La Sicilia di Vincenzo Consolo

di Valentina Pinello

Di Vincenzo Consolo si sente già la mancanza. Era una presenza, un punto di riferimento, un’intelligenza sulla quale poter contare per avere una riflessione lucida e illuminante su quello che sta succedendo nel nostro paese e nella sua Sicilia. Da Milano scrutava, studiava, rifletteva e, solo quando aveva qualcosa da voler comunicare, parlava o scriveva. Non è mai stato uno scrittore prolifico, tra “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e “Retablo” sono passati dieci anni. La Sicilia era il suo chiodo fisso anche se aveva deciso di lasciarla, come racconta in un’intervista inedita, che adesso vogliamo riproporvi, di qualche anno fa, ma di estrema attualità perché, come diceva Consolo, «c’è un impegno morale nel rappresentare il nostro tempo da parte dello scrittore; anche se scrive libri di storia, non deve essere la storia romanzata, deve essere una storia metaforica come ci ha insegnato Manzoni, cioè si parla del passato per rappresentare la nostra contemporaneità».

A distanza di una settimana dalla sua morte, ci manca il suo modo di saper cogliere e raccontare la realtà, avremmo voluto chiedere il suo punto di vista su tanti temi di estrema attualità, dal movimento dei Forconi che agita da settimane la Sicilia fino all’immigrazione, al quale è stato sempre particolarmente sensibile. Alcune di queste domande trovano una risposta in quell’utile, unica e senza tempo chiacchierata di qualche anno fa, nella sua casa siciliana a Sant’Agata di Militello, di fronte alle Isole Eolie.

LA SICILIA DI VINCENZO CONSOLO.
INTERVISTA  ALLO SCRITTORE DEL “SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO”  

Trascorrere un paio d’ore conversando con Vincenzo Consolo è stato come aver riletto pagine significative di storia e di letteratura della Sicilia e averle fatte proprie. Il suo modo di parlare con semplicità di fatti non sempre comprensibili ai non siciliani,, denota una linearità di pensiero che solo un attento conoscitore di quell’Isola può possedere. Ascoltarlo provoca un piacere diverso rispetto a leggere i suoi libri, noti invece per una prosa ricercata, non di immediata comprensione, anche se musicale, intessuta di riferimenti linguistici che derivano radici culturali della terra siciliana.

Consolo vive a Milano da più di trent’anni, ma torna spesso a Sant’Agata di Militello, suo paese d’origine, dove l’abbiamo incontrato.

«Ormai siamo diventati degli Ulissidi, espropriati della nostra identità e alla ricerca della nostra Itaca. Quando torniamo però Itaca non c’è più; la patria è ormai diventato un luogo interiore .Vedendo la realtà siciliana fatta di ingiustizie ho deciso di spostarmi a Milano, patria di Beccaria. Qui da noi il diritto si trasforma in favore che ti lega ad una persona, in alcuni casi,  anche per tutta la vita. Sono andato via per questo. Lo sradicamento (solamente fisico, le mie memorie sono qui) è doloroso, però alla fine necessario. Non è facile ricostruire legami in luoghi che non sono i tuoi. Ma  stando qui si fa un danno a se stessi. Bisogna però tornare e quando si torna si è più forti, forse anche meno vulnerabili, o meglio, meno ‘ricattabili’».

“Sciascia è lo scrittore che è perché è nato a Racalmuto”, si legge in uno dei suoi saggi; e anche per quanto riguarda Pirandello lei sottolinea la sua provenienza dalla provincia di Agrigento, una zona ricca di miniere di zolfo. La vita delle miniere entra in molti romanzi siciliani, a tal punto che si parla di una “letteratura dello zolfo”. Dopo questa premessa, com’è stato influenzato lei dalle sue zone d’origine, sempre presenti nei suoi romanzi?

«Tutta una serie di scrittori di cui io parlo sono stati influenzati dalla condizione delle zolfare, in cui esisteva un rapporto di assoggettamento totale dell’operaio al padrone. La realtà delle zolfare poggiava principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso.  Dalla condizione di carusi, sfruttati come servi  della gleba, era quasi impossibile riscattarsi. Col tempo però questi  presero coscienza della loro condizione e dal mondo delle zolfare si sollevarono le prime proteste operaie. La prima riunione di sindacati (allora si chiamavano Società di Mutuo Soccorso) avvenne a Grotte. Per l’occasione vennero gli operai del nord a portare la loro solidarietà, come oggi avviene per gli operai della Fiat di Termini Imerese.

Nella Sicilia occidentale è nata una letteratura diversa rispetto a quella orientale. Così Pirandello parla del mondo delle zolfare e dei primi scioperi (ne “I vecchi e i giovani”); ma non è l’unico. Altri esempi sono Alessio Di Giovanni in “Gabrieli lu carusu” o Angelo Petix, nel dopoguerra, in “La miniera occupata”. Anche Verga ne parla, in “Dal tuo al mio”o in “Rosso Malpelo”; ma lo scrittore catanese non è un uomo di zolfo e per lui la lotta di classe non serve a niente. Verga parla piuttosto di una metafisica della roba e la sua è una concezione conservatrice.

In scrittori della parte orientale della Sicilia, anche se di forte impegno civile, mi riferisco a Brancati o a Vittorini, è invece più marcata la propensione ad una scrittura lirica (vedi “Conversazione in Sicilia”).

Arrivando a me: quando ho deciso di intraprendere questa strada, provenendo da un paese intermedio tra queste due realtà da me descritte seguendo una sorta di geografia ideale, ho dovuto decidere da che parte stare. Nella mia zona, quella di Sant’Agata di Militello, non c’è stato il problema del latifondo, della distruzione della natura; c’era la piccola proprietà terriera, ma non ci sono mai stati grandi scontri sociali. Per me si pose quindi il problema se rimanere chiuso in quest’ambito, sviluppando temi di tipo esistenziale, oppure avvicinarmi alle zone di Messina o Catania, oppure ancora spostarmi verso le zone occidentali. Bene, alla fine ho concepito una sorta di ibrido, una ‘chimera’ , tra mondo occidentale, di impegno civile, e mondo orientale, lirico».

Al di là dei suoi orientamenti stilistici, di quale Sicilia ama parlare?

«Si ha della Sicilia un’immagine eccessivamente colorata, nel senso più negativo. Un po’ come avviene per il sud America: del Brasile, per esempio, si parla per il Carnevale di Rio e si rischia di non andare oltre. La Sicilia vera, quella di cui mi piace parlare, è quella dell’uomo che ha cercato di riscattarsi, di ritrovare la sua identità. Niente colorismo alla Camilleri! Rischiamo di farci espropriare del nostro patrimonio umano. L’identità non deve però essere compiacenza di sé, ma comprensione dell’altro partendo da una migliore conoscenza di noi stessi».

Al tema dello scontro tra civiltà, non pensa che la storia della Sicilia abbia dato una risposta, intessuta com’è di cultura e di tradizioni arabe? Basti pensare alle tecniche per la coltivazione degli agrumi o ai sistemi di pesca del tonno.

«Chi solleva lo scontro di civiltà mostra ignoranza e malafede. Confondere l’integralismo islamico con la religione islamica è lo stesso di confondere il Cristianesimo con l’Inquisizione e l’Autodafè. Parlare di crisi dell’Islam significa alimentare razzismi e xenofobie. Sciascia, citando Amari, “Storia dei musulmani in Sicilia”, dice che la storia della nostra isola inizia con l’arrivo degli arabi musulmani, nell’827; da lì è iniziato un risveglio culturale, economico e artistico. Non si può cancellare questa storia. I normanni, intelligentemente, non hanno cancellato questa dominazione. Nel periodo normanno a Palermo c’erano ancora numerose moschee , oltre che sinagoghe e chiese cristiane, e un riconoscimento reciproco. Con gli spagnoli è venuta meno questa pacifica convivenza.

Nel corso degli anni ci sono stati degli intellettuali che hanno cercato di creare dei fossati di odio e di vendetta; la Fallaci appartiene a questa schiera e purtroppo interpreta il pensiero di molti».

Nella Sicilia attuale, dei condoni edilizi, delle case costruite sulla Valle dei Templi, del clientelismo, delle coste sempre più deturpate dal cemento (da cui anche i tonni sono scappati!), pensa che “l’olivastro”, il selvatico, abbia completamente asfissiato “l’olivo”, usando la distinzione presente nel suo libro, “L’olivo e l’olivastro”, appunto.

«Credo di sì. Ho paragonato Falcone e Borsellino a persone che hanno cercato di disboscare, con l’ascia della legge, il selvatico. Ma sono stati uccisi. A Palermo si è diffuso un clima di assoluto fastidio verso i magistrati. Si è passati dall’indignazione degli anni di Falcone, alla dimenticanza. E’ un brutto segno quando in una società non si riconosce l’importanza della magistratura e quando non si riconosce l’indipendenza dell’Antimafia».

Valentina Pinello
15 gennaio 2012 pubblicata su Golem

Foto di Giovanna Borgese

Risorgimento e letteratura il Romanzo post-risorgientale siciliano – Vincenzo Consolo

RISORGIMENTO E LETTERATURA
IL ROMANZO POST-RISORGIMENTALE SICILIANO

(letto all’Università del Connecticut il 1° maggio 2002
pubblicato in “Italian culture” XXI – 2003 Michigan State University Press
pag. 149-163 tradotto in inglese da Norma Bouchard
letto alla Biblioteca della Camera dei Deputati, 2011
pubblicato nella rivista italiana della facoltà di Lingue dell’Università Nazionale di Cordoba, Argentina, pag. 117-130, nel 2011

Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt,
Terra antiqua, potens armis atque ubere glebae;
Oenotri coluere viri: nunc fama minores
Italiam dixisse, ducis de nomine, gentem.

