Una inedita autobiografia letteraria e linguistica di Vincenzo Consolo che diventa lezione di critica

Una inedita autobiografia letteraria e linguistica di Vincenzo Consolo che diventa lezione di critica

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Abbiamo avuto il piacere di ospitare Vincenzo Consolo per una lezione nell’ambito del Laboratorio di Alice.it che organizzammo tra il 2003 e il 2004.
A lui – come agli altri scrittori che parteciparono – chiedemmo di raccontare semplicemente la propria esperienza di autore.
Fortunatamente abbiamo tenuto traccia di quegli interventi ed ora possiamo ricordare il grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, scomparso in questi giorni, con le sue stesse parole.
Un intervento che solo chi partecipò al seminario ha avuto modo di seguire, ma che oggi proponiamo a tutti perché ci sembra necessario, anzi, doveroso.

Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.

Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello.

Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano.

Per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza.

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Iniziamo dicendo che non ho mai creduto all’innocenza di chi intraprende una strada d’espressione, sia essa letteraria, musicale o pittorica; certo, ci sono stati i naïf, i cosiddetti nativi, ma sono casi rarissimi di felicità innocente. Io credo che quando s’intraprende un cammino espressivo bisogna essere consapevoli di quello che ci ha preceduto nel momento in cui abbiamo deciso di muovere i primi passi e di quello che si sta volgendo intorno a noi nel momento in cui ci accingiamo a scrivere. Questo è successo a me.

C’ERA UNA VOLTA…

Devo ora introdurre delle note autobiografiche: come sapete io sono nato in Sicilia – i miei hanno avuto questa sventura – e ho fatto i miei studi a Milano. Ho conosciuto la Milano degli anni ‘50, una Milano con le ferite della guerra ma pure con un’anima popolare, direi “portiana”, che ancora si conservava in quegli anni. Ho frequentato l’Università Cattolica non per convinzione religiosa, ma perché sono capitato lì per caso; e in quegli anni, in piazza Sant’Ambrogio, dinanzi all’Università, la sera vedevo arrivare in tram senza numero, migranti provenienti dal meridione: lì v’era un grosso casermone, un ex-convento del Settecento, nel quale da una parte vi era la caserma della celere e dall’altra un “Centro orientamento immigrati”. Questi tram provenienti dalla stazione Centrale scaricavano gli emigranti che venivano sottoposti a visite mediche ed erano poi avviati in Belgio, nelle miniere di carbone, in Svizzera o in Francia. Quelli che dovevano andare in Germania venivano smistati a Verona. Io, da studentello privilegiato, osservavo e non capivo cosa succedeva. Mi ricordo però che gli emigranti destinati alle miniere belghe di carbone, erano già equipaggiati con la mantellina cerata, il casco e la lanterna. Spesso erano miei conterranei che avevano lasciato le miniere di zolfo perché la crisi dello zolfo ne aveva causato la chiusura, e quindi dalle miniere di zolfo passavano a quelle di carbone.

LA VOCAZIONE ALLA SCRITTURA

In quegli anni avevo maturato l’idea di fare lo scrittore: pur frequentando la facoltà di giurisprudenza le mie letture erano di carattere letterario. Ero venuto a Milano perché era la città dove era stato Verga, e perché all’epoca c’erano Vittorini e Quasimodo. Inoltre, avevo il desiderio di incontrare Vittorini perché Conversazioni in Sicilia era stato per me una sorta di vangelo. Ma, insieme a Conversazioni in Sicilia, c’era stato tutto un bagaglio di letture di ordine storico-sociologico che mi aveva formato in quegli anni ed era tutta la letteratura meridionalista: le letture di Gramsci o Salvemini sulla questione meridionale, sino a Carlo Doglio, Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli o con Le parole sono pietre, e Sciascia.
Finita l’Università ho pensato di voler fare lo scrittore di tipo “testimoniale”, storico-sociologico sulla linea non di Vittorini ma di Carlo Levi, di Dolci, e del primo Sciascia. Tornato in Sicilia, dopo la laurea, mi sono rifiutato di fare professioni liberali come il notaio, l’avvocato o il magistrato, e ho insistito coi miei genitori per fare l’insegnante. Così ho insegnato diritto, educazione civica e cultura generale in scuole agrarie, nei paesi sperduti di montagna, perché era questo il mondo che volevo conoscere. In quegli anni poi continuavo, con la mia curiosità e la mia felice voracità di lettore. A quell’epoca non c’era la televisione e quindi il mondo lo si poteva conoscere solo attraverso i libri e la scrittura. Seguivo tutti i dibattiti culturali dell’epoca, quali l’esperienza vittoriniana della collana dei “Gettoni” dove poi sono usciti i maggiori scrittori dell’epoca come Bassani, lo stesso Sciascia, e tanti altri; e poi la rivista letteraria che dirigevano allora Vittorini e Calvino, “Il Menabò”. Inoltre, mi tenevo aggiornato su tutta la letteratura editoriale. Allora non v’era l’affollamento di libri che c’è oggi: i libri si potevano ancora memorizzare, si capiva l’importanza che potevano avere e si sapeva come collocarli.

IL PRIMO LIBRO, I TEMI

Quando mi accinsi a scrivere il mio primo libro, l’intenzione era appunto di restituire la realtà contadina in forma sociologica: l’idea iniziale era stata quella di mettermi sul coté “leviano”, di Sciascia, invece, poi, sia l’istinto, sia la consapevolezza, mi portarono in una direzione letteraria, narrativa nel senso più ampio della parola. Che tipo di narrativa ho scelto di praticare? Ho subito preso la decisione di praticare dei temi storico-sociali non assoluti, ma relativi, e questo mi permetteva di esprimere, attraverso la scrittura, quella che era la mia visione del mondo, una visione storico-sociale, non esistenziale.
Il problema principale era scrivere del mondo che conoscevo, che avevo praticato e di cui avevo memoria, ma con quale stile, con quale linguaggio, con quale tipo di scrittura? In quegli anni si esauriva la stagione letteraria del “Neorealismo”, di tutta quella letteratura del secondo dopoguerra di tipo memorialistico, che era una scrittura mobilissima ma assolutamente referenziale, comunicativa.
Gli scrittori che mi avevano preceduto di una generazione, scrittori autentici, grandi, come Moravia, Elsa Morante, Calvino, lo stesso Sciascia, Bassani e tanti altri, avevano vissuto il periodo del Fascismo e della guerra, e tuttavia avevano continuato a scrivere in uno stile assolutamente comunicativo, razionalista o illuminista che dir si voglia anche nel secondo dopoguerra.

