Consolo e la Spagna

Cervantino contro i padri illuministi: Consolo e la Spagna

Sciascia, Moravia, Calvino, usciti dal fascismo e dalla guerra, avevano scelto la Francia dei lumi come cultura di elezione: Vincenzo Consolo opponeva loro il dissesto del mondo e la dolce follia rappresentati dai classici spagnoli, in primis Cervantes

Vincenzo Consolo nel 1998
 Vincenzo Consolo nel 1998 foto Giovanna Borgese

Vincenzo Consolo aveva il viso levigato come un ciottolo marino. Un viso bello e lucente. Nel parlare la statura della sua persona, certo non alta, aumentava. E un sorriso pieno di sottintesi si faceva strada, e tu lo guardavi e ne eri contagiato. Forse Vincenzo sorrideva per gioco, e quel gioco veniva voglia di farlo anche a te.
Se gli stavi vicino, seduto con lui allo stesso tavolo, non potevi non sentirne l’energia; così tanta che ti sembrava a volte che il suo corpo tremasse, soprattutto le mani. I suoi furori civili emergevano netti. E capivi che oramai non si sentiva a casa da nessuna parte. Però la sua vera casa era chiaro dove fosse: in Sicilia, non c’era nessun dubbio. Ma lui si era fatto maestro dei dubbi, e per anni aveva viaggiato come se fosse stato in una fuga continua.
Ma non si pensi solo alla fuga di chi scappa, di chi non riesce a stare in nessun luogo; si pensi anche alla figura musicale della fuga. Quella che lui cercava era una polifonia geografica, dentro la quale i luoghi si versavano l’uno nell’altro, e il Nord e il Sud perdevano i loro connotati primari e ne assumevano altri, dai quali lo scrittore traeva una vasta gamma di sonorità e di ritmi. Manzoni e Verga si davano la mano.
Il viso di Consolo somigliava al ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Si tratta di un piccolo quadro, piccolo come spesso piccole sono le pitture di un artista che aveva tutte le qualità per esser considerato anche un miniaturista. Il quadro se ne sta a Cefalù, nel museo Mandralisca; ha una sala tutta per sé, e quando gli capiti dinanzi ti guarda con occhi ambigui; sembra che ti segua; forse sta prendendoti per i fondelli.
Per arrivare dinanzi al suo sguardo malandrino, hai attraversato alcune sale, e soprattutto ti sei fermato ad ammirare la collezione di conchiglie che il barone Mandralisca, fervente malacologo, era stato capace di radunare in pochi metri quadri. Mandano barbagli nella stanza in cui sono esposte, e gli occhi si perdono nel gioco di curve che li movimenta. La figura della spirale si fa avanti con prepotenza e la linea retta deve retrocedere (si tratta, si sa, di temi cari al saggismo e alla narrativa di Consolo).
È tale l’identificazione visiva che lo scrittore stabilì tra sé e il ritratto di Antonello che a volte viene il ghiribizzo di lasciarsi trasportare nel flusso di un anacronismo fruttuoso e pensare che sia stato proprio lo scrittore di Sant’Agata di Militello a posare per lui.
Parlando di Antonello e del barone Mandralisca siamo già entrati, quasi senza volerlo, tra le pagine del secondo libro di Consolo, quel Sorriso dell’ignoto marinaio che fu il frutto di una lunga elaborazione e che venne definito da Leonardo Sciascia come un parricidio.
Eh sì, da qual momento Consolo aveva scelto una sua strada che lo distanziava dall’illuminismo linguistico del suo maestro: punto di vista plurimo, stratificazione linguistica, prosa ritmica, inserti di materiali documentali, e soprattutto un modo di considerare la Storia come un’enorme cava dalla quale estrapolare materiali da sottoporre alla traduzione della letteratura.
Tutto questo era anche il risultato di uno spostamento dello sguardo: dalla Francia prediletta da Sciascia (ma anche da Calvino, che fu sempre un altro suo punto di riferimento) alla Spagna. L’irrequietezza geografica di Consolo lo aveva fatto approdare al paese del Chischiotte; i suoi pendolarismi tra l’illuminismo milanese (a Milano era andato a vivere quando aveva deciso di spostarsi dalla Sicilia) e il ribollire paesaggistico di una Sicilia girata in lungo e in largo durante i periodici ritorni, lo avevano portato a un’esplorazione fatta per strati ellittici.
Un incontro a Messina
Della sua predilezione per la Spagna, Vincenzo parlò anche durante un lungo incontro pubblico che avemmo a Messina. Sentiamo cosa disse a proposito.
«Devo dire che gli scrittori della generazione che mi ha preceduto, parlo di scrittori di tipo razionalistico, illuministico, come Moravia, come Calvino, come Sciascia, avevano scelto la strada della Francia. Erano passati attraverso la Toscana rinascimentale, soprattutto dal punto di vista linguistico, e oltrepassando le Alpi, com’era già avvenuto a Manzoni, erano approdati alla Francia degli illuministi. La loro concezione del mondo rifletteva proprio questo reticolo della lingua, e non solo della lingua, quella che Leopardi chiama la lingua geometrizzata dei francesi. Questo lo si vede nella lingua cristallina, limpida, che hanno usato questi scrittori. Io mi sono sempre chiesto del perché questi scrittori, che hanno vissuto il periodo del fascismo e il periodo della guerra, abbiano optato per questo tipo di illuminismo, di scritture illuministiche e di concezione illuministica del mondo. Io ho pensato che appunto, avendo vissuto il fascismo e la guerra, speravano, era una scrittura di speranza la loro, speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare. Era la concezione utopica anche di Manzoni, quando immagina che in questo paese finalmente si potesse parlare un’unica lingua. I panni che sciacquava in Arno erano panni che aveva portato già umidi dalla Senna, e mentre li sciacquava in Arno, immaginava una lingua ideale, la lingua attica che era l’italiano comune.
Quelli della mia generazione, che hanno visto succedersi al regime fascista un altro regime, quello democristiano, hanno dovuto prendere atto che questa società non era nata, che la società civile alla quale lo scrittore poteva rivolgersi non esisteva, quindi la mia opzione non è stata più in senso razionalistico, ma in senso, diciamo, espressivo. E quindi il mio itinerario mi portava non più alla Francia, ma verso la Spagna.
La Spagna, appunto, partendo dalla dolce follia, dalla follia simbolica, dalla follia metaforica del cavaliere errante del Don Quijote, e quindi attraverso tutti i poeti del Siglo de Oro, e quindi anche la letteratura spagnola che Vittorini ci indicava in quegli anni, scrittori non solo sudamericani come Rulfo, o scrittori spagnoli come Cela, o come Ferlosio, tanti altri scrittori del secondo dopoguerra che avevano vissuto il periodo del franchismo. Quindi la mia educazione, sia di contenuti che stilistica, è di tipo spagnolo».
Le segrete dell’Inquisizione
La Spagna in Sicilia significa anche Inquisizione. Consolo lo sapeva benissimo. E anche lui, come Sciascia, aveva voluto ficcare i suoi occhi nelle segrete di Palazzo Steri a Palermo. Era lì che aveva avuto sede il terribile tribunale e lì erano stati incarcerati i prigionieri. Alle pareti rimangono i loro segni, e spesso sono molto più che segni o semplici graffiti. Si tratta infatti di narrazioni murali, di poesie, di piccoli affreschi monocromi, di grida silenziose.