(Esiste una terra, Esperia i Greci la chiamano,
terra antica, potente d’armi e feconda di zolla;
gli Enotri l’ebbero, ora è fama che i giovani
Italia abbian detto, dal nome di un capo, la gente).
(1-Virgilio – Eneide libro III, versi 163-166 )

Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave senza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincia, ma bordello !
(2-Dante Alighieri -La Divina Commedia – Purgatorio Canto VI – versi 76-78)

Di quell’umile Italia fia salute,
per cui morì la vergine Camilla,
Eurialo e Turno e Niso, di ferute
(3-Dante Alighieri – La Divina Commedia – Inferno Canto I -versi 106-108)

Italia mia, benché il parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel tuo corpo sì spesso veggio,
piacemi almen che’ miei sospir sian quali
spera ‘l Tevere e l’Arno
e ‘l Po, dove doglioso e grave or seggio.
(4-Francesco Petrarca – Le Rime – CXXVIII – versi 1-6)

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
che lividor, che sangue!
(5-Giacomo Leopardi – Canti – All’Italia -versi 1-9)

Si potrebbe continuare formando una vasta antologia poetica in cui l’idea o l’ideale dell’Italia, come unità di terra, di popolo, di lingua, di cultura è stato vivo e presente molti secoli prima che l’unità politica italiana si concretizzasse.
I versi sopra riportati dell’Eneide di Virgilio appartengono a un poema concepito in gloria dell’Italia, di Roma, della gens Julia, di Ottaviano Augusto. Dalla fine dell’impero romano, dalla frantumazione dell’Italia in varie regioni o città stato, dalle invasioni straniere e dalle guerre che dilaniano quell’antica terra, non è nei poeti, da Dante in poi, che rimpianto dell’antica grandezza, dolore per l’infinita decadenza, invettiva nei confronti dei responsabili di tanta miseria. Nasce allora da questo rimpianto, dolore e furore l’idea di una rinascita, del Risorgimento, il movimento di pensiero e il processo politico che culmina con l’Unità del 1861, ma che ha i suoi sviluppi ancora con la terza guerra d’indipendenza e l’annessione del Veneto e con la conquista di Roma del 1870. Ha un’origine letteraria dunque l’ideale del Risorgimento, ma diviene processo politico con l’età napoleonica. Si riferisce esso certo alla Rivoluzione francese, come rivolta contro l’assolutismo e l’affermazione dei principi di Libertà, Uguaglianza, Fraternità, dei principi di democrazia vale a dire nel futuro statuto nazionale. Alla Rivoluzione francese si riferisce l’ideale risorgimentale e quindi anche alla Rivoluzione e all’indipendenza americana. Il termine risorgimento ha la sua matrice nel Rinascimento, il secolo d’oro italiano, ma rimanda forse ancora a un archetipo religioso, alla Resurrezione del Cristo. Ma, scrive Gramsci, “Nasce nell’800 il termine ‘risorgimento’ in senso più strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di ‘riscossa nazionale’: che è un’idea, un ideale non più o non solo poetico, ma intellettuale, di pensatori, di politici che cospirano, lottano per liberare l’Italia dalle dominazioni straniere, restituire alla sua Unità, monarchica, come l’ha voluta e ottenuta Cavour, o repubblicana, come l’ha desiderata Mazzini.
E il popolo? Il popolo soprattutto nel Meridione, nel Regno borbonico delle Due Sicilie, il popolo soprattutto dopo le insurrezioni del 1848, ha inteso i termini Risorgimento, riscossa e riscatto, non o non soltanto in senso di liberazione nazionale, ma di liberazione, riscatto sociale: liberazione dalla schiavitù feudale in cui le masse dei contadini erano state tenute nel sistema economico di tipo feudale; liberazione dalle miserie urbane in cui si trovavano i popolani di città come Napoli o Palermo; liberazione per tutti dalla miseria, malattie, ignoranza.
Era questo il popolo in cui era penetrato, intorno agli anni Cinquanta, il messaggio degli intellettuali, dei politici. Quel popolo, quella plebe che prima
aveva gioito, ballato e applaudito intorno ai palchi in cui erano stati impiccati o ghigliottinati i protagonisti della Rivoluzione napoletana del 1799, patrioti come Francesco Caracciolo, Eleonora Fonseca Pimentel, Mario Pagano, Domenico Cirillo… “In tutta la sua storia posteriore, fino alla sua definitiva caduta, in tutti i momenti di pericolo, si sente nella monarchia (borbonica), l’attesa, trepida di speranza, che si ripeta il miracolo del 1799 e dal suolo napoletano prorompano a salvarla contadini e lazzari e briganti” scrive Benedetto Croce in Storia del Regno di Napoli.(6) Quei contadini, quei lazzari che, ancora nel 1857, affrontano e sopraffanno i soldati della spedizione del mazziniano Carlo Pisacane, quei soldati che erano approdati nel Salernitano, presso Sapri, per liberare le masse popolari. Il Pisacane, sopraffatto, si uccide.
“Eran trecento, eran giovani e forti, / e sono morti!” è il ritornello della poesia La spigolatrice di Sapri (7) di Luigi Mercantini.
Ma in Sicilia la situazione era diversa, più gravi essendo nell’isola le condizioni di sfruttamento e di miseria delle classi popolari. Il Risorgimento come riscatto sociale era quindi penetrato nelle classi popolari, nelle plebi di città e nei contadini e zolfatari dell’interno dell’isola.
Una insurrezione avvenne il 4 aprile del 1859 nel centro storico di Palermo, nel convento della Gancia; un’altra seguì dopo due giorni a Messina: tutte e due furono ferocemente represse. Ma la rivoluzione esplose, da lì a poco,l’11 maggio del 1860, allo sbarco di Garibaldi e dei Mille a Marsala dai due vapori Lombardo e Piemonte, salpati da Quarto, presso Genova.
A Salemi, Garibaldi assunse la dittatura col motto “Italia e Vittorio Emanuele”. Ai mille garibaldini partiti da Quarto, si aggiunsero man mano i volontari, i “picciotti”, sicché alla conquista o liberazione dell’isola, l’esercito garibaldino ammontava a cinquantamila soldati.
Durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese e intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia.
Man mano che i garibaldini procedevano, di battaglia in battaglia, nella liberazione della Sicilia dal giogo borbonico, qua e là in vari paesi o villaggi avvenivano rivolte popolari contro le locali classi egemoni, contro i borghesi proprietari terrieri, usurpatori di terre demaniali. E i garibaldini dovevano accorrere per reprimere queste forme di jacquerie . É stata questa la pagina più drammatica e dolorosa di tutta l’epopea risorgimentale. “É da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia Nazionale anticontadina;
è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente” scrive Gramsci (Il Risorgimento) (8).Ad Alcara Li Fusi, a Prizzi, Licata, Randazzo, Linguaglossa, Biancavilla e soprattutto a Bronte scoppiarono queste rivolte. Rivolte di contadini e braccianti contro i cosiddetti civili (sorci o cappelli venivano chiamati). “Implacabile la reazione del Governo garibaldino, che nel catanese inviò una spedizione al comando di Bixio, il quale prometteva di dare un esempio tremendo avvertendo: ‘o voi rimanete tranquilli o noi in nome della Giustizia e della Patria nostra vi distruggiamo come nemici dell’umanità’, e infatti restaurava l’ordine con pugno di ferro, riducendo i contadini alla ragione coi consigli di guerra e le fucilazioni sommarie”.
Sulle due rivolte, di Alcara e di Bronte, parleremo più avanti per i riflessi che esse hanno avuto in ambito letterario.
Le contraddizioni fra le due visioni o concezioni del Risorgimento in Sicilia, le si vedono già nel libro-memoria del garibaldino piemontese Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno-noterelle di uno dei Mille,(9) libro agiografico, intriso spesso di retorica, ma che qua e là ha delle smagliature per cui s’intravvede la cruda realtà.
“13 maggio. Salemi. Una donna, con panno nero giù sulla faccia, mi stese la mano borbottando.
Che cosa? – dissi io.
Staio morendo de fame, eccellenza!
Che ci si canzona qui? Esclamai: e allora un signore diede alla donna un urtone, e mi offerse da bere, un gran boccale di terra. Fui lì per darglielo in faccia: ma accostai le labbra per creanza, poi piantai lui per raggiungere quella donna. Non mi riuscì di trovarla”(10) scrive Abba e ancora oltre, e più significativamente: “ Mi sono fatto un amico. Ha ventisette anni, ne mostra quaranta: è monaco, e si chiama padre Carmelo. Sedevamo a mezza costa del colle, che figura il calvario con le tre croci, sopra questo borgo, presso il cimitero. Avevamo in faccia Monreale, sdraiata in quella sua lussuria di giardini; l’ora era mesta, e parlavamo della rivoluzione. L’anima di padre Carmelo strideva. Avrebbe voluto esser uno di noi, per lanciarsi nell’avventura col suo gran cuore, ma qualcosa lo trattiene dal farlo.
Venite con noi, vi vorranno tutti bene.
Non posso.
Forse perchè siete frate ? Ce n’abbiamo già uno. E poi, altri monaci hanno combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.
Verrei, se sapessi che farete qualcosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri, e non mi hanno saputo dire altro che volete unire l’Italia.
Certo; per farne un grande e solo popolo.
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Un solo territorio…In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre: ed io non so se vogliate farlo felice.
Felice! Il popolo avrà la libertà e le scuole…
E nient’altro! Interruppe il frate: – perchè la libertà non è pane e le scuole nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi; per noi, qui, no.
Dunque, che ci vorrebbe per voi?
Una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a Corte, ma in ogni città, in ogni villa.
Allora anche contro di voi frati, che avete conventi e terre dovunque sono case e campagne!
Anche contro di noi; anzi, prima che contro d’ogni altro. Ma col Vangelo in mano e colla croce. Allora verrei. Così è troppo poco. Se io fossi Garibaldi, non mi troverei, a quest’ora, quasi ancora con voi soli.
Ma le squadre?
E chi vi dice che non aspettino qualcosa di più ?
Non seppi più che rispondere e mi alzai.”(11)
Qualcosa di più aspettavano da quella rivoluzione le squadre dei contadini, dei picciotti che s’erano uniti ai Mille di Garibaldi. Aspettavano Libertà e Giustizia, ripristino dei loro diritti da sempre conculcati, liberazione dallo sfruttamento dei feudatari e dei loro rappresentanti nel feudo, che erano i soprastanti, i gabelloti, i campieri, quelli che sarebbero diventati i capi della mafia rurale.
Compiutasi l’Unità d’Italia, formatosi lo Stato monarchico, sorse subito, nelle plaghe meridionali del Regno, e soprattutto nel ceto popolare di Sicilia un sentimento di delusione per le aspettative, le speranze tradite di un cambiamento sociale. Nel nuovo stato unitario le condizioni dei contadini e dei braccianti nonché migliorare, erano, se possibile, peggiorate, per nuove tasse, dazi e balzelli che gravavano sul ceto popolare, per l’obbligo della leva militare, che durava cinque anni…In più, contadini e braccianti, avevano visto tornare al potere i nobili e i borghesi di prima, i trasformisti di sempre, e constatato che con il nuovo Regno nulla nella sostanza era cambiato. La delusione e il malcontento fecero riesplodere in Sicilia i ribellismi. Nel 1866 a Palermo. Ribellione di 30/40 uomini in armi che durò sette giorni e mezzo e che fu repressa dal generale piemontese Raffaele Cadorna. Scrive il marchese di Torrearsa, esponente della destra moderata “É un fatto che non bisogna ritenere come esplosione accidentale e come conseguenza delle mene dei frati e dei reazionari. Niente affatto: per me è il logico risultato della profonda demoralizzazione delle masse che non mancherebbe di accadere altre volte, se una causa occasionale ne offrisse nuovamente il destro”.(12)
E la causa si presentò ancora nel 1893, con il diffondersi questa volta del messaggio socialista, e con i fatti dei Fasci dei lavoratori, che non possono più
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ascriversi a un ribellismo istintivo, ma a una precisa consapevolezza di lotta da parte di contadini e zolfatari. Anche i Fasci, i loro scioperi e le loro manifestazioni, furono ferocemente repressi dalle forze dell’ordine statali.
Il Governo di Roma, di mentalità piemontese, di cavouriana borghesia conservatrice, ignorava i problemi del Regno, soprattutto delle plaghe meridionali. Esso doveva amministrare un Paese di 23 milioni di abitanti, in prevalenza rurale e povero, arretrato. Dei 23 milioni di abitanti, 17 milioni erano analfabeti; soltanto il 2,4% sapeva parlare in italiano. 25 anni dopo l’Unità l’Istituto geografico militare potè fornire al Governo una misura definitiva del territorio nazionale (286.588 chilometri quadrati). La classe dirigente dunque, nei primi decenni dell’Unità, del nuovo Regno, si trovò di fronte a un Paese sconosciuto, completamente ignoto soprattutto nella periferia, nel Meridione, in quello che era stato il dispotico e corrotto Regno borbonico delle due Sicilie e in parte anche lo Stato pontificio. É allora in questo periodo che si sentì la necessità di avviare le prime inchieste, pubbliche e private. Inchieste soprattutto, dopo il 1870, sui fenomeni sociali, che i fatti della Comune di Parigi avevano messo in evidenza; fenomeni che avevano dato i loro segni, come abbiamo visto nei ribellismi del 1860, nel ’66 e ancora con i moti della tassa sul macinato, con la renitenza alla leva e con l’incrudelire del brigantaggio. Il quale aveva due facce o nature: una populista, giustizialista, robinoodiana; l’altra reazionaria, mafiosa, di un banditismo vale a dire al servizio della classe dominante, dei feudatari per controllare e sfruttare i contadini. Vengono dunque fatte le prime inchieste pubbliche: Relazioni intorno alle condizioni dell’agricoltura – Atti del Comitato dell’inchiesta industriale – Atti della Commissione per la statistica sanitaria. Nel 1875 e ’76 si svolgono le due più famose inchieste in Sicilia, una pubblica, parlamentare, e l’altra privata: Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia e Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino. Due inchieste in Sicilia: perchè dalla Sicilia arrivavano le relazioni, le notizie più preoccupanti sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari. L’una, quella ufficiale, era di taglio ministeriale, da ministero degli Interni e della Giustizia; l’altra, di taglio più politico-sociale, se non umanitario. Dell’inchiesta dei due studiosi Franchetti e Sonnino, di questi due conservatori illuminati, quello che aveva colpito di più l’opinione pubblica nazionale era stato il capitolo supplementare dell’inchiesta, dal titolo Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane: si alzava per la prima volta un velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta e l’Italia ne rimaneva inorridita. Inorridita rimaneva anche per un velo che si alzava su un altro fenomeno siciliano: quello della mafia. Già nel 1838 don Pietro Ulloa, procuratore generale a Trapani, aveva inviato al ministro della Giustizia una relazione sullo stato economico e politico della Sicilia, in cui vien fuori l’organizzazione ch’egli chiama