IL PRIMO LIBRO, LA SCELTA DELLO STILE

Io però mi sono reso conto che non potevo scegliere quel registro stilistico, non potevo praticare quella lingua e cercherò di spiegarne le ragioni. Gli scrittori che mi avevano preceduto, avendo vissuto il periodo della guerra e del dopoguerra, avevano nutrito la speranza che, con l’avvento della democrazia, poteva nascere in questo paese una società più giusta, democratica, armonica, con la quale poter comunicare. Avevano come schema la Francia dell’Illuminismo e del Razionalismo, dove la società si era già formata all’epoca di Luigi XIV, e poi, con le istanze della rivoluzione, era giunta al riconoscimento di equità e giustizia nelle società civili. Ho chiamato il registro che avevano scelto quegli scrittori, il “registro della speranza”.
Quando sono nato come scrittore (pur avendo vissuto l’esperienza della guerra da bambino mi ero però formato nel secondo dopoguerra) mi sono reso conto che la speranza che essi avevano nutrito non esisteva più: nel ’47 v’erano state le prime elezioni in Sicilia con la vittoria del blocco del popolo: la sinistra aveva avuto la maggioranza assoluta in questa prima prova elettorale ma, dopo le intimidazioni succedutesi a tali elezioni, v’era stata la strage di Portella della Ginestra; poi le elezioni del ’48 con la vittoria della DC. E io mi rendevo conto, dal mio angolo di mondo, che quella società giusta, armonica, in cui si sperava, a cui si tendeva, non si era realizzata, ed erano rimaste disparità, ingiustizie, e molti problemi ereditati dal passato. Quindi per me, la scelta di una lingua, di uno stile comunicativo, era assolutamente impensabile, non potevo praticare quel codice linguistico che era il codice linguistico centrale, quel toscano che poi, valicando le Alpi, attingeva a una specie di reticolo illuministico francese: questa è la lingua di Calvino, di Sciascia o Moravia, anzi di Moravia si diceva che scriveva con una lingua che pareva tradotta da una lingua straniera, talmente era comunicativa: a lui interessava restituire gli argomenti più che dare attenzione allo stile, un po’ come Pirandello che aveva inventato un mondo inesplorato nel quale la lingua era assolutamente funzionale a quello che voleva comunicare. Pertanto la mia scelta andò in un senso opposto, cioè in un contro-codice linguistico che non fosse quello centrale e che fosse un codice di tipo sperimentale-espressivo.

Cerco di spiegare meglio cosa intendo con codice di tipo sperimentale-espressivo.
Naturalmente non avevo inventato niente, ma mi collocavo in una linea stilistica che partiva da Verga, e arrivava a Gadda, Pasolini, Mastronardi o Meneghello, a quegli sperimentatori o espressivi che dir si voglia: questa linea ha sempre convissuto nella letteratura italiana con la linea del codice centrale, toscano.
Ora, le tecniche degli sperimentatori-espressivi sono personali, variano da autore a autore, per esempio Verga s’era opposto all’utopia linguistica del Manzoni, perché Manzoni nella sua utopia riteneva che l’Italia, dopo la sua unità, dovesse avere una sua lingua unica. Così, dopo aver scritto Fermo e Lucia ha scritto I promessi sposi in questa lingua centrale toscana; in realtà, con la frase “sciacquare i panni in Arno” li aveva già portati umidi dalla Senna, essendosi formato anche lui con l’Illuminismo francese. Verga è stato dunque il primo che ha rivoluzionato l’assunto della centralità della lingua inventando una lingua che nella letteratura italiana non era mai esistita, un italiano che non era dialetto (Verga aborriva il dialetto): si trattava di una lingua appena tradotta dal siciliano all’italiano, quella che Dante, nel De vulgari eloquentia chiama “la lingua di primo grado”.
Pasolini invece definisce la lingua di Verga “un italiano irradiato di italianità”. Verga non avrebbe mai potuto rappresentare i contadini di Vizzini, i contadini siciliani oppure i pescatori di Aci Trezza e farli parlare in toscano, sarebbe stata per lui un’incongruenza, quindi scelse una lingua monocorde come i versetti di un corano, di un vangelo o una Bibbia, una lingua sacra, come i proverbi tramandati dalla sapienza e ripetuti dai personaggi, una lingua chiusa e circolare, sacralizzata, irradiata di dialettalità.

Dunque io mi inquadravo in questa grande ombra verghiana, che passava per gli scapigliati milanesi della prima rivoluzione industriale del 1872 e arrivava al polifonico Gadda e a Pasolini.
La tecnica di Pasolini e di Gadda era un po’ simili: loro partivano dal codice centrale, dalla lingua toscana e poi, man mano, regredivano verso le forme dialettali, con l’immissione, l’irruzione dei dialetti nella lingua scritta, nella lingua italiana. Tuttavia, mentre in Gadda v’è una polifonia di dialetti, soprattutto in quel capolavoro che è Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dove sono orchestrati oltre che al romanesco gli altri dialetti italiani, in Pasolini invece v’è la digressione verso il romanesco del sottoproletariato romano, con una discesa verso il romanesco.

Per quanto mi riguarda la tecnica che mi sono imposto è stata, scegliendo il codice espressivo-sperimentale, la tecnica dell’innesto, nel senso che mi sono trovato a disposizione un giacimento linguistico ricchissimo che era quello della mia terra, la Sicilia.
Ora, senza mitizzare o enfatizzare, in questa mia terribile terra, v’è una stratificazione linguistica enorme: oltre ai templi greci vi sono pure giacimenti linguistici che hanno lasciato le diverse civilizzazioni, a partire dalla Grecia, l’arabo o il latino, lo spagnolo, il francese. Quindi ho pensato che bisognava rimettere nel codice centrale questo glossario, queste forme sintattiche che erano state espunte dal codice centrale, e riprendere queste parole che avevano una loro dignità filologica, una loro storia, e inserirle nella scrittura, nel mio codice, nel mio modo di scrivere. Ma questo non per esigenze di tipo estetico, quanto piuttosto di tipo etico perché, un po’ come Verga, non potevo rappresentare la realtà della mia terra in senso metaforico: i miei libri si svolgono tutti in Sicilia, sarebbe stato difficile prescindere dal luogo della memoria, non potevo raccontare la storia della mia terra in una lingua centrale, in un toscano ideale, in una lingua utopica, antica. L’unico modo era rappresentarla attraverso le radici profonde provenienti dalla storia della Sicilia, che non era di tipo orizzontale ma era di tipo verticale, scavare dal profondo di questi giacimenti, un po’ come fare l’archeologo – io poi lo facevo da dilettante poiché non ero propriamente un filologo -, però mi piaceva molto e sentivo la necessità di usare questo tipo di ricerca, di scandagliare nella profondità della storia siciliana attraverso la lingua, attraverso le forme dialettali e di immetterle nella lingua. Non era un cammino dalla corruzione dell’italiano al dialetto, ma l’opposto, era la profondità di certi vocaboli, di certi modi di dire provenienti dall’antichità che veniva immessa nel codice centrale: il vocabolo greco, il vocabolo arabo, mi davano una pregnanza maggiore del vocabolo italiano, erano portatori di una storia più autentica e ubbidivano a un’esigenza di significato e di significante, cioè di suono, come dicono i linguisti, in quanto si accordavano, nell’organizzazione della frase, con l’armonia delle altre parole.

IL RITMO E LA FORMA

Ecco, la ricerca procedeva proprio in questo senso, mentre l’organizzazione della frase e della prosa, avanzava in senso ritmico, in senso prosodico.
Questo è un altro problema che cerco ora di spiegare. A partire dal primo libro, La ferita dell’Aprile, ho cercato di dare una scansione ritmica alla frase, cercando di accostare la prosa illuministica, la prosa comunicativa, in cui l’autore autorevole, tipo Manzoni, interrompe di tempo in tempo la narrazione, e poi riflette sulla storia che sta raccontando per dialogare con il lettore, per introdurre una riflessione e un ragionamento di tipo filosofico nella narrazione.
Nella Nascita della tragedia Nietzsche descrive il passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e Sofocle alla tragedia moderna di Euripide in cui v’è l’irruzione dello spirito socratico: i personaggi iniziano a riflettere, a ragionare e non più a cantare come avveniva nella tragedia antica, in cui l’anghelos, il messaggero, narrava l’antefatto al pubblico con un linguaggio comunicativo. Da quel momento iniziava la tragedia, i personaggi iniziavano ad agire, a parlare; seguiva la parte del coro che commentava la tragedia che si stava svolgendo. Nietzsche sostiene che nella tragedia antica v’è lo spirito dionisiaco, prevale lo spirito musicale, poetico, mentre nella tragedia moderna è lo spirito socratico ad avere la meglio, la filosofia e la riflessione. Ora, prendendo spunto dal discorso nietzschiano ho pensato che in questo nostro tempo, nella nostra civiltà di massa vittima dominata dalla rivoluzione tecnologica, l’anghelos non può più apparire sulla scena: il messaggero non può più usare il linguaggio della comunicazione con cui far iniziare la tragedia perché, mentre prima l’autore sapeva di parlare alla borghesia colta perché gli strati popolari erano ignoranti, ora non sa più a chi si rivolge. Pertanto ho creduto che bisognasse spostare la prosa verso la forma del coro e della poesia, dando alla prosa un ritmo di tipo poetico: ho eliminato la parte autorevole dell’autore e della riflessione, per cui la prosa si presenta come un poema narrativo, come quello che praticavano gli aedi omerici, i quali, quando narravano, dovevano eliminare tutte le scorie non musicali, non ritmiche, per ragioni mnemoniche. Ho spostato dunque la mia ricerca verso la forma poetica perché penso che la scrittura comunicativa non sia più praticabile, poiché credo che, in questo nostro contesto, in questo nostro mondo attuale, sia venuto meno il rapporto tra il testo letterario e il conteso “situazionale.

