Rosalba Galvagno Ada Bellanova Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo Milano-Udine Mimesis 2021



La giovane studiosa Ada Bellanova ha recentemente pubblicato una poderosa monografia su Vincenzo Consolo per i tipi della casa editrice Mimesis nella collana diretta da Gianni Turchetta: Punti di vista. Testi e studi di letteratura italiana contemporanea. (Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis/Punti di vista, Milano-Udine 2021). Il volume comprende, oltre all’Introduzione (Un eccezionale Baedeker. Cartografare lo spazio), quattro parti (I. Strumenti per percorrere i luoghi; II. Un percorso tra luoghi simbolo; III Ecologie consoliane; IV Mediterraneo) ciascuna suddivisa a sua volta in un numero diverso di capitoli, nei quali l’autrice distribuisce con grande perizia e intelligenza i testi consoliani presi in esame, da quelli giornalistici (molti non ancora raccolti in volume) e saggistici, a quelli di finzione. Ora, la prospettiva dalla quale la studiosa legge e organizza la testualità consoliana è quella già enunciata nel sottotitolo del suo lavoro: La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo. Alla prospettiva ‘spaziale’ è dedicata infatti la prima parte del libro, che si può considerare a tutti gli effetti una introduzione teorica e comparata alla sua «perlustrazione» dei luoghi consoliani, che fa il punto sullo spatial turn e il geographical turn, sugli approcci teorici cioè (Braudel, Turchi, Piatti, Westphal, Scaffai, Iacoli, Iovino, Montandon ecc., la lista sarebbe lunga) utili a indagare gli spazi geografici, paesaggistici, territoriali, umani, insieme alle topografie di suoni e di luci presenti nei testi di Consolo. Naturalmente l’autrice mette in guardia il lettore dalla corrispondenza esatta tra realtà e ambientazione letteraria, et pour cause, la geografia reale è sempre determinata dallo sguardo di chi la scopre o la osserva, a maggior ragione dallo sguardo di uno scrittore o di un artista. Rivolto a questa delicata questione e ai numerosi contributi teorici sul rapporto tra ‘geografia e letteratura’ (geocritica, geopoetica, geotematica ed ecocritica), è il capitolo intitolato Come percorrere i luoghi di Consolo: «I luoghi che l’universo letterario di Consolo ci invita a scoprire sono già molto ‘detti’, possiedono cioè una propria intrinseca ricchezza in termini di rappresentazione letteraria e artistica, oppure sono stati e sono ancora al centro del dibattito storico e filosofico: hanno già una propria identità frutto dell’interazione tra immaginario e reale» (34). Fermo restando comunque che per Consolo la geografia letteraria si intreccia alle istanze di una geografia intima, sicché spesse volte l’autrice fa riferimento ad una «soggettività autoriale», e anche a una «soggettività pensosa» (p. 136). Un altro maestro di luoghi per Consolo è stato senza dubbio l’autore del Cristo si è fermato a Eboli: «Con Levi Consolo vede davvero i luoghi» (p. 51) E così come viene sottolineato questo particolare legame ‘spaziale’ con Carlo Levi, altrettanto accade per Verga del quale Consolo accoglie non solo, come è noto, la rivoluzione linguistica e stilistica, ma anche l’attenzione al mondo degli umili efficacemente rilevata dalla studiosa. Ora, l’approccio ‘geografico’ fa emergere strati della scrittura dell’agatese finora solo sfiorati dalla critica e che Bellanova approfondisce o porta alla luce per la prima volta. Mi riferisco in particolare a certa stratificazione ‘classica’ della geografia consoliana (come ad esempio la geografia euripidea e omerica), meravigliosamente ‘scoperta’ e analizzata dall’autrice: «Rilevanti mi sono parsi inoltre i riferimenti ad alcuni storici greci o a Virgilio. Per lo più si tratta di rimandi che riscostruiscono, tra oblio 42|43 XI (2021) ISSN 2039-7917 268 storia e mito, il passato lontano della Sicilia e del Mediterraneo, testimonianza dunque, utile a comprendere toponomastica o reperti archeologici. Ma a volte non si tratta solo di questo. Quando Consolo allude all’Arcadia – luogo letterario teocriteo, oltre che virgiliano, e segnato dalla rilettura del classicismo settecentesco –, richiamando l’immagine dello spazio consacrato al contatto armonico tra esseri umani e natura, muove in realtà una critica nei confronti del mondo contemporaneo che invece deve fare i conti con una relazione distorta tra uomo e ambiente. Se gli Iblei si rivestono ai suoi occhi di caratteri arcadici, se Pantalica è il luogo della rinascita possibile, ciò non avviene soltanto perché anche in questo caso