”fratellanza”, e trent’anni dopo, con la rappresentazione della commedia I mafiusi della Vicaria di Rizzotto e Mosca (13), si chiamerà Mafia. “Vi ha in molti paesi delle Fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza di un capo, che qui è possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un funzionario, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione con i rei. Come accadono furti, escono dei mediatori ad offrire transazioni pel recupero degli oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste ‘fratellanze’ di un’egida impenetrabile…”(14) così scriveva Ulloa nella sua relazione.
Dopo la pubblicazione dell’inchiesta di Sonnino e Franchetti, dove si diceva di questa specificità siciliana della malavita, della mafia, molti intellettuali l’hanno accolta come una diffamazione dell’Isola, e soprattutto l’etnologo Giuseppe Pitrè e lo scrittore Luigi Capuana. Quest’ultimo scrive un pamphlet contro l’inchiesta dei due studiosi, un saggio dal titolo La Sicilia e il brigantaggio(15).
A quel tempo risale la convinzione in alcuni sicilianisti o nazionalisti oltranzisti, che ogni volta che si mettono in luce i gravi problemi siciliani o italiani, soprattutto problemi di mafia o di corruzione politica, si infanga il buon nome dell’Isola, si nuoce al Paese. Questo sosteneva nel passato il primo ministro Giulio Andreotti quando si scagliava contro il cinema neorealista di Rossellini o di De Sica, sostenendo che i panni sporchi si lavano in famiglia, che voleva dire non si lavano mai. Questo sostiene oggi il primo ministro Berlusconi accusando i serials televisivi, che hanno per argomento la mafia e che vanno sotto il nome de La Piovra, che nuocciono all’economia del Paese: nasce così la cosiddetta Questione meridionale. Questione che dal Fascismo sarà occultata e che riemergerà in tutta la sua drammaticità nel Secondo Dopoguerra. E gli intellettuali, gli scrittori che avevano sognato l’Unità d’Italia, l’avevano sentita come un impegno morale, prima che politico, tramandato dai grandi poeti del passato; gli intellettuali e gli scrittori che avevano anche indossato la camicia rossa dei garibaldini, come Giuseppe Cesare Abba, loro, o i loro figli e nipoti, come hanno reagito di fronte a un Risorgimento che non era quello ideale a cui avevano aspirato? Scrivono essi, con i loro racconti e romanzi, una contro-storia d’Italia, una storia anti-risorgimentale che si può declinare di volta in volta come denuncia di un mancato cambiamento politico e sociale, del trasformismo delle classi dominanti, del tradimento degli alti ideali risorgimentali, dell’immiserimento, nella cinica pratica politica, dei principi democratici. Si può ancora declinare come revanscismo o rimpianto dei vecchi ordini di potere, rimpianto del distrutto regno borbonico. E ancora, in una visione metastorica, in cui ogni volontà o azione ai fini di un cambiamento sociale non è che inganno, poiché l’individuo, l’uomo,di qualsiasi condizione sociale,è fatalmente destinato
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alla perdita, alla sconfitta: egli è sempre e comunque un Vinto. O al di là di questo assoluto pessimismo, si può declinare in una visione scettica nei confronti della storia. La quale non è che un processo deterministico, in cui le classi o i poteri si spengono e spariscono, vengono sostituiti da altri per una fisica, meccanica necessità.
Stiamo parlando di racconti e romanzi di autori siciliani scritti come critica al Risorgimento. Stiamo parlando della novella Libertà e del romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga, de I Vicerè di Federico De Roberto, de I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello, de Il Quarantotto di Leonardo Sciascia e de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Nella novella Libertà racconta della rivolta di Bronte del 1860, della strage dei ‘civili’ e della repressione da parte di Nino Bixio. L’intellettuale conservatore, lo scrittore rivoluzionario Giovanni Verga vede i rivoltosi di Bronte come degli incoscienti ed illusi che hanno creduto nel cambiamento del loro stato sociale e alla fine ne pagano le conseguenze con la morte o il carcere. “Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: “Dove mi conducete? – in galera ? – O perchè ? Non mi è toccato neppure un palmo di terra ! Se avevano detto che c’era la libertà!…”(16)
Ne I Malavoglia la storia è vista dagli umili pescatori di Acitrezza come un evento fuori dalla loro vita, storia che, quando arriva a investirli, non è che portatrice di sciagura, come quella che tocca a Luca, nipote di padron ‘Ntoni , che muore nel 1866 durante la battaglia di Lissa.
De Roberto rovescia la concezione fatalistica verghiana, riporta la sua polemica antirisorgimentale sul piano storicistico, dimostra che vinti non sono gli uomini per destino, ma per precise ragioni storico-sociali, che i potenti, adattandosi con cinismo ai nuovi assetti politici, riescono sempre ad essere, a restare vincitori. Consalvo Uzeda, principe di Francalanza, neo eletto al nuovo Parlamento italiano dice alla altezzosa zia conservatrice donna Ferdinanda:”La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perchè mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento”(17). E conclude: “Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine. Di simili ostinazioni nel bene e nel male…(…) Vostra eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto.No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”(18).
I vecchi e i giovani di Pirandello è un grande affresco storico, come I Viceré di De Roberto.É il romanzo del fallimento, pubblico e privato,di tutti i personaggi,
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sia dei garibaldini del ’60, come Mauro Mortara, sia dei socialisti dei Fasci del 1893, come Lando Laurentano, del borbonico principe don Ippolito Laurentano e della sorella Caterina, dell’eccentrico ed estraneo del mondo, don Cosmo, dei deputati D’Atri, Covazza e Selpi, dei socialisti velleitari Lizio e Pigna, del folle Marco Prèola…Inganni e fallimenti della politica, tradimento del Risorgimento, scandali come quello della Banca Romana…Scrive il critico Carlo Salinari:”Nel romanzo si ha l’acuta consepevolezza di tre fallimenti collettivi: quello del Risorgimento come moto generale di rinnovamento del nostro Paese, quello dell’unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, quello del socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale, e invece si era perduto nelle secche della irresponsabile leggerezza dei dirigenti e della ignoranza e della arretratezza delle masse”(19).
Ne Il Quarantotto di Sciascia è messo ancora a fuoco, come ne I Viceré di De Roberto, il trasformismo della classe egemone siciliana. Il barone Garziano, borbonico e reazionario, allo sbarco dei garibaldini ospita a casa sua Garibaldi, Sirtori, Ippolito Nievo, Carini, Türr…e diviene emerito patriota.
“Nunc et in hora mortis nostrae”: fra questi due punti inesorabili, fra questa sorgente e questa foce, fra il presente e la sua fine, sotto l’esiguo raggio tra due tenebre scorre il fiume della vita, si svolge il filo del racconto; dalla riva della lucidità e del disincanto si posa sopra il mondo, sopra gli eventi, lo sguardo freddo di Salina e insieme di Lampedusa; sulla nota bassa e melanconica della consapevolezza della morte s’imposta la sua voce. Morte dell’individuo, del principone, e insieme morte d’un tempo, quello del Regno borbonico, e di una classe, l’aristocrazia siciliana. Con questa visione di disincanto, di scetticismo il Lampedusa interpreta il Risorgimento. E vede così ineluttabile la decadenza dei Gattopardi e l’ascesa degli sciacalli e delle iene come don Calogero Sedara, ineluttabile il cinismo e l’opportunismo del nipote Tancredi, il giusto suo accoppiamento con la bellissima e sensuale Angelica, nipote di Peppe Mmerda. Rifiuta, don Fabrizio, il laticlavio del nuovo senato del Regno che l’inviato del Governo Chevalley viene ad offrirgli, ma accetta la filosofia del giovane rampante Tancredi, simile a quella di Consalvo Uzeda:”Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”(20).
In occasione del centenario dell’Unità d’Italia, fra le celebrazioni dell’anniversario, c’era stata anche una rilettura critica del Risorgimento, la sua liberazione dall’oleografia in cui era stato avvolto. Si rilessero i romanzi sopra citati, ma anche la storiografia critica sino a quel momento negletta. Nel 1963 , Leonardo Sciascia curava e faceva ripubblicare il libro di Benedetto Radice sui fatti sanguinosi di Bronte, già pubblicato nel 1910, Nino Bixio a Bronte.(21) Da questa memoria storica venne tratto il film di Florestano Vancini, sceneggiato
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dallo stesso Sciascia, Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. La filmografia sul Risorgimento era stata fino ad allora di tipo evocativo ed agiografico: Viva l’Italia di Rossellini, 1860 di Blasetti, Camicie rosse di Alessandrini. Il film dunque di Vancini, che faceva scendere dal piedestallo del monumento un eroe come Nino Bixio, aveva suscitato scandalo e polemiche.
Nel clima delle celebrazioni del centenario e nella rilettura del Risorgimento, concepii il mio Sorriso dell’ignoto marinaio. Partii dalla lettura della storiografia risorgimentale, da Croce a De Sanctis, Salvemini, Romano, Romeo, Giarrizzo, Della Peruta, Mack Smith, fino all’eterodosso Renzo Del Carria, al suo Proletari senza rivoluzione (22), e fino alla più minuta memorialistica, alle storie del ribellismo locali del ’60, come la ribellione di Alcara Valdemone, un paese sui Nebrodi, molto vicino al paese dove io ero nato. E ancora avevo percorso la rilettura di argomento risorgimentale, di cui sopra ho riferito. Clamorosamente esplodeva in quegli anni, in cui si leggeva criticamente il Risorgimento, il fenomeno del Gattopardo. Il tono evocativo-romantico di un tempo e di un mondo perduti, aumentava il fascino del romanzo e faceva accettare il suo messaggio conservativo. La visione scettica di Lampedusa, nonché verso il Risorgimento, era verso ogni sconvolgimento d’un ordine (“quell’ebreuccio di cui non ricordo il nome”)(23), d’un ordine che, pur nella sua ineludibile iniquità, possiede una sua naturale armonia che in alto, per lenta distillazione di linfe, può dare i fiori più belli d’una civiltà.
Irritava così il romanzo i neo-risorgimentali, gli intellettuali che, nel nome di Marx, nel nome di Gramsci, al di là d’ogni bellezza, fosse pure letteraria, poetica, credevano nella giustizia, nell’equità come portato della storia, nel rispetto d’ogni diritto e umana dignità, nel recupero alla società d’ogni margine di debolezza e impotenza. Queste istanze, si sa, penetrarono non già nei contadini e braccianti meridionali – com’era accaduto alla fine dell’Ottocento – ché costoro, con l’infrangersi dell’antico sogno della terra, con il fallimento d’una riforma agraria sempre voluta, con il rapido e unico sviluppo in senso industriale del Paese, in massa erano emigrati nel Nord, ma erano penetrate, le istanze, in contesti urbani e industriali, a Torino, a Milano erano deflagrate.
M’ero trasferito nel 1968 dalla mia Sicilia a Milano e subito mi trovai di fronte a uno sfondo industriale, a un conflitto sociale fra i più accesi del dopoguerra, che il potere e le forze della conservazione cercavano di placare con omicidi e stragi, che il terrorismo politico poi, con uguale metodo e uguali misfatti contrbuì a dissolvere; mi trovai di fronte a una profonda crisi culturale, alla contestazione in letteratura operata dai due fronti contrapposti degli avanguardisti e degli sperimentalisti.
Mi trasferii dunque a Milano nel ’68 con l’idea incerta del mio Sorriso, e la
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nuova realtà, il nuovo clima in cui ero immerso, mi spaesarono, sì, obbligandomi però a osservare, a studiare, a cercare di capire, di capirmi. E passarono anni per definire il progetto, convincermi della sua consonanza con il tempo, con la realtà, con le nuove etiche e le nuove estetiche che essa imponeva, assicurarmi della sua plausibilità. Assicurarmi anzitutto che il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale, passo obbligato, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, era per me l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali (l’intellettuale di fronte alla storia, il valore della scrittura storiografica e letteraria, la “voce” di chi non ha il potere della scrittura, per accennarne solo alcune) e insieme utilizzare la mia memoria, consolidare e sviluppare la mia scelta stilistica, linguistica originaria, che m’aveva posto e mi poneva, sotto la lunga ombra verghiana, nel filone dei più recenti sperimentatori, fra cui spiccavano Gadda e Pasolini. La struttura poi del romanzo, la cui organicità è spezzata, intervallata da inserti documentari o da allusive, ironiche citazioni, lo connotava come metaromanzo o antiromanzo storico. “Antigattopardo” fu detto il Sorriso, con riferimento alla più vicina e ingombrante cifra, ma per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento, in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida, serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini. Era il superamento insomma di quel “fiore” di civiltà, di arte, rappresentato dall’ignoto di Antonello da Messina, il dipinto che fa da leit-motiv al romanzo, superamento del suo ironico sorriso, dell’uscita, lungo la spirale della chiocciola (altro simbolo del libro), dal sotterraneo labirinto, dell’approdo alla consapevolezza, alla pari opportunità dialettica. Romanzo fortemente metaforico quindi il Sorriso. Di quella metafora che sempre, quando s’irradia da un nucleo di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo.

