solare vitalità, riesce a vedere più degli altri la realtà. Un viceré notturno e malinconico.  Un innocente. Come lo sono gli estranei, gli espulsi dai confini, gli esotici, i lunatici, i depressi, e i poeti. Esiste un viceré così? A me è piaciuto immaginarlo. Immaginare un uomo di potere estraneo ai ministri, agli inquisitori, ai nobili, agli ecclesiastici, estraneo alla moglie e ai parenti, ma che comunica col valletto delle Americhe e con i villani di una remota contrada senza nome.

D. Rispetto Al sorriso dell’ignoto marinaio come si colloca, anche dal punto di vista delle implicazioni politiche?
R. L’intento nel Sorriso era stabilire una verità storica contro le mistificazioni. Qui in Lunaria forse l’intento, al di là della storia, è quello di ricercare una verità umana oltre che culturale è poetica. Una fuga, un sogno? Forse. Ma la mongolfiera favola non vola liberamente tra le nuvole, è trattenuta alla terra da salde funicelle (storiche e culturali: si vedano in appendice al libro le Notizie). E anche il viceré alla fine riporta tutto alla realtà. Dice ai villani: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente. E anche voi avete recitato una felicità che non avete.” Un rito di “sortita”, come nel finale di tutte le favole, che alla luna ci riporta a terra.

D. Perché una favola teatrale? E come la vedi e come la vedi collocata in questo rimescolamento di generi?
R. Favola come un modo di narrare. E si adattava anche, il genere favolistico, al periodo storico e al fatto narrato. Teatrale come tentativo di uscire dal genere narrativo. Quella teatrale è una forma ellittica, sintetica, dove sono eliminate le parti descrittive, informative proprie della narrazione. E la forma sintetica mi permetteva quindi di sconfinare in quella poetica (forma dico, non sostanza).
Lunaria, ancora, mi ha permesso di proseguire il mio gioco linguistico, mimetico, parodistico; mi ha permesso di accentuarlo.

Gian Carlo Ferretti
7 maggio 1985
Microprovincia rivista culturale diretta da Franco Esposito
Gennaio – Dicembre 2010