Consolo non poteva non essere attratto da quello che può considerarsi il documento più sconcertante di come si provi a mantenersi umani in un regime disumano. Basta riaprire Retablo – e riaprirlo seguendo la pista spagnola che già il titolo mette in rilievo in modo così palese – per imbattersi nelle prime pagine in una duplicità di sguardo: da una parte c’è la descrizione dell’arrivo del pittore lombardo Clerici nel porto di Palermo: «In piedi sul cassero di prora del packet-boat Aurora, il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittade, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiare d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e di oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade».
Dall’altra, nel bel mezzo di quest’incanto, la presenza inquietante di «istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto». Tra questi spicca il «più tristo»: «lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i capi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare».
Incanto e tormento: parole che si slanciano a carezzare il paesaggio e parole che sono costrette a documentare l’orrore macchinale di questi obbrobriosi oggetti atti alla tortura. Mai come in Retablo, che usci nel 1987 come numero 160 della collana di Sellerio intitolata a «La memoria», lo scrittore si abbandona al fluire giocoso e serissimo delle parole, al loro sommovimento sintattico, al gusto per la spirale che il barone Mandralisca aveva esaltato nel suo museo di Cefalù. E sempre al centro della narrazione c’è un viaggio, un andare e un cercare insieme dei due protagonisti: Fabrizio Clerici (i disegni del «vero» Clerici adornano il libro) e Isidoro. E di nuovo si rinnova il tacito modello duale di Don Chischiotte e del suo scudiero Sancio Panza, in un processo di «infinita derivanza», che mescola le epoche e che mette le persone le une dinanzi alle altre, e tutte alla ricerca de El retablo dela maravillas cervantino, usato alla stregua di un velo di Maya: «velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza, dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii».
Amore e movimento
Entrambi i viaggiatori consoliani sono innamorati di donne che non li corrispondono: Isidoro, addirittura, vive in una sorta di deliquio continuo per la sua Rosalia. L’amore li spinge al movimento, a un ennesimo attraversamento della Sicilia, in parte coincidente con quello di Goethe, in parte dissimile. E anche ne L’olivo e l’olivastro avverrà qualcosa di simile. Ma non più in un tempo retrodatato, piuttosto tra le rovine della contemporaneità; e tali sono, in alcuni casi, queste rovine, che lo scrittore decide di «saltare» a piè pari Palermo, la capitale corrotta, il luogo del delitti, lo sprofondo del paese. Ma ci tornerà, ci tornerà con Lo Spasimo di Palermo. E di nuovo saprà individuare il luogo emblematico, quella chiesa senza tetto, dove gli alberi sono cresciuti cercando il cielo. Chiesa di grande bellezza, a segnare un confine dentro il quartiere della Kalsa.
Ogni volta è così: Consolo si «consola» proiettando se stesso in un manufatto esterno a lui; ne cerca le rassomiglianza; ne estrapola il dna visivo e se lo inocula.
In questo senso fa pensare al grande scultore che compare in Retablo, al «cavalier Serpotta». Chi abbia visitato i suoi oratori palermitani, sa bene di che genio si tratti. Bianchissime figure danzano le loro forme in sequenza. Sono modellate all’infinito, con una tecnica che disdegna il marmo, e fa uso di un materiale più malleabile. Si tratterebbe di stucchi, ma il Serpotta è stato capace di rafforzarli facendo cadere nei punti nevralgici una polverina di marmo.
Ma non fa solo figure umane, santi e sante; raffigura anche la battaglia di Lepanto, nella quale aveva combattuto Cervantes. Le navi hanno le vele fatte d’oro, e sembrano anticipare le svelte e filiformi figure di Fausto Melotti.
La battaglia viene rappresentata «in discesa», rendendo possibile all’occhio dell’osservatore di gustarne i dettagli e di avere una visione d’insieme. A ben pensarci, Consolo adotta nella scrittura una tecnica simile a quella del Serpotta. Modella la lingua con agilità, conoscendone le verticalità, usando i depositi di lessico scartati dal tempo. E quando è necessario fissa il tutto con una polverina marmorea.
Ma torniamo a Cervantes. Per lo scrittore siciliano contava non solo l’opera; lui considerava Cervantes «una figura straordinaria, oltre alla grandezza dello scrittore e del poeta, perché era quello che aveva sofferto la prigionia nei Bagni di Algeri. Aveva scritto due opere, I Bagni di Algeri e Vita in Algeri, proprio mentre era prigioniero, e poi anche nel Don Chisciotte c’è un lungo capitolo intitolato “Il prigioniero”, che è autobiografico, dove racconta la sua esperienza. Lì era stato prigioniero con un poeta siciliano, si chiamava Antonio Veneziano. Si erano incontrati, questi due ingegni, questi due poeti, nella prigione di Algeri, e Veneziano era stato riscattato prima perché pensavano che fosse un uomo di poco valore, mentre avevano intuito che Cervantes doveva costare molto e quindi il suo riscatto avvenne successivamente. In seguito i due ebbero uno scambio di versi, e lo spagnolo scrisse le Ottave per Antonio Veneziano. Cervantes, che aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, ed era stato a Messina, si era imbarcato a Messina, mi era caro anche per questa congiunzione tra Sicilia e Spagna».
Leggere Cervantes significava anche spostare il baricentro della narrazione. Dai racconti marini, «dove la realtà svanisce, e dove c’è l’irruzione della favola e del mito», che avevano visto nascere i poemi omerici, al romanzo del viaggio. «Cervantes sposta il viaggio, fa dell’andare, del peregrinare, una cifra che poi adottò Vittorini con Conversazione in Sicilia. Ecco, Cervantes è stato quello che ha spostato il viaggio dal mare alla terra, ed è una terra di desolazione, di dolore – la Mancia – che diventa metafora del mondo».
Gli anni ammutoliti
E quella terra di desolazione, con il tempo si estende, e lo stesso Mediterraneo che per lo scrittore era stato «uno dei luoghi civili per eccellenza, dove c’era stato un grande scambio di cultura, una grande commistione, una reciproca conoscenza», si contamina, diventa guerresco, riaffiorano le guerre di religione, risorgono i nazionalismi.
Sono gli anni in cui lo scrittore si ammutolisce. Continua a viaggiare, ma il suo sguardo ha perso in prensilità. L’arte della fuga perde i suoi caratteri musicali e diventa un andare da una Milano che si desidera abbandonare a una Sicilia che si fa sempre più fatica a riconoscere. Il mondo è diventato casa d’altri. Il velo di Maya gli è stato levato per sempre, pensa tra sé e sé. Forse comincia a dubitare della stessa letteratura, che vede prostituirsi in facili commedie di genere.
Però è sempre dalla letteratura che trae i suoi esempi; è da lì che riparte. A Messina, alla fine del nostro colloquio – che ho poi trascritto in un mio libro di viaggi siciliani, intitolato In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, ed edito da Mesogea – disse con il sorriso da ignoto marinaio affiorante sul volto levigato come un ciottolo marino: «Mi piace sempre ricordare una frase che Calvino mette in bocca, ne Il castello dei destini incrociati, a Macbeth». La frase suona così: «Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro».