è in gioco una tradizione, ma perché l’autore, attraverso l’associazione con l’immagine classica, definisce le caratteristiche di uno spazio e lo salva dalla generale resa alla contemporaneità, trasformandolo in un modello di permanenza della biodiversità non tanto o non solo naturalistica ma soprattutto culturale» (p. 312). I rimandi classici, così essenziali e profondi nell’opera di Consolo, acquistano dunque nello studio di Bellanova una precisa collocazione spaziale e temporale in una necessaria e logica relazione col presente, relazione che non è solo di nostalgia o di sterile indignazione, ma di critica e di reazione nei confronti dei disastri della modernità. Questo ci è sembrato, tra gli altri, il contributo inedito di questo ‘eccezionale baedeker’ che, a partire dai luoghi reali, immaginari e simbolici della geografia consoliana, ne mette in luce non soltanto la tragica antitesi (bellezza/orrore, antico/moderno, armonia/violenza, potere/umiltà ecc.), che dalla Sicilia di Consolo si può estendere oggi all’intero pianeta, ma anche una via possibile di resistenza al disastro. La passione per l’antico di Consolo serve questa causa di sopravvivenza. Come esempio emblematico di questo singolare procedimento per forti e quasi fatidici contrasti, sempre legato alla geografia dei luoghi e dei tempi storici, si legga, fra gli altri, il notevole capitolo Palermo bellissima e disfatta (pp. 155-176). L’approccio geocritico del saggio mette in luce, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio ad esempio, un’altra dimensione spaziale e storica estremamente interessante, e cioè il particolare sguardo dello scrittore sul cosiddetto Risorgimento siciliano, narrato non a partire dalla grande Storia ma dalla piccola storia, quella, all’occorrenza, di un paesino come Alcara Li Fusi: «In più Consolo è affascinato dal fatto che la vicenda di Alcara si sia svolta proprio sui Nebrodi, a poca distanza dal suo paese: da questo dettaglio, dalla valorizzazione di un luogo e di un evento trascurati, parte per un suo processo di rilettura del Risorgimento» (p. 21, corsivi miei). O ancora, più avanti: «Ma la scelta di un episodio trascurato dalla storiografia, avvenuto in un territorio marginale, assente dalle mappe ufficiali, dalle geografie di sbarchi e battaglie celebri, è il risultato di una sorta di pratica “archeologica” che porta alla superficie del testo le rovine nascoste del tempo. […]. Dal rifiuto della storia come scrittura dei privilegiati Consolo giunge alla scelta di narrare una storia al margine e dal margine, ovvero quella di chi ha potuto solo lasciare tracce di carbone sulle pareti a spirale del carcere» (p. 116, corsivi miei). Altrettanto per la valorizzazione di alcuni luoghi poco o affatto frequentati dai viaggiatori nell’isola: «Un vero e proprio criterio cartografico è ravvisabile nell’organizzazione di Retablo, del 1987. È in particolare la sezione centrale ad offrire spunti di riflessione in merito. […]. L’opera offre un ritratto della Sicilia occidentale, da Palermo a Trapani, passando attraverso luoghi di grande fascino, come Segesta, Selinunte, Mozia, e svela angoli altrimenti poco noti, come le terme segestane» (p. 21). Il lavoro di Ada Bellanova è talmente denso e ricco di percorsi che non posso che rinviare alla lettura integrale del suo istruttivo baedeker nato, come ella stessa ricorda all’inizio e alla fine del suo saggio, proprio da un viaggio in Sicilia: «Quando, alcuni anni fa, sono andata nella Sicilia occidentale per la prima volta, Retablo è stato il mio eccezionale baedeker. […]. L’intero mio percorso ha beneficiato della suggestione incantata di Retablo. La visita alle rovine di Segesta e Selinunte, l’incontro con l’enigmatico efebo di Mozia mi hanno molto emozionato. Mi si dirà che è naturale, che si tratta di luoghi estremamente affascinanti, senza tempo e insieme testimonianza di un altro tempo, opera della mano dell’uomo, ma anche spazio della natura. Eppure io credo che le pagine di Consolo abbiano avuto un ruolo determinate nel farmeli apprezzare» (p. 11). Condivido oblio 42|43 XI (2021) ISSN 2039-7917 269 pienamente quest’ultima affermazione dell’autrice, permettendomi solo una semplice chiosa a conferma: la scrittura di Consolo ha il pregio non solo di mappare i luoghi della sua isola (e anche della sua Milano!), ma soprattutto di evocarne l’aura, bella o orrida che sia. E per questo i suoi testi possono costituire un prezioso baedeker per quei lettori-viaggiatori che non si sottraggono al fascinum della scoperta.