LA QUESTIONE LINGUISTICA

A questo punto vorrei fare un discorso sulla lingua italiana.
Nel De vulgari eloquentia Dante sostiene che esiste una lingua di primo grado che apprendiamo da bambini dalle persone a noi più vicine, genitori e parenti, e una lingua colta, quella che lui chiama la lingua grammaticale.
Ora, la ricchezza della lingua italiana è dovuta proprio alla confluenza di questi due livelli linguistici, lingua colta e lingua popolare. Il discorso sulla lingua ha impegnato molti scrittori italiani, da Dante a Castelvetro, a tantissimi altri sino a Leopardi che nello Zibaldone si sofferma moltissimo sulla questione della lingua istituendo un paragone tra francese e italiano: la lingua francese, al contrario di quella italiana, ha “perso l’infinito che aveva in sé”, è una lingua che per ragioni storiche e politiche si è “geometrizzata” o anche orizzontalizzata, perdendo quella profondità e quegli echi, quelle infinità che Leopardi riscontrava nella nostra lingua.
Dopo Leopardi e Manzoni, molti altri hanno riflettuto sulla questione linguistica, ma dobbiamo arrivare sino a Pasolini, il quale, scrive proprio nel momento della grande trasformazione italiana, della fine del mondo contadino e della nascita dell’Italia neocapitalistica: con l’inurbamento delle masse meridionali nel triangolo industriale e l’irruzione dei mezzi di comunicazione di massa il Paese subì un mutamento profondo sia dal punto di vista sociale che linguistico. Pasolini colse questa grande trasformazione e, nel 1964, pubblicò un saggio, intitolato Nuove questioni linguistiche in cui svolge un’attenta analisi della situazione linguistica dell’Italia degli anni Sessanta e parla di “sviluppo senza progresso”, di un peggioramento seguito al miracolo economico.

Pasolini sostiene inoltre che l’asse linguistico dal centro-meridione si era spostato verso il settentrione e la lingua italiana era diventata una lingua aziendale e tecnologica: tutti gli italiani parlavano finalmente la stessa lingua, quella dei mezzi di comunicazione di massa. Era la fine della lingua di primo grado di cui aveva parlato Dante a favore della lingua media.
Per la prima volta si era formata una lingua nazionale; se prima, come diceva Leopardi vi erano molte lingue, poi, col neocapitalismo e coll’esplosione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, si era formata una lingua italiana unica, orizzontale, che non era affatto la lingua geometrica e civile francese di cui aveva parlato Leopardi, ma era una lingua assolutamente irrigidita, orizzontalizzata, e impoverita in quanto priva di memoria, di qualsiasi retaggio culturale, sia di cultura alta, sia di cultura bassa.
Questa lingua aveva inorgoglito e fatto gioire scrittori come Umberto Eco e linguisti come Tullio De Mauro, però io credo che avesse ragione Pasolini nel sottolineare la grande perdita subita dal punto di vista linguistico. Dal saggio di Pasolini sono passati 40 anni ma pensate a cosa è avvenuto nella nostra lingua: leggendo i giornali o ascoltando gli speakers della televisione sentiamo che questa nostra lingua è divenuta una koinè fragile, indifesa, continuamente violentata, colonizzata dai gerghi tecnologici e invasa dall’americanismo. La nostra lingua italiana ha una matrice latina e non può diventare una lingua monosillabica perché noi abbiamo un’articolazione sintattica ricchissima che viene proprio dallo sviluppo della civiltà latina. Tuttavia, sebbene la nostra lingua sia fragile e parlata solo in Italia. assistiamo a un fenomeno curioso e molto incoraggiante: nelle Università americane v’è una richiesta di studio dell’italiano da parte degli studenti americani che cresce di anno in anno. Mentre la nostra lingua si impoverisce ed è invasa dall’americanismo, in America v’è un nemico interno, gli studenti che vogliono studiare l’italiano. Io credo queste società sviluppate, tecnologiche e mercantili sentano l’esigenza di praticare un mondo di umanità, di cultura, che loro forse hanno perso e, quindi, scelgono l’italiano come lingua di cultura.

I ROMANZI

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Lasciando questo lungo discorso sulla lingua, torno alla mia ricerca, sempre più accentuata negli anni in direzione della frase metrica, ritmica. Invece di fermare la narrazione e fare delle riflessioni di tipo filosofico, come ha teorizzato Kundera, io interrompo la narrazione per alzare il tono della scrittura in una forma ancora più alta, tra virgolette, e se possibile ancora più poetica, come se fosse il coro della tragedia greca a parlare: vi sono delle parti corali che fanno non da riflessione, ma da commento all’azione che sto raccontando, alle vicende che sto narrando.
Nel mio primo libro, La ferita dell’aprile (1973), in cui un io narrante-adolescente parla del secondo dopoguerra in Sicilia, della riorganizzazione della vita politica, della vita sociale, delle prime elezioni in Sicilia, del ’48 e altro, ho adottato questo stile, usando spesso, anche nell’organizzazione della frase, le rime e le assonanze in senso comico-sarcastico, in senso di parodia della società degli adulti.
Nel secondo romanzo, Il sorriso di un ignoto marinaio (1976) la situazione è quella di un rivoltoso che è costretto a scappare e a nascondersi perché inseguito dalle forze della repressione: “Si, bisogna scappare e nascondersi, bisogna attendere, attendere fermi….. è caduto su punte di cristallo”. Naturalmente c’è la memoria della storia di Pinelli, caduto o fatto suicidare… Il mio secondo libro è uscito a tredici anni di distanza dal primo: questo lasso di tempo ha coinciso con la mia seconda venuta a Milano, nel 1968. Mi ero reso conto che la mia attività di insegnante era assolutamente inutile e che il mio stare in Sicilia era divenuto insostenibile, invece Milano era una città interessante – anche se stentavo a riconoscerla – perché qui si svolgeva la storia più accesa, quella del ’68, con un grande dibattito culturale, politico, e sul piano pratico coi grandi conflitti tra il mondo del lavoro e quello del capitale, tra gli imprenditori e gli operai. All’epoca fui sollecitato anche dalla lettura dei “Menabò” di Vittorini e di Calvino che invitavano, in questo momento storico importante e acuto, i giovani autori ad inurbarsi, a studiare la grande trasformazione italiana e la realtà urbana perché il mondo contadino era finito: vi era un nuovo paese da narrare, da rappresentare.