Silvio Perrella
Il Manifesto Alias Domenica Edizione del 30.08.2015

L’ onore di Sicilia

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Prefazione in RITA BORSELLINO – LA SFIDA SICILIANA – PAG. 7-11

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Editori Riuniti Roma 2006

Da Antigone, da questa donna bisogna partire, da questa eroina di Sofocle che ha il coraggio di ribellarsi all’ingiusto comando di un tiranno, Creonte, per ubbidire a  “leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei: quelle che non da oggi, non da  ieri vivono, ma eterne…” Sono, quelle a cui ubbidisce Antigone, le leggi dell’umano, della pietà, della giustizia, leggi che la spingono a seppellire “il corpo morto di un figlio di mia madre”, il corpo del fratello Polinice. Ma ci insegna il trageda greco che sì, si può anche seppellire subito il corpo di un uomo ucciso, ma quel corpo rimarrà virtualmente insepolto sino a quando non si saprà la verità su quell’assassinio, sino a quando i suoi congiunti non avranno giustizia.

E sorelle di Antigone sono tutte quelle donne che hanno reclamato verità, reclamato giustizia per il loro congiunto ammazzato; sorelle di Antigone sono in Sicilia madri, spose o sorelle che hanno reclamato verità e giustizia per il loro famigliare ucciso dalla mafia, ucciso dal potere politico-mafioso. Solo giustizia e verità posso infine far seppellire quel corpo oltraggiato, dilaniato da colpi di lupara, di kalashnikov, da esplosione di tritolo. Sorella di Antigone è Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, quella contadina, quella nobile donna che Carlo Levi incontra a Sciara e di lei scrive:”Così questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione  di un processo verbale, con una profonda, assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata è la Giustizia. La Giustizia vera…” Sorella di Antigone, sorella di Francesca Serio è Saveria Antiochia , madre dell’agente Roberto, ucciso, nel 1985, insieme al suo capo e amico, il commissario Ninni Cassarà. Saveria racconta in Nonostante donne. Storie civili al femminile:”Le donne a volte piangono e gridano. E’ una questione di carattere. Ma io so che chi non piange e non grida muore dentro di dolore. Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te”.

Sorella di Antigone, di Francesca Serio, di Saveria Antiochia,  di Pina Grassi è Rita Borsellino. Anche lei, Rita, “s’è fatta in un giorno” come dice Levi, quel terribile, tragico 19 luglio del 1992 in cui fu ucciso, in via D’Amelio, insieme ai poveri cinque ragazzi della scorta, il fratello Paolo.

Sorelle di Antigone: donne tutte che contraddicono, cancellano lo stereotipo siciliano della Santuzza, della Mena o della Diodata, che mettono in luce la tradizione della donna siciliana attiva, quella che dai Fasci socialisti al Primo e al Secondo dopoguerra ha combattuto accanto agli uomini, con essi ha scioperato, ha occupato le terre incolte dei feudi, e ne ha subito la repressione, è stata ferita o uccisa, com’è successo a Portella della Ginestra. Dice all’Assemblea Costituente Girolamo Li Causi il 2 maggio 1947: “Ho visto una bambina di tre anni trucidata, cinque orfani impietriti dall’orrore, attorno alla madre morta. Ho visto una vecchia di settantatré anni ferita…”. Donne quelle non più verghiate, ma vittoriniane, donne come la madre Concezione di Conversazione in Sicilia, come Erica, come la Garibaldina o, fuor di letteratura, come Maria Occhipinti di Una donna di Ragusa.

Rita Borsellino ci narra del prima e del dopo quella domenica del 19 luglio 1992 in questo libro. Ci dice della sua famiglia d’origine, del padre Diego e della madre Maria Pia Lepanto, farmacisti alla Kalsa, ‘al-Halisah’, l’eletta, l’antico quartiere arabo di Palermo, quartiere ora degradato, popolare, povero. E la farmacia Borsellino, di via Vetriera prima e quindi della vicina Carlo Rao, è il luogo dove gli abitanti del quartiere vanno a confidare, a “depositare” le loro angustie, i loro mali, a prendere le medicine a credito, crediti che il dottor Diego segna su un quaderno che poi butta via.

Nel quartiere della Kalsa è cresciuto anche Giovanni Falcone, che racconta: “Abitavo nel centro storico, in piazza Magione. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari”. Era dunque la Kalsa, come altri di Palermo, il quartiere delle strade che s’incrociano e delle strade che divergono: dei giovani che diventano magistrati, tutori del diritto, delle leggi dello Stato, che hanno un uguale, tragico destino; il quartiere dei giovani che diventano picciotti,  killer al servizio della mafia, la mafia delle cosche e quella più occulta della borghesia imprenditoriale e politica, la mafia “bianca”, la più invisibile, la più insospettabile.

Rita è l’ultima di quattro fratelli, viene dopo Adele, Salvatore e Paolo, è la piccola di casa, fatalmente la più vezzeggiata, ma è anche la più timida, la più chiusa. “Ero una ragazza patologicamente timida” scrive, “Ero una persona chiusa, silenziosa, timida”.

Alla morte del padre, Rita si iscrive alla facoltà di Farmacia, e quindi va a lavorare là in via Vetriera nel negozio di famiglia. Che è per lei la scuola della conoscenza del mondo, dell’ “altro” mondo, quello dei sofferenti, dei diseredati, degli emarginati. E’ di famiglia cattolica, è cattolica praticante lei stessa, e nella farmacia, che non è quella delle vane chiacchiere dello speziale don Franco de I Malavoglia, mette in pratica la carità cristiana, la solidarietà verso l’umanità bisognosa. Sposa Renato Fiore, farmacista anche lui, ed ha tre figli, Claudio, Cecilia e Marta. Ma da prima, e ancora dopo, non cessa il suo rapporto di affinità, di amicizia col fratello Paolo, che da sempre l’ha prediletta e protetta. E leggiamo quindi con quale dolore, con quale strazio, orrore e furore Rita ci racconta di quel fatale giorno, di quella domenica di luglio in cui avviene la strage, là, in via D’Amelio, nel momento in cui il magistrato sta per compiere l’azione più umana, filiale, quella di andare a trovare la vecchia madre. Una strage, 55 giorni dopo la strage di Capaci, annunziata, annunziata dallo stesso magistrato, una strage prevedibile, e quindi comandata chissà da quali oscure, segrete entità, ai manovali della mafia, agli esecutori di morte.

E da quel giorno cambia la vita di Rita Borsellino. “La seconda vita”, come lei la chiama. Scrive:”Non ci si lascia annientare dal dolore (…) Perché quello che ci spinge, che spinge tanti famigliari delle vittime della violenza  a mettersi in gioco, a mettersi in cammino (…) è l’amore, è la voglia di far continuare quello che i nostri cari stavano facendo”.

Diventa quindi una persona pubblica, Rita Borsellino, una missionaria della Giustizia

della verità, della civiltà. E incontra nel ’93 don Luigi Ciotti, s’impegna a lavorare indefessamente per l’associazione Libera, a parlare a migliaia e migliaia di giovani, in Italia e all’estero, di giustizia, di legalità.

Si è dimessa ora da presidente onorario di Libera per affrontare un altro impegno: quello politico, quello di candidata del centro sinistra alla presidenza della Regione Siciliana.