Da Oblio 42|43 XI (2021)
ISSN 2039-7917

La “Sicilia passeggiata”: il viaggio di Consolo nell’Isola del ritorno

di Concetto Prestifilippo

La ristampa di un volume illustrato dalle foto di Giuseppe Leone e arricchito ora da nuove immagini

“La vita o si vive o si scrive”. Parafrasando il Pirandello de “Il fu Mattia Pascal”, anche la Sicilia la si vive o si ammira nei libri. Come quello di rara bellezza pubblicato dall’editore Mimesis, “La Sicilia passeggiata”, con un testo di Vincenzo Consolo e fotografie di Giuseppe Leone (pag. 176, 16 euro). Il volume, curato al professore Gianni Turchetta, è inserito nella collana “Sguardi e visioni” diretta da Francesca Adamo.

Si tratta di una riproposizione arricchita di una prima edizione presentata in occasione della 42a edizione del Premio Italia, tenuto a Palermo nel settembre del 1990. Il titolo muove da un’opera secentesca di Ambrogio Maia. Sono pagine connaturate da un ritmo gioiosamente mozartiano. Un continuo rimando tra la scrittura ipnotica e onirica di Vincenzo Consolo e lo stupore affatturante delle immagini di Giuseppe Leone.

La filosofia che sottende questa pubblicazione sta tutta nelle parole dello scrittore siciliano: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.

Il libro svela una Sicilia sognante, forse illusoria, popolata da monumenti, chiese, piazze, paesaggi, un continuo racconto di prodigi, sortilegi, incantamenti. “Da molti anni speravo di ripubblicare “La Sicilia passeggiata” – sottolinea Gianni Turchetta, docente di Letteratura italiana all’università Statale di Milano e curatore dell’opera completa di Vincenzo Consolo per i Meridiani della Mondadori – Mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone”.

Grazie anche al contributo di Claudio Masetta Milone, è stato possibile recuperare le postille al testo di Consolo che hanno consentito non solo di ampliarlo materialmente, ma hanno anche contribuito a spostare l’intonazione verso l’alto. Questa nuova edizione si avvale di una appendice fotografica integrativa, oltre cento immagini firmate dal celebre fotografo ragusano.

“Questo libro, grazie al testo di Consolo è tra i più belli che io abbia mai pubblicato – commenta Giuseppe Leone – Ricordo ancora, con intensa emozione, le lunghe conversazioni con Vincenzo nella sua casa di via Volta a Milano. Abbiamo scelto con cura le immagini che compongono questo racconto fotografico. Ancora oggi, sfogliando queste pagine, assumono un’intensità di rara bellezza, soprattutto in questo triste momento di crisi mortale dell’editoria d’arte Sono felice di aver firmato questo volume, lo interpreto come un omaggio dovuto in ricordo di un grande scrittore, un artista raro, un intellettuale contro”.

Il testo di Consolo è una narrazione che fonde felicemente poeticità e saggismo. L’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, dal suo esilio milanese, la sua aspra Tauride, evoca una Sicilia sognante: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare sulla costa siciliana tra Thapsos e Megara Hyblaea, dove gli uomini dell’età del bronzo costruirono villaggi, dove giunsero i coloni di Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto; oppure d’inoltrarci nel golfetto, più in su di punta Izzo”

Questo è l’attacco di Consolo, marcato a ogni passo dai verbi di moto, in una continua sosta e ripartenza: “Siamo giunti: all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione”. Una scrittura che rapisce, questa cifra dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Un’elencazione ipnotica, dalle sonorità antiche e mediorientali, un’architettura linguistica perfetta, tonda e fratta allo stesso tempo, come certe partiture musicali.

Un innesto continuo da saggio storico, trattato di botanica, testo di archeologia. Quello proposto è un viaggio in verticale attraverso le stratificazioni storiche della Grande Isola. Come era già accaduto nel romanzo “Retablo” che vede protagonista Fabrizio Clerici, un pittore lombardo giunto in una Sicilia di un vago Settecento. Consolo e Leone, in questo libro, come Clerici e Isidoro, intraprendono un viaggio da oriente a occidente, dal Mito alla storia. Le pagine più intense sono quelle dedicate a Palermo, l’approdo finale: “Rossa, Palermo, come immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici; di terra rossa e grassa, con polle d’acqua, da cui alto e snello, pieghevole ai venti, s’erge il palmeto fresco d’ombra, eco e nostalgia di oasi, verde moschea, tappeto di ristoro e di preghiera, immagine dell’eterno giardino del Corano”.


22 OTTOBRE 2021 da La Repubblica
ediz. Palermo

Vincenzo Consolo: il dovere di scrivere sulla «mala pianta»

di Laura Pisanello

Settant’anni li ha compiuti nel 2003. Vincenzo Consolo, scrittore raffinato e schivo, nasce infatti, nel 1933, a Sant’Agata di Militello, paese costiero in provincia di Messina. Ma fin da giovane si trasferisce a Milano e cosi, da scrittore meridionale immigrato al Nord, nella memoria e nell’impegno ha trovato le sue principali fonti di ispirazioni. Settant’anni – scrive Consolo – che hanno fatto di me un «testimone, una lastra memoriale di eventi cruciali svoltisi in questo lungo tempo, il Novecento appena tramontato» nel Paese e in particolare in Sicilia. In Sicilia ho visto concludersi la guerra, iniziare la nuova vita civile, l’imporsi della necessità di emigrare al Nord.  «Ho visto – scrive ancora nella prefazione a Per Vincenzo Consolo (Piero Manni editore,2004) – la fine del mondo contadino, lo spopolarsi di paesi e di campagne, il nascere di quell’illusione industriale che avrebbe creato i pozzi mefitici di Augusta, di Priolo, di Gela; ho visto, nel vuoto creato dall’esodo della parte più consapevole del popolo, ricrescere e ingigantirsi la mala pianta siciliana della mafia, quell’osceno olivastro che, in simbiosi col potere politico, ha devastato il paesaggio, fisico e umano dell’isola».

