LO SPASIMO DI PALERMO FRA CRISI E MEMORIA


Cinzia Gallo
Università di Catania

Riassunto Lo Spasimo di Palermo è esempio di una crisi che ha ripercussioni nella forma espressiva: da una parte, emerge la consapevolezza che «sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa […] simbolo sfuggente», dall’altra il romanzo appare un «genere scaduto, corrotto, impraticabile». Il conflitto generazionale fra Chino e Mauro rientra pure in quest’ambito. Da qui derivano varie soluzioni che portano al «poema narrativo» di Consolo e testimoniano il disorientamento prevalente: accumuli paratattici, metafore, figure retoriche, figure del discorso. Le suggestioni pittoriche trovano il loro centro nello Spasimo di Sicilia di Raffaello, simbolo di una sofferenza che da Palermo arriva alla Sicilia e a tutto il mondo, mentre gli spazi hanno una grande importanza e mostrano la perdita della memoria storica, responsabile della crisi.

Consolo, crisi, memoria, storia Secondo Ugo Dotti,

Lo Spasimo di Palermo è caratterizzato dal «contrapporsi di storia a memoria, nel vano bisogno di conforto che il . 8 ricordo potrebbe dare e che suscita al contrario un cocente sentimento di patimento, di sconfitta, di spasimo» (Dotti, 2012, 315). Dunque, uno stretto nesso fra storia, crisi e memoria percorre l’intero testo, anche se esso è, innanzitutto, specchio di una crisi, sia collettiva che individuale. Consolo presenta non solo «il fallimento della generazione del dopoguerra nel creare una società più giusta e più civile» (O’Connell, 2008, 173), per cui terrorismo e mafia risultano uniti «in un clima da fine dei tempi, che nega la storia» (Donnarumma, 2011, 446), ma anche la sconfitta di Chino, padre e scrittore. Da ciò l’impossibilità di narrare, cioè di utilizzare i tradizionali mezzi espressivi. Raccontare è però necessario, come attestano le due battute del Prometeo incatenato di Eschilo poste in epigrafe: «Rivela tutto, grida il tuo racconto… / Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» (Consolo, 1998, 7). Quest’urgenza di dire si realizza subito tramite la letteratura, come nella conclusione di Nottetempo, casa per casa, in cui essa appare «ultima consolazione […] e ultima possibilità di spiegazione del “dolore” del mondo» (Luperini, 1999, 166). Lo stesso Consolo chiarisce: «[…] è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità […] della funzione sociale, politica della scrittura. Non rimane […] che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva alla dura e sorda notte, la forza della poesia» (Consolo, 1993, 58). Il gioco citazionistico è, quindi, subito in primo piano: l’iniziale «Allora tu, […] ed io» (Consolo, 1998, 9), con cui il narratore si rivolge a Chino, è stato collegato da O’Connell (2008, 181) al celebre verso di Eliot «Let us go then – you and I», con cui, peraltro, si chiude il quinto capitolo. Un’altra citazione eliotiana («In my beginning is my end» [Consolo, 1998, 9]), rimandando al consueto simbolo consoliano della chiocciola, della spirale, rileva invece l’importanza della memoria, necessaria per recuperare un’identità veicolata dai nomi («il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza» [Consolo, 1998, 9]), di cui Consolo sottolinea spesso l’importanza come segno identitario. Queste citazioni forniscono subito una prima chiave di lettura, in quanto Eliot utilizza termini spesso non uniti fra loro da legami logici, alterna espressioni auliche con altre colloquiali, mescola svariate lingue, rappresentando così la crisi esistenziale dell’uomo: similmente si comporta Consolo. Anche nel nostro testo, comunque, il narrare significa «rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo, 2012, 92), che «assolva la tua pena, il tuo smarrimento» (Consolo, 1998,10). Questi stati d’animo, già nel primo capitolo, sono rapportati da Chino, giunto a Parigi per incontrare il figlio, con la parola che «si fa suono fermo, […] simbolo sfuggente» (Consolo, 1998, 12). Egli, dunque, respinge come false la lingua accademica («Stendono prose piane i professori, […] decorano le accademiche palandre di placche luccicanti» [Consolo, 1998, 12]) e quella giornalistica («Nul n’échappe décidément, au journalisme ou voudrait-il…» [Consolo, 1998, 12]), e nega il potere evocativo del linguaggio: se dapprima, infatti, il prete oppone alla forza delle armi quella delle parole (Giacomo – Marcellesi, 2004, 73-74), quando chiede, all’inizio dei bombardamenti, «di cantare l’aria con parole senza senso» (Consolo, 1998, 14), queste, poi, non servono a disincantare una «trovatura» (Consolo, 1998, 19). Tornano in mente a Chino, invece, termini legati ad epoche passate («Il maggiore parlò in un modo che credeva ancora di quel luogo» [Consolo, 1998, 13]). Per Consolo, difatti, «la vera scrittura […] poggia sulla memoria letteraria soprattutto» (Consolo, 2006, 71 – 72). O’Connell l’ha definita «un ricco mosaico di intertestualità, le cui tessere sono fatte di testi sia antichi sia moderni», in quanto pone accanto «linguaggi e dialetti diversi e spesso stridenti tra di loro», oscillando «tra registro alto e basso» (O’Connell, 2008, 164). Nei primi due capitoli, alcuni termini dialettali o colloquiali («anciove» [Consolo, 1998,15]; «caruso», «scarparo» [Consolo, 1998, 26]; «buatta» [Consolo, 1998, 32]; «a forma di lasagne» [Consolo, 1998, 25]) coesistono, dunque, con altri più elevati, o desueti, formando uno strano impasto linguistico, espressione dello smarrimento in cui vive Chino nel tentativo di superare i fantasmi del passato. Lo stesso Consolo ha dichiarato, in un’intervista: «sono stato […] sperimentatore, senza però arrivare all’estensione linguistica e alla straordinaria polifonia gaddiana, ma operando verticalmente, nel senso di riportare in superficie, […] parole e strutture di lingue sepolte» (Ciccarelli, 2005, 96). Si inserisce in tale ambito il termine «marabutto», di origine araba e perciò legato alla storia della Sicilia, che ritornando varie volte nel nostro testo, ne suggellerà l’andamento circolare svelando il suo carattere di «metafora malinconica» (Traina, 2001, 107). Rientra in questa circolarità anche il rilievo dato alle immagini, in quanto Consolo avverte «Sempre […] l’esigenza di equilibrare la seduzione […] della parola con la visualità, con […] una concretezza visiva» (O’Connell, 2004, 241). . 10 Il primo capitolo, così, accosta, secondo una tecnica cinematografica, parti quasi autonome, corrispondenti alle vicende affiorate alla memoria di Chino. Non a caso l’albergo di Parigi in cui egli soggiorna, oltre a chiamarsi La dixième muse, mostra alle pareti foto di vari divi del cinema, e alla mente di Chino ritorna l’immagine del IUDEX, protagonista del serial cinematografico di Feuillade che adesso egli vede per intero, dopo cinquant’anni, e che sarà richiamato anche alla fine del libro. L’ultimo segmento del capitolo presenta invece il dolore di Chino quale dolore collettivo attraverso il tipico uso consoliano delle figure retoriche, confermando l’orientamento dello scrittore verso il ben noto poema narrativo: Lo strazio fu di tutti, di tutti [anadiplosi] nel tempo il silenzio fermo [allitterazione], la dura pena, il rimorso scuro [chiasmo], come d’ognuno ch’è ragione, […] d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo [metafora], vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo che dispare di cherosene [iperbato]. L’esilio è nella perdita, l’assenza, in noi l’oblio, la cieca indifferenza (Consolo, 1998, 24). Un’anastrofe («il tempo suo più avventuroso» [Consolo, 1998, 25]) conclude invece le enumerazioni con cui si esprime lo stato di abbandono di Chino dopo la morte del padre. Analogamente, le enumerazioni indicano il disordine, il caos che contraddistinguono il viaggio di Chino ed Urelia, il loro arrivo a Palermo: Il viaggio fu infinito, nel fumo, nel freddo, raffiche di vento, pioggia, spruzzi delle onde, stretti fra reduci, sbandati, intrallazzisti, donne scasate e di mestiere, ragazzi fuggitivi, frati di questua e ceffi di galera. […] Mai erano stati Urelia e Chino nella città, mai avevano udito tanto chiasso, urla richiami imbonimenti, visto tanto correre e affannarsi tra macerie, travi fili ferri lamiere tufi calcinacci, cantoni in bilico, tappezzerie e maioliche esposte all’aria, giare e bidoni su lastrici crollati, statue riverse, guglie mozzate e cupole sventrate (Consolo, 1998, 31). piccano l’aggettivo dialettale «scasate», il neologismo «intrallazzisti» tra termini più elevati, quali «questua», «fuggitivi», mentre gli aggettivi «riverse», «mozzate», «sventrate» umanizzano gli oggetti, rendendo più forte la sensazione di sofferenza. A Palermo, i «ciechi vaiolosi, storpi, appestati d’ogni sorta che dallo Spasimo si recavano ogni giorno per mangiare alla Dogana» (Consolo, 1998, 32) ricordano l’ «orda di mendichi, ciechi, storpi, nani, malformati» che, in Retablo, si presentano davanti a Clerici, «con lamenti, cantilene e preghiere strazianti» (Consolo, 1992, 51). Con queste autocitazioni, Lo Spasimo di Palermo si conferma, come la critica unanime ha riconosciuto, testo che riassume l’evoluzione artistica ed ideologica di Consolo. Dopo un’ellissi, intanto, tornati nel tempo primo della narrazione, il terzo capitolo inizia, significativamente, con la parola «orrore» (Consolo, 1998, 33): è lo stato d’animo di Chino davanti al suo volto ritratto nello specchio, segno, perciò, quasi, di un’intima dissociazione, che egli descrive, grazie alle enumerazioni, espressionisticamente. Del resto, Norma Bouchard ha riscontrato, ne Lo Spasimo, «[…] an expressionism so radical that it has baffled more than one critic» (Bouchard, 2005, 6). Il pensiero subito rivolto al padre testimonia la persistenza di una lacerante distanza, messa in risalto dall’interrogativa: «Fosse vissuto, sarebbe scaduto così anche suo padre, avrebbe avuto quella faccia, quella sagoma avvilita, si sarebbe piegata la sua testa, il suo orgoglio si sarebbe [chiasmo] con gli anni incenerito [metafora]?» (Consolo, 1998, 33). La stessa incomunicabilità impernia, adesso, il suo rapporto con il figlio Mauro: le parole appaiono infatti «una pazzia recitata, un teatro dell’inganno» (Consolo, 1998, 35) quando i due si incontrano, in un clima di precarietà evidenziato da metafore: «Chi può sapere in questo mulinello di sagome simili e cangianti, questo turbinio di figure, quest’infinito scorrer d’apparenze?» (Consolo, 1998, 34). Se, da una parte, tale incertezza si manifesta, nuovamente, a livello individuale, per cui Chino è consapevole di non essere «riuscito a placare» i suoi «assilli» (Consolo, 1998, 36), «il panico, l’arresto, […] l’impotenza, l’afasia, il disastro» della sua vita, dall’altra lo «scadimento» (Consolo, 1998, 37) è generale, rappresentato dai gusti letterari dei frequentatori della libreria che Daniela ha voluto, per tentare di diffondere romanzi e poesie fra i compagni, «ignari e sprezzanti d’ogni forma letteraria» (Consolo, 12 1998, 37). Responsabile è l’omologazione, lo smarrimento della memoria storica, il predominio delle «mode» (Consolo, 1998, 37): nella vetrina della libreria, antifrasticamente chiamata «La porta d’Ishtar», notiamo allora «la foto d’un giovanotto levigato, riccioletti e occhio vellutato [omoteleuto], ultimo autore di successo, mistico e divo della tivù, […]» (Consolo, 1998, 36). Rafforza questo svilimento della memoria culturale il menu del ristorante Les philosophes: «Cotolette Spinoza – Salade Bergson – Salade Platon – Salade Aristote – Coupe Virgile – Coupe Socrate» (Consolo, 1998, 38). Mauro, poi, che enumera i mali italiani («Sempre nel marasma, nel fascismo inveterato, nell’ingerenza del pretame, nella mafia statuale il paese beneamato?» [Consolo, 1998, 39]), sottolineando le responsabilità del fascismo con l’omoteleuto («inveterato […] beneamato») e l’allitterazione («marasma […] fascismo»), rivolge al padre delle accuse ben precise, rese più incisive dalle metafore, dall’omoteleuto (ornamento-annientamento), dall’anafora, e che coinvolgono tutti i letterati: «tu e i soavi letterati siete le epigrafi d’ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio d’annientamento» (Consolo, 1998, 39). I riferimenti al romanzo El recurso del método di Carpentier, autore particolarmente caro a Consolo, alla vicenda di Camille Rodin ribadiscono, poi, ancora, la volontà di distacco da una realtà costituita da un «tempo feroce e allucinato» (Consolo, 1998, 42). Il capitolo IV si apre allora con un lungo periodo che accosta immagini metaforiche apparentemente distinte, in realtà accomunate da un senso di negatività, dolore, precarietà, sottolineato dalle enumerazioni miste ad anafore e assonanze: Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla [assonanza], esito fra ruderi sferzati dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’ insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri (Consolo, 1998, 45). La serie di metafore può apparentarsi al flusso di coscienza di Joyce, il cui Ulisse Consolo definisce «L’odissea dei vinti»[1] (Consolo, 1999, 111). D’altra parte, vedere il film della sua giovinezza non risolve i problemi di Chino ma gli fa capire l’importanza dell’immaginazione e della memoria[2]: «Il tempo, la memoria esalta, abbellisce ogni pochezza, ogni squallore, la realtà più vera. Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore» (Consolo, 1998, 53). La reazione di Mauro («”Ne hanno combinate i letterati!”» [Consolo, 1998, 53]) conferma che il contrasto generazionale con il padre coinvolge pure la funzione della letteratura e dei letterati, come si chiarirà nella conclusione. L’incomunicabilità fra i due sembra venir meno solo quando Chino dice al padre: «Portale [alla madre, Lucia] per me, quando sarà fiorito, il gelsomino» (Consolo, 1998, 55), mostrando così che, pure per lui, i legami con la Sicilia, di cui quel fiore è simbolo, al pari di quello che avviene ne L’olivo e l’olivastro, sono ineludibili. Per Chino, invece, ritornare in Sicilia significa ripercorrere le vicende della propria vita, che somiglia sempre più ad una fuga, per placare le proprie angosce. Milano e la Sicilia, ovvero i «due poli» entro cui si svolge la vicenda di questo e di molti testi consoliani, si precisano quali simboli «di una condizione di esilio perenne» (Lollini, 2005, 32). Da qui le tantissime «metafore dell’esilio, dell’erranza» (Lollini, 2005, 29), la ricorrenza dei termini ‘esilio-esule’, ‘fuga-fuggire, ‘partire-partenza’, ‘evadere-scappare’, insieme a quelli relativi al campo semantico del dolore. Il quinto capitolo registra questi concetti in modo particolare. Il primo segmento esprime ancora il disagio di Chino con i procedimenti già notati: brevi proposizioni cooordinate per asindeto, enumerazioni. Spicca il chiasmo «lame squame gemini binari» (Consolo, 1998, 57), in cui i due aggettivi aulici (‘squame’, antico; ‘gemini’, latinismo) sono incastonati fra i sostantivi ‘lame, binari’, del registro quotidiano. Segue un’analessi in cui vita e letteratura appaiono strettamente unite, visto che i libri hanno scandito le varie tappe dell’esistenza di Chino. Inverano, intanto, lo spazio: Chino si reca con Lucia, infatti, a visitare la tonnara e il mare descritti nelle [1] Un’allusione all’Ulysses di Joyce e «the re-inauguration of the modern nostos into twentieth-century literary culture», si troverebbe, secondo O’Connell (2012, 246), nel seguente passo: «Ascesero man mano e si dispersero per i vari cieli, entro le celle di quella Sandycove dell’introibo, teca babelica, averno del viaggio» (Consolo, 1998, 46). [2] Secondo O’Connell (Consolo narratore cit., 178), si ha qui un richiamo al saggio Angelus Novus di Benjamin, che peraltro Consolo cita in I ritorni, ed esattamente ai concetti di «rimembranza» e memoria. 14 Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino dei tonni. Quando i poliziotti perquisiscono la sua casa, come si narra anche in Un giorno come gli altri, i suoi libri sparpagliati sembrano «storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri testi della sua illusione, del suo fallimento» (Consolo, 1998, 66), dovuto, comunque, al «tempo feroce, disumano» (Consolo, 1998, 67) in cui vive. Lo testimoniano i procedimenti espressivi. Il «boemo paonazzo», in cui si riconosce Milan Kundera, definisce infatti «merde» gli intellettuali insensibili ai problemi della primavera di Praga nella discussione tra le signore che, con allusione ad Eliot, «in seriche casacche orientali andavano e venivano, […] rivolgevano domande a Saul Bellow» (Consolo, 1998, 66). Il narratore, poi, inserisce la parola antica ‘grascia’ in un’enumerazione («ingombro, grascia, fermento, trionfo di laidume, baccano d’osceno carnevale» [Consolo, 1998, 68]) per raffigurare la disastrosa situazione di Milano. Essa, la «città ignota» è poi descritta con una citazione da Excelsior di Luigi Manzotti («“D’improvviso la scena si trasforma, la Luce e la Civiltà trovansi abbracciate…”» [Consolo, 1998, 69]), menzionato pure in Sopra il vulcano, e una dai Promessi Sposi («“Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria”» [Consolo, 1998, 70]). Il segmento successivo rielabora il brano I barboni, scritto nel 1995 per il catalogo di Ottavio Sgubin, che termina con una citazione dell’Odissea, l’unica di tutto Lo Spasimo («Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte…» [Consolo, 1998, 72]), che, non a caso, rimanda ad una condizione di sofferenza. Lo stesso Consolo ne chiarisce, ne Lo spazio in letteratura, il significato, collegando il nostro testo con L’olivo e l’olivastro. Quindi risponde alla richiesta contenuta nella citazione dell’Odissea sostenendo l’impossibilità della narrazione: «“Io sono… no, no, l’aridità, la lingua spessa, l’oblio d’ogni nesso… illuso ancora dell’ascolto, tu procedi”» (Consolo, 1998, 72), affermazione apparentemente in contrasto con il montaliano «varco» che avrebbe condotto Chino, all’inizio del capitolo, «nel passato, nel racconto, in cui […] tutto sembrava decifrabile» (Consolo, 1998, 69). In effetti, nell’analessi in cui il narratore rievoca la vita familiare inizialmente felice di Chino, di Lucia e poi devastata dalle circostanze, la letteratura è dapprima celebrata come depositaria della «verità umana» («“Là si trova” […] “negli assoluti libri, la verità umana”») ma poi, di fronte al precipitare degli eventi, ritenuta inadeguata a riprodurre correttamente la realtà («Ogni parola ora, povera, incapace, riduce quell’incanto, […]» [Consolo, 1998, 73]). Consolo, allora, da un canto adotta una tecnica cinematografica, mostrando i vari eventi (le intimidazioni, la conversazione con il commissario, la vendita della casa) come fotogrammi, dall’altro ritorna alla ‘narrazione poematica’ propria de L’olivo e l’olivastro[3], a confermare la corrispondenza tra i due testi. Così è facile riconoscere degli endecasillabi quando il narratore riferisce la decisione di Chino di lasciare Palermo per andare sulle tracce dell’originaria ed autentica identità siciliana. E il viaggio, vero e proprio topos per Consolo, avviene, significativamente, durante la Pasqua, momento di resurrezione: «S’era fatta smunta, pallida, inquieta /, […] Chino decise di rompere l’assedio, / d’evadere, fuggire dalla casa, / […] Andò con l’infelice per le strade, / […]. Andò in un aprile, nel tempo della Pasqua [due settenari]» (Consolo, 1998, 76-77). Una serie di immagini, combinate con un’anafora e un endecasillabo finale, presenta la Sicilia quale metafora del mondo: «Era là il centro dello spazio, la visione sconfinata, là il cuore della terra, / del mito più oscuro e luminoso» (Consolo, 1998, 77). Il nome di Borges, del resto, rimanda non solo ai «sogni», agli «incubi», agli «specchi», ai «labirinti» (Consolo, 1998, 80), temi presenti nel nostro testo, ma al suo prevalente carattere metaforico. La vicenda di Lucia, con il suo «precipitare nel gorgo medicale, nell’ignoranza, nel dominio, nel cinico interesse di luminari, case di cura, […] rete di sciacalli» (Consolo, 1998, 78) e quella di Chino testimoniano i danni causati dalla perdita della memoria storica: Palermo è, difatti, ormai, una città «stravolta, squallida nell’uniforme volto, nell’anonima sua morsa, nel cieco manto sopra ogni verde luce, nella grigia muraglia avanti a vecchi squarci, immobili macerie, […]» (Consolo, 1998, 79). All’insegna della metafora si svolge, allora, il capitolo settimo. «un re che narra e che governa, elude la metafora, annulla la contraddizione della prosa» (Consolo, 1998, 83) è, intanto, il personaggio principale del racconto letto dal glottologo protagonista de La perquisizione, dietro cui la critica ha scorto Un giorno come gli altri. La metafora si precisa, dunque, quale una necessità, legata a una narrazione in crisi, che tratta di periodi in crisi: appaiono così chiari i rapporti di Consolo con il postmodernismo. Da [3] Esso è l’«apice» di una vera e propria «sperimentazione “poetica”» (Francese, 2015, 70) . 16 una parte vi sembrerebbero rimandare il citazionismo, il plurilinguismo, il tema del complotto; dall’altra, però, Consolo se ne mantiene distante, proprio per l’importanza attribuita alla memoria e alla storia, come Norma Bouchard ha puntualizzato: «it is important to point out that even though Consolo’s novels exhibit many of the rhetorical devices that we have come to associate with postmodern writing practices, they also remain fundamentally distinct from dominant, majoritarian forms of postmodernism» (Bouchard, 2005, 10-11). Una «metafora perenne» giudica poi Chino il romanzo di Manzoni, modello per Consolo di romanzo storico, in quanto allude «alle pesti in ogni tempo di Milano» (Consolo, 1998, 85). Il «lazzaretto più appestato» sembra a Chino «una piazzetta» in cui, avvolti in un’omologazione che cancella ogni identità, «Stavano ragazzi barcollanti o immobili, il busto avanti, piegati sui ginocchi. Sembravano bloccati in quelle pose, pietrificati […]» (Consolo, 1998, 85). Modellato sull’Addio ai monti di Manzoni è, inoltre, l’Addio che Consolo rivolge a Milano, «Città perduta» (Consolo, 1998, 91) non meno della Milano di Berlusconi e della Lega Nord, condannata attraverso la consueta tecnica dell’accumulo: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, […] scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità (Consolo, 1998, 91). Così, quando Mauro chiede al padre se stia scrivendo, egli risponde negativamente. E se il suo comportamento è differente da quello di altri scrittori (Calvino, Moravia, Sciascia, indicati con delle metafore – «il castoro ligure, il romano indifferente, l’amaro tuo amico siciliano»), ciò accade perché essi hanno «la forza […] della ragione, […] la geometria civile dei francesi» (Consolo, 1998, 88): non vivono cioè una condizione di disorientamento. Costituiscono dunque, queste parole, opinioni dello stesso Consolo (Chino Martinez sarebbe cioè un alter ego dello scrittore), che, proseguendo il suo discorso, una sorta di dichiarazione di poetica, confessa: «mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…» (Consolo, 1998, 88). La letteratura, però, deve essere, soprattutto, espressione di una società, tant’è che Mauro, in carcere, chiede al padre di portargli I demoni di Dostoevskij, L’affaire Moro di Sciascia, Scritti corsari di Pasolini, Une saison en enfer, Illuminations di Rimbaud. Chino, allora, abbina alla letteratura, che perciò rappresenterebbe un’ancora di salvezza come nella conclusione di Nottetempo (si rifugia nella biblioteca, per esempio), il valore della memoria, delle radici, individuali e collettive. Sul treno per Napoli, infatti, ascoltando parlare dei ragazzi, individua facilmente, e con piacere, «le città e i paesi da cui quei ragazzi provenivano. […] Leggeva in quel concerto la storia d’ogni luogo, i segni […] superstiti delle migrazioni, dei remoti insediamenti» (Consolo, 1998, 95). Egli, pertanto, considera negativamente, al punto da definirla «trucida» (Consolo, 1998, 94), la nuova lingua annunciata da Pasolini, in quanto segno di un’omologazione negatrice della storia. Di questa sono testimonianza i luoghi, lo spazio, che Consolo ritiene, sempre, molto importanti. In prossimità di Palermo Chino scorge, difatti, «il piano di Sant’Erasmo, la foce melmosa dell’Oreto, […] la Porta dei Greci, […] gli antichi palazzi dietro nobiliari, le cupole e i campanili delle chiese, il Càssaro Morto e la Porta Felice, Santa Maria della Catena, la conca stagna affollata d’alberi di lussuose barche della Cala» ma anche «le palazzate nuove del sacco mafioso» (Consolo, 1998, 98). Attraverso lo spazio, cioè, è possibile leggere i cambiamenti della società. Se i luoghi, allora, come la letteratura, manifestano la memoria storica, Chino sente di dover «ricominciare» dai libri, oltre che «dalla chiara geografia» (Consolo, 1998, 102). Si presentano, questi, strettamente uniti, interdipendenti nelle pagine finali dello Spasimo, che, perciò, chiarisce e conclude l’esperienza letteraria di Consolo, rappresentando «al contempo la mediazione verso» quella che Consolo considera una vera e propria «impasse e la risposta ad essa» (O’Connell, 2008, 174). Così, dopo aver raccolto notizie sul musicista D’Astorga, da cui prende nome la strada in cui abita, ed aver scoperto il quartiere intorno, aver collegato il castello della Favara ad alcuni versi del poeta arabo Ab dar-Rahmân, Chino decide di «indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes», su quella di Antonio Veneziano[4] e di scrivere «della [4] Ne L’olivo e l’olivastro (1994, 105), Consolo afferma che, ad Algeri, Cervantes scrive dei versi per Antonio Veneziano. 18 pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione» (Consolo, 1998, 105). Infatti, Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo (Consolo, 1998, 105). Consolo ripropone, in tal modo, le riserve nei confronti del romanzo manifestate in altri testi (Fuga dall’ Etna, Nottetempo, L’olivo e l’olivastro). Un «libro raro» (Consolo, 1998, 106), in spagnolo, trovato in biblioteca, conferma le sue convinzioni. Vi legge di ogni regione d’Italia e del mondo, apprende i vari significati, positivi, del termine ‘marabutto’. È consapevole, anche per questo, di come i tragici eventi che avevano portato alla morte del padre avessero costituito una stortura. Poi, dopo aver vagato per le strade di Palermo ed aver visto, nella «casba di Seralcadio» (Consolo, 1998, 108), un’altra faccia della città, come avvenuto a Milano, si ferma nella chiesa di Santa Maruzza, luogo carico di ricordi, personali e letterari, opposto al drammatico presente. Difatti, «Dentro era l’accesso, racconta il Natoli, alle caverne, alle camere segrete dei processi e delle sentenze dei giustizieri» (Consolo, 1998, 108). Ma al tribunale dei Beati Paoli si lega il vero Palazzo di Giustizia, a cui Chino giunge seguendo un «corteo, fantasmatico» (Consolo, 1998, 109). Il suo pensiero va, allora, al lavoro dei magistrati contro i gruppi mafiosi e, in particolare, al «figlio della sua dirimpettaia» (Consolo, 1998, 109), cioè il giudice Borsellino. L’incontro fra i due avviene nel segno dei libri e conferma come Chino sia alter ego di Consolo «Ho letto i suoi libri… difficili, dicono» (Consolo, 1998, 115), dice il giudice che, dopo aver citato un passo de Le pietre di Pantalica («Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino…» [Consolo, 2012, 132]), commenta: «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio» (Consolo, 1998, 115). Egli legittima, in tal modo, la funzione civile della letteratura, legata anche ad altre arti. Chino trova, infatti, nella «memoria d’un anonimo spagnolo», delle notizie sulla tela che Raffaello dipinge per la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, e che intitola «sgomento della Vergine e Spasimo del Mondo» (Consolo, 1998, 112). Giustamente, dunque, la Sicilia è metafora del mondo: la sua crisi, la sua degenerazione sono generali, così come «questo Spasimo, da Palermo» (Consolo, 1998, 112) coinvolge la Sicilia e il mondo tutto. E i luoghi, come la letteratura testimonia, lo confermano: Lesse di Santa Maria dello Spasimo abbandonata dai frati per il nuovo baluardo di difesa che a ridosso il viceré don Ferrante Gonzaga fece costruire. Della magnifica chiesa che divenne poi nel tempo teatro, lazzaretto nella peste, granaio, magazzino, albergo di poveri, sifilicomio, cronicario, luogo di dolore, solitudine, abbandono (Consolo, 1998, 113). Una metafora indica il perdurare di questa condizione, ormai generalizzata, al presente: lo scirocco è un «sudario molle» (Consolo, 1998, 113). Le immagini mettono poi, in parallelo, la peste e il colera, che nel passato hanno oppresso Palermo, con la mafia. Al «paranzello o brigantino» che arrivava a Palermo «con l’infetto» (Consolo, 1998, 113) corrisponde «il corpo sfatto, quasi scheletrico» (Consolo, 1998, 116) rinvenuto dentro il pilastro del portico del palazzo dove abita Chino, il quale ricorda i vv. 10-12 del quarto canto dell’Inferno quale metafora dell’incapacità di trovare una soluzione a questa situazione: «Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa» (Consolo, 1998, 118). L’ultimo capitolo si svolge dunque la domenica successiva al Festino di Santa Rosalia, per sottolineare come pure la Santa che aveva salvato Palermo dalla peste, nel 1624, sia adesso impotente. La conformazione della città, con «il fitto ammasso dei palazzi, il cantiere dietro il muro, la corta via d’Astorga [allitterazione]», mostra la perdita di ogni memoria storica, «sepolta sotto il cemento» (Consolo, 1998, 123). Le enumerazioni, mettendo insieme termini di origine araba (‘càssaro’, ‘kalsa’), spagnola (‘criadi’), neologismi (‘villena’), rappresentano questa condizione di disordine, che la metafora conclusiva suggella: «Congiura, contagio e peste in ogni tempo» (Consolo, 1998, 123). 9, 2020. 20 Alla memoria storica, invece, ci riporta il fioraio che in «questa città infernale» (Consolo, 1998, 126), in cui ogni ragionevolezza sembra essere venuta meno, si chiama, non a caso (il riferimento è ad Erasmo da Rotterdam e al suo Elogio della follia), Erasmo, e che, dopo aver donato a Chino dei gelsomini, gli rivolge delle parole, apparentemente oscure, inquietanti, ma che legano il suo passato al suo presente: «Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi / chi ti manciunu lu pani. / Ddiu ti scanza di marabutta» (Consolo, 1998, 124). Ciò è evidente nella lettera che Chino scrive al figlio, in cui troviamo insieme i cinque romanzi che Massimo Onofri ha individuato fra le pagine de Lo Spasimo: «un romanzo sul rapporto Italia – Sicilia; un romanzo sul rapporto padre e figlio (il padre di Gioacchino / Chino e Chino); un secondo romanzo padre – figlio (Chino e Mauro); […] un romanzo d’amore (Chino e Lucia); e […] un romanzo di “oblio e dimenticanza”» (Onofri, 2004, 183). Si precisano qui, quando Chino allude all’omicidio del giudice Falcone, le corrispondenze con il passo de Le pietre di Pantalica citato da Borsellino: «Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – E’ una furia bestiale, uno sterminio»[5] (Consolo, 1998, 128). Ne Le pietre di Pantalica aveva detto: «Questa città è un macello, le strade sono carnazzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. […] La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza» (Consolo, 2012, 132 – 134). E, ne L’olivo e l’olivastro, si indica in modo chiarissimo come responsabile di questa situazione, non limitata a Palermo ma diffusa in tutta Italia, sia la perdita della memoria storica: «Via, via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti. / Ma è Palermo o è Milano, Bologna, Brescia, Roma, Napoli, Firenze?» (Consolo, 1994, 125). Ne Lo Spasimo, questa situazione di crisi comporta una divaricazione tra letteratura e società. Chino ne matura la consapevolezza: Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della legge. E per me anche letterario. Voglio dire: oltre che in Inghilterra, nella [5] Da sottolineare come i quattro verbi (sparano-straziano-carbonizzano-spiaccicano) abbiano la stessa finale. Francia dello Stato e del Diritto è fiorita la figura del giustiziere che giudica e sentenzia fuori dalle leggi. Balzac, Dumas, Sue ne sono i padri, con filiazioni vaste, fino al Bernède e al Feuillade di Judex e al Natoli nostro, […]. In questo Paese invece, in quest’accozzaglia di famiglie, questo materno confessionale d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, […], dove tutti ci impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, da rimuovere. O da uccidere (Consolo, 1998, 129-130). Il letterato, dunque, l’intellettuale vive in una condizione di esilio, non è adeguatamente apprezzato, tant’è che quando Chino tenta di fermare Borsellino mentre suona al citofono, il giudice si gira ma non lo riconosce. Nell’attentato viene colpito Erasmo che, morendo, recita due versi de La storia di la Baronissa di Carini, ad attestare come, anche se al presente la letteratura non è ascoltata, è da questa, voce della tradizione, della memoria storica, che deve venire la salvezza:

O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi!



(Consolo, 1998, 131). 9, 2020. 22 Bibliografia Bouchard, Norma (2005). Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy. Italica, 82, (1), 5 – 23. Ciccarelli Andrea (a cura di) (2005). Intervista a Vincenzo Consolo. Italica, 82, (1), 92 – 97. Consolo, Vincenzo (1988). Le pietre di Pantalica. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1992). Retablo. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1993). Fuga dall’Etna. Roma: Donzelli. Consolo, Vincenzo (1994). L’olivo e l’olivastro. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1998). Lo Spasimo di Palermo. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1999). Di qua dal faro. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (2006). «Ma la luna, la luna…». In Pintor Romera I. (a cura di). Lunaria. Vent’anni dopo. València: Generalitat Valenciana, Conselleria de Cultura, Educació i Esport. Consolo, Vincenzo (2012). La mia isola è Las Vegas. Milano: Mondadori. Donnarumma, Raffaele (2011). Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella letteratura italiana (1969 – 2010). In Aa. Vv., Per Romano Luperini. Palermo: Palumbo. Dotti, Ugo (2012). Il senso della storia nell’opera di Vincenzo Consolo. In Ugo Dotti, Gli scrittori e la storia. La narrativa dell’Italia unita e le trasformazioni del romanzo (da Verga a oggi). Torino: Nino Aragno editore. Francese, Joseph (2015). Vincenzo Consolo: gli anni de «l’Unità» (1992 – 2012), ovvero la poetica della colpa – espiazione. Firenze: Firenze University Press. Lollini, Massimo (2005). Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo. Italica, 82, (1), 24 – 43. Luperini, Romano (1999). Controtempo. Napoli: Liguori. Marcellesi – Giacomo, Mathée (2004). Vincenzo Consolo: l’alchimie du logos. Croniques italiennes. 2-3, 197 – 214. Onofri, Massimo (2004). Il sospetto della realtà: Saggi e paesaggi italiani novecenteschi, Cava de’ Tirreni: Avagliano. O’Connell, Daragh (2004). Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo. The Italianist. 24: II, 238 – 253. DOI: 10.1179 / ita.2004.24.2.238 O’Connell, Daragh (2008). Consolo narratore e scrittore palincestuoso. Quaderns d’Italià, (13), 161 – 184. O’Connell, Daragh (2012). «Tizzone d’Inferno»: Sciascia on Joyce. Totomodo, 237 – 248. Traina, Giuseppe (2001). Vincenzo Consolo. Fiesole: Cadmo.