Questa nostra regione autonoma a statuto speciale, strumento democratico concesso allora dal governo centrale per scongiurare le spinte indipendentiste che certe formazioni politiche allora fomentavano. Strumento democratico  usato quindi, dalle eterne forze della conservazione, nel peggiore dei modi: come strumento di privilegio, di potere clientelare, se non spesso di malaffare, come l’ha usato per esempio l’ultimo governo regionale di centro destra, di cui alcuni membri sono stati arrestati per concorso in associazione mafiosa, sono inquisiti per la stessa imputazione o per favoreggiamento aggravato alla mafia, come il presidente Salvatore Cuffaro che se ne sta ancora là, a governare la nostra infelice isola.

Rita Borsellino, ne siamo certi, restituirà dignità, democrazia e giustizia, di cui questa nostra Sicilia ha tanto bisogno, come del resto l’intero Paese, questa Sicilia che ha cominciato la sua storia politica dal  Secondo dopoguerra in poi con la violenza, con il sangue, con tutta una sequela di morti che da Portella della Ginestra arriva fino al 1992 e oltre.

“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia ! “ declamava alla prima seduta dell’Assemblea Regionale il Presidente (per anzianità) Lo Presti, il 25 maggio 1947.  E ancora oggi, dopo le elezioni di aprile, la Borsellino, la prima donna presidente della Regione, potrà esclamare: “Giustizia per la Sicilia, onore per la Sicilia !”.

Vincenzo Consolo

Milano,6.2.2006

Prefazione al libro “Rita Borsellino, la sfida siciliana” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Editori Riuniti 2006

Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo (Sant’ Agata di Militello – Messina 1933) è, tra gli scrittori siciliani moderni, una figura atipica di narratore che, pur traendo spunto dal materiale autobiografico relativo alla sua infanzia e giovinezza “isolana” vive da tempo in continente dove si è formato ed ha realizzato le sue più convincenti prove letterarie. Questa distanza gli ha permesso di ricostruire narrativamente momenti e vissuti personali attraverso il “filtro” di un particolare tipo di memoria che spesso si vena di nostalgia. Di particolare interesse è il modello linguistico che per certi versi ricorda il miglior Vittorini (Conversazioni in Sicilia). La” lingua” di Consolo è una ricerca continua di originalità che, solo in parte, deriva dal suo personale timore di non essere riconosciuto o differenziato nell’affollato panorama letterario italiano. A Marino Sinibaldi ha dichiarato in un intervista: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia ed ai suoi esiti. Ma non è dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati (…). Io cercavo di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”. Il suo successo, non commensurato al valore assoluto della sua opera, è stato anche limitato da una sua certa ritrosia ed incapacità di adattarsi alle regole della pubblicità e del consumismo. E’ diventata famosa una sua frase in cui lo scrittore sottolinea che la violenza del tempo e le trasformazioni che ne conseguono finiscono per distruggere un mondo ingiusto, ma pure carico di valori positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e per sovrapprezzo impoverito sul piano umano. Questo osservatore così distante, ma così poco distaccato ha scritto un libro che mi ha stimolato a raccogliere queste brevi riflessioni ed il suo inserimento in questa sezione è il dovuto tributo alla sua onestà intellettuale, al suo garbo di gentiluomo ed al suo genio di scrittore. Il libro si intitola “Le pietre di Pantalica” (1988) ed è diviso in tre sezioni ed è dalla prima di queste (Teatro) che vorrei dedicare la mia attenzione. Nel racconto “Il Fotografo” raccontando il periodo del passaggio del fronte italiano nel suolo siciliano attraverso gli occhi di un fotografo di guerra (Robert Capa) al seguito delle truppe alleate ne descrive così il rapporto con il territorio e le persone in quel particolare, tragico, momento storico:

CAPA-1-TroinaAgosto1943Troina 1943 Robert Capa

“Andava con la sua jeep su per i colli, giù per le vallate, per le distese infinite, gialle nude assolate, con fumi di ristoppie che bruciavano, cocuzzoli giallastri di detriti di zolfare, qualche albero scheletrico qua e là, qualche ciuffo di spino, spaccapietra, vruca, calavèra o di cicerchia, qualche stazzo o masseria solitaria, uguali a quelli di Spagna e della Tunisia, fotografava pastori e contadini. Immobili, con bordoni in mano, logori come la terra su cui stavano, o piegati con gli zapponi a rompere la crosta, sembravano indifferenti a questa guerra che si svolgeva accanto a loro. Indifferenti e fermi lì da secoli sembravano, spettatori di tutte le conquiste, riconquiste, invasioni e liberazioni che su quel teatro s’erano giocate. E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Roberta aveva fotografo per quelle lande, fotografato con divertimento e simpatia, uno di questi contadini o pastori, un uomo che s’alzava da terra appena d’una spanna, scavuzzo senza età, terragno monachino, in braghe di tela e gilé di logoro velluto, cenciosa camicia a mille toppe, calzari di tela e pelle di montone, fazzoletto in testa annodato a mo’ di copricapo. Accanto a lui, accovacciato, il culo sui talloni, le braccia sulle cosce, la fede al dito e braccialetto d’oro al polso, uno spilungone di soldato americano, un levigato e bello Gary Cooper, biondo, sano, sorridente. Il contadino, una mano sulla spalla sul soldato, con l’altra, in cui teneva il lungo suo bastone, gl’indicava qualcosa in lontananza, una strada, un paese, forse il miraggio d’un pezzo o d’una fonte. Dietro a loro, la campagna arida, svampante, s’impennava in montarozzi di gessi e silicati. (…) E’ qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle precedenti della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvìo quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali ed impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti.”

Più avanti nello stesso libro Consolo si cimenta nella lettura di due immagini del suo “album” di famiglia, ma, in sintonia con la sua personale poetica, spesso incline alla nostalgia, ne propone una descrizione senza intenti semiologici o tentazioni “barthesiane”. Indossa gli abiti dell’archeologo per effettuare “una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o di frammenti epigrafici da cui partire per la ricostruzione attraverso la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia”. Il concetto di Storia per Consolo, che per certi versi lo accomuna a Georges Perec, tiene conto dell’arbitrarietà e dell’inattendibilità che la caratterizzano, ma lo scrittore siciliano afferma di essere pronto ad affrontare questo rischio “calcolato” proponendosi di navigare a vista attraverso le “Simplegadi dell’allucinazione e del sogno”. Nel 1938, convalescente da una polmonite, Consolo bambino è ospitato in un casello di un paesino montano della provincia di Messina. In quei boschi, dove il padre, commerciante di legnami, si compiono le sue prime timide esperienze affettive evocate, in qualche modo, dalla lettura di due particolari immagini in cui il padre aveva voluto farsi ritrarre dal fotografo del paese accanto al suo principale “strumento” di lavoro, un fiammante camion Fiat 621 targato ME 4318. Con l’ausilio di una lente, Consolo, “legge” così la prima foto:

“Il camion è di faccia, sulla strada in terra battuta, coi quattro fari sul davanti e la maschera del radiatore attraversata in diagonale da una banda bianca. E’ sotto grandi rami di querce che in alto, unendosi, formano come una galleria. La luce piove pezzata sul camion e sulla strada, a chiazze, come in un quadro di Monet. In primo piano, a terra c’è mio padre, un braccio appoggiato al parafango, l’altro ad arco, col pugno puntato contro la vita. E’ in pantaloni scuri e camicia bianca. Sul cassone, sopra il carico di lunghi e grossi tronchi d’albero che sovrasta la cabina, sono altre quattro persone: i due picciotti, gli operai di mio padre, a sinistra, e due boscaioli a destra…”.