Msa. La Sicilia di oggi è molto cambiata rispetto a quella della sua infanzia?

Consolo. Moltissimo. Nessuno pretende che tutto si fermi, si cristallizzi, ma avrei desiderato che lo sviluppo fosse un progresso più armonico nel rispetto della dimensione umana.

Invece, si è costruito selvaggiamente, spesso – lo apprendiamo dalle cronache – eludendo qualsiasi legge e contro le istituzioni. Poi, siccome c’e questo Stato paternalistico che condona, allora tutti osano.

lo ho cercato di esprimere questo mio rammarico, questo dolore per questa mia terra sfigurata, in L’olivo e l’olivastro che racconta un viaggio in Sicilia di uno che se ne era andato via da parecchi anni. E, quando ritorna, trova questo degrado non solo da un punto di vista paesaggistico, ma anche da un punto di vista umano. Un po’ sullo schema omerico del ritorno di Ulisse. E’ un Ulisse che non ritrova più la sua Itaca, che durante la sua assenza è sparita.

Ovviamente questo Ulisse è lei stesso, con i suoi continui allontanamenti e ritorni alla terra natale…

Non posso fame a meno perché e il luogo della memoria, degli affetti. Quando nasciamo veniamo incisi dai segni della cultura e della natura. E la Sicilia ha una grande ricchezza, anche nella stratificazione linguistica e culturale (civiltà greca, latina, araba, spagnola). Nel nostro dialetto ci sono ancora queste matrici di lingue del passato: io scavo da filologo nella lingua, per un bisogno di memoria.

Bisogna avere la consapevolezza dei luoghi dove si è nati, ma questo ci deve servire per aprirci alla conoscenza degli altri, non a chiuderci e a regredire.

foto Mike Palazzotto

Lei ha visto l’esodo dal Sud al Nord negli anni Cinquanta?

Vengo da una terra di immigrazione e di emigrazione (a Tunisi agli inizi del secolo c’erano novantamila italiani). Quando ero studente a Milano, negli anni Cinquanta, ho visto il grande esodo di braccianti meridionali verso il Nord. Ho visto in piazza Sant’Ambrogio il Centro orientamento immigrati, dove arrivavano contadini dalla stazione centrale in quei nebbiosi inverni milanesi e venivano scaricati lì dove c’erano le delegazioni dei Paesi stranieri, del Belgio, della Francia e della Svizzera e da lì venivano avviati o nelle miniere di carbone del Belgio o nelle fabbriche francesi. Capii in quel momento il dramma dell’immigrazione.

Come si comportano oggi gli italiani con gli immigrati?

C’è un sentimento di paura, di xenofobia, verso gli immigrati, che vengono immediatamente «criminalizzati» (anche chiamarli «clandestini» li marchia). Voglio dire che questo è un sentimento cieco perché la storia dell’umanità è fatta di incontri e arricchimenti reciproci, di spostamenti di popolazioni da un luogo all’altro. Oggi il nostro Paese sta invecchiando e questi immigrati sono giovani e portano veramente nuove energie.

Nelle cronache sull’immigrazione Siciliana dell’Ottocento ho letto che i primi passaporti venivano dati ai delinquenti, mentre la gente che non aveva conti in sospeso con la legge veniva sottoposta a visite mediche e spesso veniva scartata. Ci sono anche tra gli immigrati di oggi quelli che delinquono, ma la maggior parte di loro sono persone oneste che scappano da luoghi di violenza, di miseria e vengono a cercare speranza.

Tornando alla Sicilia, in questi ultimi tempi sembra che il problema della mafia non esista più  …

Dopo ii 1992, che è stato l’anno dell’impegno, della mobilitazione, è sceso il silenzio. Questo silenzio sulla mafia è un silenzio anche inquietante. L’interesse della mafia è sempre stato quello di stabilire rapporti con il potere politico. Ora, quando la mafia tace evidentemente si desume che questi rapporti sono ben saldi e ben stabiliti. Nel momento delle rotture avvengono le vendette e i fatti eclatanti.

Leonardo Sciascia, dopo aver scritto i primi libri (II Consiglio d’Egitto, Morte dell’Inquisitore) incominciò la serie dei romanzi gialli con II giorno della civetta. Quando lo andavo a trovare, gli comunicavo la mia disapprovazione da lettore per questa svolta. Lui sorrideva perché aveva scelto questa tecnica del romanzo poliziesco per dire altro. Capii, dopo, che lui aveva sentito l’urgenza di affrontare un tema come quello della mafia, servendosi di uno strumento collaudato come ii romanzo poliziesco. Nei suoi romanzi non si arriva mai all’individuazione del colpevole. Sciascia voleva dire che erano delitti politico-mafiosi, erano delitti del potere e li potere non poteva processare e condannare se stesso. Sciascia con questi romanzi ci ha dato il quadro di quella che è stata la storia d’Italia dagli anni Sessanta in poi.