Summary
Lo Spasimo di Palermo is example of a crisis that has repercussions on the expressive form: on the one hand, the consciousness that «sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa […] simbolo sfuggente» comes out, on the other hand novel seems a «genere scaduto, corrotto, impraticabile». The generational conflict between Chino and Mauro is included in this sphere too. Hence it follows many solutions that lead to Consolo’s «poema narrativo» and testify the prevailing disorientation: paratactic accumulation, metaphors, literary quotations, figures of speech. Pictorial suggestions find its centre in Raphael’s Lo Spasimo di Sicilia, symbol of a pain that from Palermo arrives to Sicily and all world, while the spaces have a great importance and show the loss of historical memory, responsible for crisis. Key words: Consolo, crisis, memory, history


Città e ‘RUINE’ DI CITTÀ: Retablo di Vincenzo Consolo

CINZIA GALLO

 Nel 1999 Consolo scriveva: Voglio rievocare un tempo in cui in Sicilia, giovani o non più giovani […] convenivano in un luogo per incontrarsi, conoscersi o meglio riconoscersi. Disegnavano o ridisegnavano, quei viaggiatori, nei loro movimenti da un luogo a un altro, […] una nuova mappa della Sicilia, una nuova topografia dello spirito 1. Assegnava così grande importanza, valenza reale e simbolica, confermata da quasi tutte le sue opere, al viaggio e ai luoghi. Come del resto osserva Papotti, «Il ruolo della letteratura nell’interpretazione degli spazi urbani […] affonda direttamente […] nell’ azione interpretativa» 2 . Se la breve citazione, posta in epigrafe, da La caduta di Costantinopoli di Ducas – che richiama L’Olivo e l’olivastro, in cui Costantinopoli è emblema delle città siciliane in decadenza – va interpretata in senso simbolico, il viaggio del cavaliere Clerici, per «scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene […] templi e colonne e statue di cittate ultrapassate»3 , a prima vista in linea con il gusto per l’antiquaria tipicamente settecentesco, è, innanzitutto, un percorso reale in cui «i luoghi sono […] degli scenari per avventure che valgono 1 anche in se stesse» 4 e che dimostrano un «bisogno di radicamento»5 , cioè «una ricerca di elementi di riconoscibilità, sui quali appoggiare logiche di reciproca appartenenza fra luoghi e persone»6 ; tutto questo risponde al disagio, al senso di spaesamento dei protagonisti del nostro testo, le cui coordinate storiche sono immediatamente individuabili, benché non del tutto corrette 7 . Il rilievo dato alla città, d’altra parte, si può collegare alle teorie di Mario Pagano secondo cui esse sono costituite per la felicità degli uomini, «per vivere più sicuri e con più agio, ma ben anche più virtuosamente» 8 . Certamente, per Consolo, incarnano tali principi le città del passato, «ruine» 9 di città, secondo il processo evolutivo, di impostazione vichiana, fatto proprio da Pagano mentre Palermo e i vari luoghi visitati da Clerici sottolineano i caratteri e i difetti del doppio presente a cui si riferisce Consolo, che dichiara, in un’intervista: «il Manzoni scriveva del Seicento per parlare dell’ Ottocento. Io ho voluto parlare del settecento per dire del nostro tempo contemporaneo»10. Porta Termini, la Magione, Longarini, strada Merlo, i colli, la Marina, il Monte, il Capo, il Borgo raffigurano infatti, con una precisione sempre costante in Consolo, una Palermo reale, dove si svolge la quête, ariostescamente inappagata, ad attestare i limiti delle capacità umane, di Rosalia da parte di Isidoro, e che ha, quali centri vitali, piazze, chiese e mercati, luoghi in cui si consuma la vita sociale dell’uomo. E se la religione è, illuministicamente, superstizione, come attesta la 4 L’oratorio di via Immacolatella, in cui ci si ritrova al principio e alla fine della vicenda, contiene gli stucchi di Procopio Serpotta, figlio del più noto Giacomo, e personaggio della fabula, morto nel 1756, mentre è del 1760 il matrimonio fra Cesare Beccaria e Teresa Blasco, che Fabrizio Clerici menziona. 8 vendita che Isidoro compie di «bolle dei Luoghi santi, […] preservativi di […] infortuni d’ogni risma nel corso dei viaggi»11 , le piazze sono affollate da un’umanità degradata corrispondente alla folla «d’accattoni, finti storpi o affetti da morbi repugnanti»12 che si accalca, a richiamare Parini, dietro le porte dei palazzi e delle cappelle, e verso cui l’io narrante Isidoro ha un atteggiamento di disprezzo, a dimostrare la sua fede inautentica, che si allarga al «bailamme della Cala» 13, a cui a poco a poco si assimila, dopo aver mostrato il disorientamento di chi ha lasciato, diremmo, la propria ‘città implicita’, e quindi il disagio del Novecento. La chiesa di San Lorenzo, invece, approdo della seconda quête che, con moto circolare da ricondurre all’immagine-metafora calviniana della chiocciola, della spirale (paragonabili pure all’uovo, alla serpe, per Pagano simboli egizi), si svolge attraverso vicoli, piazze, strade «del Borgo, della Kalsa»14, mostra, fra le fini sculture del Serpotta, delle statue di donna e, in particolare, una con la scritta VERITAS, dalle fattezze simili a quelle di Rosalia, ad indicare come la verità sia solo apparenza, sia estremamente soggettiva, secondo le novecentesche teorie relativistiche. A questa statua se ne aggiungeranno altre, durante il percorso, stabilendo un primo legame con Il secolo dei lumi di Alejo Carpentier 15, in cui le ville dei ricchi proprietari dell’Avana hanno delle statue mitologiche, status symbol. Anche la città a cui Carpentier assegna, all’inizio, grande spazio, appare simile a quella consoliana: il «gigantesco lampadario barocco»16 ricorda il gusto barocco delle sculture del Serpotta, come pure i «provinciali pregiudizi»17 della società dell’Avana si collegano a quelli denunciati da Consolo. Nella seconda sezione, Peregrinazione, in cui Fabrizio Clerici 11 inizia il suo «giornale di viaggio»18 , dedicandolo a Teresa Blasco (figlia di una siciliana e di uno spagnolo), per soddisfare il desiderio di conoscenza della terra degli avi – cioè delle proprie origini, proprio di ogni individuo – Palermo e Milano sono costantemente messe sullo stesso piano, per polemizzare subito, attraverso i luoghi e gli oggetti, contro chi detiene il potere. Non so-lo, difatti, gli uomini laceri, affamati che gli vanno incontro non gli sembrano differenti da quelli che si notano nelle «strade mal-sicure del comasco o per le valli scure bergamasche»19, ma gli strumenti di tortura presenti nella nave, esempi di una giustizia «fera e disumana»20, i luoghi di Palermo e, soprattutto, «l’ immensa cattedrale»21, con il suo splendore, rappresentato con macchie di colore, costituiscono «l’apparecchio d’un imponente Spettacolo di Fede» 22 , a sottolineare polemicamente il divario fra apparenza e realtà a cui allude, pure, «il teatro dei burattini», il «salone trasformato in teatro» 23 de Il secolo dei lumi. Gli espliciti riferimenti all’Illuminismo (ai Verri, a Beccaria, a una concezione meccanicistica), sottolineano come l’uomo sia al centro dell’ interesse e dell’impegno di Consolo che, manzonianamente, commenta, alludendo al Settecento e al Novecento: «peggiori di quanto ne pensiamo sono i tempi che viviamo!»24. Si spiega così come egli insista a contrapporre, sempre tramite i luoghi, il quadro di miseria e di degrado fornito da «cani e porci e gatti e topi, […] le teste e i lacerti umani infissi nelle pertiche o dentro nelle gabbie, a monito degli òmini, e a fiero pasto d’ uccelli e di randagi»25 (ritroviamo immagini simili ne Il secolo dei lumi26), al «paradiso» 27 costituito dal duomo di Monreale, con i suoi mosaici intarsiati di pietre preziose, e quindi si soffermi sulla cittadina di Alcamo. Qui le abitazioni aperte su cortili e, fuori le mura, sopra un’altura, la casa, grandissima, del cavalier Soldano Lodovico, nella cui corte si aprono stalle, fondachi, cantine, magazzini in cui ferve il lavoro e, il giorno successivo, nella piazza antistante il castello, una grande fiera, rappresentano la vita nella sua infinita varietà, nella sua consistenza reale e illusoria, a nascondere le miserie quotidiane. Tale compresenza, che Consolo in Filosofiana definirà «follia» 28 , attesta il volto composito del Settecento, paragonabile alla propensione verso il fantastico, l’immaginario che nutre Esteban, protagonista de Il secolo dei lumi. Analogamente, a tali scene di estrema vitalità e dinamismo si accompagnano quelle di numerosi fanciulli, «cenciosi e magri»29 che, ricordando Parini, raccolgono i gusci di lumache (immagine chiave in Consolo) scartati da Isidoro e Clerici, da accostare ai ragazzi di «alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano»30, città sempre polemicamente presente, per mostrare l’ identità della condizione umana, qui, però, maggiormente nascosta dall’ostentato sfarzo dei ricchi come il Soldano, il cui palazzo, pieno di oggetti preziosi e ricercati, è definito, significativamente, un «museo»31, per testimoniarne l’assenza di 25 CONSOLO 1992, pp. 30-31. 26 «Si fece mostrar la spiaggia dove quei frustrati conquistatori delle Antille avevano impalato alcuni bucanieri francesi […]. C’erano ancora scheletri, ossa, crani, sui pali piantati accanto al mare: trafitti dal legno come insetti infilzati da un naturalista, i cadaveri avevano attratto tanti avvoltoi […] che la costa, […] sembrava coperta da una ribollente lava…» vita, come nella frutta martorana che imita quella fresca32 e nella poesia paludata, artefatta dell’Accademia de’ Ciulli Ardenti. La struttura della città di Alcamo mette in risalto come questa «vita […] dolente e indecorosa»33, verso cui Clerici prova disgusto, si celi, dietro le apparenze, in tutti i ceti. Clerici ed Isidoro, difatti, salendo nella parte più alta del Castello, osservano «incantati il brulichìo e il muoversi incessante […] della folla degli òmini e animali della fiera» nella piazza sottostante, «l’ apparire lesto […] dal fondo del diritto Corso verso la piazza […] d’un drappello in gara di barberi cavalcati […] da giovini e focosi cavalieri»34 . Al tempo stesso, però, la loro attenzione è catturata dalla tortura inferta, per ordine del figlio del Soldano, a quattro fanciulle, colpevoli solo di aver ceduto alle sue voglie, a denunciare sopraffazioni e privilegi. Ma «i letticari»35 di Alcamo, che abbandonano Fabrizio e Isidoro dopo l’assalto di tre briganti, attestano come in tutti i ceti ci sia malvagità e come tutti gli uomini, in ogni tempo e in ogni luogo, agiscano sotto la spinta dell’ interesse personale. Clerici asserisce lucidamente: […] sòspico che nobiltate, onore, valore, ingegno, fascino, eleganza, ogni virtù infine, potere o grazia non sorgano dall’ essere ma solo dall’ avere, […] tutto il mio onore e valore e sicurezza poggiavano avanti in una borsa unta piena di monete, e ora, privo di quella, sono il più vile tra gli òmini […]. E voi, voi, signora, […] cosa sareste mai senza la protezione e il nome del nobile padre vostro colonnello, senza la cospicua dote della madre, se foste stata una qualunque bella ma povera fanciulla […]? Sareste così apprezzata e corteggiata da’ più ricchi e nobili rampolli di Milano, dal Beccaria, dai Verri e tutti gli altri? E voi apprezzereste loro, se fossero poveri e deboli come son io qui al momento, […]?Ammette però che talvolta gli umili, in quanto disinteressati, possono guardare non all’ apparenza ma all’intima essenza degli uomini e giudicarli tutti «degni di stima e di rispetto, in qualsiasi condizione e traversia» 37 , secondo i principi egalitari dell’ Illuminismo. E’ chiaro, dunque, che Consolo ha scelto il Settecento perché epoca più consona alla sua battaglia contro ogni forma di ingiustizia ma anche alle contrastanti peculiarità dell’uomo (Clerici sottolinea, grazie all’ anafora: «come siamo strane, come siam contraddittorie, come siam sempre incerte noi creature umane!»38). Un pastore che vive solitario nel territorio dell’antica Segesta e per il quale «ogni vita è sacra, […] ogni ospite è uguale a un sovrano»39, esprimendo la superiorità rousseauiana della natura sulla civiltà, comunica un senso di pienezza vitale, un’ebbrezza grazie a cui è possibile «amare nel modo più sublime, predire ogni evento del futuro oppur divinamente poetare» 40 . Si chiarisce così a Clerici il significato del viaggiare, dello scrivere, della vita: Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, […] che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato 41. L’ artista, difatti, è «lontano dalla vita, dalla gente»42. Consolo condanna qui, e lo ribadirà nella terza sezione 43, la società contemporanea per la scarsa sensibilità nei confronti dell’arte, così come, ne Il secolo dei lumi, viene deplorata la «città indifferente e senz’anima, estranea a tutto quanto fosse arte o poesia, dedita al commercio e alla bruttezza»44. Il tempio, «porta […] verso l’ eternitate e l’ infinito»45, sottolinea invece l’importanza di una fede autentica, poiché solo attraverso la fede negli dei o in Dio l’uomo vive: Fabrizio lo disegna inserendolo fra alberi, «greggi, pastorelle danzanti, pastori intenti a soffiar nelle siringhe»46, un contesto in cui si concretizza il desiderio di ‘sospensione del presente’, fatto di menzogne e finzioni, come Clerici afferma a Selinunte. Stigmatizzando ancora ogni forma di sopraffazione, Clerici dichiara però che, riguardo la violenza e le guerre, dovrebbe sempre valere «la finzione»47 . Un’ulteriore lezione di vita è data da don Carmelo Alòsi, un vecchio leopardianamente consapevole che la «dura vita scema» i voli della fantasia e che «i sogni, le chimere restano nel ricordo e nella nostalgia» 48 : ha saputo difatti coniugare il desiderio giovanile di viaggiare e di conoscere il mondo con quello di stare a contatto con la natura ed è arrivato alla vecchiaia felice, perché essa «è malattia quando in giovinezza nulla s’è innestato, e si rimane […] soli e infelici» 49 . Egli dà anche l’ esempio, secondo le concezioni fisiocratiche settecentesche, di una perfetta divisione del lavoro, citando Mazzara, paese dei vivai, 42 Leggiamo, infatti, in Veritas: «siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… Stiamo ai margini, […] e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti» (p. 152). 44 in cui «Tutti lavora-no e vivono per essi, òmini, donne e figli appena crescono»50. Ed anche, Vita, lungo la strada per Salemi, è un «Luogo di delizie oppur del sale»51: Casette basse, in pietra viva e calce, con sopra l’architrave della porta, a mo’ di verde cielo o tetto, una pergola fitta sostenuta dalle travi, da cui pendevano grappoli bianchi […] che chiamano zibibbo. E avanti agli usci, sul lindo acciottolato, le donne stendevano, […] il frumento, l’ orzo, le fave, i ceci, le cicerchie, le lenticchie. I bimbi intorno, con tabelle giocando, cròtali e crepundi, ventole di canne, fugavano gli uccelli52. A contatto con «il mare magno di ruine» 53 di Selinunte, Fabrizio è così cosciente della fragilità dell’uomo, dalla vanità e del profondo mistero della vita, della fallacia delle presuntuose aspirazioni umane, simboleggiate da Milano 54 , criticata, con scoperta allusione al presente di Consolo, attraverso espliciti richiami al v. 53 («Secol superbo e sciocco») della Ginestra leopardiana. Le città del passato, difatti, rappresentano «il pudore, la trepidazione, il sentimento, […] la verità del mondo»55, contrariamente al presente, «falsità, laidezza, brutalità e follia»56, in cui «a la soperchieria non c’è fine, non c’è fine alla 50 «O gran pochezza, o inanità dell’ uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! […] O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontani» (p. 98). Consolo alluderebbe qui alla Milano degli anni Ottanta del Novecento, dominata da Craxi e da intellettuali quali Giovanni Testori e Giorgio Strehler. 55 miseria e alla fame…» 57 . La storia dell’uomo è, allora, un «miscuglio d’animalità e di ragione, di tenebra e di luce, di barbarie e civiltà»58. Contestando Montesquieu, Consolo attesta tutto il suo pessimismo sulla natura umana: Ah, lasciamo, lasciamo di dire qui quanto l’uomo è stato orribile, stupido, efferato. Ed è, anche in questo nostro che sembra il tempo della ragione chiara e progressiva. L’ uomo dico in astratto, nel cammino generale della storia, ma anche ciascun uomo al concreto, […] Vive sopravvivendo sordo, cieco, indifferente su una distesa di debolezza e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe59. Viene perciò spontaneo pensare, con queste ulteriori riserve sull’Illuminismo (ricordiamo pure il ridicolo ritratto del poeta Calvino, «acceso giacobino»60), al Secolo dei lumi, in cui è descritta la degenerazione delle idee della rivoluzione francese. Una statua testimonia i grandi valori del passato, di quell’«Antichitate»61 che l’abitante dell’ isola di Mozia sconosce, ad indicare come essi siano ormai smarriti nel presente. Quando questa statua di marmo, di fronte a cui i moziesi rimangono affascinati, è gettata in mare perché troppo pesante, Consolo lascia intendere come essa rappresenti «filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…»62 , subalterne rispetto alla vita, secondo le utilitarie idee illuministiche («Prima viene la vita, quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi viene ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…» 63 ) e il materialismo novecentesco. Non a caso, infatti, essa è scaraventata in mare durante la navigazione verso Trapani, «porta importantissima d’ogni incrocio e scambio»64 , sulla cui banchina viene scaricata un’infinità di merci che Consolo enumera come sua abitudine, esempio di un «virtuosismo del malinconico»65. Trapani, dalla passeggiata che Clerici compie per le sue vie con la guida di don Sciavèrio, così da «evitare che […] usi, costumi, edifici, luoghi perdano […] la loro “leggibilità”»66, dà perciò l’impressione di una città ricca, simbolo dell’ intraprendenza e del lavoro umano: Traversammo così quel rione intricato come un laberinto, pieno di bei palazzi, di chiese, di reclusori, di conventi, di spezierie, di mercerie, di logge, botteghelle; […] «Vedete queste case a forma di pignatte pel cùscus?» […] indicando le case strette e alte, a uno, a due, a tre piani, quasi sempre incompiute e in progresso. «Sono quelle de’ nostri naviganti […] òmini accorti che […] fabbricano a mano a mano la casa per i figli, un piano sopra l’ altro, come le pignatte sovrapposte per cuocere al vapore il semolino»67. Ma questo fasto, la vita dedita ai divertimenti degli abitanti, sono solo un’apparenza, e la religiosità pura esteriorità, come don Sciavèrio sottolinea, ricorrendo all’enumerazione e all’anafora 68 , e come un improvviso terremoto fa notare. L’uomo, dunque, campeggia in tutta la sua provvisorietà e contraddittorietà: Clerici, secondo cui nella propensione per i commerci vi è «il gusto, il bisogno anzi d’incontrarsi, di parlarsi e di conoscersi dei carovanieri ne’ deserti»69, avverte un senso di insoddisfazione che esprime attraverso il desiderio di ritornare nella sua città. La vanità della sua ricerca è perciò attestata dal rientro a Palermo, con il movimento ariostescamente circolare che riproduce l’immagine della spirale-chiocciola, riportando in via Immacolatella, nell’oratorio della Compagnia di San Lorenzo, che contiene le sculture del Serpotta. Il bisogno di 65 «Sapeste il numero di chiese, di conventi, di cappelle, sapeste la nostra divozione per le feste, del Venerdì Santo, del Celio, di sant’Alberto, dell’ Annunziata…» (p. 135). 69 radicamento di Fabrizio si esprime nella gioia di ritrovare, nel quartiere di Fieravecchia, tra le varie botteghe di «mercanti, osti, cantinieri, panettieri, orefici, marmorari, setaioli»70 lombardi, qui emigrati – anche da generazioni – ad attestare come l’uomo sia sottoposto ad uguali esigenze e spinte in tutti i luoghi e come la Sicilia non sia un mondo a sé. Incontra, in particolare, un uomo che conosceva fin da bambino, proveniente da Stazzona, che, pur orgoglioso della sua fiorente bottega di panniere, non ha dimenticato i legami con la terra di origine. Ma Clerici, che non ha ancora trovato il suo radicamento, consapevole della sua condizione di incertezza, di contraddittorietà, pensa ad altri viaggi («Dopo la Sicilia, forse mi recherò in Ispagna o ancora più lontano, di là dell’ Oceano, nel Nuovo Mondo» 71 ), desiderando prolungare il tempo sospeso ed irreale. Interpreta, così, il disagio dell’uomo contemporaneo di fronte alla realtà.