In uno “spiazzo sterposo circolare” è collocato, nella seconda foto, l’oggetto dell’orgoglio del padre di Consolo…

“Il camion è posto di traverso, in lungo, quasi infilato nello spazio tra i perfetti coni di due pagliari. Sul vertice dei due pagliari sono in piedi, i pugni contro la vita, come telamonio guglie antropomorfe, i due picciotti; attorno e sopra il camion altre cinque persone: a sinistra, è un boscaiolo in maniche di camicia e gilè di velluto; accanto un uomo anziano, alto, massiccio, barbuto, in gabbanella grigia e coppola, un braccio appoggiato allo sportello del camion, l’altro puntato su un bastone (…) Sul cofano del camion, seduto, a gambe incrociate, le spalle contro il parabrezza, è mio padre: sorride, forse di sé, in quella situazione teatrale, in quella posa per lui innaturale…”.

Ma allo scrittore siciliano non basta questa lettura quasi analitica della “realtà” realizzata attraverso due piccoli cartoncini 8×13 cm. e la memoria entra in scena prepotentemente a rivendicare un suo spazio nell’esperienza formativa del narratore e tra gli inquilini del casello la sua attenzione viene catturata da una creatura davvero “speciale”:

“Amalia, la piccola, una ragazza di dodici o tredici anni, era invece nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri e nervosi. Era lei a fare i lavori esterni e più pesanti: trasportare l’acqua da la fonte, raccogliere frasche e tagliare la legna per la cucina ed il forno, governare una coppia di maiali e tre caprette. Scelsi subito Amalia come mia compagna. Chè selvatica com’era e solitaria, aveva una sua sottile seduzione ed una sua autorevole ed esclusiva possessività. Divenimmo inseparabili. Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero…”.

Una iniziazione, quella di Consolo bambino ai linguaggi naturali che preconfigura l’interesse alla lingua del narratore delle opere di compiuta maturità, da “Il sorriso dell’ignoto marinaio” a “Retablo”. Mi piace concludere queste brevi considerazioni con un ringraziamento ad Amalia, a quella ragazzina “nera nera, i capelli crespi ed arruffati e i piedi duri” che lo scrittore lascia al casello…

“Alla fine di settembre lasciammo Ciccardo. Ed io ho impressa per sempre nella memoria la faccia d’ Amalia. Facendo finta di legare fascine, teneva fisso lo sguardo nella cabina. E quando il camion fu messo in moto e cominciò a sussultare, lei lasciò lì le frasche e fuggì, sparì nel bosco, scalza, la testa nera e caprigna, la vesticciola rossa”.

Ad Amalia

dal web fotologie

La luna e il faro, il Meridiano su Vincenzo Consolo

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di Giuseppe Schillaci 

É saturnina la Luna, atra, melanconica, sospesa nell’attesa infinita della fine che non arriva mai.

Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore.

Lei, la Luna, ci salvò e ci diede la parola. 

Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale.

(Lunaria, Mondadori, 1985) 

Il 21 gennaio 2012 è scomparso Vincenzo Consolo, uno dei più raffinati scrittori italiani, tra gli ultimi intellettuali europei della sua generazione, classe 1933, ad aver vissuto le luci e le ombre del Novecento. A tre anni dalla morte, Mondadori pubblica finalmente il Meridiano “L’opera completa” di Vincenzo Consolo, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre. Il volume raccoglie i romanzi e i racconti, le scritture liriche e quelle d’intervento sociale, restituendo così l’immagine poliedrica di uno dei più grandi cesellatori della lingua italiana, le cui opere sono state tradotte in diversi Paesi e studiate nelle università di tutto il mondo.

Dello scrittore Vincenzo Consolo, collaboratore dell’Einaudi di Calvino e Ginzburg, m’impressionò, già da adolescente, l’originalità della voce: una lingua barocca ma schietta, appassionata, sempre in bilico tra contemplazione e denuncia, una scrittura legata profondamente alla sua terra. Consolo era ossessionato dalla Sicilia, così come tutti i grandi scrittori sono ossessionati dalla propria identità, dalla verità e dal divenire: la sua opera racconta un’isola visionaria e tragicamente reale, tra mito e storia, poesia e narrazione, alta letteratura e cultura popolare. A rileggere i suoi testi, oggi, si notano alcune figure che ritornano, ossessive, per tessere un mondo fragile e sublime, inquieto, in dissoluzione. Una di queste figure è il faro, presente anche nel titolo della raccolta di saggi Di qua dal faro (Mondadori, 1999): il faro per Consolo è un baluardo, la luce della ragione contro l’oscurantismo, una barriera contro il caos della notte.

La contrapposizione tra luce e oscurità si rivela poi, in tutta la sua potenza, nel romanzo di Consolo che più ho amato: Nottetempo, casa per casa, premio Strega nel 1992. Si tratta di una storia ambientata a Cefalù, in provincia di Palermo, ai tempi della nascita del Fascismo. Per Consolo, l’adozione del romanzo storico è sempre da intendersi in chiave metaforica rispetto al presente: gli anni Venti sono così un’epoca d’oscurantismo simile a quella che l’autore presagiva agli inizi degli Anni Novanta, all’alba del “nuovo ventennio”. La metafora storica era già presente nel romanzo sul Risorgimento tradito, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato in pieni anni Settanta e etichettato come l’ « anti-Gattopardo », in cui Consolo racconta di un nobile siciliano illuminato che tenta di resistere al potere reazionario della nuova Italia, per parlare in realtà dell’Italia post-sessantottina, ipocrita e refrattaria a un reale cambiamento. Ma torniamo a Nottetempo, casa per casa. Qui, alla violenza fascista e alla perversione del potere fa eco un altro oscuramento della ragione, questa volta misterico, soprannaturale. Proprio nei primi anni Venti, infatti, si trasferiva a Cefalù Aleister Crowley, il mistico artista inglese che inneggiava alla libertà dei sensi e a un mondo esoterico che rasentava il delirio visionario. Alla ragione del faro si riflette e s’oppone così la poesia della luna, che è anche, irrimediabilmente, segno di follia e di dolore, come per il padre del protagonista Petro Marano, che corre rabbioso nelle notti di luna piena per quietare il suo male catubbo (la licantropia).

Ecco delinearsi il paradosso dello scrittore, la tensione irrisolvibile tra prosa e poesia, tra la storia oggettiva del faro, da un lato, e i mondi immaginari della luna, dall’altro. In questo orizzonte si muove la lingua musicale di Vincenzo Consolo, trovando nelle parole la propria salvezza. La vera sconfitta è l’afasia, l’impossibilità del racconto, il silenzio della morte. Così Consolo, come Petro Marano, cerca redenzione nel racconto, che sembra nascere da una nostalgia per l’unità perduta, da un’aderenza naturale tra le parole e le cose. Questa sorta di autenticità perduta, di bellezza primordiale, Consolo la insegue, ostinato, in tutta la sua opera, inventandosi una lingua che resuscita le voci greche, arabe, spagnolesche e francesi che hanno abitato, secoli fa, la Sicilia.