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Così io mi trovavo a Milano nel ’68, e mi sono sentito spaesato e spiazzato di fronte ad una realtà urbana e industriale che non conoscevo, di cui non avevo memoria e per cui mi mancava il linguaggio. La stessa sorte era toccata a Verga, approdato a Milano nel 1872 al momento della prima rivoluzione industriale. Egli fece una grande rivoluzione stilistica, ma in direzione del capitalismo rurale e medievale del latifondo siciliano, rifiutando cioè il capitalismo progressivo della prima rivoluzione industriale. Anch’io rimasi spiazzato ma agii diversamente da Verga: per mia fortuna ho sempre creduto che la storia è fatta di momenti regressivi e di momenti progressivi, e che l’uomo, stando insieme – come dice Leopardi – “confederato con gli altri uomini” può correggere i mali dell’esistenza: siamo degli esseri finiti, fragili, e forse la letteratura come pure la religione nasce da questo senso di fragilità e di finitezza che avvertiamo, per questo abbiamo bisogno di scrivere, di pregare, di istanze spirituali. Io credo nella storia e credo che l’uomo possa intervenire nella storia, perciò non ho avuto il ripiegamento ideologico che ha avuto Verga, ho pensato che per rappresentare l’Italia e soprattutto la Milano di quegli anni, le grandi istanze, le richieste di mutamento di questa nostra società, dovessi assolutamente ripartire dalla mia terra, dalla Sicilia. Così ho scelto un topos storico, il 1860, poiché mi pareva un momento storico somigliante a quello del 1968: ho scritto un romanzo storico, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato al momento della venuta di Garibaldi in Sicilia e delle speranze che si erano accese negli strati contadini e popolari siciliani di un mutamento anche politico e sociale. C’era stata l’unità ma le condizioni degli strati popolari erano rimaste le stesse. Da qui la grande delusione e tutta quella letteratura di tipo sociale, la questione meridionalista trattata da Salvemini e Gramsci, ma pure la letteratura narrativa di riflessione sull’unità d’Italia, come ad esempio I Malavoglia e il Mastro don Gesualdo di Verga, I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, fino ad arrivare al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

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Il primo libro che ho scritto, in prima persona, era una sorta di libro di formazione, di iniziazione, di educazione sentimentale. Tuttavia credo che dopo il primo libro non si possa più praticare la prima persona, bisogna occuparsi del proprio progetto letterario, cercare la propria identità. Per questo, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ho concepito un ciclo di romanzi a sfondo storico, una trilogia: Notte tempo, casa per casa (1992) parla di un momento cruciale della storia italiana, gli anni Venti e la nascita del Fascismo, raccontato dall’angolazione di un piccolo paese della Sicilia, Cefalù: qui mi occupo della crisi delle ideologie che sono succedute al primo dopoguerra, dell’insorgere di nuove metafisiche, di istanze di tipo settario, delle sette religiose di segno bianco e nero; ultimo della trilogia, Lo spasimo di Palermo (1998), affronto la contemporaneità, gli anni Novanta in Sicilia, anche se con flashback che partono dal secondo dopoguerra e arrivano al 1992 con la strage di via D’Amelio e la morte del giudice Borsellino.
Sono seguiti altri libri collaterali, per esempio Retablo (1994) oppure L’olivo e l’olivastro (1994), in cui ho cercato sempre di praticare riflessioni sulla realtà. L’olivo e l’olivastro è un libro ambientato in Sicilia in cui non v’è finzione letteraria, si narra di un viaggio nella Sicilia degli anni ’80 e ’90 sullo schema del viaggio di ritorno di Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, o meglio, la ritrova ma non la riconosce perché è degradata, è devastata, soggiogata e dominata dai proci, gli uomini del potere politico mafioso, con tutti i disastri che ne sono susseguiti.

LETTERATURA COME MEMORIA

La letteratura è memoria.
Per opporsi alla cancellazione della memoria, che è il segno più eclatante della nostra epoca, è necessario praticare una scrittura che io chiamo “palinsestica”, a dire che noi scriviamo su altre scritture. Bisogna cercare di memorare, attraverso la nostra scrittura, quelle che sono le scritture precedenti, non attravreso citazioni banali ma facendo sentire l’eco del patrimoni memoriali che portiamo in noi, altrimenti rischiamo di diventare dei comunicatori televisivi.

A cura di Giulia Mozzato e Manola Lattanzi

25 gennaio 2012 Di Vincenzo Consolo

Consolo, la Sicilia come missione.

Cesare Segre “Diario civile”
A cura di Paolo Di Stefano



Mentre il primo romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile (1963) ebbe scarsa risonanza, fu invece una rivelazione Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto verso il 1969). Qualunque discorso sullo scrittore deve necessariamente partire da qui, perché quel libro, uscito a tanta distanza dal primo, rivela già luminosamente i problemi che Consolo continuerà a dibattere e approfondire e ridefinire, nella sua successiva attività.

Quello che subito venne avvertito (Paolo Milano) è che il libro è una specie di anti-Gattopardo: identico il quadro storico (la Sicilia al tempo della spedizione dei Mille), enorme, a prescindere dalla qualità delle due opere, il divario stilistico e la differenza nella prospettiva della narrazione. Perché se Tomasi di Lampedusa si attiene al rapporto tradizionale tra riferimenti storici, invenzione narrativa e scrittura, Consolo mostrò subito la sua diffidenza (che alla lontana risale al Manzoni) riguardo alla storia come razionalizzazione dei fatti. Ben esplicitando le sue riserve, ci offriva dunque, con il suo non-romanzo, materiali storici che sta a noi rimontare e, se possiamo, razionalizzare.

In pratica, Consolo alternava frammenti di testi storici e cronachistici alle parti d’invenzione, istituendo tra gli uni e le altre una dialettica, che poi si ripresenta, a un livello ideologicamente più alto, nel diverso e pur convergente impianto politico dell’azione dei due protagonisti, il barone Enrico di Mandralisca e il magistrato Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta bene i borghesi e gli aristocratici illuminati, quelli insomma dei moti carbonari; il secondo è un democratico di sinistra, che alla fine assolverà i responsabili dell’insurrezione contadina di Alcàra Li Fusi. I discorsi dell’uno e dell’altro espongono nel modo più efficace le due posizioni tra le quali oscillavano, all’epoca, le menti più consapevoli: la sanguinosa rivolta di Alcàra e la successiva spietata repressione saranno il principale oggetto del dibattito.

Ma la storia non ha solo la colpa di offrirci spiegazioni ingannevoli; essa è responsabile di accogliere la prospettiva dei vincitori, sacrificando, ancora una volta, quelli che non hanno nemmeno il diritto alla parola: i vinti, gli sfruttati, i miserabili. È appunto la prospettiva dei vincitori che farà assimilare (impropriamente) i piemontesi ai detronizzati borbonici. Quest’impostazione storiografica, diffusa negli anni in cui Consolo scrive il suo libro, sulla scia dei saggi di Benedetto Radice e di Salvatore Francesco Romano, produce un’altra serie di conseguenze nell’impianto del romanzo. Per «inventare» la voce di coloro che non hanno avuto voce, Consolo crea un plurilinguismo vivacemente espressionistico, che mette a contatto nobili frammenti latini e forme del siciliano o persino del dialetto galloromanzo di San Fratello (a pochi chilometri da Sant’Agata di Militello, patria di Consolo), canti popolari e barocchismi spagnoli. Da «archeologo della lingua», quale si definiva, ci fa attraversare verticalmente i principali strati della storia del siciliano e della Sicilia, magari grazie ai frammenti di una canzone di Federico ii.