TRAINA 2001, p. 12. 2 PAPOTTI 2014, p. 37. 3 CONSOLO 1992, p. 11. CINZIA GALLO
TRAINA 2001, p. 26. 5 LA PORTA 2010, p. 10. 6 PAPOTTI 2014, p. 38. 7
PAGANO 1936, p. 22. 9 CONSOLO 1992, p. 97. 10 RUSTICO 2005-2006, p. 161. CITTÀ E ‘RUINE’ DI CITTÀ: RETABLO Di VINCENZO CONSOLO
CONSOLO 1992, p. 11. 12 CONSOLO 1992, p. 11. 13 CONSOLO 1992, p. 15. 14 CONSOLO 1992, p. 17. 15 CARPENTIER 1999. 16 CARPENTIER 1999, p. 15. 17 CARPENTIER 1999, p. 34. CINZIA GALLO
18 CONSOLO 1992, p. 23. 19 CONSOLO 1992, p. 26. 20 CONSOLO 1992, p. 26. 21 CONSOLO 1992, p. 30. 22 CONSOLO 1992, p. 30. 23 CARPENTIER 1999, pp. 21-42. 24 CONSOLO 1992, p. 29. CITTÀ E ‘RUINE’ DI CITTÀ: RETABLO DI VINCENZO CONSOLO
(CARPENTIER 1999, p. 169). 27 CONSOLO 1992, p. 31. 28 TEDESCO 1993, p.
CONSOLO 1992, p. 96. 43 75. 29 CONSOLO 1992, p. 50. 30 CONSOLO 1992, p. 51. 31 CONSOLO 1992, p. 38. CINZIA GALLO
36 32 CONSOLO 1992, p. 39. 33 CONSOLO 1992, p. 51. 34 CONSOLO 1992, p. 52. 35 CONSOLO 1992, p. 60. 36 CONSOLO 1992, p. 61. CITTÀ E ‘RUINE’ DI CITTÀ: RETABLO DI VINCENZO CONSOLO
37 CONSOLO 1992, pp. 61-62. 38 CONSOLO 1992, p. 136. 39 CONSOLO 1992, p. 68. 40 CONSOLO 1992, p. 65. 41 CONSOLO 1992, p. 70. CINZIA GALLO
CARPENTIER 1999, p. 28. 45 CONSOLO 1992, p. 73. 46 CONSOLO 1992, p. 77. 47 CONSOLO 1992, p. 85. 48 CONSOLO 1992, p. 93. 49 CONSOLO 1992, p. 91. CITTÀ E ‘RUINE’ DI CITTÀ: RETABLO DI VINCENZO CONSOLO
CONSOLO 1992, p. 92. 51 CONSOLO 1992, p. 87. 52 CONSOLO 1992, p. 86. 53 CONSOLO 1992, p. 97. 54
CONSOLO 1992, p. 104. 56 CONSOLO 1992, p. 104. CINZIA GALLO
57 CONSOLO 1992, p. 106. 58 CONSOLO 1992, p. 115. 59 CONSOLO 1992, p. 116. 60 CONSOLO 1992, p. 137. 61 CONSOLO 1992, p. 118. 62 CONSOLO 1992, p. 125. 63 CONSOLO 1992, p. 125. 64 CONSOLO 1992, p. 126. CITTÀ E ‘RUINE’ DI CITTÀ: RETABLO DI VINCENZO CONSOLO
GUARRERA 1997, p. 9. 66 PAPOTTI 2014, p. 39. 67 CONSOLO 1992, pp. 130-131. 68
CONSOLO 1992, p. 128. CINZIA GALLO
. Bibliografia CARPENTIER 1999 = A. CARPENTIER, Il secolo dei lumi, Palermo, Sellerio 1999. CONSOLO 1992 = V. CONSOLO, Retablo, Milano, Mondadori 1992. GUARRERA 1997 = C. GUARRERA, Introduzione a A. SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Messina, Il Lunario 1997. LA PORTA 2010 = F. LA PORTA, Uno sguardo sulla città. Gli scrittori contemporanei e i loro luoghi, Roma, Donzelli 2010. PAGANO 1936 = M. PAGANO, Saggi politici, Bologna, Cappelli 1936. 70 CONSOLO 1992, p.144. 71 CONSOLO 1992, p.146.

Roma, UniversItalia editrice, 2015





Citazioni pittoriche e strategie ecfrastiche nell’opera di Vincenzo Consolo

foto Andersen Salone del libro Parigi marzo 2002

 di Dario Stazzone

L’articolo indaga l’intenso dialogo tra i romanzi consoliani e le arti figurative, in particolare la pittura. Un dialogo che si avvale di strategie molteplici, le icone autoriali annunciate spesso dai titoli tematici dei romanzi, il ricorso all’ekphrasis nascosta, gli inserti critici riferiti alle opere d’arte. Con particolare riferimento a Il sorriso dell’ignoto marinaio ed a Retablo prende in esame, per altro, l’uso che lo scrittore fa dell’ekphrasis, il suo valore metanarrativo e metadiegetico.

L’opera di Consolo riserva ampio spazio alle citazioni figurative.[1] Lo scrittore, intervistato da Giuseppe Traina, ha dato una spiegazione della ricchezza dei riferimenti pittorici riscontrabili nei suoi romanzi ricorrendo ad un assunto semiologico, affermando la volontà di superare la contrapposizione tra lo svolgimento temporale del linguaggio verbale e lo svolgimento spaziale dell’opera figurativa. Per Consolo la continua evocazione dell’immagine riscontrabile nella sua scrittura risponde all’esigenza di equilibrio tra temporalità e spazialità:

Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il “retablo” appartiene alla pittura ma è anche “teatro”, come nell’intermezzo di Cervantes.[2]

La stessa perigrafia dei romanzi consoliani rinvia spesso a suggestioni figurative o a palesi citazioni pittoriche, evidenti fin dai titoli: com’è noto Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento al dipinto di Antonello da Messina, il ritratto virile d’ignoto custodito nel Museo Mandralisca di Cefalù. Anche Retablo, romanzo pubblicato nel 1987 per i tipi Sellerio, evoca la pittura fin dal titolo. Il termine catalano retablo indica infatti una pala d’altare inquadrata architettonicamente: essa può articolarsi in diversi scomparti formando un dittico, un trittico o un polittico costituito da tavole dipinte, talvolta da sculture o dall’alternanza di dipinti e bassorilievi, tenendo insieme, in quest’ultimo caso, imagines pictae fictae. Il titolo scelto da Consolo, facendo riferimento ai polittici iberici, denunzia in primo luogo la vocazione pittorica del libro. Ma retablo è inteso dall’autore come un significante polisemico, come un lessema evocativo di rara e remota sonorità che contiene, ad un tempo, riferimenti figurativi, teatrali e letterari: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum: il senso, per me, dietro o oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana».[3] Tra l’altro il lemma spagnolo rinvia alla memoria del Retablo de las meravillas di Miguel de Cervantes. L’evocazione cervantesiana può essere intesa anche come un riferimento al tratto illusorio dell’arte, motivo a cui il romanzo dedica più di una riflessione. Attraverso la scelta di un titolo di carattere tematico[4] l’autore allude, infine, all’organizzazione narrativa del libro, articolato per scene e quadri successivi che potrebbero essere considerati come delle tavole sovrapposte, pur mantenendo la loro autonomia narrativa. Il testo consoliano si configura dunque come un polittico, come una successione di quadri narrativi al centro dei quali sta il motivo odeporico, ovvero il viaggio del cavaliere Fabrizio Clerici nella Sicilia del XVIII secolo, e una tarsia di citazioni che ne fanno uno dei romanzi più complessi e levigati della letteratura italiana del secondo Novecento.

Ritratto fotografico di Vincenzo Consolo, di Giuseppe Leone (1985 ca.)
foto Giuseppe Leone

Per dare un titolo all’ampia intervista concessa all’IMES nel 1993, lo scrittore, ancora una volta, ha usato un riferimento pittorico evocando Fuga dall’Etna di Guttuso.[5] Consolo ha riproposto il nome che il pittore siciliano ha dato ad una tela di vaste dimensioni realizzata tra il 1938 e il 1939, la sua prima composizione corale, lungamente meditata e preparata attraverso studi, ritratti e paesaggi realizzati tra la Sicilia e la Sila.[6] Nel dipinto un’eruzione etnea assume un più ampio significato sociale e diventa l’occasione per rappresentare masse di contadini in fuga concitata, arditi scorci di cavalli che negli stilemi e nell’esemplificazione formale rivelano la memoria di Guernica di Picasso: un’allusione alla sofferenza del mondo contadino e al dramma della migrazione, anch’esso un vulnus iscritto nella storia del Novecento. Non è un caso che Consolo si sia ricordato del telero guttusiano: nell’intervista, infatti, l’autore ripercorre il suo itinerario biografico e intellettuale, parla dell’allontanamento dall’isola natale, della condizione di erranza, della metafora odissiaca che attraversa i suoi romanzi, del nostos impossibile e del trasferimento giovanile a Milano. La citazione di Fuga dall’Etna testimonia, tra l’altro, dell’amicizia tra lo scrittore e Guttuso che si traduce nelle argute allusioni presenti in diversi romanzi. Si veda, ad esempio, il cenno, incastonato nelle pagine di Retablo, al «pittore celebrato […] della Bagarìa», anacronisticamente collocato in un elenco di artisti siciliani d’epoca manierista o barocca: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo di Ganci, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa».[7] L’allusione consoliana, che qui assume le connotazioni di un ammiccante gioco a nascondere, non è dissimile dalla scelta di fare dell’amico Clerici, pittore lombardo inquieto e surreale, il protagonista del libro.

Renato Guttuso, Fuga dall’Etna, olio su tela, 1940
Fuga dall’Etna di Renato Guttuso

Anche l’ultimo romanzo di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, fa riferimento a un’opera pittorica, il dipinto di Raffaello un tempo custodito nella chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e oggi esposto nelle sale del Museo del Prado. Secondo la narrazione del Vasari la tavola dell’Urbinate sarebbe giunta in Sicilia per mare, attraverso fortunosi accadimenti.[8] La citazione dello Spasimo (ovvero della raffaellesca Andata al Calvario di Cristo) è usata per conferire una connotazione martirologica alla narrazione. Il romanzo, infatti, si confronta col tema dell’impotentia scribendi, con lo smarrimento del protagonista e, nelle pagine conclusive, allude alla strage di via D’Amelio, all’attentato che determinò la morte di Paolo Borsellino. Il simbolismo sotteso dal riferimento pittorico è intensificato dalla riproduzione di una pagina dello spartito del Dies irae del compositore augustese Manuele d’Astorga.[9] La citazione pittorica, il ricercato recupero di un testo musicale d’epoca barocca, i riferimenti cinematografici portano al massimo grado l’orchestrazione plurima dei codici, facendo culminare la narrazione in una successione di suggestioni sinestetiche che conferiscono forza al tragico explicit.

Oltre alla perigrafia, alle tarsie intertestuali ed alle note icone autoriali di Consolo, ovvero alle esplicite costruzioni ecfrastiche dedicate al ritratto virile di Antonello da Messina nel Sorriso dell’ignoto marinaio, all’oratorio serpottiano di San Lorenzo in Retablo, al caravaggesco Seppellimento di Santa Lucia ne L’olivo e l’olivastro ed alla tavola raffaellesca nello Spasimo, Miguel Ángel Cuevas ha messo in evidenza il ricorso, da parte dello scrittore, alla strategia dell’«ekphrasis nascosta».[10] Cuevas, attraverso lo studio variantistico delle opere consoliane, ha sottolineato come l’autore tenda all’occultamento dell’originario costrutto ecfrastico, restituendo al lettore non la descrizione di un’immagine, ma la sua immediatezza:

L’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenze, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire, in ogni caso, di una diversa voce narrante: che paradossalmente provoca effetti di denarrativizzazione.[11]

Se l’ekphrasis, figura di pensiero per aggiunzione che la retorica ha considerato da sempre il mediumtra la letteratura e le arti, è la descrizione verbale di una rappresentazione visuale, se, come ha affermato Mengaldo, la «descrizione verbale non mima l’opera, ma lo sguardo che percorre l’opera»,[12] la strategia di opacizzazione referenziale adottata da Consolo rende ancora più complessi i rapporti intercorrenti tra testo e immagine. Il ricercato equilibrio tra temporalità e spazialità, di cui lo scrittore ha parlato nell’intervista concessa a Traina, rivela risvolti assai complessi considerando che spesso, nelle narrazioni consoliane, la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata: «rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità».[13]

In sintesi il rapporto tra i romanzi di Consolo e la pittura si avvale di strategie molteplici: la retorica della citazione e le icone autoriali che spesso sono preannunciate dal titolo tematico dell’opera; le ekphrasis nascoste, incastonate in una scrittura sempre caratterizzata da forte pittorialità; inserti critici e metadiegetici riferiti alle opere d’arte che testimoniano la raffinata formazione dell’autore e contribuiscono ad accentuare l’antinarratività delle sue opere dalla densa struttura ‘palinsestica’.[14] Un’ulteriore riflessione, sulla scorta degli studi di Michele Cometa dedicati alla retorica visuale, si impone in rapporto alle diverse forme di integrazione dell’ekphrasis nelle opere consoliane.