Vincenzo Consolo

Note:
(1) Virgilio, Eneide Libro III – versi 163-166 – To -Edizioni Einaud 1974
(2) Dante Alighieri, La divina Commedia, Purgatorio Canto VI versi 76-78
Me – Casa Editrice Giuseppe Principato 1963
(3) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto I versi 106-108
Me – Casa Editrice Giuseppe Principato 1963
(4) Francesco Petrarca, Le Rime CXXVIII, versi 1-8 Mi Riccardo
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Ricciardi Editore, 1951 – pag. 183
(5) Giacomo Leopardi, da i Canti, All’Italia, versi 1-9 – Fi Sansoni Editore
1969 – pag.3
(6) Benedetto Croce Storia del Regno di Napoli, Bari – Giuseppe Laterza
& Figli 1966 – pag. 209
(7) Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri, versi 1-2, Mi – Riccardo
Ricciardi Editore 1963 – pag. 1079
(8) Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Roma – Editori Riuniti 1971 – pag.133
(9) Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno,Roma – Gherardo Casini
Editore 1966
(10) prima citazione stesso volume – pag. 43
(11) seconda citazione stesso volume – pag.67-68
(12) Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. I (citazione di
Torrearsa), Pa – Sellerio Editore 1984 – pag. 208-209
(13) Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca – commedia rappresentata per la
prima volta nel 1863
(14) Leonardo Sciascia, Opere 1971-1983 in Cruciverba (citazione di Pietro
Ulloa) Mi – Bompiani 1989 – pag. 1107-1108
(15) Luigi Capuana, La Sicilia e il brigantaggio, Roma – Editore Il Falchetto
1892
(16) Giovanni Verga, Tutte le novelle, da la Libertà, Mi – Mondadori 1971
pag. 338
(17) Federico De Roberto, I Vicerè, Mi – Garzanti Editore 1963
prima citazione– pag. 652
(18) seconda citazione stesso volume – pag. 654-655
(19) Carlo Salinari, Boccaccio, Manzoni, Pirandello, Roma – Editori Riuniti
1979 – pag. 185
(20) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Mi – Giangiacomo
Feltrinelli Editore 1974 – pag. 36
(21) Benedetto Radice, Bino Bixio a Bronte, Caltanissetta – Edizioni
Salvatore Sciascia 1963
(22) Renzo Del Carria, Proletari senza rivoluzione, Roma – Savelli Editore
1975
(23) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Mi – Giangiacomo
Feltrinelli 1974 – pag. 211

Milano, 13.4.2011

Viaggio in Palestina, con il Parlamento Internazionale degli Scrittori.

Nel marzo 2002, su invito del poeta palestinese Mahmoud Darwish, da mesi assediato a Ramallah dall’esercito israeliano, una delegazione del Parlamento Internazionale degli Scrittori si reca nei territori palestinesi. Sono otto autori provenienti da quattro continenti: il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka, il sudafricano Breyten Breutenbach, il poeta cinese dissidente Bei Dao, il romanziere americano Russell Banks, il premio Nobel portoghese José Saramago, l’italiano Vincenzo Consolo, lo spagnolo Juan Goytisolo e lo scrittore francese Christian Salmon, presidente del P.I.S. I testi pubblicati per rompere l’isolamento di scrittori e poeti palestinesi sono il racconto di una realtà che la cronaca ha consumato al punto da impedire una vera presa di coscienza.