Il collante di questo plurilinguismo non è concettuale, ma prosodico. La scrittura di Consolo si caratterizza infatti per il suo sottofondo di armonie verbali. Si può persino sostenere, e qualcuno l’ha sostenuto, che quanto lui scrive è senz’altro una prosa metrica, con i suoi nessi e le sue pause. La musica unifica dunque materiali così eterogenei. Consolo continuerà la serie di «romanzi storici» con Nottetempo, casa per casa (1992), evocazione, anche autobiografica, degli anni in cui le squadracce fasciste portarono la violenza a Cefalù, e con Lo spasimo di Palermo (1998), presa di coscienza del disastro operato dalla mafia, e celebrazione del Judex che dovrà restaurare la giustizia; mentre L’olivo e l’olivastro (1994) racconta un viaggio di ritorno, o di scoperta, in Sicilia, alla ricerca di una natura e di una cultura devastate dalla modernità. E sulla Sicilia della storia e della contemporaneità sono numerosi i saggi, e le raccolte di saggi, di Consolo: per esempio Le pietre di Pantalica (1988) o Di qua dal faro (2001). A parte vanno considerati i divertissements di argomento settecentesco, come Lunaria (1985) e Retablo (1987), che sono anche omaggi da una parte a Leopardi e a Lucio Piccolo, dall’altra all’Illuminismo milanese.

Con Vincenzo Consolo perdiamo uno scrittore eccezionalmente inventivo, capace di immergersi nella storia ma più ancora di giudicare il suo tempo. Sempre attento e acuto, mai in cattedra.

22 gennaio 2012 – Corriere della sera

“AMOR SACRO”CRONACA DI UN ROMANZO MAI NATO

di Sergio Buonadonna
Dopo dieci anni di silenzio Vincenzo Consolo torna al romanzo. Considerato l’erede di Vittorini e Sciascia, ma dai più accostato a Gadda per la sua scrittura espressiva, il grande narratore siciliano (78 anni, più di quaranta vissuti a Milano, “il luogo dell’emigrazione come fu per Verga”) si ripropone con una metafora storico-sociale e una scrittura palinsestica (cioè scrittura su altre scritture) come nella sua famosa trilogia: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” tema il Risorgimento, “Nottetempo casa per casa” (il fascismo), “Lo Spasimo di Palermo” (la contemporaneità fino alle stragi Falcone e Borsellino). Al grande ritorno sta accudendo da anni, ne è segno la fitta libreria d’epoca accumulata accanto al suo tavolo da lavoro che domina l’ampio studio carico di volumi, quadri e disegni tra cui quelli a lui carissimi di Guttuso e Pasolini. Racconta Consolo: “Il titolo di questo romanzo storico, lo dico con molto pudore, è Amor Sacro, è un processo d’Inquisizione di cui ho trovato i documenti all’Archivio di Madrid: una storia che si svolge in Sicilia. La vicenda riguarda un monaco e quindi Amor sacro direi che è appropriato. Ma non voglio aggiungere altro ché sarebbe impudico. Il secolo è la fine del Seicento, tempo, luogo e stagione di furori e misteri. Tuttavia non dico come Arbasino: sapesse signora mia la mia vita è un romanzo. I miei libri sono sempre storico-metaforici. Spero”. Si parla del passato per dire del presente? “Sans doute, come dicono i francesi. Senza dubbio”. Sicché – pubblicato questo libro tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – dovremmo vedere finalmente il Meridiano che raccoglierà la tua opera?“ Tutta l’opera completa, questo è l’accordo con Mondadori anche se devo chiarire che ho atteso a lungo perché il mio contratto iniziale era con Arnoldo Mondadori. Berlusconi è arrivato dopo e come si sa io non ho molto piacere di lavorare per il cavaliere. Ma rispetterò i patti. Nel Meridiano ci saranno anche i miei scritti giovanili. Giorni fa è venuto a trovarmi un professore dell’Università di Gerona, bravissimo, che sta curando tutti i miei racconti. Il primo risale al 1952”.È giusto definire un tuo libro romanzo o narrazione? Ne “Lo Spasimo di Palermo” appare infatti il tuo manifesto letterario quando avverti: ‘il romanzo è un genere scaduto, corrotto, impraticabile…’“Quando negli anni Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, ho visto cos’era accaduto nel nostro Paese soprattutto dal punto di vista linguistico, ma anche in campo letterario, politico, civile. C’era stata una forte mutazione, l’esodo dei contadini del sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé. La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata perciò il mio scrupolo è stato reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni, recuperare vocaboli immettendoli nel codice italiano. In Sicilia questi giacimenti linguistici significano greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno un dialettologo dell’Università di Catania mi chiese dove hai preso la parola “calasía” perché nei vocabolari siciliani non c’è? Gli risposi: viene dal greco kalós che vuol dire bello. Nella mia zona tra le province di Messina e Palermo, che è greco-bizantina si dice che calasía, che bellezza”. Insisto. Che cosa distingue il romanzo dalla narrazione? “È la distinzione che fa Walter Benjamin. Nella tragedia greca c’era l’anghelos, il messaggero che arrivava in scena, si rivolgeva al pubblico della cavea e narrava quello che era successo altrove in un altro momento. Oggi io dico che la cavea è vuota, non ci sono più i lettori. Quindi non sai a chi rivolgerti e perciò l’anghelos non appare in scena. Sono i lettori che scelgono l’autore”. Tu in Sicilia avevi scelto Lucio Piccolo e Sciascia. Come si collocano nella tua formazione? “Per me Piccolo e Sciascia erano due riferimenti fondamentali. Quando ho pubblicato “La ferita dell’aprile” l’ho mandato con una missiva a Leonardo Sciascia e lui mi ha risposto con una bellissima lettera invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta. È nato un rapporto di amicizia, quando ci incontravamo le nostre conversazioni sulla Sicilia erano davvero intense e avvincenti. Dall’altra parte c’era Lucio Piccolo, che era di Capo d’Orlando, stava nella villa in campagna con il fratello Casimiro, un esoterico, e la sorella Giovanna una botanica, Lucio poeta era cugino di Tomasi di Lampedusa col quale aveva un antagonismo incredibile. Quando andavo da Piccolo lui mi diceva salutami il caro Sciascia e quando andavo da Sciascia, Leonardo mi diceva salutami Piccolo. Poi ho fatto in modo di farli incontrare. Piccolo, che stava quasi sempre chiuso nella sua magione, quando arrivavano ospiti dava il meglio di sé. Era di una cultura infinita. Anni dopo Sciascia dichiarò che i due personaggi che più l’avevano colpito nella sua vita erano stati Borges e Lucio Piccolo. Poi è esploso il fenomeno del Gattopardo. In un’altra circostanza ho saputo che in un alberghetto di campagna vicino al mio paese c’era Salvatore Quasimodo con un’amica che presentava come figlia, sono andato a scovarlo e ho fatto in modo di accompagnarlo per fargli conoscere Lucio Piccolo, ma siccome questi era stato scoperto da Montale, acerrimo nemico di Quasimodo, allora il Nobel, uscendo dalla villa, mi fa: questo piccolo poeta”. Al nord stringi invece intensi rapporti con Pasolini e Calvino. Che cosa succede nella cultura italiana perché oggi sia così difficile trovare dei riferimenti che segnano veramente il tempo e la cultura? “Non voglio essere profeta di sventure ma credo che la letteratura italiana ormai sia al grado zero. Mi arrivano parecchi libri di esordienti. Leggo le prime pagine e rimango allibito dalla banalità della scrittura, delle storie, tutti che guardano il proprio ombelico, la propria infanzia, il papino, la mammina, le vicende personali, familiari, sessuali, non c’è uno sguardo nella storia nostra. La società è assente e ci si chiede ma ‘sta letteratura dov’è andata a finire? Negli anni Sessanta, dopo un’infelice esperienza alla Rai, che mi aveva cacciato perché mi ero rifiutato di mandare in onda un’autointervista su Cavour dell’allora direttore generale Italo De Feo (suocero di Emilio Fede), grazie a Calvino sono stato per più di dieci anni consulente della casa editrice Einaudi. Quando arrivavano i dattiloscritti, io dovevo essere il primo a leggerli, fare la relazione scritta e leggerla alla riunione del famoso mercoledì. Se io approvavo il libro, passava a Calvino. Quindi se lui l’approvava passava a Natalia Ginzburg per il giudizio conclusivo. Oggi basta andare alla televisione a sculettare o a fare il cantante, si scrive il romanzo e subito diventa best-seller. Questa è la letteratura italiana attuale”. La letteratura può far paura perché non è dominabile? “Senz’altro. La letteratura vera non è dominabile, se poi invece aspetti l’applauso e il successo sei dominabilissimo. Fai la volontà del padrone”. La Sicilia è sempre il cuore delle tue storie anche quando racconti il male di vivere, in certo modo l’inutilità di stare in Sicilia. “Diceva Verga che non ci si può mai allontanare dai luoghi della propria memoria. Lui l’ha fatto per parecchio tempo, i cosiddetti romanzi mondani quand’era a Milano, poi c’è stata la famosa conversione quando comincia il ciclo del verismo, ma anche Pirandello ha scritto che noi siamo i primi anni della nostra vita, cioè che quei segni sono incancellabili”. La distanza ti ha consentito una messa a fuoco migliore della realtà siciliana?“ Anche questo diceva Verga, e Capuana scriveva che la lontananza serviva a vedere più obiettivamente il luogo in cui si era nati e vissuti, il luogo della memoria”. E l’infinito presente del nostro tempo che cosa ci sta rubando? “Sia la memoria del passato che la visione di quel che può essere l’immediato futuro. Viviamo in questo infinito presente”.