1. Il sorriso dell’ignoto marinaio: la funzione metapoetica e metanarrativa dell’ekphrasis

Si è già notato che Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento, fin dal titolo, ad un dipinto antonelliano, il ritratto virile custodito al Museo Mandralisca di Cefalù. La tavola quattrocentesca, che una tradizione suggestiva ma infondata indicava come il ritratto di un marinaio, è alla base dell’ordine delle somiglianze che attraversa il romanzo. Fin dall’incipit il protagonista, barone Enrico Pirajno di Mandralisca, tiene la tavola dipinta sotto braccio, riportandola da Lipari, dove l’ha fortunosamente scoperta, al suo palazzo cefaludese. L’antefatto del primo capitolo fa da sintesi del viaggio dell’aristocratico collezionista e vi dà un’esatta collocazione cronotopica, datandolo 12 settembre 1852: «Viaggio in mare di Enrico Pirajno barone di Mandralisca da Lipari a Cefalù con la tavoletta del ritratto d’ignoto di Antonello recuperata da un riquadro dello stipo della bottega dello speziale Carnevale».[15]

Leggendo il romanzo si scopre che il volto effigiato nel dipinto è somigliante a quello del patriota Giovanni Interdonato, l’uomo che il barone ha scorto, travestito da marinaio per sfuggire alle rappresaglie borboniche, nell’imbarcazione che lo riportava alla sua dimora. L’Interdonato avrà un ruolo essenziale nel determinare la presa di coscienza politica del Mandralisca. Otto anni dopo il viaggio alle Eolie, infatti, nel crinale storico del 1860, il Pirajno abbandonerà i suoi studi eruditi, la passione per la malacologia, il suo interesse per il collezionismo di mirabilia naturalia et antiquaria perseguito secondo l’habitus aristocratico e, essendosi rispecchiato nel volto dell’amico, muoverà da un generico liberalismo ad una più profonda comprensione della questione sociale.

Incastonata nel primo capitolo del Sorriso è la celebre ekphrasis del quadro di Antonello, ospitato tra le collezioni del Mandralisca:

Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diventerà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.[16]

La descrizione del ritratto è anche una sua interpretazione oscillante tra etopea e prosopografia, ricca di connotazioni fisiognomiche che verranno riproposte per stabilire il complesso gioco di rifrazioni e proiezioni identificative tra i personaggi del romanzo.

Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto, olio su tavola, 1465-1476
Ritratto – Antonello Da Messina

La giusta età della ragione, l’ironia che si pone come tertium tra l’eccesso di severità e il riso aperto, sarcastico o spietato, anticipa il percorso di maturazione politica ed esistenziale del protagonista. Consolo piega così a particolare partitura quella vocazione fisiognomica presente nei romanzi di molti scrittori siciliani, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Sciascia ad Addamo. Del resto a indirizzare il lettore verso un’attenta interpretazione del testo è la citazione in esergo, tratta dall’Ordine delle somiglianze di Sciascia: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza […]. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché della somiglianza […]. A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».[17] Nell’economia narrativa del Sorriso sono diverse le ipostasi del riconoscimento e del rispecchiamento che stabiliscono la tensione speculare tra i personaggi principali. Significativamente il momento in cui l’aristocratico individua nell’Interdonato il marinaio già scorto nel viaggio del 1852 è anche il momento in cui egli si accorge della straordinaria somiglianza tra il patriota e l’uomo effigiato nella tavola antonelliana.[18]

Il ritratto di Antonello, nella Memoria che il Mandralisca invia all’Interdonato sui fatti di Alcàra Li Fusi, vero e proprio nucleo ideologico del romanzo, diventa anche l’emblema di una ragione distaccata, condizionata dalla nascita, dalla posizione di casta o dalle necessità di carriera. Rispecchiandosi nel ritratto antonelliano, in altre parole, il Mandralisca pone una spietata critica a se stesso, alla sua classe sociale, alle sue «imposture»,[19] alla stessa intellettualità progressista che concepisce comodi ideologemi e interessate teleologie, a partire dalla stessa retorica risorgimentale.

Cuore di molteplici tensioni narrative, simboliche e proiettive, la tavola di Antonello assolve dunque ad un ruolo capitale nel romanzo, ben lontana dall’essere una semplice citazione iconica. Usando il linguaggio di Cometa è utile indagare, in quest’opera consoliana, l’«integrazione per trasposizione»[20] dell’ekphrasis.La riflessione dello studioso, sulla scorta della rilettura di un testo classico come le Immagini di Filostrato, categorizza diverse forme di integrazione ecfrastica, da intendersi come integrazione da parte del lettore nel suo repertorio.[21] Scrive Cometa: «Il lettore è dunque invitato non solo a penetrare con lo sguardo nell’immagine ma anche a integrarla con le proprie preconoscenze e con la propria esperienza pregressa».[22] Naturalmente nel Sorriso si possono riconoscere forme molteplici di integrazione dell’ekphrasis, e tra esse l’«integrazione ermeneutica»,[23] forse il procedimento più ricercato alla base del patto ecfrastico: nel Sorriso la descrizione dell’opera d’arte si avvale delle consapevolezze critiche, iconografiche e iconologiche di Consolo, in dialogo con quel lettore colto che le possieda e le sappia intendere. Come vedremo in seguito gli inserti critici e metadiscorsivi hanno una parte significativa nel Sorriso. Ma il romanzo del 1976 rimane un caso esemplare in cui l’opera d’arte assume un vero e proprio ruolo genetico, al punto che l’intero plot è stato concepito attraverso costanti rinvii ad essa. È parimenti evidente che la descrizione del ritratto antonelliano assolve alle funzioni metapoetica e metanarrativa, nel senso postulato da Cometa che ha recuperato motivi propri della poetologia schlegeliana e romantica, secondo cui l’ekphrasis permette di prefigurare ed anticipare il senso di un romanzo, costituendo un dispositivo in cui l’opera letteraria si «rispecchia», una lente in cui si scorge un’«immagine unitaria della narrazione».[24]

Oltre al caso dell’icona antonelliana, si possono individuare nel Sorriso molteplici esempi di ekphrasis nascosta; per tutti la descrizione, incastonata nel primo capitolo, di un cavatore di pomice liparitano sofferente, osservato dal Mandralisca durante il viaggio da Lipari a Cefalù. Come ha messo in evidenza Cuevas, nella descrizione dell’uomo si riconosce un dettaglio della Crocefissione di Anversa, una tavola antonelliana in cui il ladrone di sinistra si attorce in un ultimo spasimo che precede la morte.[25] Vi è nel Sorriso un’essenziale e ben nota triangolazione di riferimenti figurativi: il ritratto antonelliano, la Crocefissione di Anversa e Los desastres de la Guerra di Goya, i cui titoli scandiscono la narrazione del settimo capitolo, dedicato alla sanguinosa rivolta contadina di Alcàra Li Fusi ed alla sua repressione.[26] Come ha sottolineato Rosalba Galvagno alcune ekphrasis del Sorriso possono essere ricondotte alle incisioni de Los desastres.[27] Ma il novero dei rinvii meno evidenti alle arti plastiche e figurative è molto ampio. Non manca chi ha individuato nella rappresentazione dello studiolo del Mandralisca un probabile riferimento al San Gerolamo di Vittore Carpaccio, alle opere di Filippino Lippi o a quelle del ceroplasta siracusano Matteo Durante.[28]

Tra i tanti riferimenti espliciti alle arti sono riscontrabili cenni alla statuaria ed alla produzione ceramica greca, all’icona marmorea del Giovane con la tunica del Museo Whitaker di Mozia ed al cratere del Pittore di Lipari rappresentante la vendita del tonno. Altri riferimenti evocano il Trionfo della morte di Palermo (l’affresco tardogotico di Palazzo Sclafani che ha ispirato Guernica di Picasso, citato spesso anche da Sciascia e Bufalino), le sculture rinascimentali di Francesco Laurana ed Antonello Gagini, le tele del secentista Pietro Novelli. La descrizione delle collezioni messe insieme dal Mandralisca restituisce una fitta successione di citazioni pittoriche:

Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone Mandralisca, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del Novelli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena della scuola del Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse, così sazie, che sembrava quella sì un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i napoletani e gli spagnoli, fino a quello della giovane formosa che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo rosa d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.[29]

Nella rappresentazione dei dipinti non mancano increspature ironiche, come nel rapporto che viene stabilito, con un improvviso abbassamento del tono della narrazione, tra il motivo iconografico dell’Ultima cena e le «portate continue di maccheroni al sugo»: un’allusione al succulento banchetto che è probabilmente l’unico motivo per cui gli ospiti hanno accettato l’invito del barone a recarsi nella sua dimora e «godere la visione di una nuova opera unitasi alla loro collezione».[30] La stessa capacità rovesciante è rivelata nella descrizione di un dipinto che fa riferimento alla lactatio, tradizionale emblema di una delle Virtù Teologali, la Carità. Lo statuto iconografico che, nella tradizione figurativa barocca era l’occasione per rappresentare la nudità e la procacità femminili, esplicita qui il suo sottointeso erotico e diventa un’allusione alla ben poco edificante brama di un «vecchio rinsecchito»,[31] con un evidente riferimento alle Sette opere di Misericordia di Caravaggio.

Consolo, nel Sorriso, recupera un motivo letterario e parodico, quello dell’antiquario, della sua greve erudizione, della sua mania collezionistica che ha un archetipo nella goldoniana Famiglia dell’antiquario e conosce significative riprese anche nei romanzi di Capuana e De Roberto.[32] Non è un caso che, scorgendo una statua classica tra i marmi accatastati in un’imbarcazione, immaginando di accaparrarsela, il Pirajno si ponga in fantasiosa competizione con altri aristocratici dediti alla raccolta di nobilia opera del passato. Rappresentando la brama del Mandralisca, lo scrittore incastona nella narrazione un elenco dei maggiori collezionisti siciliani realmente esistiti ed attivi tra il XVIII e il XIX secolo:

Uh, ah, cazzo, le bellezze! Ma dove si dirigeva quella ladra speronara, alla volta di Siracusa, bianca, euriala e petrosa, o di Palermo, rossa, ràisa e palmosa? Pirata, pirata avrebbe voluto essere il barone, e assaltare con ciurma grifagna quella barca, tirarsela fino all’amato porto sotto alla rocca […]. Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina.[33]

L’ironia consoliana raggiunge il culmine nella descrizione dei crateri attici radunati nella collezione Mandralisca, con le loro scene erotiche ed altre raffigurazioni ispirate ai baccanalia, certamente non confacenti alla morale del XIX secolo:

Oltre al Venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che le aiutavano a fare toilette, i vasi neri e rossi mostravano fauni impudichi e sporcaccioni, con tutta l’evidenza dritta della infoiatura, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovanotti inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, facevano ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della provenienza di quelle antichità.[34]

Concependo il suo romanzo come un «antiromanzo storico»,[35] sullo sfondo di un Risorgimento gramscianamente inteso come mancata rivoluzione, Consolo ha usato la sua conoscenza della storia dell’arte per fare il verso al barone collezionista, per rappresentare la vacuità della sua classe sociale. L’integrazione ermeneutica dei costrutti ecfrastici vuole il concorso esegetico del lettore, la sua comprensione dei passaggi ironici. La «plurivocità» del Sorriso,[36] oltre che nei processi parodici, è ravvisabile nella stessa contraddittorietà e complessità di un personaggio come il Mandralisca che, in ultimo, riuscirà ad allontanarsi dalla concezione erudita ed esornativa della cultura propria della sua classe sociale, destinata ad un ineluttabile declino, acquisendo un’acuta e demistificante consapevolezza politica.

2. Retablo, o delle rifrazioni ad infinitum

Consolo ha fatto del pittore milanese Clerici il protagonista di Retablo. Le allusioni a Clerici e Guttuso non sono casuali. Ad ispirare il romanzo, infatti, è stato un viaggio in compagnia dei due artisti nella Sicilia orientale, un’occasione in cui lo scrittore ha rivisto i templi dorici di Segesta, Selinunte e Agrigento percorrendo alcune delle tappe canoniche del Grand Tour d’Italie.[37] Consolo, dunque, ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, ha dato un doppio letterario al suo amico. A complicare il gioco di allusioni vi è la perigrafia, la scelta di illustrare la prima di copertina della prima edizione del libro con un dettaglio di un dipinto di Clerici,[38] ed ancora la scelta di incastonare nel testo diverse ekphrasis ispirate all’opera dello stesso artista. Non sembra un caso che il pittore milanese sia stato anche il protagonista di un romanzo di Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, ed abbia fatto conoscere a Sciascia La tentazione di Sant’Antonio, la tela del manierista Rutilio Manetti in cui è effigiato il diavolo con gli occhiali, investito di forti valori simbolici nel romanzo Todo modo.[39]Le vertiginose rifrazioni del libro consoliano sono degne della teoria di rispecchiamenti de Las Meninas di Velázquez, dipinto emblematico della temperie barocca.

La rappresentazione di un viaggio in Sicilia nel XVIII secolo, la ricchezza di riferimenti figurativi e la diffusa retorica dello sguardo fanno di Retablo l’opera consoliana in cui il rapporto tra letteratura e pittura si fa più intenso e insistito.[40] I rimandi figurativi, per altro, agiscono in profondità, fino a dare forma alla stessa architettura ed alla focalizzazione del racconto. Il romanzo, infatti, è ripartito in tre capitoli o tavole: OratorioPeregrinazione Veritas. A ciascuna di queste parti corrisponde una diversa voce narrante, quella di Isidoro in Oratorio, quella di Clerici in Peregrinazione e quella di Rosalia in Veritas. Un intreccio di voci che restituisce al lettore gli stessi accadimenti osservati da angolazioni diverse, moltiplicando prismaticamente le visioni e le possibili interpretazioni della realtà.

Ad incipitdi Oratorio è posto il celebre inno che Isidoro innalza a Rosalia: una petitio amorosa, una laica preghiera, una litania o un delirio in cui la scomposizione del nome dell’amata in Rosa e Lia, il moltiplicarsi delle figure fonetiche ed etimologiche, l’intertestualità non priva di echi danteschi e petrarcheschi, l’investimento ambiguo ed ambivalente della donna si spingono ad un parossistico virtuosismo. Subito dopo Isidoro, dedito alla questua e alla vendita delle bolle, narra in prima persona l’amore concepito per la giovane che, quotidianamente, gli appariva alla finestra insieme alla madre. Le due donne hanno ordito il raggiro dell’inesperto questuante facendogli credere di poter sposare la ragazza e, fattesi consegnare il denaro delle bolle, sono scomparse nel nulla. Cacciato dunque dal convento, il fraticello è ridotto alla condizione di facchino alla Cala di PalermoQui, finalmente, gli appare il cavaliere Clerici, sceso da una nave che ha il nome simbolico di Aurora.[41] L’aristocratico viaggiatore prende con sé Isidoro, lo allontana dalla vita dura ed ambigua del porto e ne fa il suo accompagnatore nel viaggio in Sicilia volto all’osservazione e alla riproduzione dei monumenti antichi. Quando Clerici fa conoscere al fraticello il cavaliere Serpotta e gli mostra l’oratorio palermitano di San Lorenzo, questi scorge nella statua della Veritas il sembiante dell’amata Rosalia, va in escandescenze e sviene.

Come si vede da questa veloce sintesi il primo capitolo di Retablo consegna subito al lettore una pluralità di toni: l’incipitlirico, la seduzione e il raggiro di Isidoro che rinvia all’archetipo novellistico di Boccaccio, la rappresentazione della baraonda della Cala, non priva di dettagli bassi, spuri e scatologici, la descrizione dettagliata dell’oratorio serpottiano. Il primo apparire di Rosalia tra i vicoli di Palermo è una delle tante ekphrasis nascoste che costellano la narrazione, annunciata da un preciso riferimento al «riquadro», ovvero alla finestra da cui si sporge la ragazza in compagnia della madre:

Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei.[42]

La scena, più che un generico riferimento all’Annunciata antonelliana di palazzo Abatellis, rinvia ad un’opera di Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, ovvero Due donne galiziane alla finestra, custodita alla National Gallery di Londra: un riferimento fino ad oggi non evidenziato dalla letteratura critica, tuttavia ricco di impliciti che contribuiscono a connotare la figura di Rosalia. Nel dipinto appaiono due donne, una giovane e una matura, che affacciandosi alla finestra ammiccano al passante-spettatore: un espediente che, attraverso lo sguardo muliebre, tende ad oltrepassare lo spazio della tela, come spesso accade nelle opere del secentista spagnolo. Si tratta di un dipinto di genere popolaresco, una scena di seduzione in cui è forse raffigurata una giovane prostituta con la sua mezzana. Il dettaglio della mantellina fermata con la mano sotto il mento è puntualmente riscontrabile nella descrizione di Retablo e si fa indice dell’esatta referenzialità del testo consoliano. L’ekphrasis delinea dunque l’immagine ambivalente della giovane, il cui atteggiamento, in apparenza pudico, dissimula una capacità seduttiva rivelata dallo sguardo che, «sotto il velario delle ciglia», emana, secondo una significativa sinestesia, «lampi d’un fuoco di smeraldo».[43]

Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, olio su tela, 1670

Fin dalla prima apparizione, dunque, Rosalia è rappresentata secondo le valenze ambigue della donna levatrice e sprofondatrice, una duplicità iscritta nel suo stesso nome composto che rinvia alla patrona palermitana, quella Santa Rosalia nella cui iconografia, inventata nei primi decenni del Seicento, confluiscono non pochi statuti rappresentativi della Maddalena.[44] Un percorso iconografico certo non ignoto a Consolo che, nell’inno di Isidoro, si avvale dell’oscillazione tra la figura laica e quella profana di Rosalia, facendo riferimento alla statua marmorea della santa venerata nel santuario di Monte Pellegrino.[45]

Già in Oratorio, dunque, la giovane donna appare ad una finestra, tecnema della visione non dissimile dalla cornice di un dipinto,[46] viene ricordata attraverso il simulacro marmoreo della santa, la si immagina rappresentata in una delle figure in stucco dell’oratorio serpottiano, è evocata ripetutamente nelle catene paronomastiche e nella dimensione ecoica dell’inno incipitario che scompone e richiama ripetutamente il suo nome: tutti simulacra del sentimento amoroso concepito da Isidoro, espressione dell’ossessione del fraticello e dell’intangibilità di uno sfuggente oggetto del desiderio.[47] Per altro, nella rappresentazione laico-profana di Rosalia e nelle reduplicazioni della sua immagine, è facile scorgere la suggestione de Gli elisir del diavolo di Hoffmann.