Vincenzo Consolo adorava la sua terra, e non solo perché rappresentava il teatro della sua infanzia, ma anche perché lo scrittore guardava alla Sicilia come centro del Mediterraneo, ricettacolo di culture d’oriente e d’occidente, porta d’Africa, culla della letteratura italiana e della civiltà europea. Ecco perché, negli ultimi anni della sua vita, intervenne spesso nel dibattito pubblico sull’emigrazione, allorché la Sicilia veniva considerata non più come porta, ma come muro d’Europa. Ma la Sicilia di Consolo è anche una terra del Sud, di un Sud d’Italia che è simile a tutti i Sud del mondo, e che è dunque terra tradita, ferita dalle storture del potere, schiacciata dalle meschinità umane, dalle mafie, dall’avidità, dall’ignoranza. Da emigrato al Nord Italia, a Milano, dove s’era trasferito già negli anni Sessanta, Consolo scrive di sradicamenti, di fughe, di un’Itaca a cui è impossibile ritornare.

Ho avuto l’onore di incontrare Vincenzo Consolo e il piacere di frequentarlo negli ultimi anni della sua vita, insieme alla compagna Caterina Pilenga, suo riferimento prezioso e costante. Durante quelle cene nelle osterie di provincia, restavo affascinato dai racconti d’un mondo quasi picaresco, che non esisteva più, e dai suoi aneddoti sui maestri della letteratura mondiale o sui personaggi leggendari del popolo siciliano, sempre dipinti con sagacia e profonda umanità; dagli occhi di quest’uomo minuto e fiero trasparivano le immagini delle sue opere, la loro complessa semplicità, l’ironia, la discrezione, la rivolta.

Vincenzo Consolo ci lascia un’opera densa, in cui ogni parola ha un peso e marca la propria estraneità al cicalio dei best-sellers contemporanei e dell’editoria mercenaria. La sua scrittura ci ricorda che la letteratura è una cosa seria, un tempio in cui entrare con rispetto, senza rinunciare però al contraddittorio e allo sberleffo, alla commedia dentro la tragedia, alla trivialità e al sorriso, alla speranza in un mondo diverso, nonostante la catastrofe. Consolo ha creduto sempre, caparbiamente, alla potenza della lingua e alla necessità della luce, forse proprio perché temeva con profonda angoscia il silenzio e le tenebre. La sua maestria letteraria abbracciava dunque ora la luna, ora il faro, e cercava di far proprie, allo stesso tempo, paradossalmente, la visionarietà del poeta Lucio Piccolo (la luna) e la tensione sociale di Leonardo Sciascia (il faro). Questo movimento torna sempre alla sua Sicilia, che è anche metafora dell’Italia, in una lotta appassionata, irrisolvibile e mai elusa, contro l’oscurantismo.

Da Milano, Consolo « scendeva » spesso in Sicilia, nella sua Sant’Agata di Militello, e lo faceva quasi fosse un dovere, una questione di principio. Proprio a Sant’Agata di Militello si tennero i suoi funerali, tre anni fa: una lunga processione silenziosa e commossa, lontano dai clamori dell’Italietta del 2012, agli antipodi d’un mondo che non lo capiva più, e da cui Consolo si teneva lontano. Lui, il razionale lunatico Vincenzo Consolo, si nutriva di disillusioni e continuava a scrivere, finché ne ebbe le forze. Quando lo interrogavano sul tempo presente o sull’avvenire di quest’Italia matrigna, Consolo amava citare un verso di un poeta spagnolo a cui era particolarmente affezionato, Antonio Machado; un verso semplice, tre parole: « desperados esperamos todavia ».

Le fughe e i ritorni di Vincenzo Consolo

Le fughe e i ritorni di Vincenzo Consolo. La Sicilia non è solo Gattopardo

Vincenzo Consolo

L’irrazionale e la storia s’incontrano, tra riti satanici, licantropia e leggende esoteriche. Allievo di Leonardo Sciascia, era agli antipodi rispetto a Tomasi di Lampedusa. La ribellione di Alcàra Li Fusi è seguita con una comprensione che diventa crescente orrore. Sul “Corriere della Sera”, l’ultimo intervento critico di Cesare Segre dedicato allo scrittore, di cui esce il Meridiano Mondadori

di CESARE SEGRE, “Corriere della Sera”, 19 gennaio 2015

Voglio subito enunciare un giudizio complessivo: Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa ha turbato tutto il quadro della narrativa nel nostro Paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile. Il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, iniziato però intorno al 1969 e poi finito pochi mesi prima dell’uscita) fu una rivelazione. L’ignoto di una splendida tavoletta di Antonello da Messina nel museo Mandralisca di Cefalù divenne, con il suo sorriso, una specie di doppio di Vincenzo Consolo. Ma accanto alla vera immagine di Consolo sono spesso apparse altre due immagini: quella di Leonardo Sciascia e quella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il primo, pur diversissimo nello stile, fu il maestro di Consolo per l’atteggiamento di fronte ai problemi e alle contraddizioni sempre piu laceranti della Sicilia. Il secondo ne fu l’antitesi: tanto è lontano il suo Gattopardo dal Sorriso dell’ignoto marinaio , anche se entrambi hanno come oggetto lo stesso momento storico della Sicilia, percorsa da moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille a nome dell’Italia da unire, bersaglio infine di jacqueries contadine confuse, dai contemporanei, con scoppi di banditismo. È comunque da questo confronto – si disse che Il sorriso era l’anti-Gattopardo – che si può partire per qualunque discorso su Consolo. Ma sarà intanto utile esporre lo schema del romanzo, e di quelli che seguirono. I primi due capitoli del Sorriso ci portano in mezzo agli aristocratici e ai borghesi illuminati, fra i quali si stanno diffondendo le idee liberali e mazziniane.

Essi odiano i monarchi borbonici e sono pronti ad affrontare, se occorre, l’esilio e la morte, come accadrà dopo la fallita rivolta di Cefalù del 1857. Gli altri capitoli, dal III al IX, sono ambientati pochi anni dopo, quando la Sicilia si prepara a passare sotto il governo dei piemontesi. Questi capitoli sono tutti dedicati ai prodromi, agli sviluppi e alla tragica conclusione della rivolta popolare di Alcàra Li Fusi, scoppiata alla vigilia dello sbarco di Garibaldi. Dietro Alcàra sta forse, per Consolo, il ricordo di Bronte e della spietata repressione di Nino Bixio, descritta da Verga nel racconto Libertà . Il barone Mandralisca, possessore del ritratto di Antonello, segue la rivolta con istintiva comprensione, ma, quando essa degenera, la vede con crescente orrore, e confessa la sua incapacità di comprendere e di giudicare. La narrazione d’autore si alterna a documenti ufficiali, brani di storici locali (come Francesco Guardione) o nazionali (come le Noterelle di uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba), che separano tra loro le varie parti d’invenzione.

Consolo aveva gia pubblicato un romanzo, La ferita dell’aprile (1963), che al momento sfuggì all’attenzione dei critici e dei lettori. Si tratta di un Bildungsroman autobiografico, un unicum nella carriera dello scrittore (che, per parte sua, lo definiva un «poemetto narrativo»). Il romanzo narra la vita nella Sicilia del dopoguerra, fino all’occupazione dei latifondi e alla repressione ad opera dei governi democristiani.Provando a completare il quadro dei romanzi di Consolo, siamo ben consapevoli di metterci in una posizione contraddittoria, dato che Consolo stesso ha più volte dichiarato che nel romanzo storico non credeva. Diciamo allora che, bypassando il problema, prendiamo in esame i suoi libri che esibiscono dei personaggi e una narrazione continuata.