La Sicilia è un’isola sequestrata

Vincenzo Consolo

«LA SICILIA è un’isola sequestrata: sotto il giogo del potere politico-mafioso che ha fatto strame del periodo eroico delle lotte contadine, dell’occupazione delle terre, dell’emigrazione e sotto quello della Regione, che tra favori, privilegi, assunzioni clientelari, stipendi d’oro, è qualcosa di vergognoso, indecente, incivile»: è rabbioso Vincenzo Consolo. I suoi 78 anni lo fanno sembrare più piccolo, stretto nelle spalle, ma forte nella voce, tra i suoi libri nello studio-rifugio di Milano, le carte con le quali sta attendendo al suo ritorno letterario atteso da dieci anni, e le incisioni e i disegni che gli sono cari: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Guttuso che illustrava la primissima edizione della sua opera più famosa, quella numerata fatta uscire da un illuminato bancarellaio siciliano emigrato anche lui, e “I due ragazzi” dedicatigli da Pasolini, compagno di idee negli anni della rivoluzione antropologica. Ma l’ira non sbolle. «Mi ha fatto sempre irritare la frase di Lampedusa: «Noi fummo leoni e gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli». Loro queste iene le conoscevano benissimo, erano i gabelloti che opprimevano i contadini, dove è nata poi la mafia e che portavano i frutti e i soldi nei loro palazzi di Palermo». Poi finalmente sorride: «Quando è uscito “L’ignoto marinaio” venne subito chiamato il Gattopardo di sinistra».

Tanto per capirsi, insomma.

Consolo, erede di Vittorini e Sciascia, non le mandaa dire. Come si sa nemmeno a Camilleri. Sferza: «Lui non si può toccare, è come Dante».

Lei è a Milano da oltre quarant’anni e c’era arrivato anche prima da studente universitario.

Da Sant’Agata di Militello con il treno del sole.

«Quand’ero studente abitavo in piazza Sant’Ambrogio nella pensione della signorina Colombo. Di fronte c’era il Centro orientamento immigrati. Vedevo arrivare i tram dalla stazione centrale che sbarcavano masse di immigrati – calabresi, siciliani – perché era finito il mondo contadino. Venivano sottoposti alle visite e smistati nei centri d’Europa. Quelli destinati in Belgio nelle miniere di carbone, li vedevo già equipaggiati con la mantellina, il casco e la lanterna. Alcuni sarebbero certamente poi morti nella tragedia di Marcinelle. Nella stessa piazza c’era la caserma della Celere, i poliziotti che andavano a reprimere gli scioperi con i manganelli.

E c’era l’Università Cattolica dove andavano a studiare i piccoli borghesi di tutta la provincia cattolica italiana, me compreso. Era la piazza dei destini incrociati».

Che ne è stato di questa sua patria immaginaria? «Si è dissolta. Perché la Milano che ho conosciuto – al contrario di Torino – era una città democratica, operaia, accogliente, non c’era razzismo, non c’erano i cartelli “Non si affitta ai meridionali”. Quando è apparsa all’orizzonte la famosa Lega, scrissi un duro articolo sul Corsera: avevo vissuto l’esperienza del Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile, quindi sapevo che era una forma di regressione culturalee politica. In Sicilia si era tramutato in mafia, in Lombardia cancellavano le scritte in italiano sostituendole in dialetto, ma da Giorgio Bocca a Maria Corti mi hanno dato tutti addosso. Poi dopo hanno capito. Per me Milano era la città dov’erano stati Verga e Vittorini, il luogo in cui io pensavo di emigrare. Ma non tutto è perduto, ora con Pisapia cheè una persona perbene, le cose possono cambiare. E ho fiducia anche per Napoli». Non per la Sicilia dunque? «La Sicilia è la metafora dell’Italia. Come diceva Ignazio Buttitta “a Sicilia puoitta a banniera “».

La sua scrittura è narrazione, come avverte ne “Lo Spasimo di Palermo” il suo manifesto: «il romanzo è genere scaduto, corrotto, impraticabile…»? «Quando agli inizi dei Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, avevo già visto cos’era accaduto nel Paese soprattutto dal punto di vista linguistico. Leggevo molto,i miei viaggi eranoa Palermo da Flaccovioea Messina da D’Anna per recuperare libri che a Sant’Agata non c’erano. Sapevo cosa accadeva in campo letterario, politico, civile: la mutazione che c’era stata, l’esodo dei contadini del Sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé.

La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata e quindi il mio scrupolo scrivendo è stato quello di reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni.

Nell’Isola questi giacimenti contengono greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno mi ha telefonato un dialettologo dell’Università di Catania e mi ha chiesto dove avessi preso la parola “calasìa” che nei vocabolari siciliani non esiste? Gli ho risposto: è semplice, viene dal greco kalòs che vuol dire bello, Calasìa significa bellezza come si dice nella mia zona che è greco-bizantina». Ed è questa la Sicilia che si porta dentro? «È la Sicilia della mia memoria con i suoi segni indelebili».

Cosa la unisce a Guttuso per il cui centenario ha scritto un breve saggio su Kalós? «Il realismo estremo, l’occhio, che era anche quello di Ignazio Buttitta, privo di qualsiasi velo di illusione, emblema di una realtà oggettiva forte come erano forti loro entrambi di Bagheria. A Bagheria ci sono le ville con le mura, i nobili dentro le ville,e quelli fuori dalla villa. Guttuso e Buttitta erano fuori dalla villa come lo è oggi Tornatore.

Dentro le ville non si è espresso niente se non i mostri, fuori la realtà di questa Sicilia fatta di eroi prigionieri come Falcone e Borsellino».