Mi chiedo se sappiamo qualcosa di preciso, per esempio, sul delitto Moro …

Lei seguì anche, come cronista, dei processi di mafia?

Su invito del direttore de «L’Ora» di Palermo, nel 1975 presi aspettativa dalla Rai e andai a Palermo. Avrei dovuto dirigere le pagine culturali, ma non si videro mai: feci molti servizi, inchieste, poi mi mandarono a Trapani a seguire un processo in corte d’Assise. C’era un pubblico ministero che si chiamava Gian Giacomo Ciaccio Montalto, intelligentissimo, preparato. Dietro questo processo c’erano la mafia, il traffico della droga. Una sera Montalto mi invitò a casa sua, a Val d’Erice, sopra Trapani. E alla fine mi disse che riceveva moltissime telefonate e lettere anonime con minacce di morte: «Se mi dovesse succedere qualcosa, lei lo scriva». Gli chiesi perché non lo raccontasse alla polizia e lui rispose: «Dei miei superiori non mi fido». Mi sembrava di vivere in un romanzo giallo. Tornai a Milano e qualche anno dopo Montalto fu ucciso. lo raccontai la vicenda, Sciascia, che allora era deputato a Roma, fece una interrogazione alla Camera; il ministro rispose che a loro non risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto minacce.

Lei si è laureato in legge ma non ha intrapreso la carriera forense…

Avrei voluto studiare Lettere, ma era considerata una facoltà da donne. Mi laureai in

Giurisprudenza a Milano e poi tornai in Sicilia dove andai a insegnare diritto in scuole agrarie di montagna. Lo feci per cinque anni, ma mi accorsi che il mondo contadino stava finendo e i ragazzi erano destinati anch’essi a emigrare.

Sentivo il desiderio di andarmene via e mi consigliai con Sciascia. Lui mi disse che se fosse stato giovane e senza famiglia se ne sarebbe andato anch’egli perché in Sicilia non c’era più speranza.

Come è finito alla Rai a Milano?

Milano mi sembrava l’unica città dove potevo andare: seppi che c’era un concorso per funzionario in Rai e lo vinsi. Ero l’unico senza ipoteche politiche. Quando mi vidi proiettato nel mondo del lavoro, ebbi subito un rifiuto.

Come è stato il suo rapporto con la Rai?

II mio rapporto con la Rai fu difficile: fui anche sospeso per indisciplina. Sono rimasto sempre ai margini, non ho fatto carriera, sono uscito con la stessa qualifica con cui sono entrato. Dicevo ironicamente: «Lavoro in una fabbrica di armi». Ho tentato tante volte di lasciarla.

Dopo la pubblicazione de II sorriso dell’Ignoto marinaio, Einaudi mi propose di andare a lavorare in casa editrice. Ma dopo una settimana scappai anche da Torino.

A che cosa sta lavorando adesso?

Sto lavorando a un romanzo ambientato ancora una volta in Sicilia, alla fine del Seicento (ho trovato documentazione su un processo nell’archivio centrale di Spagna).

In un mondo che sembra dominato da violenza e caduta dell’etica, quali segni positivi lei ha trovato?

Ci sono delle luci di speranza. i movimenti pacifisti e l’impegno dei giovani a vedere al di là dei confini, in modo globale. Poi ci sono fenomeni poco conosciuti come il volontariato. All’ estero ho incontrato giovani, cattolici e laici che operano nei luoghi più infelici. Si vede che l’essenza umana ancora brilla. In Bosnia, in Libano, in Palestina con Saramago abbiamo incontrato pacifisti che lavorano in modo meraviglioso, ma questo i nostri politici lo ignorano.

Dal Messaggero di Sant’Antonio
novembre 2014

Lunaria Teatro Genova

LUNARIA LUNEDÌ 5 LUGLIO ORE 21.15 PIAZZA SAN MATTEO GENOVA
di Vincenzo Consolo
con Pietro Montandon tecnico luci e fonica Luca Nasciuti costumi Maria Angela Cerruti scene Giorgio Panni Giacomo Rigalza
regia Daniela Ardini