Venne dunque Retablo (1987), con immagini di Fabrizio Clerici; il grande pittore, trasformato in personaggio settecentesco, appare nella seconda parte del romanzo, da milanese appassionato di antichità siciliane. È lui, che pure arde di un amore infelice per Teresa Blasco, la futura nonna siciliana di Manzoni, a tentar di risolvere i problemi del fraticello innamorato della prima parte della narrazione; ma intanto Consolo rende omaggio al mitico Illuminismo milanese, visto dal traguardo della contemporaneità: per esempio, dalla rivolta, che divenne poco dopo anche giudiziaria, contro il mostro della corruzione.

Si avvicina certo a un vero romanzo Nottetempo, casa per casa (1992). Il tema centrale potrebbe essere sintetizzato come «l’irrazionale e la storia», e fornirebbe argomenti alla negazione di principio del romanzo che Consolo ha fatto propria. Qui abbiamo, in singoli flash a luce radente, la ricostruzione dell’affermarsi del fascismo, negli anni Venti del secolo scorso, tra Cefalù e Palermo. Invece di raccontare questa vicenda, col rischio di ricadere nelle fauci dell’aborrito romanzo storico, Consolo evoca l’irruzione nell’isola di forme più o meno deliranti dell’irrazionale, dalla licantropia del padre di Petro, il protagonista, alle psicosi della sorella, alle esibizioni di un personaggio storico come l’inglese Aleister Crowley, inventore e officiante di riti satanici in cui alla promiscuità sessuale e alla droga si mescolano le invenzioni più stravaganti di religioni e leggende esoteriche.

Ma è più tardi Gioacchino Martinez, il protagonista di Lo spasimo di Palermo (1998) abbozzato in modo da risultare molto simile a Consolo stesso, a farci quasi toccare con mano, una ad una, tutte le disillusioni di un siciliano che, fuggito disdegnoso dalla sua isola, trova in Lombardia situazioni che generano in lui analoghi sentimenti di rifiuto e di condanna. Tutti i romanzi appena ricordati, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi 250 anni. Ma dalla mia grossolana rassegna tassonomico-cronologica resta fuori uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un «genere che non esiste», a un conato di teatralità divertita fra entremés alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta elaborazione di Consolo è «letteratura sulla letteratura». Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna (1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.Il mio percorso sembrerebbe aver trascurato i molti scritti di Consolo di carattere saggistico o polemico. Ma in fondo no, se pensiamo che molti o moltissimi dei suoi saggi (raccolti in volumi come L’olivo e l’olivastro , del 1994, Le pietre di Pantalica , del 1988, Di qua dal faro , del 1999) possono essere visti, per tornare a un’etichetta un tempo di gran moda, come i correlativi oggettivi dei suoi romanzi. Perché al centro dei saggi c’è sempre la Sicilia, le sue contraddizioni e i suoi mali visti con disperata frustrante insistenza, con passione e con sarcasmo da un siciliano che fugge e ritorna incessantemente: solo che qui lo stile, non gravato dalla necessità di reggere qualche complesso intreccio finzionale, può piegarsi a un’evocazione quasi impassibile delle bellezze naturali e delle ricchezze archeologiche e artistiche dell’isola, deva state forse irrimediabilmente.

articolo disponibile sul sito del “Corriere della Sera”

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Il brano ritrovato

Con i paesani a Milano dove il sole si appanna nella muffa giallognola
Alla stazione Era frastornato da tutta quella confusione in mezzo ai treni tra vagoni, carrelli, passeggeri sotto il tetto di lamiere e vetro

«A rrivammo, arrivammo! urlò uno dentro lo scompartimento . Sveglia, sveglia!». Vito aprì gli occhi, scostò la testa di quello accanto che gli dormiva sopra la spalla, e guardò fuori attraverso il vetro del finestrino appannato dal fiato suo e dei suoi compagni. Vi sfregò sopra il dorso della mano, ma quell’appannatura era anche fuori, ‘na foschia che sfumava una pianura d’alberi scheletriti e case, di capannoni e ciminiere. Sentì ora, tornato fuori dal sonno alla coscienza, tutto il puzzo che ristagnava dentro il treno, di piedi, sigarette e di formaggio. Guardò il pavimento, e vide i suoi piedi e le caviglie gonfie dentro le calze verdi, le scarpe accanto, in mezzo a tutto quello zàccano che avevano combinato col mangiare, di scorze d’uova, d’arance, pezzi di pane, di carte unte d’olio. Una stalla sembrava, e loro cos’erano, lui e i suoi paesani, chiusi per un giorno e passa dentro quella stia, se non bestie, muli portati in una fiera. Il treno, dopo un poco, fece una frenata lunga, con stridore, ebbe un sussulto e si fermò. «Presto, ohu, arrivammo!», fece un altro, alzandosi per tirare giù la valigia. In quel momento scorse la porta, e l’accompagnatore dell’Ufficio Provinciale di Caltanissetta, gridò dentro: «Prepararsi, prepararsi, la prossima è Milano!».Vito guardò fuori, e vide ch’erano davanti a ‘na stazione, con la tettoia e le colonne di ghisa, ferrovieri e passeggeri lì di sotto, e la scritta MILANO LAMBRATE. Tirò giù allora la sua valigia, indossò la giacca, si mise in testa il tasco, s’avvolse il lungo collo d’uccello nella sciarpa.Cercarono di portarsi nel corridoio, ma il corridoio, come il giorno avanti, era affollato, di gente che lì accucciata, a terra o sopra le valigie, aveva viaggiato tutto il tempo.Il treno fischiò più volte e infine ripartì. Dopo breve marcia, fu finalmente alla stazione Centrale di Milano. Cominciò allora tutta la babilonia, tutto il bordello per scendere dal treno, di molti che vociavano, gridavano, scaricavano valigie e pacchi dai finestrini per far presto a prendere la coincidenza.Erano emigranti che si fermavano in Italia, che avevano parenti o conoscenti in Lombardia o Piemonte, a Varese o Vigevano, a Chivasso, Rivalta o Pinerolo. Napolitani, maggiormente, ma anche Lucani e Calabresi.Il funzionario del Lavoro, il signor Staìbbi, passando pel corridoio sopra uomini e valigie, gridò ancora dentro: «Scendete e aspettate tutti sopra il marciapiede. Non vi muovete da lì fino a quando non arrivo io».E così fecero,’na volta che poterono scendere dal treno, e Vito si tenne accosto ai suoi due compagni e paesani, a Turi Trubbia e Santo Brucculèri, ch’erano stati in guerra ed erano pratici di Continente e di cittadi.Era frastornato da tutta quella confusione fra mezzo ai treni, in quell’immensa stazione di Milano con quel tetto di lamiere e vetro come ‘na grande galleria, dentro cui s’ammassava muffa giallognola vagante. Sopra vagoni, carrelli, passeggeri, manifesti di reclame che Vito a stento riusciva a leggere, Calze Si-Si, Lame Bartali, Inverno Pirelli, Brillantina Vegetale Cubana.Giunse Staìbbi e li chiamò. S’unirono ad altri gruppi fermi sul marciapiede e formarono così ‘na compagnia, uno squadrone ben allineato, con Staìbbi accanto a loro che marciava come un capitano. Scesero le scale di quella stazione di marmi e mascheroni, dentro cui passi, voci e più l’altoparlante, rintronavano come dentro una grotta, e furono davanti alla cittade grande di Milano.Vito non sapeva dove guardare, giù per la spianata, pel vialone con binari, fili, alberi, macchine e camion con rimorchio che correvano, tram e filobus, e torno torno casoni altissimi che si perdevano in cima dentro a quella muffa. E sopra, sopra quelle case, in cielo, scorse un globo rossastro e appannato, come fosse dietro un vetro affumicato. Capì che era il sole, un sole che si poteva benissimo mirare senz?essere allucinati, come ‘na luna piena nella notte

Consolo Vincenzo
Pagina 31
(19 gennaio 2015) – Corriere della Sera

Retablo, Consolo

 

Consolo, Retablo

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, balico e viola…Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.