SERGIO BUONADONNA

Lampedusa

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Lampedusa, Lepidusa, isola pietrosa, aspra, dove, ci racconta l’Ariosto nel suo grande poema Orlando Furioso, si conclude la guerra tra cristiani e infedeli con lo scontro dei “tre contro tre”. Ma altri scontri, sappiamo, avvengono oggi in Lampedusa, di poveri migranti che li affrontano, migranti che non sono morti come migliaia d’altri, inghiottiti dalle acque del Canale di Sicilia. Migranti approdati fortunosamente a Lampedusa contro i quali si scontra il nostro feroce egoismo di italiani, di europei ben pasciuti, sazi. Egoismo quando non è xenofobia, razzismo. Ma siamo stati noi per primi, noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e ad approdare nel Maghreb, in Tunisia. Nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani e lì si sono impegnati, facendo i pescatori, i contadini, o gli operai nelle miniere di Sfax. La storia del mondo è storia di emigrazione da un paese all’altro, da un continente all’altro. Più di venti milioni di italiani sono emigrati  nei vari paesi del mondo negli anni passati. Ma, rimanendo nel Mediterraneo, vogliamo qui riportare quel che ha scritto Fernand Braudel in Civiltà ed imperi nel Mediterrano nell’età di Filippo II: “Su tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ ”.
Sant’Agata di Militello, 10 maggio 2011
Vincenzo Consolo

Guttuso. Pittura e letteratura (di Vincenzo Consolo)

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Renato Guttuso, La notte di Gibellina

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, ’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta. Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione  – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione. Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi un velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagheria, si trovo a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ‘30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà di ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano, avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti. Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello, sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano. La fuga dell’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix. Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Gòngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificabile, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati [..] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee..” scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “io ero quell’inverno in preda ad astratti furori..” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato deLa zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dell’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.
L’articolo è stato pubblicato con il titolo L’enorme realtà in “asud’europa”, Anno V, n.5, 14 febbraio 2011 – rivista del Centro Studi Pio La Torre

Pubblicato da Salvatore Lo Leggio

Trivelle e cemento, Sicilia da basso impero

TRIVELLE  E CEMENTO, SICILIA DA BASSO IMPERO

pubblicato il 3.11.2010  IL MANIFEST0

 

“E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo, ma per nascente solfo,…”

(Dante, Paradiso,VIII)

 

Non più, non più “caliga” la Sicilia per i vapori di zolfo, ché negli anni Sessanta del Novecento si sono chiuse tutte le zolfare, ma caliga oggi l’Isola e potrà ancor più essere asfissiata da mefitici, micidiali vapori domani per i progetti di trivellazioni di pozzi petrolifici nel Val di Noto. Val di Noto o Contea di Modica, la parte della Sicilia orientale che il torrente Salso divide dalla Sicilia occidentale. Questo Vallo, dominato dai Normanni e quindi dagli Aragonesi non era contrassegnato dall’arcaico sistema feudale del latifondo come nella parte Occidentale, nel cui contesto, con i gabelloti, i soprastanti e campieri è nata la mafia. Ma vi era la divisione della terra, della piccola proprietà contadina. L’economista Paolo Balsamo compie nel 1808 un viaggio nel Val di Noto o Contea di Modica e annota, sulla esistenza della piccola proprietà contadina: “Questa sorta di equità sociale nella Contea era forse dovuta ai normanni Chiaramonte e quindi all’aragonese ribelle Bernardo Cabrera, i quali non avevano instaurato lo stesso arcaico sistema feudale del latifondo, come nell’occidente siciliano…”. Ebbene in questa Val di noto o Contea di Modica ora il colosso Texano del petrolio Panther Oil (un nome, un programma!) vuole qui trivellare per cercare petrolio. Nel 2004, sotto il governo regionale di Totò Cuffaro( Totò vasa vasa), la Panther ottiene le autorizzazioni per trivellare. Trivellare là, nella patria del barocco in un territorio tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Ma a Totò bastavano due cannoli e concedeva tutto. Non solo trivelle in terra, ma anche piattaforme in mare come quella già esistente al largo di Pozzallo. Una storia, quella delle trivellazioni in Val di Noto, che sembrava chiusa, ma che una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa(Cga) riapre dando via libera alle trivellazioni. Manifestazioni nei paesi del Val di Noto ci sono state, nel paese di Vittoria soprattutto, appelli di intellettuali. E la questione è aperta. Trivellazioni, petrolio da una parte, cemento da un altra parte.

Cemento a Siracusa, nelle antiche Siracuse. Siracusa la greca, la Pentapoli, con i suoi straordinari siti archeologici, i suoi templi, i suoi teatri, le sue latomie. Siracusa, patrimonio dell’umanità, rischia oggi di essere coperta da una coltre, da un sudario di cemento. Già in anni passati la nobile città aveva avuto il suo primo oltraggio. A pochi chilometri dalla città, tra Priolo e Melilli era sorto il petrolchimico dell’ENI che  con i suoi velenosi miasmi ha provocato un disastro ambientale. Chi lavora e abita in quei luoghi si ammala di cancro; lì nascono bambini malformati.

E oggi il disastro minaccia proprio Siracusa, una città che per la sua profondità storica e per la sua bellezza dovrebbe essere inviolabile e invece sono in programma progetti devastanti. Sul porto grande della città, il porto dell’isola di Ortigia, dove abita la nostra cara ministra dell’ambiente Prestigiacomo, l’Ortigia che ha di fronte i monti Iblei e la penisola del Plemmirio, su questo porto sono in programma due progetti, due approdi di cemento che coprano l’acqua del mare. Il primo, già in costruzione è approvato nel 2007 da Regione, Comune, Genio Civile, Capitaneria di Porto. 50.000 mq di superficie vengono sottratti al mare e sulla superficie di cemento sono previste costruzioni di uffici, negozi, ristoranti, hotel, centri benessere, eliporto…e ancora nella penisola del Plemmirio sono previste costruzioni di ville; nel castello di Urialo, fra le torri e le mura antiche, sequele di casette a schiera. Siamo allo scempio, all’oltraggio. Il secondo porto in progetto dentro il Porto Grande, con il suo cemento dovrebbe coprire ancora 50.000 mq di mare. Ma chi li ferma, chi ferma questi cementificatori?

Si, si sono formati dei comitati per scongiurare il pericolo di devastazione: attorno al siracusano Enzo Maiorca, il campione d’immersione in apnea; si sono fatti esposti all’Unesco; si muove Italia-Nostra di Siracusa; si è creato il movimento SOS Siracusa. Si riuscirà a fermare la colata di cemento sopra la luminosa Siracusa?

Conoscendo le amministrazioni, comunali, regionali e nazionali italiche, da vergognoso basso impero, diffidiamo.

E tuttavia speriamo. Se no, dobbiamo solo recitare i versi di Ungaretti:

Calava a Siracusa senza luna

La notte e l’acqua plumbea

E ferma nel suo fosso appariva,

Soli andavamo dentro la rovina…

Si, dentro la rovina del cemento!