Lunaria Teatro Genova
Uno dei testi più ricchi di suggestione della drammaturgia contemporanea e insieme un capolavoro della letteratura del Novecento. Questo è Lunaria, favola scritta da Vincenzo Consolo, vincitrice nel 1985 del Premio Pirandello, realizzata in prima nazionale da Daniela Ardini e Giorgio Panni nel 1986 e successivamente realizzata in molte versioni in Italia e all’estero. La storia. In una Palermo di fine Settecento, una mattina il Viceré si sveglia madido e tremante: ha sognato che la Luna è caduta dal cielo e, una volta raggiunto il terreno, si è spenta, lasciando nel cielo un buco nero. La giornata del Viceré prosegue nella sala delle udienze dove arriva Messer Lunato, uno strambo viaggiatore in mongolfiera. A conclusione dell’udienza i ministri srotolano una mappa sulla quale sono indicati i possedimenti vicereali sul quale il Viceré fa scorrere il suo scettro che inspiegabilmente si impunta su una estrema Contrada senza nome. A questo punto la scena si apre sulla Contrada senza nome, dove alcuni villani guardano sorpresi la Luna che sta per sorgere e che appare insolitamente grande e colorata di rosso scarlatto. Dopo un po’ la Luna ritorna ad essere bianca e luminosa, ma comincia a creparsi e falde di luna cominciano a piovere a terra. Un Caporale ubriaco intima ai villani di raccogliere i cocci di Luna e di metterli in una giara, quindi ordina ad uno di loro, Mondo, di andare dal Viceré per riferire l’accaduto e chiedere istruzioni sul da farsi. La scena torna quindi a Palazzo Reale, dove è riunita l’Accademia dei Platoni Redivivi per disputare circa la malattia, lo sfaldamento e la conseguente caduta sub specie pluviae della Luna. Tra loro arriva Mondo che racconta l’accaduto, portando con se una falda di Luna come prova. Posto il coccio in uno scrigno, Mondo viene congedato e ciascuno degli accademici esprime la propria opinione sull’accaduto. Finita la disputa, nell’Accademia deserta dalle ante di un armadio esce il Teatro delle Bizzarrie: geni, fate, folletti, astri, pianeti, allegorie; quindi i personaggi fantastici spariscono a mano a mano, lasciando solo la Luna. Nell’epilogo si torna nuovamente nella Contrada senza nome, dove uomini e donne vestiti di nero seppelliscono i resti della Luna nella fontana e, di li a poco, assistono alla ricomparsa in cielo della Luna che, pero, tra i due corni della falce mostra una macchia nera. Giunge allora il Caporale il quale, deluso di ritrovare la Luna al proprio posto, inveisce contro i villani; viene pero interrotto dal sopraggiungere del Viceré, il quale sale una scala a pioli e incastra nella Luna il pezzo mancante, decretando che da allora in poi la Contrada senza nome si chiamerà “Lunaria”. La lingua e lo stile. Dal punto di vista linguistico Lunaria accosta stili diversi: dal narrativo al dialogico, dal lirico-poetico al linguaggio scientifico o pseudo scientifico degli usato dagli Accademici. Inoltre Lunaria, pur nella sua brevità, si configura come un crogiolo di lingue e dialetti. Sono facilmente riconoscibili l’uso dell’italiano nei suoi diversi registri: da quello accademico-scientifico, a quello visionario, mimetico, letterario, lirico, popolare; l’uso del siciliano, del dialetto gallo-italico, dello spagnolo di Dona Sol e degli inquisitori, del latino nonché di latinismi vari. Il Viceré e ricorre saltuariamente a tutti questi idiomi, compreso il dialetto gallo- romanzo, ossia il sanfratellano, tanto che a Mondo risponde parlando nella sua stessa lingua. Interi brani di poesia e versi “nascosti” compaiono in Lunaria. Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste cosi a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessita per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita. La critica letteraria. Cosi Cesare Segre: “Uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremes alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna(1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procuro la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore”. La regia. Lunaria è sempre una favola, la favola della luna, che vuole far sognare il pubblico affascinato da sempre dall’astro poetico. Per Consolo la sua caduta “rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo”, poesia che è invece illusione necessaria contro la precarietà della storia e della vita (Scende la luna; e si scolora il mondo, aveva scritto Leopardi ne Il tramonto della Luna).La regia di questo allestimento punta a riportare Lunaria ad alcune delle sue matrici originarie: il cunto e l’opera dei pupi. La tradizione infatti in Consolo si mescola arditamente all’elaborazione poetica e all’artificio letterario. Un solo attore, Pietro Montandon, da voce e gesto a tutti i personaggi, partendo dall’essere in primo luogo il narratore-cuntista dell’opera. Un baule da teatro, un leggio e un praticabile palcoscenico su cui si “interpretano” i vari personaggi e la storia, citano insieme narrazione e teatro. Consolo stesso asseriva che “le didascalie, pur conservando in qualche modo la loro funzione di indicazione mimetica e ambientale, vogliono assumere anche dignità di testo, sono insomma didascalie che ambiscono ad essere recitate da un eventuale personaggio (il Narratore)”. Montandon prende per mano il suo pubblico e lo guida con ironia, ma anche con mano ferma e mente fredda nei meandri non sempre facili dell’opera di Consolo, facendolo assistere ad un gioco letterario, ma anche teatrale, che diverte con l’astrusità dei vari linguaggi, il paradosso di alcune situazioni (l’Accademia dei Platoni Redivivi che cercano di dare “spiegazione” alla caduta della luna), l’ironia di alcuni personaggi (Messer Lunato, Cerusici, Dona Sol, e altri), da emozioni con il linguaggio poetico del Viceré e la versificazione dei Villani e delle Villanelle, ultimi baluardi di un mondo dove rimane ancora la poesia. La scenografia disegna in modo astratto la corte del Viceré di Sicilia e la contrada senza nome. Il gioco musicale è arricchito da effetti sonori sulle tante voci di Montandon. L’attore PIETRO MONTANDON per lunghi anni interprete nella compagnia Mummenshanz, con Lunaria Teatro straordinario interprete di Maruzza Musumeci di Andrea Camilleri e de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.
www.lunariateatro.it info@lunariateatro.it