Tra le statue che ritraggono Rosalia vi è l’allegoria serpottiana della Verità che, secondo lo statuto iconografico, è rappresentata come Nuda Veritas. La descrizione del teatro plastico settecentesco è una delle più note icone autoriali incastonate nel libro che nasconde, nella stessa rappresentazione degli stucchi rischiarati da un raggio di sole, l’ekphrasis di un dipinto di Clerici. Il raggio che penetra nell’aula, che colpisce una ninfa di cristallo e, rifrangendosi, illumina le statue, è lo stesso che si può scorgere in una tela del pittore milanese, La grande confessione palermitana: il chiarore diffuso dal raggio solare, consustanziale al «bianco puro»[48] dell’oratorio, rivela nel dipinto una natura luttuosa che lega le candide statue all’immagine funerea dei corpi imbalsamati delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Ecco che il testo consoliano, in una vertiginosa sovrapposizione, include in una descriptio un’altra ekphrasis. Come ha rilevato Maria Rizzarelli: «L’ordine delle somiglianze che nel Sorriso costituiva il principio gnoseologico della conversione ideologico-sociale del Mandralisca, diviene qui ordine delle apparenze, da fondamento conoscitivo si trasforma, attraverso l’esasperante trionfo della figura del doppio, in ordine dell’illusione con cui s’identifica l’arte».[49]

La rappresentazione dell’oratorio è il punto culminante del capitolo iniziale di Retablo. Se in questa prima parte del romanzo si incontrano alcuni grandi pittori e artisti (un rapido cenno è dedicato anche al dipinto palermitano di Caravaggio, la Natività), il secondo capitolo, Peregrinazione, è totalmente incentrato sulla figura di Clerici che, accompagnato da Isidoro, intraprende il suo viaggio e la sua esplorazione della Sicilia.

Palermo, Oratorio di San Lorenzo

Anche Clerici viaggia per l’isola con l’intento di dimenticare la donna amata, Teresa Blasco, futura sposa di Cesare Beccaria e dunque futura nonna di Alessandro Manzoni.[50] Alla nobildonna milanese, il cui padre ha origine spagnola e la madre siciliana, il cavaliere dedica il suo diario di viaggio. Fin dalla Dedicatoria, indirizzata a Teresa, Clerici si dice intenzionato a illustrare e a narrare la patria materna della donna, rivelando così l’intenzione di avvalersi sia della parola che dell’immagine, di usare entrambi i codici per rappresentare la Sicilia.[51] Del resto, già in Oratorio, l’aristocratico viaggiatore è stato presentato da Isidoro in virtù della sua abilità di disegnatore: «Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’Isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate».[52] Lo stesso cavaliere, ben presto, sente l’esigenza di porre sotto gli occhi di donna Teresa non solo le immagini del mondo classico, i monumenti antichi, ma anche le brutture della società contemporanea. Clerici si rivela, dunque, un viaggiatore assai lontano da compiacimenti arcadici e vagheggiamenti idilliaci, dall’eterno archetipo della pastorale teocritea e dalle sue riprese settecentesche. Le sue intenzioni e il suo sguardo disilluso preannunciano un motivo che diventerà dominante nei successivi romanzi consoliani, il contrasto tra la memoria del passato e un presente di rovina, immemore e degradato.

Il percorso di Clerici ricalca parzialmente quello del Grand Tour nella Sicilia occidentale: Palermo, la vicina Monreale, Alcamo, Segesta, Selinunte, Mozia e Trapani. Retablo rimodula dunque, attraverso una complessa trama intertestuale, temi e motivi propri dell’odeporica settecentesca, configurandosi come un Voyage pittoresque, un Conte philosophique e un romanzo picaresco. Lo sguardo di Clerici è quello straniante del pittore, aduso a scrutare le fisionomie, a indovinare l’animo di chi gli sta di fronte. La sua visione è arguta e disincantata, in altre parole è quella di uno smaliziato e inquieto viaggiatore novecentesco, anche se le illusioni, gli apparati effimeri, le rifrazioni, le quinte teatrali e i retabli ingannevoli appaiono ad ogni passo del suo viaggio, adatte a rappresentare le oltranze immaginative di pittori, scultori e architetti della Sicilia barocca o tardobarocca. Il trionfo della teatralità e la voglia di destare meraviglia trovano il culmine nella descrizione di Alcamo, la patria del Soldano Lodovico, il luogo dove si riunisce l’Accademia de’ Ciulli Ardenti che, con la sua poesia edulcorata e pretenziosa, non rende onore all’autore del Contrasto. È qui che, in occasione della festa del paese, appare il Retablo de las meravillas, un apparato aniconico e illusorio in cui ogni spettatore può proiettare e scorgere i suoi fantasmi.

Nell’ultimo capitolo di RetabloVeritas, Rosalia racconta finalmente la sua verità: realmente innamorata di Isidoro, è divenuta una cantante che si appresta a debuttare in una rappresentazione della Vergine del Sole di Cimarosa. Ospite nel palazzo di un munifico marchese, è stata educata al bel canto da don Gennaro Affronti, un artista castrato che le ha fatto da «padre» e da «madre».[53] Rosalia si è dunque mantenuta fedele ad Isidoro, convinta che per preservare un amore sia necessaria la sua cristallizzazione. Per questo esorta l’amato a ritornare alla vita passata ed alla sicurezza claustrale.

Ogni aspetto della vita e dell’arte, in Retablo, si rivela illusorio: l’amore di Isidoro e Rosalia verrà preservato solo a costo di una monacazione spirituale; l’amore concepito da Clerici per donna Teresa Blasco non è ricambiato. Frequenti sono i dubbi, espressi dallo stesso Clerici, sulla possibilità di rappresentare quant’egli ha osservato nel suo viaggio: l’impotenza dell’arte è metaforizzata dalla condizione del castrato don Gennaro, ovvero dalla sua impotentia generandi. L’uso sapiente dei costrutti ecfrastici e delle rifrazioni che sembrano riproporsi ad infinitum allude all’intangibilità della realtà. Motivi che percorrono in modo insistito l’opera di Consolo e, dopo essersi affacciati in Retablo, passando per un testo capitale come Catarsi, giungono alle pagine intensamente patemiche dello Spasimo. Ma anche per viam negationis l’autore, col vertiginoso spessore palinsestico della sua opera, ha riaffermato la necessità dell’arte e della scrittura, del nesso intimo tra parola e immagine, del loro irrinunciabile valore tetico.


1 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 63-77.

2 G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), Cadmo, 2001, p. 130.

3 La citazione è tratta da S. Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, p. 207.

4 Cfr. G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.

5 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Roma, Donzelli, 1993.

6 Per le immagini di Fuga dall’Etna e dei suoi bozzetti cfr. F. Carapezza Guttuso (a cura di), Guttuso. Capolavori dai musei, Milano, Mondadori Electa, 2005, pp. 60-61.

7 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987, ora in Id., L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, p. 417. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione.

8 Cfr. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 630-631.

9 Per uno studio della fitta intertestualità de Lo Spasimo di Palermo mi permetto di rinviare a D. Stazzone, ‘Testi e intertesti in Vincenzo Consolo: Lo Spasimo di Palermo’, in F. Cattani, D. Meneghelli (a cura di), La rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, premessa di S. Albertazzi, M. Cometa, M. Fusillo, Roma, Meltemi, 2008, pp. 185-201.

10 Adotto qui le definizioni di «icona autoriale» ed «ekphrasis nascosta» proposte in M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole. Intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo’, in R. Galvagno (a cura di), «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di A. Di Grado, Avellino, Biblioteca di Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Di notevole valore teorico è l’introduzione alla raccolta degli scritti per artisti di Consolo: M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole’, in V. Consolo, L’ora sospesa ed altri scritti per artisti, Valverde (CT), Le Farfalle, 2018, pp. 9-16.

11 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 29.

12 P. V. Mengaldo, Tra due linguaggiArti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 38.

13 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 30.

14 Quanto al palinsesto consoliano cfr. D. O’ Connell, ‘Consolo narratore e scrittore palincestuoso’, Quaderns d’Italià, 13, 2008, pp. 161-185; D. O’ Connell, ‘Furor melancholicus: poetica pittorica nella narrativa di Vincenzo Consolo’, in D. Perrone, N. Tedesco (a cura di), Letteratura, musica e arti figurative tra Settecento e Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, pp. 147-160.

15 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, ora in Id., L’opera completa, p. 127. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione. Per una storia critico-genetica ed alcune valutazioni filologiche sul Sorriso cfr. N. Messina, ‘«Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo. Un approccio a III Morti sacrata’, in J. Eynaud (a cura di), Interferenze di sistemi linguistici e culturali nell’italiano, Atti del X Congresso AIPI (Università di Malta, La Valletta, 3-6 settembre 1992), Zabbar (Malta), Gutemberg Press, 1993, pp. 141-163; N. Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo «Il sorriso dell’ignoto marinaio», tesi di Dottorato, Universitad Complutense, Madrid, 2007, [accessed 17 February 2020]; D. O’ Connell, ‘“And he a face still forming”: Genesis Gestation and Variation in Vincenzo Consolo’s Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Italian Studies, 1, 2008, pp. 119-140.

16 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 143-144.

17 Sul rapporto tra Consolo e Sciascia cfr. C. Madrignani, Dopo Sciascia’, La rivista dei libri, novembre 2001, pp. 26-29; M. Á. Cuevas, ‘Parole incrociate: Sciascia e Consolo’, in L. Trapassi, Leonardo Sciascia, un testimone del secolo XIX, Acireale-Roma, Bonnanno, 2012, pp. 195-206. Quanto alla funzione delle epigrafi nell’opera consoliana mi permetto di citare D. Stazzone, ‘Tra palinsesto e paratesto: le epigrafi di Consolo’, Quaderns d’Italià, 21, 2016, pp. 183-192.

18 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 161.

19 Ivi, p. 219.

20 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 135.

21 Si fa cenno alla nozione di «repertorio» elaborata da W. Iser, L’atto di lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987.

22 M. Cometa, La scrittura delle immagini,p. 116.

23 Ivi, p. 121. 24 Ivi, p. 140.

25 La Crocefissione, custodita al Koninklijk Museum voor Schone Kunstern di Anversa, è un olio su tavola realizzato da Antonello nel 1475, durante la sua permanenza a Venezia. Cfr. M. Lucco (a cura di), Antonello da Messina. L’opera completa, Cinisiello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2006, pp. 216-221.

26 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ancora su Antonello’, Testo, 59, 2010, pp. 117-124.

27 Cfr. R. Galvagno, ‘«Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo’, in Ead. (a cura di), «Diverso è lo scrivere»,pp. 39-64.

28 Cfr. S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio», Palermo, Sellerio, 2011, p. 44. Per l’iconografia di San Gerolamo cfr. H. Friedmann, A Bestiary for Saint Jerome. Animal Symbolism in European Religious Art, Washington D.C., Smithsonian Institution Press, 1980, pp. 291-293. Per l’iconografia di San Gerolamo nelle opere consoliane cfr. S. S. Nigro, ‘Gerolamo e Agrippino’, La Sicilia, 15 novembre 1988.

29 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 141-142.

30 Ivi, p. 135. 31 Ivi, p. 142.

32 Si pensi al don Eugenio Uzeda dei Vicerè di De Roberto o al don Tindaro del Marchese di Roccaverdina di Capuana.

33 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 134-135.

34 Ivi, p. 142. 35 V. Consolo, Fuga dall’Etna, p. 45.

36 C. Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo’, in Id., Intrecci di vociLa polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi,1991, p. 83.

37 Cfr. V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di M. Á. Cuevas, Caltagirone (CT), Lettera da Qalat, 2016, pp. 45-46.

38 Si tratta di un dettaglio de La grande confessione palermitana, riprodotto nella prima copertina di V. Consolo, Retablo, Torino, Sellerio, 1987.

39 Il racconto della scoperta sciasciana del dipinto di Manetti è in F. Clerici, ‘L’eremo, l’abate e il diavolo’, in Id., Di profilo, a cura di M. Carapezza, Milano, Novecento, 1989, pp. 267-271.

40 Per alcune valutazioni complessive su Retablo cfr. N. Zago, ‘C’era una volta la Sicilia. Su «Retablo» e altre cose di Consolo…’, in Id., L’ombra del moderno, da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992; G. Turchetta, ‘Il luogo della vita: una lettura di «Retablo»’, in M. Lanzillotta, G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro (a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Pisa, 2014, ETS, pp. 647-656.

41 È evidente il simbolismo onomastico adottato da Consolo: il cavaliere Clerici, infatti, approdando a Palermo, salva Isidoro, lo trae dall’abisso in cui era sprofondato e gli permette di rinascere a nuova vita. Ma il nome del «pacchetto Aurora», nel continuo gioco di allusioni che caratterizza la scrittura consoliana, rinvia anche all’incrociatore russo che, nel dicembre 1908, portò soccorso alla popolazione di Messina dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città siciliana e Reggio Calabria. L’Aurora, per altro, ebbe un ruolo di primo piano nella rivoluzione d’Ottobre, sparando il primo colpo d’arma da fuoco dal castello di prua, segnale dell’inizio della rivoluzione.

42 V. Consolo, Retablo, p. 371. 43 Ibidem.

44 Per l’iconografia della patrona palermitana Santa Rosalia cfr. M. Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E. T. A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005.

45 V. Consolo, Retablo, p. 369.

46 Quanto alla finestra, alla sua funzione di tecnema della visione e al suo ruolo nelle descrizioni letterarie cfr. P. Hamon, Imagerie. Littérature et imageau XIX e siècle, Paris, Édition José Corti, 2001.

47 Cfr. il saggio di R. Galvagno, «Bella la verità», pp. 39-64.

48Ibidem.

49 M. Rizzarelli, ‘Un Retablo come uno specchio. Le voyage pittoresque del cavaliere Fabrizio Clerici’, in A. Ottieri (a cura di), Ai margini della letteratura. Le “scritture contaminate”, Sinestesie, IV, 2006, p. 92.

50 Per i rapporti tra Retablo e l’Illuminismo lombardo cfr. G. Albertocchi, ‘Dietro il Retablo. «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria». Leggere Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 95-111, ora in G. Albertocchi, «Non vedo l’ora di vederti». Legami, affetti, ritrosie nei carteggi di Porta, Grossi e Manzoni, Firenze, Clinamen, 2011, pp. 141-159.

51 Cfr. V. Consolo, Retablo, p. 379. 52 Ivi, p. 370. 53 Ivi, p. 473.

da Arabeschi n. 15

IL RISCHIO DELLA FINE IN NOTTETEMPO, CASA PER CASA DI VINCENZO CONSOLO

 

ANITA VIRGA (University of the Witwatersrand)

Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti.  Nel volume postumo che raccoglie gli appunti preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini: “i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia, avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque, possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del Fascismo), infatti, è rappresentato  e interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere “nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno di 
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 1  Lo stesso autore, chiarendo come il passato sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni

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pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,                                                                                                       

, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […] Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2  Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla” (Consolo, 2001a:99). 3  Spiega Consolo: “Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione: nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo, 2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica: ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e della possibilità  dell’intersoggettività dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano.  Del male che affligge la famiglia, tuttavia, si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che impedisce        
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 4  “Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b). 5  E Verga, non a caso, costituisce modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto “cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava, attraverso altri scrittori, come Gadda e

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inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena. Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive” (114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba, senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone. Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.

 Pasolini” (Consolo, 2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista: “in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo “Verghiana” in Di qua dal faro.

I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento

Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due segni uguali e contrari della fine del mondo: 

Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da, cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino, 2002:631)

Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere e il non dire.  Nei poli dell’apocalisse consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali. L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini, rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco” (Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo  
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 6  “La rottura del rapporto tra intellettuale e società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere” (Consolo in Papa, 2003:193).

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disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258).  In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro (1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé, dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà portando questa verso il suo tramonto.

Primo tempo: il movimento artificioso

In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e, soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza, la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister, immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti, dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo; si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee, l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister Crowley (dàttilo e trochèo). (84)

È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio, lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose, conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38).  Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80) – il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla: 

Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo, desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)

 7  Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco, nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).

È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la morte, si è già impossessata della piccola Poupée.  Nella scomparsa dell’infante è da leggersi, metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti, rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo, come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli, nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in                                                     

 8  Si veda su tutti l’articolo di Massimo Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1 (Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo, tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo. Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno, descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.

L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana” (Lollini, 2005:34).  Il movimento e il dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia, non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla materialità terrena, non assume nessun valore superiore.                                                      

 9  Così, d’altra parte, lo intende anche Dante, collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla rovina anche i suoi compagni.

Diventa una morte disumana, legata al superamento del limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.

Secondo tempo: l’incedere umano

È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:

Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il tempo umanamente. (105, corsivo mio)

Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a better future that can only be built out of the memory traces of the past” (Bouchard, 2005:17).