Vincenzo Consolo

2/11/2010

TRIVELLE  E CEMENTO, SICILIA DA BASSO IMPERO                                   

 

 

“E la bella Trinacria, che caliga

tra Pachino e Peloro, sopra ‘l golfo

che riceve da Euro maggior briga,

non per Tifeo, ma per nascente solfo,…”

(Dante, Paradiso,VIII)

 

Non più, non più “caliga” la Sicilia per i vapori di zolfo, ché negli anni Sessanta del Novecento si sono chiuse tutte le zolfare, ma caliga oggi l’Isola e potrà ancor più essere asfissiata da mefitici, micidiali vapori domani per i progetti di trivellazioni di pozzi petrolifici nel Val di Noto. Val di Noto o Contea di Modica, la parte della Sicilia orientale che il torrente Salso divide dalla Sicilia occidentale. Questo Vallo, dominato dai Normanni e quindi dagli Aragonesi non era contrassegnato dall’arcaico sistema feudale del latifondo come nella parte Occidentale, nel cui contesto, con i gabelloti, i soprastanti e campieri è nata la mafia. Ma vi era la divisione della terra, della piccola proprietà contadina. L’economista Paolo Balsamo compie nel 1808 un viaggio nel Val di Noto o Contea di Modica e annota, sulla esistenza della piccola proprietà contadina: “Questa sorta di equità sociale nella Contea era forse dovuta ai normanni Chiaramonte e quindi all’aragonese ribelle Bernardo Cabrera, i quali non avevano instaurato lo stesso arcaico sistema feudale del latifondo, come nell’occidente siciliano…”. Ebbene in questa Val di noto o Contea di Modica ora il colosso Texano del petrolio Panther Oil (un nome, un programma!) vuole qui trivellare per cercare petrolio. Nel 2004, sotto il governo regionale di Totò Cuffaro( Totò vasa vasa), la Panther ottiene le autorizzazioni per trivellare. Trivellare là, nella patria del barocco in un territorio tutelato dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Ma a Totò bastavano due cannoli e concedeva tutto. Non solo trivelle in terra, ma anche piattaforme in mare come quella già esistente al largo di Pozzallo. Una storia, quella delle trivellazioni in Val di Noto, che sembrava chiusa, ma che una sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa(Cga) riapre dando via libera alle trivellazioni. Manifestazioni nei paesi del Val di Noto ci sono state, nel paese di Vittoria soprattutto, appelli di intellettuali. E la questione è aperta. Trivellazioni, petrolio da una parte, cemento da un altra parte.

Cemento a Siracusa, nelle antiche Siracuse. Siracusa la greca, la Pentapoli, con i suoi straordinari siti archeologici, i suoi templi, i suoi teatri, le sue latomie. Siracusa, patrimonio dell’umanità, rischia oggi di essere coperta da una coltre, da un sudario di cemento. Già in anni passati la nobile città aveva avuto il suo primo oltraggio. A pochi chilometri dalla città, tra Priolo e Melilli era sorto il petrolchimico dell’ENI che  con i suoi velenosi miasmi ha provocato un disastro ambientale. Chi lavora e abita in quei luoghi si ammala di cancro; lì nascono bambini malformati.

E oggi il disastro minaccia proprio Siracusa, una città che per la sua profondità storica e per la sua bellezza dovrebbe essere inviolabile e invece sono in programma progetti devastanti. Sul porto grande della città, il porto dell’isola di Ortigia, dove abita la nostra cara ministra dell’ambiente Prestigiacomo, l’Ortigia che ha di fronte i monti Iblei e la penisola del Plemmirio, su questo porto sono in programma due progetti, due approdi di cemento che coprano l’acqua del mare. Il primo, già in costruzione è approvato nel 2007 da Regione, Comune, Genio Civile, Capitaneria di Porto. 50.000 mq di superficie vengono sottratti al mare e sulla superficie di cemento sono previste costruzioni di uffici, negozi, ristoranti, hotel, centri benessere, eliporto…e ancora nella penisola del Plemmirio sono previste costruzioni di ville; nel castello di Urialo, fra le torri e le mura antiche, sequele di casette a schiera. Siamo allo scempio, all’oltraggio. Il secondo porto in progetto dentro il Porto Grande, con il suo cemento dovrebbe coprire ancora 50.000 mq di mare. Ma chi li ferma, chi ferma questi cementificatoriu?

Si, si sono formati dei comitati per scongiurare il pericolo di devastazione: attorno al siracusano Enzo Maiorca, il campione d’immersione in apnea; si sono fatti esposti all’Unesco; si muove Italia-Nostra di Siracusa; si è creato il movimento SOS Siracusa. Si riuscirà a fermare la colata di cemento sopra la luminosa Siracusa?

Conoscendo le amministrazioni, comunali, regionali e nazionali italiche, da vergognoso basso impero, diffidiamo.

E tuttavia speriamo. Se no, dobbiamo solo recitare i versi di Ungaretti:

Calava a Siracusa senza luna

La notte e l’acqua plumbea

E ferma nel suo fosso appariva,

Soli andavamo dentro la rovina…

Si, dentro la rovina del cemento!

Vincenzo Consolo

2/11/2010

pubblicato il 3.11.2010  IL MANIFEST0

Poeti di Sicilia

                           POETI DI SICILIA

         per Tommaso Di Francesco del Manifesto 23/09/2010

“Cu voli puisia venga ‘n Sicilia” ha cantato il poeta dialettale Ignazio  Buttitta. Sì, tutti poeti  noi siciliani; da sempre, e in quei saloni di Palazzo dei Normanni in cui attorno allo Stupor mundi, a Federico II, nacque la Scuola poetica siciliana, si muovono oggi i nuovi poeti, gli assessori della nuova giunta di Raffaele Lombardo. Lombardo quater, è stata chiamata la  nuova giunta, ma con questi poeti si potrebbe arrivare anche al Lombardo octies. Fatto fuori dal catanese Lombardo, il gran poeta agrigentino Totò Cuffaro (sette anni di condanna per associazione mafiosa), il quale, eroico, si è ritirato come un Cincinnato nella sua tenuta agricola di Piazza Armerina, dove comporrà sicuramente le sue Bucoliche, così come ha fatto Provenzano nel suo rifugio montano scrivendo poetici “pizzini”. E questi nuovi poeti lombardiani quaterni si abbracciano fraternamente fra loro (vietato il vasa-vasa) pur provenendo da patrie diverse (Pd, Fli, Mpa, Api, Udc) o diverse dimore (Giosué Marino, Massimo Russo, Mario Centorino…).

Prosatori, ma soprattutto cantanti, in opposizione ai poeti palermitani, si sono mossi nei giorni scorsi a Taormina: il presidente Berlusconi e i suoi seguaci, e il fascista duro e puro antifiniano Storace. È un peccato che questi due cantanti si siano esibiti in un luogo chiuso. Potevano andare al magnifico teatro greco di Taormina e il Berlusca, là sulla scena, avrebbe potuto cantare con Apicella. Storace invece avrebbe potuto intonare “…e per Benito Mussolini eia eia alalà”. E ha ragione a cantare quella canzone, in memoria anche di Junio Valerio Borghese che, dissoltasi la Repubblica di Salò, si rifugia in Sicilia con i suoi camerati e partecipa insieme ai mafiosi,  ai banditi di Giuliano e agli indipendentisti di Finocchiaro Aprile alla strage di Portella della Ginestra  (1° maggio 1947). Eia, eia Storace, eia eia Berlusca.

E Gianfrancuccio, il Micciché, l’amico stretto di Dell’Utri? Va beh, anche lui, Gianfranco, è un finissimo bibliofilo, ma non è poeta e non canta. Però parla, e con voce dura. Lui è sempre fedelissimo di Berlusca, e, in appoggio al Capo vuole fondare il Partito del Sud, come la Lega di Bossi. Ma i leghisti non permetteranno mai questo.

“Una liga terruna? Scherzamm?” E allora scendono dalla Padania Bossi, Borghezio, Calderoli, il Trota, con il loro seguito, tutti con un libro di Lombroso sotto il braccio, sbarcano a Marsala, si scontrano a Calatafimi con i leghisti di Micciché. Scontro durissimo, con graffi e bozzi per tutti. Ma, avvertito, il Cavaliere, piomba in Sicilia, in groppa a un cavallo fornitogli da un famoso stalliere si porta al galoppo a Calatafimi e mette subito la pace fra le due leghe. In memoria, là sul posto, in un luogo chiamato Pianto Romano, fa erigere un monumento, con la sua statua al centro e, ai lati, le statue di Bossi e di Micciché e la scritta latina sul piedistallo dettata da Dell’Utri “Pax pro nostro bono majore”.

“Cu voli puisia venga ‘n Sicilia”.

                                    Vincenzo Consolo

 

 

 

 

Milano 22.9.2010