La Sicilia passeggiata Vincenzo Consolo fotografie di Giuseppe Leone

Prefazione

di Gianni Turchetta

Da molti anni speravo di ripubblicare La Sicilia passeggiata. E mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli specialisti, questo testo, come potrete presto constatare, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone.

In La Sicilia passeggiata narrazione, poeticità e saggismo si fondono felicemente, integrandosi nell’evidenza dinamica degli spostamenti, marcata a ogni passo dai verbi di moto. Si veda l’attacco, tra avventuroso e onirico: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare” (p. 17). È una trama lieve e decisa, che quasi sospinge il lettore: “Non sostiamo. Procediamo” (ibidem), “Siamo giunti” (p. 18), “è da qui che vogliamo partire” (ibidem); o ancora: “Abbandoniamo” (p. 46), “Dalla piazza di Scicli voliamo” (p. 48), “Andiamo avanti, avanti” (p. 76), “Salpiamo da Porto Empedocle” (p. 96) e così via. In prima approssimazione, il viaggio attraverso cui Consolo ci guida va da Oriente a Occidente. Si parte dalla necropoli di Pantàlica, per poi raggiungere i Monti Iblei, il Val di Noto, Scicli, e poi Còmiso, Vittoria, Ragusa Ibla, Modica, Siracusa, e ancora Enna, i paesi dello  zolfo e quelli del latifondo, fino a immettersi “nell’antica strada che congiungeva Arigento a Catania” (p. 90), arrivare a Gela, Agrigento e la Valle dei Templi, Porto Empedocle, proseguendo per Sciacca, Caltabellotta, Selinunte, Salemi e Calatafimi, e poi Segesta, Trapani, e da qui ancora Èrice e Mozia, le Égadi, fino a Palermo, già punto d’arrivo del viaggio siciliano di Goethe. Ma il movimento fisico è solo l’asse portante di una fitta sequenza di scorribande attraverso il tempo e lo spazio, in un andirivieni senza soste, modulato da continue transizioni tematiche. L’inarrestabile fluidità del discorso è del resto dichiarata apertamente, e coincide con il desiderio di una conoscenza efficace proprio perché pronta a riconoscere un’irriducibile pluralità: “vogliamo partire”, infatti, “per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.” (p. 18)

Si viaggia, insomma, sotto il segno della molteplicità, caratteristica dell’identità della Sicilia, ma anche del Mediterraneo tutto, come Consolo ha ribadito per una vita intera. Né possiamo dimenticare quanto la pluralità (di lingue, di stili, di generi) sia il cuore della sua ricerca artistica. Il movimento che sospinge La Sicilia passeggiata è incardinato, originalmente, su una prima persona plurale: dove il “noi” è pluralis majestatis, ma piuttosto sobria allusione a una possibile piccola compagnia di viaggiatori. Proprio per questo il “noi” assume una movenza esortativa, come d’invito al lettore a viaggiare insieme all’autore: stabilendo così una sorta di intimità, di vicinanza affettiva oltre che culturale. Non dimentichiamo che questa è una “Sicilia passeggiata”, dove il riferimento alla “passeggiata” non è disimpegno, ma possibilità di conquistare un peculiare regime di leggerezza e libertà, che si fa garanzia di conoscenza, perché capace di accogliere le ragioni della storia insieme a quelle del mito e del sogno, e dunque della poesia. D’altro canto, La Sicilia passeggiata, come è tipico dell’odeporica, della letteratura di viaggio, è sì racconto, ma sempre sorretto da informazioni e spunti lato sensu saggistici: come del resto tutto quello che scrive Consolo. La scelta del titolo è tuttavia segno di differenze profonde rispetto ad altri testi ch’egli scrive in quegli anni. Proviamo a metterle a fuoco.