***

Giorno 24.03.2002

Partenza ore 9.30 – 10 da Charles De Gaulle

Controlli e controlli.
Arrivo con tutti gli altri scrittori e il seguito dei giornalisti a Tel Aviv alle 15 (ora locale).
Controlli a non finire.
In pullman partenza per Ramallah. Segni della guerra. Selvaggio come quello del tavolato degli Iblei. Posti di blocco, soldati armati e con fucili puntati dietro muretti di cemento e sacchi di sabbia. Controlli rigorosi.
Ti salutano sorridendo.
Dopo il secondo controllo veniamo presi in consegna dai palestinesi.
Ci precede una macchina della polizia coi lampeggianti e con un suono lugubre della sirena. Ci conducono, non si capisce perché, dentro il recinto di una caserma.
Chi ci guida è un addetto del consolato francese.
Usciamo dal recinto militare e quindi, attraversate le strade desolate di Ramallah, arriviamo all’Hotel che si chiama Grand Park.
Ci offrono all’arrivo, nella hall succo d’arancia. La camera è confortevole.

…….. è molto gentile con me. Mi spiega tante cose. Egli è stato qui durante la prima intifada, già due volte.
Mi avvertono al telefono dalla portineria che alle 20 incontriamo qui in albergo il poeta Maḥmūd Darwīsh .
Incontro con Maḥmūd Darwīsh a cena in un altro albergo. Molti intellettuali invitati.
Uno mi fa vedere un ….. di coloni da cui hanno sparato.
Risveglio a Ramallah. Paesaggio della mia infanzia, macerie e cose sparse, macchine che vanno su strade sterrate.

Giorno 25.03.2002

Visita al centro culturale. Noi parliamo, parlano in tanti di loro.
Visita al centro di Ramallah con Juan Goytisolo
Visita al campo profughi di al-Am’ari
  Visioni terribili
Centro sportivo sfondato da parte a parte.
Quattro donne, sedute, sono come una casa greca. Tanti, tanti bambini.
Visita all’Università di Bir Zeit. 
Checkpoint Ragazze quasi tutte col foulard in testa.
Acclamazione di Darwish. Incontro al teatro, strapieno, letture di nostri poeti.

Ore 12

Incontro al centro della Stampa – Saramago
Vice di campo di concentramento (Auschwitz)
Una giornalista israeliana che sta in Palestina, dice “dove sono le camere a gas?”

L’indomani incidente nei giornali. Polemiche
Soldati di guardia nel pianerottolo.

Giorno 26.03

Partenza per Gaza (60 km) Paesaggio collinare roccioso e desolato.
Villaggi coloniali. Oppressione agricola.
Arrivo al checkpoint.
Ci attendono le macchine dell’ONU con il rappresentante Bressan (francese)
Dopo tanta attesa scortati partiamo per Gaza. Hotel Beach

Ore 11-14

Visita al campo dei rifugiati a Khan Yunis e Rafah –
Scritte sui muri, foto di uccisi.
C’è una cerimonia funebre (tre giorni) sulla strada improvvisata. Mangiano e fanno musica.
Vado a vedere con Soyirca
Ritorno a Gaza. Checkpoint.
File di macchine, perenni.
Incontro con intellettuali per i diritti umani.

Giorno 27.03

Partenza per Jerusalem –
Ore 10 – Partiti di nuovo con i pullman dell’ONU –
Intanto son partiti, ieri sera, Breitenbach – Bei Dao(Cinese) e…
Sappiamo che Peres s’incontra con Soiynca e Breitenbach
Lunga attesa al checkpoint.
Controlli minuziosi
Sul pullman finalmente, Laila al microfono fa l’imitazione di una guida
turistica israeliana.
Ci fanno vedere lungo la strada, installazioni di colonie israeliane.
Dappertutto venivano rasi al suolo i villaggi palestinesi e la gente massacrata,
seppellita in fosse comuni, su una di queste forse hanno costruito un manicomio.
Il responsabile del massacro, anche, lui alla fine è divenuto pazzo
1948 Jerusalem Begin

Arrivo a Jerusalem alle 12 – American Colony Hotel di lusso

Pranzo – Due israeliani dissidenti con noi.
Visita alla città vecchia.
C’è con noi la moglie del Console francese, Darla, una bella ragazza cubana che ha studiato a
Firenze e parla italiano.
Un professore iraniano dell’Università di Bir Zeit ci fa da guida.
Visita al Santo Sepolcro, ai quartieri palestinesi e israeliani.
Visita al Muro del Pianto. Gli ortodossi, nelle loro fogge nere, coi cappelloni di pelo in testa,
corrono per l’ora della preghiera.
Ritorno in albergo
Sera: ricevimento al Consolato francese
C’è anche il Console italiano.
(Incrociamo la processione dei francescani)

Giorno 28.03

Telefono a Caterina e mi dice terrorizzata dell’attentato a Netanya.
Siamo nella hall dell’albergo molto tristi. Arriva, con passo svelto, David Grossman.
Si appresta a parlare con Russel. Dovremmo ora tutti insieme riunirci con Grossman.
Ma non si sa.
Telefono alla corrispondente dell’Ansa, Barbara Alighiero, che è qui in albergo, e mi dice
che sono arrivati a Tel Aviv 100 pacifisti italiani, con tre parlamentari Verdi, e sono stati bloccati.
Adesso loro stanno facendo un sit-in all’aeroporto.
Incontro alle 10.30 con Grossman

Ore 11.30

Laila ci lascia (teme per la vita)
Ora Saramago, Cecità Goya, Il sonno della ragione

(loro chiamano Hitler Arafat) la Direttrice della Cinematheque dice a Saramago di ritirare la parola
Auschwitz. Replica Direttrice Van Leer – Soyinka.  Teologia della morte.

Ore 12

Partenza in pullman per Jaffa. Incontro il giornalista …
Elias Sabar dice che Sharon ha ordinato a tutte le autorità non governative di evacuare Ramallah
(significa che ha intenzione di bombardare)
Conferenza stampa a Jaffa.
Mangiato a un ristorante palestinese sulla spiaggia che poteva essere povero e di cattivo gusto
(ma in cui si mangiava bene), di una qualche spiaggia siciliana, napoletana o laziale (come quella di Ostia). E in più è grigio e piove.

Ore 16.30 (italiane)

Mi telefona da Ramallah Piera Redaelli, mi dice che sono chiusi in casa da 2 giorni, senza luce, che hanno ucciso 5 palestinesi, che sono circondati dai carri cingolati.

AGRIGENTO, BARRICATE NELLA VALLE DEI TEMPLI PER FERMARE LA DEMOLIZIONE.

AGRIGENTO, BARRICATE NELLA VALLE DEI TEMPLI PER FERMARE LA DEMOLIZIONE. ABBATTUTE TRE CASE

Abusivi contro le ruspe in nome di Padre Pio
Abusivi contro le ruspe in nome di Padre Pio Ad Agrigento, nella Valle dei Templi, siamo giunti al dramma pirandelliano, all’ assurda situazione in cui le ruspe del Genio Militare, già pronte per abbattere le case abusive, sono bloccate perché dentro quelle case si sono asserragliati i proprietari con le famiglie. Siamo alle verità differenti e contrapposte, allo Stato che ha il dovere di ripristinare finalmente, dopo trent’ anni, la legalità violata e che appare ingiusto, impietoso, e ai violatori della legge che ora appaiono povere vittime di un sopruso. UN DRAMMA PIRANDELLIANO Dov’ è più, in questa penosa, torturante dialettica la ragione? La ragione, quella, cozzando contro il duro cemento delle case abusive, si è frantumata e, tra i suoi cocci, come sempre, è fiorita l’ emozione, la commozione. Gli abusivi, di fronte alla «minaccia» dello Stato, hanno cercato rifugio nella chiesa abusiva di Santa Rosa, conforto e forse anche consiglio nella parola del loro parroco, don Vito Guaragna, hanno pregato e invocato il soccorso di Padre Pio: che veda e interceda almeno lui dal cielo, il Beato, che faccia il miracolo d’ allontanare dalle loro case abusive quelle crudeli macchine della ragione dello Stato, poiché già, racconta il parroco, fra gli espropriandi, un uomo è morto di crepacuore e una donna, ricevuto l’ avviso di esproprio, è entrata in coma… I bulldozer hanno abbattuto qualche «scheletro», qualche casa non completata, ma sono rimasti poi con la terribile lama sospesa a mezz’ aria di fronte alle case occupate. «Non siamo abusivi – dice uno dei proprietari – ma costruttori spontanei». E il leader della protesta, che ha guidato un corteo reggendo uno stendardo con l’ immagine del frate di Pietralcina, si chiama Nunzio Speranza. Frase e nome che dilatano ancora di più il gioco pirandelliano, rimandano al paradosso, all’ assurdo della «Sagra del Signore della Nave». Agrigento, il Caos: in quel luogo empedocleo (il caos in cui i quattro elementi della natura, afferma l’ antico filosofo, per la forza della discordia si scompongono) non poteva che nascere Pirandello, nel teatro della sua Girgenti lo scrittore non poteva non cogliere l’ incessante dialettica, le verità contrastanti. In quell’ antica, classica città, che Pindaro chiama «splendida, la più bella delle città», sembra che a un certo punto la storia si arresti, che in quella opulenta Atene sul mare africano, in quella Sibari siceliota, i cui abitanti, si diceva, si dedicavano ai piaceri come se dovessero morire il giorno dopo e costruivano le case come se dovessero vivere per l’ eternità, sembra che sia avvenuta una inarrestabile, infinita decadenza: che lì sia cessato il campanelliano conato e che vi sia subentrata una stasi metafisica. Ma Agrigento, dopo tanto sonno, dopo tanta antica immobilità, all’ improvviso, nei recenti anni Sessanta si scuote, è presa da una frenetica febbre costruttoria. Costruiscono prima, gli agrigentini, sull’ antica Rupe, sopra il tufo che occultava il vuoto delle caverne. E avviene il disastro, il crollo dei nuovi palazzi. Quindi il cemento, non trovando più spazio in alto, scivola e invade la Valle: case e case, prime e seconde, chiese, alberghi, vengono costruiti in mezzo agli antichi templi. Gli amministratori comunali e costruttori, felici, s’ ingrassano, come i devoti della famosa «Sagra». Ma ora, nell’ attuale situazione di confronto, di contrapposizione, di scontro tra le ragioni o la ragione dello Stato e l’ emozione degli abusivi, siamo al dramma, che è sì pirandelliano, per quel che di umoristico ha in sé, ma che è anche l’ eterno, ricorrente, penoso dramma italiano, quello vale a dire di un Paese che sa che le leggi dello Stato ci sono sì, ma che si possono bellamente eludere, poiché tanto poi qualcuno, uomo politico o Padre Pio, penserà a far perdonare, a far assolvere. Racconta il parroco della chiesa abusiva della Valle dei Templi che una volta l’ onorevole Andreotti, ospite a Villa Athena, ammirando la Valle, avrebbe esclamato che là era tutto meraviglioso, che nessuna bruttura urbanistica la deturpava. La Villa Athena, da cui Andreotti avrebbe ammirato quella meraviglia, ricordiamo che fu, negli anni Sessanta, oggetto di dura polemica: era una vecchia masseria trasformata in albergo. E lo slogan, all’ inaugurazione, era stato: «Il tempio nella vostra stanza». Era vero. Se aprivi la finestra, ti trovavi «dentro la stanza» il tempio della Concordia.