Terzo tempo: “il male di pietra”

Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore – e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice, cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o, meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa. In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10, di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno, 2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente, secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non casualmente, il mito di Perseo.  Tutto in Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni, eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione                                                     

 10  Esistono differenti possibilità di interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura,  ma vale forse qui la pena ricordare il racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché progettava di uccidere il dio. Giove  racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio, 1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano, perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano; molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio, il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um… mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42), “nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida, di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però era legata a una contingenza – i cavatori di pomice  – che diventava metafora per una sofferenza più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola. Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice “pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore, pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41), “la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale, del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia, ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1). In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”, che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale. Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino, 2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società sull’orlo dell’apocalisse.

La torre dell’urlo e del silenzio

Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina, ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri, immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento” (158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili.   L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia, infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri, d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene? Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle orecchie” (158).   Lucia, in un certo senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si    
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 11  Ancora con De Martino possiamo leggere: “In generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato, il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
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pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano, eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo suo di fronte dentro lo specchio” (46).  La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine – torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura, dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo” (38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le urla, il pianto”.   L’urlo, come il silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura” (Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del parlare, nell’apocalisse della parola.

Afasia

Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo. Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo comunicare una realtà, riconnettersi con essa:

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 12  “Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’” (Genesi 11:5-7).

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Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)

Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato. In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento, in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica, qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici, in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini” (Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le cose.   Nel processo dell’elencare riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere  (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento” (53).  Petro è come l’uomo dionisiaco descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113). Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore” (171).  Questa scrittura, sappiamo, sarà il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà, si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)  

Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore, che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250).  Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:

La tragedia è la meno convenzionale,  la meno compromessa delle arti, la parola poetica e teatrale,  la parola in gloria raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento,  il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala del pipistrello; è il dolore nero,  senza scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo, 2002:13)

Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che racchiude tutto il dolore.  Petro è dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale, quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico, si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”, dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.

Bibliografia

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Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.

Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)

La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto

La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto: una lettura di Vincenzo Consolo,
di George Popescu Literatura Italiana

Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che tra l’altro sono vere e proprie arti poetiche, manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità del pensiero, capaci da se’ di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase, da ogni parola a parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzi tutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose. O amor, Jacopo Tintoretto – Museu de Colônia Quella disponibilità, quella chiarezza e sopratutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo. La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardano il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato ad un certo momento di un carattere “intellettuale” della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Tra l’altro perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – che purtroppo esiste una allucinante arte di consumo che si rivolge prevalentemente ad un fruitore pigro, andando sempre verso le sue aspettative più facili, verso la sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere alla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni. Detto questo, vorrei iniziare, sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica. Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: Mi interessava – afferma lui – il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo. C’è già tutto qui: la scelta della “tematica” e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario. Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, da chi, per chi e di chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e via discorrendo. E proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella beniaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola.: …un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera. Una metafora, questa beniaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla in faccia; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto ove anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare a trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita… Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di farci avvisare su qualche via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo contare. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molti, voglio dire, molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in un secondo luogo, operazione difficile perché, proprio nel caso speciale di uno scrittore che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una specie di filo conduttore nella esegesi della sua opera sarebbe ancor una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa. Apriamo un’altra strada: Ecco, prese casualmente, altre alcune citazioni dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali…. Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte tra tante ma poi, vedremo qual era il criterio impegnato in quella scelta. Invece molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Beniamino: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato “di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese”. Cosa significherebbe pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatoria. Quel mondo quindi situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scatena sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male… Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto.Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale * . A proposito di Eliade, si può riflettere ad un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptare alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio il centrare del margine; come un massimo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di far andare al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere difficile. Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per l’altro è anche una metafora di estrazione romantica e, poi, in particolar modo, nietzscheana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre nel punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzializza la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano. Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni. Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere antico, come destino. In Sicilia [afferma l’autore] si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto. E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di una’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. E di nuovo la parola dell’autore: Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale… Conclusione, una fra tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro. Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quel ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E di cui le immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne), sono un po’ il corrispettivo, della profondità della lingua e della profondità della storia è già un altro punto di partenza nell’approfondire l’opera consoliana. Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione, riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro. Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza nell’interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi. La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato ad una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità di poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che resta – in quanto deve restare – ancora un mondo da interrogare, tramite un confronto sempre aperto alla coscienza del lettore… Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di se’; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci. Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, tramite un’idea che l’abbiamo incontrata anche in Consolo, a proposito di un altro argomento, ma non così staccata, l’idea voglio dire, da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico. Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si va in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perche’ coll’avvicinarsi il topos, l’isola cambia il nome, vuol dire anche l’identità. Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme incitante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò necessitante di non una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente. Angelus novusi, Paul Klee – The Israel Museum, Jerusalém Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora beniaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per quella bufera che lo sconfigge. Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un passeggio, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo l’interrogarsi come la soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro. Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone ne’ per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), ne’ per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito. In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per il suo intero lavoro e che si può chiamare la testualizzazione del reale e che vuol dire un tentativo di trasmutazione, nel logos, quel ontos che possa essere preso come topos, ipogeo, nostos che dir si voglia.

19 maggio 2020 George Popescu Poeta, tradutor e professor de Literatura Italiana da Universidade de Craiova * Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.

La metrica della memoria


foto: Giovanna Borgese Palermo 1975

La metrica della memoria

Un velo d’illusione, di pietà,

come ogni  sipario di teatro,

come ogni schermo; ogni sudario

copre la realtà, il dolore,

copre la volontà.

La tragedia é la meno convenzionale,

la meno compromessa delle arti,

la parola poetica e teatrale,

la parola in gloria raddoppiata,

la parola scritta e pronunciata. (1)

Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.

Il silenzio tra uno strepito e l’altro

del vento, tra un boato e l’altro

del vulcano. Al di là é il gesto.

O il grigio scoramento,

il crepuscolo, il brivido del freddo,

l’ala del pipistrello; é il dolore nero,

senza scampo, l’abisso smisurato;

é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.

Così agli estremi si congiungono

gli estremi: le forze naturali

e il volere umano,

il deserto di ceneri, di lave

e la parola che squarcia ogni velame,

valica la siepe, risuona

oltre la storia, oltre l’orizzonte.

In questo viaggio estremo d’un Empedocle

vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès

malinconico e ribelle d’Agrigento,

ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.

Per la nostra inanità, impotenza,

per la dura sordità del mondo,

la sua ottusa indifferenza,

come alle nove figlie di Giove

e di Memoria, alle Muse trapassate,

chiediamo aiuto a tanti, a molti,

poiché crediamo che nonostante

noi, voi, il rito sia necessario,

necessaria più che mai la catarsi.

(Catarsi, p.13-14, […])

 

Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal  Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui  é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.

Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.

 

[…] Empedocle:

La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)

                    In questa nuda e pura, terrifica natura,

in questa scena mirabile e smarrente,

ogni parola, accento é misera convenzione,

rito, finzione, rappresentazione teatrale.

 

Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali,  lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto,  in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.

Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.

La lingua  italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande  creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti  scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.

Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3),  che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.

Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua  dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua  reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan  non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma  chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.

Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza  nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione  del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.

Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel  che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.

1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2) Si deve usare il verbo all’ infinito.

3) Si deve abolire l’aggettivo.

4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…

Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del  Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.

Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.

Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico)  aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture  di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.

Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.

Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel  Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie  di Letteratura come storiografia.  Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.

 

Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno

colto dell’autore.

Viene quindi la pubblicazione di

Lunaria (1985), un  racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma

teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna.  La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto.   L’epoca e il tema favolistico,  mi facevano  approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:

Lena lennicula

Lemma lavicula,

làmula,

lèmura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.

Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.

Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.

La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”

 

Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.

Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania,  così recita:

–              Io sono il messaggero, l’anghelos, sono

il vostro medium, colui  a cui è affidato

il dovere del racconto, colui che conosce

i nessi, la sintassi, le ambiguità,

le astuzie della prosa, del linguaggio….

Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.

PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…

Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.

EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…

Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.

Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.

Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale,  nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.

Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.

Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)

Nello Spasimo  vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.

Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate,  delle passioni incenerite.

 

Vincenzo Consolo

 

 

  • Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
  • Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994

3)  Serianni L.  Viaggiatori, musicisti, poeti,  MI Garzanti 2002

4)   Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002

versione definitiva al 18.2.2009

Consolo e l’aprile dell’esistenza

 

 

Goffredo Fofi 

 

Uno dei romanzi di formazione più affascinanti della nostra letteratura è La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo, uscito tanti anni fa nella preziosa collanina del Tornasole ideata da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo e disponile ora in edizione einaudiana. Non è noto quanto meriterebbe. Vincenzo Consolo, Enzo per gli amici, siciliano di Sant’Agata di Militello e vissuto a lungo a Milano dove è morto nel 2012, vi narrava con una lingua insolita, che rubava al dialetto e ai vocabolari, la sua adolescenza e il suo passaggio all’età adulta. Il libro uscì nel 1963, mentre il suo secondo libro, che è anche il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, arrivò solo tredici anni dopo, ed è quello che lo fece apprezzare come uno dei maggiori scrittori della generazione cresciuta nel dopoguerra, l’ultima di grandi scrittori prima della proliferazione degli scriventi. La ferita dell’aprile fu letto e amato da Leonardo Sciascia, attentissimo sempre alle cose dell’isola, e nacque tra i due un’amicizia salda e importante, e oggi la casa editrice Archinto aggiunge alla sua bella collana di epistolari lo scambio di lettere tra Sciascia e Consolo, durato dall’anno della Ferita (e per Sciascia di uno dei suoi testi più radicali, Morte dell’inquisitore), fino alla scomparsa di Sciascia nel 1989. Le ultime lettere sono dell’88, e Sciascia era già gravemente malato. Il rapporto tra i due cominciò come tra allievo e maestro ma diventò rapidamente amicale, quasi fraterno: dal “lei” al “tu”, molto presto. L’agile libretto della Archinto si intitola Essere o no scrittore (pagine 96, euro 14,00). Questo scambio di lettere non affascinerà soltanto coloro che hanno conosciuto i due grandi scrittori siciliani o che sono affascinati dai retroscena e misteri della creazione letteraria. Leggendole, confesso, con una certa commozione, mi è venuta voglia di riprendere in mano La ferita dell’aprile – riscoprendo così il senso e il valore dell’amicizia tra persone di forte presenza e forte super-io, ma trovandomi spinto a riflettere su quel passaggio cruciale dall’infanzia all’età adulta, oggi così avvilito da esperienze e da, se si può dire, solitudini collettive. Siamo in questi giorni in aprile, e la “ferita dell’aprile” vien fatto di legarla al processo e messa a morte di Gesù, ma è anche e sempre, nell’ottica dello scrittore Consolo, quella del passaggio d’età fondamentale (insieme a quello, diceva Hegel, degli anni in cui si è infine maturi), anni decisivi perché le scelte che si fanno saranno ora definitive. Aprile è il mese del dirompente risveglio della natura: una “ferita” che prelude al tempo delle messi. I dodici brevi capitoli del bellissimo romanzo di Consolo narrano le dense tappe di una formazione, tesa e sofferta ma piena di incontri, cose, esperienze, e narrano anche, l’affermazione di una sofferta maturità, ben più piena e rapida di quelle dei giovani di oggi. Scrittore eminentemente barocco, e per questo più vicino letterariamente a Gadda che a Sciascia, Consolo parla di sé sullo sfondo della provincia siciliana di tanti anni fa, e di una “ferita” che è sua ma di tutti. Lo è ancora, certamente, ma quanto sono diverse le formazioni di ieri da quelle di oggi, così compatte e, verrebbe da dire, meccaniche.
venerdì 19 aprile 2019 Avvenire



I fili ininterrotti di Vincenzo Consolo Memoria, memoria, tanta memoria.

*
Paolo Di Stefano

Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la sua vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimentazione linguistica, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazione» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazione è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversato le turbolenze della neoavanguardia con totale simpatia o con totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimentalismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferente e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressiste. Arrivato a Milano negli anni 50 per studiare, attratto dalle sirene vittoriniane, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazione che culmina negli anni 90) ma non smette di tormentarsi sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresenta quasi programmaticamente (e ostinatamente) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria), al Settecento illuminista (Retablo), alla pessima realizzazione unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazionalismo prefascista (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contemporaneità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatti dai delinquenti» (Lo spasimo di Palermo).

La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolineare Gianni Turchetta, curatore dello splendido Meridiano, coordinatore del convegno milanese e autore del saggio introduttivo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratura” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilità, sottoposto a una pressione senza compromessi, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddizione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologici, sprofondamenti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistica. In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasmante tutti contro tutti), organizzato nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratura è memoria – e la letteratura è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronistica, giornalismo – allora diventa anche memoria linguistica. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuamente la memoria». Memoria è anche memoria linguistica: il che significa affidare alla letteratura il compito di resistere al linguaggio «fascistissimo» dell’omologazione. Una visione pasoliniana. Anche per questo è affascinante (e non di rado perturbante) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentate che conducono alla pubblicazione delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussione e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessità del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) – il sorprendente libro d’esordio che restituisce le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese – si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazione espressionistica e un arricchimento stilistico. Un processo che troverà una vera maturazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro del 1976 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (che per una felice coincidenza è in mostra in questi giorni nella rassegna di Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonista, il barone di Mandralisca. Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazione documentaria) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittura, ripensamenti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitazioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto – di totale ammirazione – con il «maestro» Sciascia: ora testimoniato dalla corrispondenza (1963-1988), edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio – con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca – sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazione e la descrizione. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.

Paolo Di Stefano
4 marzo 2019 (Corriere della Sera)

Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolario
edito da Archinto. E a Milano il 6 e 7 marzo un convegno sullo scrittore

Il volume «E questa storia che m’intestardo a scrivere. Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura», a cura di Gianni Turchetta, nella collana «Carte raccontate» (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 52, euro 12, disponibile dal 6 marzo)


Il volume «Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988», di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia (Archinto, pp. 84, euro 14)

“Con lo scrivere si puo’ forse cambiare il mondo”. Studi per Vincenzo Consolo

 


*
Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, 1933 – Milano, 2012) è uno dei grandi classici del secondo Novecento; la sua opera è ormai tradotta in molte lingue.
Questo volume vuole rendere omaggio alla sua originalissima figura di scrittore e di intellettuale e propone, accanto a studi di critici “consoliani” di lungo corso, nuove prospettive di lettura di giovani ricercatori.
Il libro presenta anche alcuni materiali inediti: un’intervista all’autore, una nota esplicativa sul suo archivio di recente apertura e due fotografie in bianco e nero.
Anna Fabretti

ReCHERches n° 21/2018

«Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo». Studi per Vincenzo Consolo

Avec Anna Frabetti, Laura Toppan, Marine Aubry-Morici, Lise Bossi, Michele Carini, Giulia Falistocco, Cinzia Gallo, Nicola Izzo, Rosina Martucci, Daragh O’Connell, Caterina Pilenga Consolo, Daniel Raffini, Giuseppe Traina, Gianni Turchetta

Édité par Anna Frabetti, Laura Toppan

Photographies de Giovanna Borgese

Dettagli:

Caterina Pilenga Consolo, « Breve nota sull’Archivio Consolo » ;

Anna Frabetti, « Conversazione con Vincenzo Consolo » ;

Anna Frabetti e Laura Toppan, « Introduzione  »;

Gianni Turchetta, « Soggettività e iterazione nel romanzo storico-metaforico di Vincenzo Consolo » ;

Daragh O’Connell, « Il punto scritto: genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio » ;

Giulia Falistocco, « La scrittura come fuga dal carcere della Storia. Il sorriso dell’ignoto marinaio » ;

Lise Bossi, « Vincenzo Consolo, dal sorriso allo spasimo: l’impossibile romanzo » ;

Giuseppe Traina, « L’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo » ;

Nicola Izzo, « Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo;

Daniel Raffini, « La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario » ;

Marine Aubry-Morici, « Écrivains de l’histoire, écrivains du mythe : la géographie littéraire de Vincenzo Consolo » ;

Michele Carini, «E questa storia che m’intestardo a scrivere» Sull’istanza narrativa nell’opera di Vincenzo Consolo » ;

Cinzia Gallo, « Vincenzo Consolo lettore di Pirandello » ;

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» » ;

Rosina Martucci, « Vincenzo Consolo e Giose Rimanelli: quadri di letteratura comparata fra viaggio, emigrazione ed esilio ».


