La Sicilia è un’isola sequestrata

Vincenzo Consolo

«LA SICILIA è un’isola sequestrata: sotto il giogo del potere politico-mafioso che ha fatto strame del periodo eroico delle lotte contadine, dell’occupazione delle terre, dell’emigrazione e sotto quello della Regione, che tra favori, privilegi, assunzioni clientelari, stipendi d’oro, è qualcosa di vergognoso, indecente, incivile»: è rabbioso Vincenzo Consolo. I suoi 78 anni lo fanno sembrare più piccolo, stretto nelle spalle, ma forte nella voce, tra i suoi libri nello studio-rifugio di Milano, le carte con le quali sta attendendo al suo ritorno letterario atteso da dieci anni, e le incisioni e i disegni che gli sono cari: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Guttuso che illustrava la primissima edizione della sua opera più famosa, quella numerata fatta uscire da un illuminato bancarellaio siciliano emigrato anche lui, e “I due ragazzi” dedicatigli da Pasolini, compagno di idee negli anni della rivoluzione antropologica. Ma l’ira non sbolle. «Mi ha fatto sempre irritare la frase di Lampedusa: «Noi fummo leoni e gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli». Loro queste iene le conoscevano benissimo, erano i gabelloti che opprimevano i contadini, dove è nata poi la mafia e che portavano i frutti e i soldi nei loro palazzi di Palermo». Poi finalmente sorride: «Quando è uscito “L’ignoto marinaio” venne subito chiamato il Gattopardo di sinistra».

Tanto per capirsi, insomma.

Consolo, erede di Vittorini e Sciascia, non le mandaa dire. Come si sa nemmeno a Camilleri. Sferza: «Lui non si può toccare, è come Dante».

Lei è a Milano da oltre quarant’anni e c’era arrivato anche prima da studente universitario.

Da Sant’Agata di Militello con il treno del sole.

«Quand’ero studente abitavo in piazza Sant’Ambrogio nella pensione della signorina Colombo. Di fronte c’era il Centro orientamento immigrati. Vedevo arrivare i tram dalla stazione centrale che sbarcavano masse di immigrati – calabresi, siciliani – perché era finito il mondo contadino. Venivano sottoposti alle visite e smistati nei centri d’Europa. Quelli destinati in Belgio nelle miniere di carbone, li vedevo già equipaggiati con la mantellina, il casco e la lanterna. Alcuni sarebbero certamente poi morti nella tragedia di Marcinelle. Nella stessa piazza c’era la caserma della Celere, i poliziotti che andavano a reprimere gli scioperi con i manganelli.

E c’era l’Università Cattolica dove andavano a studiare i piccoli borghesi di tutta la provincia cattolica italiana, me compreso. Era la piazza dei destini incrociati».

Che ne è stato di questa sua patria immaginaria? «Si è dissolta. Perché la Milano che ho conosciuto – al contrario di Torino – era una città democratica, operaia, accogliente, non c’era razzismo, non c’erano i cartelli “Non si affitta ai meridionali”. Quando è apparsa all’orizzonte la famosa Lega, scrissi un duro articolo sul Corsera: avevo vissuto l’esperienza del Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile, quindi sapevo che era una forma di regressione culturalee politica. In Sicilia si era tramutato in mafia, in Lombardia cancellavano le scritte in italiano sostituendole in dialetto, ma da Giorgio Bocca a Maria Corti mi hanno dato tutti addosso. Poi dopo hanno capito. Per me Milano era la città dov’erano stati Verga e Vittorini, il luogo in cui io pensavo di emigrare. Ma non tutto è perduto, ora con Pisapia cheè una persona perbene, le cose possono cambiare. E ho fiducia anche per Napoli». Non per la Sicilia dunque? «La Sicilia è la metafora dell’Italia. Come diceva Ignazio Buttitta “a Sicilia puoitta a banniera “».

La sua scrittura è narrazione, come avverte ne “Lo Spasimo di Palermo” il suo manifesto: «il romanzo è genere scaduto, corrotto, impraticabile…»? «Quando agli inizi dei Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, avevo già visto cos’era accaduto nel Paese soprattutto dal punto di vista linguistico. Leggevo molto,i miei viaggi eranoa Palermo da Flaccovioea Messina da D’Anna per recuperare libri che a Sant’Agata non c’erano. Sapevo cosa accadeva in campo letterario, politico, civile: la mutazione che c’era stata, l’esodo dei contadini del Sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé.

La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata e quindi il mio scrupolo scrivendo è stato quello di reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni.

Nell’Isola questi giacimenti contengono greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno mi ha telefonato un dialettologo dell’Università di Catania e mi ha chiesto dove avessi preso la parola “calasìa” che nei vocabolari siciliani non esiste? Gli ho risposto: è semplice, viene dal greco kalòs che vuol dire bello, Calasìa significa bellezza come si dice nella mia zona che è greco-bizantina». Ed è questa la Sicilia che si porta dentro? «È la Sicilia della mia memoria con i suoi segni indelebili».

Cosa la unisce a Guttuso per il cui centenario ha scritto un breve saggio su Kalós? «Il realismo estremo, l’occhio, che era anche quello di Ignazio Buttitta, privo di qualsiasi velo di illusione, emblema di una realtà oggettiva forte come erano forti loro entrambi di Bagheria. A Bagheria ci sono le ville con le mura, i nobili dentro le ville,e quelli fuori dalla villa. Guttuso e Buttitta erano fuori dalla villa come lo è oggi Tornatore.

Dentro le ville non si è espresso niente se non i mostri, fuori la realtà di questa Sicilia fatta di eroi prigionieri come Falcone e Borsellino».

SERGIO BUONADONNA