Vincenzo Consolo

(17 gennaio 2001) – Corriere della Sera

Il Miracolo

Il miracolo Vincenzo Consolo

Padre mio, fratello, guida e appiglio, direttore spirituale, sostegno sul crinale d’ogni precipizio, no, non è confessione questa che vi faccio, a voce ferma e alta, alta su questo palco, non è accusa di peccato, espressione di pentimento, contrizione, reclamo di perdono, penitenza, preghiera d’assoluzione, riconciliazione e ritorno nella grazia, no, padre, è questa mia, la segreta rivelazione del dono d’un prodigio, grazia celestiale che su me dall’alto, dalle superne sfere è calata quale raggio o spada incandescente, che nel cuore penetrando tutta m’ha inondata d’un ardore, d’una brama transumana, tutta trasportandomi in un dolce rapimento, in beata estasi. E dico a voi, padre, e mostro, qui, il mistero del seme inopinato che schiudendosi nell’arido terriccio del ventre mio di vergine indurita, nutre, gonfia il germoglio d’un fiore che presto alla luce mostrerà tutta la bellezza, lo splendore, il profumo del suo corpo. Vi dico dall’inizio. Vivo, lo sapete, da sempre sigillata nella corazza della fede, chiusa nel rifiuto d’ogni lusinga, inganno, sola e vigile in questa mia povera casetta nel vico dell’Assunta, vivo in preghiera e astinenza come in reclusorio, eremitaggio, lontana dal traffico e dal chiasso, dai pericoli di quest’antico quartiere di Palermo. Sola distrazione, nelle ore vespertine, quando, chiuso il mercato, cala la quiete sulla strada, solo divagamento assestarmi dietro i vetri della porta e recitare le cinque poste del rosario. Lo sguardo affisso sull’altarino infiorato e luminoso del muro della casa qua di fronte, sul sembiante di San Benedetto il Moro, il fraticello schiavo, nero di faccia e candido di anima, di cuore ardente che tiene in braccio il Bambinello latteo, che sempre ha elargito a tutte le zitelle, le vedove e le vecchie del quartiere miracoli e sollievi d’ogni sorta. Sto lì, dietro la porta, a pregare questo santo prodigioso, e vedo passare, a una cert’ora, frotte di gente estranea, uomini e donne d’ogni colore, poveri giunti qui chissà da dove che vanno a rifugiarsi all’Abadia, dove il prete Baldassarre dà ristoro e accoglienza. Una sera tremenda in cui fra lampi e tuoni la pioggia furiosa s’abbatteva sulla terra, sosta davanti alla mia porta, a riparo del balcone, un nero giovi- 130 Quaderns d’Italià 10, 2005 Vincenzo Consolo netto, bello di sette bellezze, aureolato torno alla testa crespa d’una luce radiosa. Volge subito i suoi occhi scintillanti verso il vetro, mi fissa sorridendo con tutto il biancore dei suoi denti e sussurra parole ch’io non sento. Fa cenno quindi d’aprire la porta, significa d’accoglierlo nell’umile mia stanza. Era quel negro il Santo Benedetto che sprovare voleva la mia carità, devozione amore mio verso di Lui. Entrò, e fu all’istante come un rapimento, una perdita di me, una vertigine. Caddi in ginocchio, l’abbracciai alle gambe gemendo e lacrimando. Mi sentii sollevare, trasportare e stendere sul letto. Ah, padre mio, padre, non so dire con parola umana la gioia immensa, l’estasi in cui quel Santo giovane man mano mi spingeva, non so dire del mio abbandono estremo, dello smarrimento, del deliquio. Ero tutta immersa in una soavità infinita, in un profondo e alto paradiso. Bona, bona, bona… — mi sussurrava il Santo nell’abbraccio. E io, muta, non facevo che sospirare beata e senza posa. Svanì poi quel Santo e io rimasi nel giaciglio stupefatta, inerme, morta, rapita in altro regno. Il giorno dopo, non c’era segno o traccia dell’apparizione in casa mia di quel Santo. Sola traccia e unico segno ora, padre mio, questo rigonfio qui nel mio corpo, questo frutto del miracolo che matura sull’umile terreno, nel ventre mio di vergine.

Milano, 7 aprile 2000

La luce di Cefalù



E’ un sorprendente teatro Cefalù, una scena abbagliante, una scatola magica in cui s’incrociano tutti i raggi del mondo, è una ouverture, un preludio che allude a ogni Palermo, Granada. Toledo o Bagdad. E’ un cervantino retablo de las maravillas con giochi di specchi, riflessi di luci e figure. Nella sua trama serrata, nella sua conclusione murata – di mura possenti d’un tempo remoto – si stende la città dalle falde della gran Rocca paterna, fino al mare materno, la nobile strada d’ogni azzardo, travaglio. L’ha tutta volta la sorte verso Occidente, con quel roccioso, scosceso riparo del Capo che sembra voglia far obliare ogni alba perlacea, aurorali colori <<d’oriental zaffiro>>, immergendola nel fuoco d’un Magreb od Occaso, nello sprazzo perenne di porpora e oro, nel cerimoniale fastoso che prelude alla fine, alla notte. E un rosso corposo, radente la investe, incendia ogni piano, ogni spigolo – case, torri del Duomo, la tonda possanza coronata di mura del Capo – taglia in fulgore e in ombra porte sul mare, bastioni, cortili e terrazze, piazze, tappeti a losanghe di vicoli e strade.
Un pittore allora che in questa Cefalù pontificale stende colori sopra la tela, non può la forza di questo occidente, il corposo, fermo vibrante del suo bagliore. E così sono colori di Giuseppe Forte: accesi, scanditi con nettezza di taglio di lama, corposi, netti e vibranti nel tono loro primario. I neri i rossi gli azzurri i bianchi i verdi i gialli si presentano allora in tutta la loro perentorietà, in una festa squillante di accordi e stridori, di contrappunti e dissonanze. Ma c’è, sopra ogni bassa nota, sopra ogni peccato e squillante colore, un tono che tutto avvolge e compone: quello della dorata luce di Cefalù si vedono ad esempio le Case sotto la rocca, in quella scansione di piani, in quella verticale ascensione o fuga musicale; si vedano le due Natura morta con piastrelle siciliane; o il cielo e le onde schiumose di Cefalù: dietro le mura o altri scorci e <<vedute>> della città. Ma anche figure umane, le allegorie i simboli partecipano allo stesso concerto. Pittore perfettamente adeguato alla sua città, Forte, a Cefalù, alla sua straordinaria luce, alla magia del suo teatro, alla forza della sua natura e alla profondità della sua storia.