Vincenzo Consolo
 (Sant’Agata Di Militello,18 febbraio 1933 – Milano 21 gennaio 2012)

La mutazione antropologica tra sud e nord: i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati

DANIEL RAFFINI
Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Tra gli scrittori che si interessarono al fenomeno, cercando di trasferirne gli effetti nelle loro narrazioni e ragionando su di esso a livello teorico, si analizzano qui i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati. Il primo descrive nei suoi racconti la fine del mondo contadino siciliano, il dramma della dissoluzione di un sapere millenario e la resistenza strenua ma inutile di alcuni personaggi reali che entrano nelle narrazioni. La mutazione antropologica sfocia in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, la Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio e nei suoi racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio e viene riportata dallo scrittore sulla pagina attraverso una scrittura scarna frutto di un’attenta osservazione. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Pasolini se ne occupa in una serie di articoli usciti tra il 1973 e il 1974 su varie testate, dando vita a un dibattito che vede l’intervento di molti scrittori e intellettuali italiani, tra cui Alberto Moravia, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Maurizio Ferrara, Tullio De Mauro, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. In particolare, Pasolini viene accusato di rinnegare lo sviluppo e di ripetere concetti già formulati. Lo scrittore riprende in effetti discorsi sulla società contemporanea già formulati da Marcuse, Horkheimer e Adorno, quando parlavano ad esempio di uomo a una dimensione e di tolleranza repressiva. Tuttavia, specifica Berardinelli nell’introduzione agli Scritti Corsari che «solo ora quei processi di cui aveva parlato la sociologia critica in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, arrivano a compimento in Italia, con una violenza concentrata e improvvisa»1. Gli articoli di Pasolini ci restituiscono l’idea della società contemporanea come di sistema repressivo teso all’omologazione culturale, in cui una nuova classe media formata culturalmente su modelli esterni imposti dal potere viene a sostituire le vecchie categorie oppositive di fascismo e antifascismo. Scrive ancora Berardinelli che «per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo»2. La mitizzazione dei processi sociologici rende possibile la trasfigurazione letteraria di questo mondo che va scomparendo in un gruppo di poesie italo-friulane tarde, pubblicate da Pasolini in quegli anni e poi entrate nella sezione Tetro entusiasmo della raccolta La Nuova Gioventù. Nell’articolo Acculturazione e acculturazione, uscito per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione, Pasolini si scaglia contro la centralizzazione come livellazione delle differenze: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana? Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. […] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.3 La religione del consumo avrebbe preso il posto della religione vera e propria in qualità di oppio dei popoli di marxista memoria. Da qui parte Pasolini nel suo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, dalla costatazione – in seguito alla vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio – che la società italiana è più evoluta in fatto di laicismo rispetto a quanto credessero il Vaticano e il PCI. Pasolini ne deduce un cambiamento del ceto medio, non più legato ai valori cristiani ma all’ideologia del consumo e ne trae la conclusione «che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione»4. Pasolini registra insomma un cambiamento profondo nella società italiana a seguito del boom economico: Si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa in realtà è enorme: è un fenomeno, insito, di «mutazione» antropologica.5 La mutazione antropologica implica da una parte il miglioramento delle effettive condizioni di vita delle persone, dall’altra determina però la fine delle culture popolari italiane in favore di un’unica cultura centralizzata fondata su un modello esterno di origine statunitense. D’altra parte Pasolini ha una visione fortemente ideologizzata e negativa della civiltà dei consumi, che definisce come il «più repressivo totalitarismo che si sia mai visto»6 e alla quale sente la necessita di opporre una battaglia politica prima ancora che culturale fondata sui principi di una rivoluzione proletaria e contadina. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pasolini sarà ripreso da scrittori del decennio successivo. Tra di essi un punto di vista privilegiato è quello del siciliano Vincenzo Consolo. Privilegiato perché è quello di uno scrittore attento ai contrasti insiti e ai cambiamenti storici della sua terra, la Sicilia. In Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino Pasolini parlava di un «illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa»7, per il quale gli stati preunitari, l’Italia unita, l’Italia fascista e l’Italia democratica hanno rappresentato senza soluzione di continuità la nazione estranea, l’altro e l’oppressore. Consolo, dal canto suo, tornerà a parlare di quel mondo contadino in termini mitici, come «di tempi andati, di tempi d’oro, tempi che sono durati fino all’altro ieri»8, e descriverà le rivolte dei siciliani di fronte al potere La raccolta postuma La mia isola è Las Vegas raccoglie testi brevi pubblicati nel corso degli anni da Consolo su vari giornali e fondamentali per capire l’evoluzione del pensiero dello scrittore così come la genesi 3 borbonico, all’unificazione, al Fascismo e all’Italia dopoguerra, per arrivare alla fine di quel mondo che pure aveva fatto in tempo a conoscere da bambino e che aveva descritto in alcuni racconti degli anni Cinquanta e Sessanta9. In due racconti tardi, pubblicati per la prima volta nel 2007 e nel 2008 e poi inclusi nella raccolta La mia isola è Las Vegas, Consolo cita direttamente il concetto pasoliniano di mutazione antropologica. In Alésia al tempo de Li Causi, parlando degli anni in cui studiava a Milano, l’autore scrive: Erano quelli gli anni della fine del mondo contadino e della rapida trasformazione dell’Italia in Paese neo-industriale, del miracolo economico e della mutazione antropologica; gli anni, quelli dell’espulsione dal Paese di milioni e milioni di lavoratori in cerca d’un futuro, d’un destino migliore. 10 Mentre nel racconto E Ciro vide Anna Magnani, riferendosi agli stessi anni, scrive: Era quello il momento della fine del mondo contadino, del fallimento della riforma agraria in Sicilia, della vittoria dei feudatari, eterni Gattopardi, e dei loro sovrastanti o gabelloti mafiosi. Era il momento quello che Pasolini poi chiamò della “mutazione antropologica” di questo nostro Paese.11 L’attenzione dello scrittore al tema della mutazione risale almeno agli anni Ottanta ed è legata all’osservazione del fenomeno dell’emigrazione di massa dei siciliani verso il nord Italia, dovuta all’irruzione delle nuove tecniche di produzione che mettono fine a tradizioni che in Sicilia, oltre ad essere millenarie, rivestivano un forte ruolo identitario, come quella della coltivazione degli aranci o della pesca del tonno12. In un racconto del 1985 dedicato al tema dell’emigrazione a Milano, Consolo parlerà del sud come di una terra «dove la storia si è conclusa»13. La mutazione antropologica rappresenta nella narrativa consoliana una cesura netta e su di essa lo scrittore fonda la funzione etica della propria scrittura. Se il mondo globalizzato digerisce nel suo ventre le culture particolari, se la cultura del centro progressivamente sostituisce le culture periferiche, il compito della letteratura è quello di narrare ciò che non c’è più. In questo senso fortemente significativi sono alcuni personaggi della sezione Persone della raccolta del 1989 Le Pietre di Pantalica, attraverso i quali Consolo prova a raccontare il momento di passaggio, l’attimo della fine, attraverso le figure di chi tentò di opporvisi. Antonino Uccello, poeta-etnologo amico di Consolo, cerca di salvare le vestigia di ciò che sta finendo, raccogliendo gli strumenti e le testimonianze del mondo contadino; oggetti che trova abbandonati, relitti della storia, il cui unico destino è quello di essere musealizzati. In un’intervista Consolo accosterà il proprio compito a quello dell’amico: di alcune delle sue opere. 4 Il poeta-etnologo de La casa di Icaro, credo che sia il personaggio più importante, la figura-simbolo di tutto il libro. È stato uno, Uccello, che, come un pietoso raccoglitore di detriti dopo la risacca, ha cercato di salvare, nel momento in cui essi sparivano, i resti, le testimonianze del mondo contadino. E non è questo in fondo il dovere e il destino di ogni scrittore della mia età e della mia estrazione, che si è trovato a cavallo della grande trasformazione, tra un mondo che spariva e un mondo che iniziava? Non è questo il compito e il destino sempre, in ogni epoca, di uno scrittore: raccogliere e custodire memorie, reliquie di un mondo che continuamente frana, sparisce?14 Ad un’altra Sicilia che va scomparendo, quella magica e barocca, sognante e mitologica, rimanda invece la figura del barone Lucio Piccolo, poeta fuori dalle mode e fuori dal tempo, simbolo di un’erudizione che ci ricorda quella di Mandralisca de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Piccolo fu amico e mentore di Consolo, che in queste pagine racconta il loro primo incontro, gli insegnamenti, le visite nella casa di Capo d’Orlando. Come Uccello, Piccolo è emblema di un mondo che non esiste più, tanto che nel momento della sua scomparsa il dolore che Consolo prova non è solo per la perdita dell’amico e maestro, ma anche «per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»15. Andando ancora indietro, Consolo risale ai tempi in cui quel mondo esisteva, con i suoi riti e le sue usanze, con la sua cultura, quella cultura popolare rivendicata come tale da Pasolini, contro tutti quegli intellettuali che la relegavano agli strati prerazionali. Consolo ci racconta le lotte di quel mondo, le rivolte e le battaglie per la sua sopravvivenza, in molti racconti de Le Pietre di Pantalica e in alcuni di quelli poi confluiti ne La mia isola è Las Vegas, così come nei romanzi, basti pensare alle rivolte di Alcara Li Fusi narrate ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Come afferma Flora Di Legami la scrittura di Consolo viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sé il compito di narrare quanto è andato disperso.16 Anche per quanto riguarda il discorso sull’evoluzione linguaggio nell’epoca della mutazione antropologica Consolo sembra essere in linea con quanto Pasolini diceva in Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva.17 Il discorso di Consolo sulla lingua è più profondo di quello di Pasolini, non si limita solo a un recupero linguistico di tipo dialettale, ma allarga la propria ricerca e l’operazione di salvataggio anche al piano diacronico e ai diversi livelli d’uso della lingua, restituendo sulla pagina una grande dose di ricchezza e invenzione verbale, contro l’appiattimento del linguaggio letterario su quello dei media. 5 La mutazione antropologica sfocia dunque in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino e le difficoltà della nascita di una nuova società. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, nella Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio di Verso la foce e nei racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio determinando una descrizione in cui la parola stessa diventa scarna ed essenziale e il paesaggio postindustriale ci mostra quanto la nuova società derivata dalla mutazione abbia in realtà un carattere effimero e transitorio. A differenza dello sguardo politicizzato di Pasolini e di quello partecipe di Consolo, Celati si pone dal punto di vista dell’osservatore anonimo, lasciando la centralità dell’evocazione all’immagine nuda. Una tecnica che gli viene dalla frequentazione, nei primi anni Ottanta, di quei fotografi raggruppati intorno alla figura Luigi Ghirri, i quali si proponevano di registrare attraverso il loro lavoro la mutazione del paesaggio italiano. Nell’introduzione a Verso la foce Celati definisce questi diari di viaggio come «racconti d’osservazione»18 e specifica meglio il tipo di osservazione necessaria e lo scopo che intende perseguire: Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non si capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.19 L’osservazione di Celati non ha dunque un fine consolatorio, parte dallo straniamento e arriva allo spaesamento, ma solo così lo scrittore sente di poter rendere il senso ultimo di quel «deserto di solitudine»20 che si trova ad attraversare durante le sue peregrinazioni. Celati descrive il paesaggio padano svuotato della sua storicità in seguito a una mutazione di cui rimangono solo ruderi. Anche qui, come nella Sicilia descritta da Consolo, permangono relitti di una storia che non c’è più, che entrano in contrasto con le superfetazioni della modernità. L’esempio più evidente sono forse le corti, fattorie tipiche di queste zone, ora abbandonate: Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle vilette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali.21 Di fronte alla piattezza e all’omologazione delle costruzioni moderne, le corti presentano una grande varietà di soluzioni architettoniche, che cambia da una provincia all’altra. I segni dell’antica bellezza non sono solo nelle corti, ma si possono ravvisare anche in alcuni centri storici, come in quello di Casalmaggiore Vedo strade girovaganti, portici e palazzi scrostati, finché non si arriva nelle stradine dietro il palazzo municipale, e da lì nella piazza centrale. […] Dalla piazza, ripassando per stradine un po’ in salita dietro il municipio, si arriva all’argine del Po. Accanto a una vecchia porta della città, la fila irregolare di palazzi sette-ottocenteschi, ognuno con facciata e forma e altezza 6 diverse, movimenti di linee senza mai forti squadrature, segue l’andamento sinuoso dell’argine e del fiume che si allarga in prospettiva.22 La differenza tra antico e moderno è dunque per Celati prima di tutto una questione di linee e di forme. A Codigoro lo scrittore osserva le case dalle facciate veneziane e le villette in stile liberty disposte lungo il canale, elementi che «formano davvero un luogo» e mostrano che qui «il tempo è diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco sull’altro, come le rughe sulla nostra pelle»23. A ciò si oppone la fine del tempo, fine della storia e le forme geometrizzanti rappresentate dagli elementi della modernità, che minacciano i luoghi antichi: le industrie, che finiscono per costituire delle nuove città; i centri commerciali, che nel giro di pochi anni stravolgono il paesaggio; le strutture turistiche, presenti persino nelle zone più solitarie della foce del fiume; i cartelloni pubblicitari, che ostruiscono la visuale sostituendosi al paesaggio; infine, le nuove tipologie abitative dell’omologazione, le villette a schiera. La mutazione antropologica descritta da Celati non interessa solo il paesaggio, ma lo scrittore si sofferma anche sulle modalità di vita. L’alienazione dei luoghi rispecchia quelle delle persone. I nuovi non-luoghi creati dalla società di consumo, che di lì a qualche anno saranno teorizzati da Marc Augé, sono occupati da delle non-persone, svuotate anch’esse di storicità e private della diversità in favore dell’omologazione imposta24. In Acculturazione e acculturazione Pasolini si chiedeva se le persone sarebbero davvero riuscite a realizzare il modello imposto dalla cultura di massa e si rispondeva: No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi.25 In questo senso va anche l’osservazione compiuta da Gianni Celati sui luoghi dell’abitare che la mutazione antropologica impone agli abitanti della pianura, le villette a schiera che ricorrono come leitmotiv di queste pagine. Celati riprende le teorie dell’abitare espresse da Bachelard negli degli anni Cinquanta, adattandole al nuovo contesto depersonalizzato successivo alla mutazione antropologica. Le villette diventano allora simbolo stesso dell’alienazione postindustriale dei luoghi descritti, simbolo di un tentativo falso e illusorio di nascondersi della «vita piena di pena»26 e di non vedere «l’orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali»27: Quelle case non hanno volto, hanno solo aperture di sicurezza e superfici protettive dietro cui si va a nascondere. Si esce a vedere se in giro è tutto normale, poi si torna a nascondersi nelle tane.28 Se i luoghi precedentemente descritti da Celati mostrano una stratificazione del tempo e delle epoche, qui il tempo risulta sospeso, nelle villette le persone si autoesiliano involontariamente dal7 proprio tempo. Nel 1957 Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio descriveva la casa come il luogo dove le persone si rifugiano a seguito dell’aumento di importanza della vita pubblica determinato dal progresso economico e tecnologico29. Se in Bachelard il senso di protezione evocato dalla casa ha ancora un valore positivo, Celati ci presenta trent’anni dopo i risultati di quel processo e ripropone in chiave negativa la visione della casa come rifugio. La mutazione antropologica cambia insomma i luoghi e le persone che li abitano. Raccontare la mutazione antropologica significa per gli scrittori raccontare la realtà in un momento in cui il realismo sembra essere una via non più percorribile. Ciò rende necessaria una riflessione e un lavoro da parte degli scrittori sulle forme e sui generi. Se Pasolini sceglie la via di una poesia per metà dialettale e per metà italiana per trasfigurare in forma artistica ciò che andava scrivendo nei suoi saggi, Consolo opta invece da una parte sulla rifondazione del romanzo storico su basi antiromanzesche e dall’altra sull’inserimento dell’elemento autobiografico all’interno delle strutture finzionali del racconto. Celati, infine, sceglie il diario di viaggio, un diario di viaggio denso di narratività e riflessioni, che fungono da punto di partenza per i racconti veri e propri di Narratori delle pianure e per le Quattro novelle sulle apparenze. Si nota insomma come la mutazione antropologica sia stata un motore, forse primo, che spinse gli scrittori a un ripensamento delle forme, quel ripensamento che culminerà nei nuovi realismi e nella fioritura della nonfiction a partire dagli anni Novanta, ma che affonda le basi sui grandi cambiamenti antropologici e sociologici che hanno interessato il mondo e l’Italia nella seconda metà del Novecento.

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1 A. BERARDINELLI, Premessa, in P.P. PASOLINI, Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. X. 2 Ivi, VIII.
3 PASOLINI, Acculturazione e acculturazione, in ID., Scritti corsari…, 22-23. 4 PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari…, 40. L’articolo era uscito per la prima
volta sul «Corriere della Sera» il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. 5 Ivi, 41. 6 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, 53-54. L’articolo viene pubblicato l’8 luglio 1974 su «Paese sera» come lettera aperta in risposta a Italo Calvino.
7 Ivi, 53. 8 V. CONSOLO, Arancio, sogno e nostalgia, in ID., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano, Mondadori, 2012, 133. Il racconto è pubblicato per la prima volta su «Sicilia Magazine» nel dicembre d
el 1988. Cfr. D. RAFFINI, La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario, in A.
Frabetti e L. Toppan (a cura di), Studi per Vincenzo Consolo. Come lo scrivere può forse cambiare il mondo,
«Recherches», n. 21, automne 2018, 129-142. 9 Si fa riferimento in particolare ai racconti Un sacco di magnolie, Befana di novembre, Grandine come neve e Triangolo e
luna, riproposti anch’essi nella raccolta La mia isola è Las Vegas. 10 CONSOLO, Alèsia al tempo di Li Causi, in ID., La mia isola…, 226. 11 ID., E Ciro vide Anna Magnani, in ID., La mia isola…, 229. 12 Alla coltivazione degli aranci Consolo dedica il già citato racconto Arancio, sogno e nostalgia; mentre sul tema
delle tonnare è il saggio La pesca del tonno pubblicato nella raccolta Di qua dal faro. 13 CONSOLO, Porta Venezia, in ID., La mia isola…, 113. 14 CONSOLO, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, 1388. 15 ID., Piccolo grande Gattopardo, in ID., La mia isola…, 214. 16 F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 10. 17 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in ID., Scritti corsari…, 54. 18 G. CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 2011, 9. 19 Ivi, 10. 20 Ivi, 9. 21 Ivi, 32. 22 Ivi, 38-39. 23 Ivi, 95. 24 Secondo la definizione di Augé: «Se un luogo può definirci some identitario, relazionale, storico, uno spazio
che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (M. AUGÉ, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, 73). 25 PASOLINI, Acculturazione…, 23. 26 CELATI, Verso la foce…, 35. 27 Ivi, 31. 28 Ivi, 94.
29 Cfr. G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 31-45

Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018),
a cura di A. Campana e F. Giunta,
Roma, Adi editore, 2020