“Retablo” è un termine spagnolo che serve a designare una grande pala d’altare che può essere un dittico o un trittico e che è caratterizzato da una grande complessità di materiali e stili figurativi. Nessuna definizione migliore per questo romanzo, che è un piccolo gioiello per stile, temi e suggestioni sapientemente organizzati su un intreccio di diversi piani narrativi. Due (meglio sarebbe dire tre, forse) i protagonisti. Ambientato nel Settecento, è la storia dell’aristocratico pittore Fabrizio Clerici, che fugge da Milano e dall’amata donna Teresa per perdersi in un fantasmagorico viaggio in Sicilia, e del suo casuale compagno di viaggio, il frate siciliano Isidoro, che ha perso tutto a causa della travolgente passione per la popolana Rosalia. E proprio Rosalia, uno degli oggetti del romanzo, sarà colei che, a sorpresa, darà la chiave per comprendere (avere la visione d’insieme di) questo Retablo, questa composizione.

Grande parte del romanzo è occupata dal diario del Clerici, che annota le caratteristiche delle bellezze della Sicilia, meravigliato dall’inestimabile valore delle opere dell’antichità classica che ovunque si impongono allo sguardo ed ai sensi. Ma questo diario non è solo una collezione di appunti, ma anche, e soprattutto, una lunga e pacata dichiarazione d’amore (deluso) per donna Teresa, e poi un’occasione per riflettere sui rapporti fra arte e vita, fra verità e menzogna, fra l’aspirazione ad una pace superiore e l’incredibile tragicità dell’esistenza, fra l’aspirazione alla serenità e l’attrazione che esercitano il mondo ed i sensi. E così si assiste, da un lato, all’aspirazione del Clerici che insegue l’arte, la pittura e la scultura come mezzi per abbandonare questo mondo, l’eterno divenire e l’insopportabile caoticità che lo contraddistinguono e così accedere ad una condizione “metafisica” che gli possa finalmente permettere di affrancarsi dal tempo, dallo spazio e dalle passioni; mentre, dall’altro, si è messi di fronte ad Isidoro che, al contrario, viene strappato alla stasi ed alla pace della fede e della vita monastica per cadere (o salire?) nel vortice di passioni brucianti che infiammano il corpo e la ragione stessa fino a condurre ad una diversa estasi, lì dove il confine stesso fra passione e follia perde consistenza.

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Ma è davvero possibile accedere ad un grado di realtà superiore, fatto di algida bellezza senza contaminazioni, turbamento? Ed è davvero possibile pensare che qui ed ora si sia calati in un mondo che è solo folle divenire e bruttura e dolore, un mondo vuoto di bellezza, tanto che non vi si possa rinvenire nulla (che non sia opera d’arte) di splendente? La ricerca e il fine del Clerici si scontrano con l’impossibilità di tracciare una linea netta fra due realtà del tutto opposte, di diverso grado ed ordine. Qualcosa di diverso e nuovo appare. È nel mondo la linfa vitale che porta all’arte e la rende possibile, è nel suo caotico divenire, nel magma delle passioni, nell’irrazionalità dell’uomo, nella ferocia delle relazioni umane, nell’ingiustizia sociale la molla e la condizione di possibilità della bellezza, così come della verità e della (momentanea) quiete.

O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, poiché mi pare di toccare il cuore della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, di amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d’ogni uomo, d’amare voi, e disperatamente…

O ancora di più: l’arte stessa non vale più della vita, dato che è la vita stessa il materiale senza cui l’arte sarebbe impossibile. Questa l’estrema riflessione del Clerici quando, per di non far affondare la barca su cui stanno viaggiando, è costretto a gettare in mare una statua antica e d’inestimabile valore.

Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo.

L’arte, infine, sarebbe il prodotto della sofferenza dell’uomo che, attraverso questo suo stesso prodotto, potrà infine comprendere qualcosa del suo dolore, così come della sua condizione. L’opera d’arte, dunque, come immagine riflessa, come doppio identico ed estraneo che mostra all’uomo quel che è. La vita genera l’arte, così come l’arte permette di comprendere (di ritornare con nuovi occhi) quella vita che l’ha generata.

Il viaggio, l’amore, la morte, il volto ambiguo della natura…questi e molti altri temi si intrecciano in questo magnifico lavoro che è destinatario, forse, dell’augurio che il Clerici indirizza al proprio diario, nel momento in cui lo dedica all’amata donna Teresa: “acciocché resti un dono singolare e ancora che non venga sopraffatto nella valanga di libri e di libresse privi d’anima…”. Ecco, tale augurio pare al tempo stesso esaudito e tradito. Esaudito perché Retablo è (così come altri scritti di Consolo) un libro che per stile ed equilibrio ha del miracoloso e che per questo non può di certo esser confuso con altri, privi d’anima. Tradito, perché sopraffatto dalla valanga di romanzi che l’hanno relegato a piacere per (troppi) pochi lettori; tradito perché travolto dalla valanga di libri ben inferiori, scritti che (in generale) non sono grande letteratura e che (in particolare) poco o nulla colgono ed hanno da dire della Sicilia e delle sue abissali profondità. In questo senso, non si può che lasciare la parola ad un grande scrittore siciliano. Leonardo Sciascia.

“Per quel che si svolge e per come è scritto, questo racconto è come un miracolo: il che, per altro esattamente si conviene alla parola “Retablo”, di solito I “retablos” in pittura rappresentano sequenze di fatti miracolosi”

Tommaso Aramaico
17 gennaio 2015 blog tommasoaramaico

Lunaria Nella gioia luminosa dell’ inganno

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Dalla favola teatrale di Vincenzo Consolo
Questo progetto è un omaggio alla memoria del grande scrittore contemporaneo Vincenzo Consolo, di recente scomparso. L’omaggio vuole anche dare seguito all’idea, nata durante un mio incontro con l’autore alcuni anni fa, di uno sviluppo delle potenzialità musicali del racconto. Il racconto, che prende spunto dal frammento lirico “spavento notturno” di Giacomo Leopardi (ma soprattutto, per esplicita ammissione dell’autore, è ispirato dal testo “L’esequie della luna” (1967) del poeta e amico Lucio Piccolo), è ambientato in una Sicilia fantastica, contemplata attraverso un caleidoscopio che combina tutte le tinte del barocco mediterraneo. Sospesa tra narrativa e lirismo, l’intera tessitura del racconto si dispiega quale vera e propria partitura il cui dato musicale scorre sottotraccia come un fiume carsico, emergendo qua e la alla luce del sole (o piuttosto della luna) in occasione di veri e propri episodi melodici e coreutici: canzoni, danze, poesie la cui tensione musicale è esaltata dall’uso di una lingua “personale” dell’autore, che compendia le più antiche radici degli svariati idiomi regionali. E’ dunque proprio la lettura di questa partitura che si è voluta realizzare con questo progetto.