Milano, 22 ottobre 1999

Vincenzo Consolo




Il Lunario ritrovato

IL LUNARIO RITROVATO

 di Vincenzo Consolo

 Vi fu un’epoca – iniziata in antico e durata fino a ieri – in cui non esisteva ancora l’industria culturale, non esistevano i best sellers, tirature immediate in migliaia e migliaia di copie di un libro, messaggi pubblicitari e imposizioni mediatiche; vi fu un tempo in cui le voci più nuove e autentiche della letteratura trovavano registrazione e identificazione nelle riviste letterarie: palestre, queste, laboratori di ricerca e anche cattedre di maestri conclamati. Erano numerose e autorevoli, queste riviste, di cui alcune sono chiamate oggi “storiche”, riviste vale a dire che hanno segnato una stagione, hanno aperto nuovi e progressivi sentieri letterari. Lunario siciliano è tra queste. Nato, il mensile letterario, nel dicembre del 1927, finiva la sua pubblicazione nel 1931. Nasceva ad Enna, il periodico, era stampato presso la tipografia di Florindo Arengi ed era diretto da Francesco Lanza: una città e uno scrittore che danno subito il segno e il senso della rivista. Enna, intanto, il luogo più estremo del Paese, il cuore della Sicilia, la città che, al di qua o al di là del grande e primigenio mito della terra, al di qua della sua antica storia, aveva ancora una sua attuale storia politica, sociale, culturale. Ad Enna e intorno ad Enna erano ancora vive le presenze magistrali di intellettuali che si chiamavano Napoleone Colajanni e Giuseppe Lombardo Radice; erano i giovani Nino Savarese, Aurelio Navarria, Arcangelo Blandini, Alfredo Mezio, Telesio Interlandi, Corrado Sofia, Francesco Lanza … In quell’epoca di fascismo appena consolidatosi nel Paese, in cui imperioso era il comando di conformare all’astratta idea nazionalistica alla italianità, ogni diversità storica, culturale, linguistica, di cancellare ogni loro segno (con la scomparsa di Giuseppe Pitrè, di Gioacchino Di Marzo e di Salvatore Salomone-Marino, Giovanni Gentile proclamava il tramonto della cultura Siciliana), questi giovani “frondisti” col loro Lunario siciliano, edito ad Enna, rivendicavano una forte identità siciliana, periferica e rurale, una tradizione letteraria, popolare e colta, con cui non si potevano recidere i legami. Rivendicazione che non significava chiusura e compiacimento nella e della diversità (il che avrebbe portato a un più angusto e nefasto nazionalismo, come quello in cui si impelagò il provenzale Federico Mistral), ma imprescindibile punto di partenza, inizio dalla cultura locale per aprirsi alla più vasta cultura nazionale e internazionale, al più attuale dibattito letterario. A questo foglio stampato in un luogo remoto collaboravano infatti autori fra i più autorevoli dell’epoca, vociani e rondisti, da Cardarelli a Ungaretti, a Cecchi, a Bacchelli, e a Falchi, Bartolini, Biondolillo, De Mattei, Centorbi, fino al giovane Vittorini. Enna dicevamo, e quindi Francesco Lanza. Si laurea a Catania il giovane di Valguarnera, con una tesi su Proudhon, il filosofo socialista romantico. Di questo socialismo Lanza rimane convinto e crede che il fascismo dei primordi lo riproponga nel nostro Paese. Si trasferisce a Roma e in questa città collabora alle più prestigiose riviste e a vari giornali, pubblica le sue prime prove letterarie: Almanacco per il popolo siciliano, Corpus Domini, Fiordispina, Storie di Nino Scardino, che s’intitolerà poi, su suggerimento di Ardengo Soffici, Mimi siciliani: il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano (“L’oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all’utopia” scrive dei Mimi Italo Calvino). Tornato in Sicilia nel ’27, dirige, come sappiamo, il Lunario siciliano. Accanto a lui, nei ruoli di redattori, sono due altri “ennesi”: Nino Savarese e Telesio Interlandi. Cattolico, rondista, ma di “assoluta fedeltà a se stesso”, come ha scritto Falqui, Savarese aveva già esordito nel ’13 con Novelle dell’oro e quindi pubblicato ancora Altipiano, Pensieri e allegorie, Ploto, l’uomo sincero, Gatterìa… Il suo umanesimo e il suo cristianesimo l’avevano tenuto critico e distante dal fascismo aggressivo, impietoso e ignorante che in quegli anni sempre più mostrava il suo vero volto e s’imponeva. Il contrasto, la frattura avvenne a causa di una sceneggiatura, commissionata allo scrittore dal regime, sul mondo contadino siciliano, sceneggiatura cinematografica da cui il fotografo-regista Vittorio Pozzi Bellini avrebbe dovuto trarre un documentario. Savarese (e insieme Pozzi Bellini nei suoi appunti fotografici) diede, del mondo contadino siciliano, la più vera e cruda realtà: di abbandono e di miseria, di sfruttamento e umiliazione. La Commissione romana, presieduta da Cecchi, bocciò naturalmente il progetto. Questa vicenda, questa lezione di coerenza e di dignità, è narrata da uno storico del cinema, dall’ennese Liborio Termine (Un eretico innocente). L’altro redattore di Lunario, il chiaramontano Telesio Interlandi, già da tempo trasferitosi a Roma dove dirigeva II Tevere, era, dei tre, più convinto e acceso fascista, convinzione e accensione che lo porteranno più tardi a dirigere l’infame giornale La difesa della razza. Nell’aprile del ’28 Lunario siciliano interrompe la pubblicazione. Riprende quindi a Roma ed è diretto da Telesio Interlandi. Le ragioni del suo trasferimento da Enna nella capitale, della sua stampa nella tipografia de Il Tevere e della avocazione a sé della direzione da parte di Interlandi, crediamo siano dipese da una caduta di assenso, da parte di Lanza e Savarese, a quelle che erano le richieste del regime, e insieme dalla volontà di un maggior controllo sul periodico da parte di Interlandi. Ritorna poi, Lunario, ad essere ripubblicato in Sicilia, a Messina, ed è diretto da Stefano Bottari. Scrive fiduciosamente, il direttore nel suo primo editoriale: “Il Lunario Siciliano” torna ad essere pubblicato nella sua terra, dopo una peregrinazione nella città capitale dal centro dell’isola dove nacque attento al lavoro dei campi, alle memorie degli antichi miti e ai racconti di cavalleria ancora così vivi nel popolo. Esso non muta i propositi di tre anni fa, al suo primo apparire (…). La vecchia anima del popolo siciliano, così ricca di canti non è vinta ancora da ciò che di soffocante è nella civiltà moderna…”. Pubblicherà solo tre numeri il Lunario messinese di Bottari e quindi si estinguerà: al lavoro dei campi, agli antichi miti, alla cultura contadina, alla tradizione letteraria popolare e no, ai Pitrè, Verga, De Roberto, Capuana, altri miti nefasti, altra cultura o incultura si erano sostituiti. La verità era stata coperta dall’impostura. La ripubblicazione di questo Lunario ritrovato ha un valore di un prezioso documento storico e letterario, significativo di quel che può accadere in un Paese quando viene oppresso dalla dittatura, quando la civiltà viene sopraffatta dalla barbarie.

 S.Agata Militello, settembre 1999

(Prefazione alla ristampa anastatica del “Lunario siciliano”, Enna, 1999)
Originale dattiloscritto indirizzato all’editore Giuseppe Accascina

A un uovo


A un uovo, a una pera o meglio a un limone assomiglia il mio volto.
Ma del limone sembra abbia solo il lunare pallore, e le rughe e i pori,
non l’acre o l’acidulo dentro.
D’un limone, sì, ch’abbia perso l’umore, sia ormai avvizzito.
Che dalle due fessure o ferite della sua buccia mostri occhi penosi
che guardano ma sembra non vedano. Se si chiudono quelle fessure,
se s’imbiancano gli occhi potrebbe anche assomigliare il mio volto
a una maschera, di quelle che si cavano una volta col gesso dai volti distesi,
resi ormai fermi dal rigore assoluto.
Ha ragione quel tale che disse che la foto è la morte?

Vincenzo Consolo
per Vanitas Ediz. Alsaba 1999



Stabat mater : cantata sacra e profana di Vincenzo Consolo e testi tratti dal Liber usualis (1999)


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“STABAT MATER”: PER RIFLETTERE SULLA NUOVA BARBARIE

Musica, poesia, prosa, voci che si rincorrono per amplificare una tragedia antica, eppure moderna e contemporanea anche. Quella della madre, di tutte le madri del mondo, ai piedi della croce, accorsa a raccogliere il figlio crocifisso dalla brutalità degli uomini, per i quali si è immolato.

“Stabat Mater” di Matteo D’Amico, al Teatro Argentina in prima esecuzione assoluta nell’ambito della rassegna “Con Schubert – Inseguire la felicità” nella nuova versione per quartetto d’archi – era stato scritto per orchestra d’archi e percussioni – è un esperimento singolare, ma preserva lo spirito originario della preghiera attribuita a Jacopone da Todi. Attualizzandola, alla luce della barbarie di oggi, che ha nelle mafie un paradigma assoluto. Proprio all’efferatezza della criminalità organizzata rimanda la piece di D’Amico, ispirata al romanzo “Lo spasimo di Palermo”. Nel quale l’autore, Vincenzo Consolo, racconta il ritorno nella sua Palermo dell’intellettuale Gioacchino Martinez, costretto a lasciarla proprio per sfuggire alla morsa della mafia.

A distanza di quarant’anni la situazione è peggiorata, come imparerà Martinez a sue spese assistendo, il 19 luglio 1992, all’assassinio del giudice Paolo Borsellino, avvenuto in via D’Amelio, sotto casa della madre del magistrato. Altra Maria che, sollevando in grembo il cadavere del figlio martoriato, prende su di sé i mali del mondo. Eccolo, il nuovo Stabat Mater. D’Amico lo sgrana come un rosario attraverso le voci del soprano Tania Bassi, del mezzosoprano Marina Comparato, che cantano alcuni salmi latini penitenziali, e dell’attore Alfonso Veneroso, cui è affidata la lettura dei punti salienti del romanzo e della nuova traduzione italiana, sempre di Consolo, del testo latino di Jacopone.

A legare parola cantata e parola recitata ci sono le musiche, eseguite dal partenopeo Quartetto Savinio, due violini (Alberto Maria Ruta e Rossella Bertucci), una viola (Francesco Solombrino) e un violoncello (Lorenzo Ceriani).

La piece, dedicata – come spiega un commosso D’Amico nell’incontro che precede la rappresentazione – al direttore d’orchestra e compositore Giuseppe Sinopoli nel giorno del decimo anniversario dalla morte, è ben costruita e alla fine riesce a coinvolgere anche quanti, come chi scrive, poco frequentano, per negligenza, opera e musica classica.

Gli applausi sottolineano il gradimento del pubblico di età media avanzata. Pur facendosi più convinti nella seconda parte della rappresentazione, che vede il “Savinio” impegnato nel quartetto per archi in la minore “Rosamunde” D. 804 di Schubert. Particolarmente gradito “Lo scherzo di Lorenzo Cherubini”, omaggio finale dei quattro musicisti ai meno frettolosi, che non hanno ancora lasciato la sala dell’Argentina.

(Luciana Matarese)

https://youtu.be/hbk6PSm2J-o

Cantata sacra e profana su testi di Vincenzo Consolo e del Liber Usualis (1999)

http://www.matteodamico.it/Percorso07.htm

Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo

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Palermo e ciò che resta, scritture variegate  Lo Spasimo di Palermo,Vincenzo Consolo

Così dice sinteticamente Vincenzo Consolo: “è un libro in cui vengono registrate le sconfitte, è soprattutto la memoria degli innocenti sopraffatti dai delinquenti.”

Inevitabile appare dunque a Consolo fare i conti con la storia lacerante della sua terra fatta di interruzioni violente di sopraffazioni e sebbene questo romanzo abbia la forma del romanzo storico nulla ce lo fa ricondurre alla tradizione canonica del genere letterario. E’ assente lo schema narrativo lineare del romanzo, nessuna unità organica spazio-temporale, solo frammenti giustapposti che si ricompongono lentamente. Più volte l’autore ha dichiarato la sua avversità alla forma romanzo e di questo c’è traccia anche in quest’ultima opera: “Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.”

Ed il silenzio rappresenta il limite, il filo del rasoio, quell’attrazione repulsiva in cui vive costantemente il protagonista ed anche l’autore, terrorizzato com’è da un lato dal vuoto dell’azione e dall’altro dall’inefficacia delle parole.

Il dato suggestivo che emerge in rilievo è però la poesia o meglio “la lingua-poesia, la lingua rivelazione”. “E’ una lingua contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli più anziani, involontari complici dei responsabili del disastro sociale”, si legge nel libro di Consolo. Ma l’arrovellarsi nel ricercare una lingua diversa è servito a ben poco, ammette disilluso il protagonista anzi è servito a ritrarre la scrittura nel silenzio, non nella pace ma nella coscienza turbata dalla tragedia.

Intervista a Vincenzo Consolo 1999

Sciacca, Chiesa di Santa Margherita , 1999

Ogni narratore sa quanto siano determinanti nell’ esperienza letteraria i luoghi frequentati nella propria vita. Essi hanno il potere di costituire la propria identità, di fondarla a partire dal nucleo più irriducibile dell’anima. Racchiudono il deposito della memoria individuale e della storia. Non di meno la lingua custodisce il patrimonio genetico del territorio, della cultura, della storia. Accade perciò ad uno scrittore sradicato dai propri abituali paesaggi e dalle consuete vicissitudini di ferirsi nello sguardo e nel linguaggio. Si trasforma l’orizzonte visivo, così come il tappeto sonoro della lingua. Ciò che si produce non è perdita cicatrizzante, è materia vivente, umore organico. La memoria si fa vivida e la presenza copiosa riflessione sul mondo.

Accadde a molti scrittori siciliani, a Verga, Pirandello, Brancati, Vittorini. E’ accaduto anche a Vincenzo Consolo, uno tra i maggiori narratori italiani di questo ultimo ventennio. Il suo nome è associato ormai da tempo a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale e una profonda amicizia. Consolo vive a Milano da un trentennio, come Verga ha avuto bisogno di un osservatorio lontano per dare forma alla sua esperienza letteraria. E’ un autore sui generis perché non scrive romanzi, convinto com’è che “non si possono scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, predilige una narrazione orientata verso la poesia, alla ricerca estenuante del potere rivelatore della parola. Dei suoi libri si dice che sono difficili a leggersi. Tutto è affidato alla densità delle parole, anzi alla sonorità lirica, anche la sintassi è ardua, lontana dalla chiarezza razionale di stampo illuministico. E’ prosa che si eleva a poesia ricca com’è di figure retoriche tipiche della poesia: allitterazioni, assonanze, paronomasie. Si procede lentamente come in un rituale in cui le sonorità scandiscono i momenti evocativi della memoria. Eppure i suoi temi riguardano la storia, quella siciliana in particolare. Ed in questo si capisce l’affinità, seppure solo genericamente tematica con Sciascia. Il solco aperto dallo scrittore di Racalmuto è ancora troppo ampio per potersi colmare.

Sono passati quattro anni dal suo ultimo libro L’olivo e l’olivastro, e Consolo, con il suo recentissimo Lo Spasimo di Palermo, sembra aver dato ulteriormente impulso alla trattazione di temi storico-civili.

Abbiamo incontrato lo scrittore siciliano di recente a Sciacca in occasione della presentazione del libro tenutasi nella chiesa di Santa Margherita, nell’ambito del ciclo promosso dall’Assessorato alla Cultura dal titolo Lettura con l’autore.

Consolo ha parlato a lungo ma più che del suo libro ha preferito soffermarsi sulla polemica che si è generata a partire da un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa nella quale fa cenno della realtà socio-culturale di quella parte della Sicilia, il Ragusano, che proprio qualche settimana fa è stata teatro di un’ennesima strage mafiosa. “E’ venuta meno l’educazione alla legalità” afferma, “ci si è scordati dell’orgoglio di essere onesti”.

Impegnato a far luce su quelle realtà tanto bene conosciute, Consolo si fa prendere dalla passione civile, si rifiuta di trasformare un evento culturale come la presentazione del libro in un rendez vous mondano. Continua lucidamente ad analizzare il nesso tra letteratura e società. E’ amareggiato: “non legge più nessuno, viviamo in una dimensione di fondamentalismo economico” sostiene senza enfasi, quasi rassegnato.

Lamenta ancora il vuoto di una letteratura, quella italiana ed occidentale in genere, che rinnega la propria tradizione ed assorbe i modelli culturali tipici della società mediatizzata. La televisione, il cinema di consumo, le canzonette, Internet, appiattiscono la lingua, la svuotano di senso, cristallizzano i sentimenti che essa è capace di esprimere. Aggiunge anche che “le letterature più fertili sono quelle meticciate”, quelle nate dall’ibridazione delle lingue, delle culture, dall’innesto di codici linguistici su tradizioni totalmente differenti; “territori dove non è passato il rullo compressore del capitalismo, della tecnologia e dell’industria, che risultano essere meno contaminati dal contagio pervasivo e scarnificante del linguaggio mediatizzato. Quello che è accaduto, effetto del colonialismo, alle letterature anglofone o francofone dell’Africa, o a quelle creole dell’America meridionale.

La letteratura è ormai marginalizzata dalla cultura contemporanea. All’autore non resta altro che tentare di cogliere il respiro del tempo ed illudersi che possa salvare gli uomini attraverso “la scrittura, ultimo segno della speranza”.

Abbiamo approfondito alcune questioni emerse in quest’incontro parlandone direttamente con Vincenzo Consolo.

Si è parlato di politica, di letteratura, di società, sembra che allo scrittore resti solo di osservare ciò che accade. Come vive il dissidio tra il fare, in pratica scrivere, e la consapevolezza dell’inutilità del fare, dell’inefficacia della scrittura a determinare cambiamenti?

Il dissidio insanabile in uno scrittore è questo: avere l’angoscia dell’inesistenza. Quando si scrive si ha sempre questa paura di non essere, che significa poi, di non essere letto o capito.

I tempi della letteratura e i quelli della politica sono assolutamente discordanti. La politica è l’azione del giorno per giorno, degli adattamenti, dei compromessi, mentre i tempi della letteratura sono molto più lunghi perché lavorano in un terreno che non è visibile, i terreni dell’intelligenza della coscienza e della sensibilità del lettore.

Quest’angoscia lo scrittore la sente. Soprattutto uno scrittore non immediatamente comprensibile. Quella della difficoltà della mia scrittura è una storia che mi perseguita. Il problema è quello dell’inadeguatezza nei confronti della realtà. Lo scrittore rappresenta la realtà, illumina delle parti della dimensione umana che sono state lasciate in ombra, cerca di dare luce a queste parti che sono state lasciate allo scuro, ma non sa se tutti riescono a mettere gli occhi su quella realtà che lo scrittore scopre, che è poi la dimensione della vita.

Lo scrittore non è solo custode della lingua ma esprime anche una funzione civile…

Le due cose devono andare insieme. La funzione civile si esprime attraverso l’azione sociale della scrittura e non solo attraverso i contenuti. I miei non sono mai di tipo intimistico o esistenziale sono di tipo storico-civile.

La lingua che utilizza nelle sue opere è ricca di parole desuete, si richiede al lettore uno sforzo particolare…

Sono i colori che formano il quadro. Il colore è lo stile dello scrittore. I miei sono colori più affollati e meno visibili, si devono decrittare. La mia scrittura richiede al lettore una partecipazione maggiore che non in altri scrittori di tipo razionalistico illuministico, esso si trova di fronte ad una lingua diversa, ad una tonalità che lui conosce ma che aveva dimenticato. Cerco di risvegliare questa lingua assopita dentro il lettore stesso. Questa lingua è fortemente minacciata oggi perché si è estinta questa sua profondità e questa ricchezza che era rappresentata dai dialetti. Siamo arrivati alla lingua nazionale, quella descritta da Pasolini nel ‘61 nelle Nuove questioni linguistiche in cui ha annunziato con trepidazione e senza emozione la nascita della lingua italiana come lingua nazionale. Era una lingua neocapitalistica, di tipo tecnologico aziendale che aveva chiuso i rapporti con questa profondità linguistica che una volta aveva, quella che Leopardi chiama l’infinito della lingua. Dal ‘61 ad oggi si è impoverita sempre più. Credo che sia una lingua che si stia spegnendo, estinguendo, oltre a superficializzarsi, a rendersi rigida a non avere più questi apporti. Dall’altra parte si è invasa di una lingua prammatica e tecnologico-commerciale come l’americano.

Si è sempre parlato di sperimentalismo, quando si parla della sua scrittura, ha mai conosciuto Antonio Pizzuto, altro scrittore siciliano sperimentalista?

Ho conosciuto Pizzuto, è stato uno sperimentalista che andava sino alle estreme conseguenze sino ad arrivare alla musica tonale, all’astrattismo dove la figurazione la linea del racconto spariva e tutto era giocato sui ritmi sui suoni. Si è sempre parlato di Gadda, quando bisognava trovare un riferimento alla mia scrittura. In me non c’è quell’esplosione sarcastica e polifonica che c’è in Gadda la mia esplosione linguistica è molto controllata.

Quali sono le letture della sua formazione?

Sono nato in una casa senza libri e in un paese senza biblioteca. Per me trovare i libri era estremamente difficile. La prima biblioteca che ho scoperto era in casa di un parente di mio padre, adoratore di Victor Hugo. Quando scoprì questa piccola biblioteca incominciai a frequentare casa sua, proprio col desiderio di leggere questi libri che mi sembravano un mondo misterioso. Ero un ragazzino, il primo libro che lessi che mi sconvolse e mi determinò fu I miserabili di Victor Hugo. Non ho mai avuto una letteratura per l’infanzia non ho letto né favole né fumetti. Prima ho letto i classici, libri straordinari come L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson o I viaggi di Gulliver di Johnatan Swift.

Quale è l’autore che più ha amato?

Non si può prescindere da Dante e poi viene Leopardi cito due poeti perché amo più i poeti che la narrativa.

Cosa pensa dei giovani scrittori, è’ davvero sterile il panorama italiano contemporaneo ?

Leggo molti libri italiani per dovere d’ufficio perché faccio parte della giuria del premio Grinzane Cavour, mi tocca leggere ogni anno tutti i romanzi che sono usciti. Dopo la morte della tradizione italiana sino a Calvino, Sciascia, Moravia, Pasolini, c’è stata una sorta di frattura, di vallo, con questi scrittori si aveva la consapevolezza di una tradizione letteraria di cui eravamo figli. Credo che oggi nel villaggio globale a causa di quest’estrema comunicazione, i giovani narratori abbiano rotto con la tradizione. I loro punti di riferimento e la loro cultura sono il cinema americano, la canzonetta, i fumetti e la televisione. Poi quelli che si chiamano “cannibali” o “pulp” sono approdati ad una forma di neonaturalismo che riproduce nel modo più supino, più magmatico, quella che è la realtà narrata senza una metafora, senza un punto di vista di tipo etico o estetico. Non ne ho visti di talentosi, apprezzo Daniele Del Giudice che trovo uno scrittore di prim’ordine, Erri De Luca e una scrittrice Fabrizia Ramondino, ma questi non sono più così giovani.

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dialogario del 30 giugno 1999
di Giuseppe Puntarello