Quello che poi diventerà La Sicilia passeggiata esce per la prima volta col titolo Kore risorgente. La Sicilia tra mito e storia, in un lussuoso volume hard cover (cm. 29×25), Sicilia teatro del mondo, pubblicato da Nuova ERI / Edizioni RAI nel settembre 1990. Di questo volume costituisce la “metà” letteraria, affiancata, oltre che dalle fotografie di Giuseppe Leone, che già dialogano con il testo consoliano, da un bel saggio di Cesare De Seta, Teatro geografico antico e moderno del Regno di Sicilia, che racconta la storia siciliana a partire dall’omonimo volume uscito a Madrid nel 1686, del cui sontuoso apparato iconografico si riproducono circa cento stampe, su cartoncino. Entrambi i testi sono tradotti in francese (da Nicole Dumoulin) e in inglese (da Richard Kamm). Pochi mesi dopo, nel febbraio 1991, il testo di Consolo e le fotografie di Giuseppe Leone diventano però un volume autonomo, stavolta in un agile formato paperback (cm. 24×14), edito ancora da ERI, con il titolo che qui riproponiamo.

Rispetto alla storia della scrittura di Consolo, La Sicilia passeggiata si colloca fra due opere diversissime, ma che sono entrambe, a loro volta, il racconto di un viaggio in Sicilia. La prima è il romanzo Retablo (1987), ambientato nel 1760-1761, in un Settecento volutamente remoto e irreale, mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica. La seconda è L’olivo e l’olivastro (1994), viaggio stavolta autobiografico, ancora più apertamente polemico contro il degrado del presente, incardinato sullo schema omerico del nòstos (evocato fin dal titolo, ch’è citazione dall’Odissea). Numerosi spunti odeporici compaiono anche in Le pietre di Pantalica (1988): a prima vista un libro di racconti, ma in realtà frutto della fusione di un originario impianto romanzesco con un pacchetto di narrazioni autobiografiche. Più esili sono invece i rapporti con il romanzo storico Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega)[1]. Proprio il confronto con gli altri due viaggi in Sicilia aiuta a delineare con nettezza, per differentiam, i contorni di La Sicilia passeggiata. Per dirla in pochi cenni, è vistosa anzitutto la distanza rispetto alla fiction di Retablo, con cui pure ci sono non pochi fascinosi elementi di contatto (come i rimandi alla visita goethiana alla grotta di Santa Rosalia, che in Retablo però compare all’inizio, mentre qui è in chiusura). Ma non meno evidente è lo scarto rispetto all’impianto poematico, stilisticamente “alto”, tragico, di L’olivo e l’olivastro, che intreccia il viaggio in Sicilia con la rievocazione delle vicende di personaggi storici rilevanti nella storia dell’isola (Empedocle, Verga, Caravaggio, Maupassant, Saverio Landolina, August von Platen, il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia, e altri ancora). La copia postillata dall’autore di La Sicilia passeggiata mostra, significativamente, ipotesi di interventi che avrebbero non solo ampliato materialmente il testo, ma anche contribuito a spostarne l’intonazione verso l’alto e i contenuti verso la deprecatio temporis, sospingendolo verso quello che sarà poi L’olivo e l’olivastro. Ma i due libri vanno in realtà in direzioni molto diverse, quasi opposte. Se L’olivo e l’olivastro è infatti tutto teso a sottolineare “i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, come dichiarato in un’intervista, La Sicilia passeggiata intende invece valorizzare la ricchezza storica, artistica e naturale dell’Isola, per coglierne l’irriducibile complessità. Come osserva opportunamente Ada Bellanova, “l’attenzione per gli esseri umani e gli intrecci di identità diverse diventa in La Sicilia passeggiata il nodo centrale dello sforzo di dire”[2]. Senza contare l’importanza del rapporto, assai stretto e in qualche misura fondativo, fra il percorso e l’apparato fotografico che lo accompagna, collocandolo in una piccola tradizione di libri dove il testo di Consolo sta accanto a foto dedicate a “luoghi geografici, specialmente siciliani”[3].

Certo anche La Sicilia passeggiata conferma, con la densità dei suoi riferimenti alla classicità greco-latina, l’appartenenza a una stagione di riavvicinamento all’antico, che si fa misura del degrado e della corruzione del presente. Ricordiamo anche la tragedia Catarsi (1989), dedicata alla morte di Empedocle. Consolo si mostra ben consapevole delle differenze tematiche e tonali proprio nel momento in cui, invece che integrare e ampliare La Sicilia passeggiata, decide di scrivere un altro libro, molto più cupo, “alto” e polemico, come L’olivo e l’olivastro. La Sicilia passeggiata va letta, anzitutto, nella chiave della complessità e dell’ambivalenza, che Consolo ritrovava già in Goethe: “Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco” (p. 18). Dove la contraddizione originaria è anzitutto quella più assoluta e irriducibile: il contrasto fra Vita e Morte, evocato già dal primo titolo, Kore risorgente, che allude alla storia di Persefone, sposa di Ade e regina dell’Oltretomba, che ogni sei mesi torna all’aperto dalla madre Demetra e fa rifiorire la Terra. Non a caso, del resto, questo viaggio siciliano comincia dalla necropoli protostorica di Pantàlica: “vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto […]. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita” (p. 20). In una direzione analoga vanno molte altre storie evocate: come quella del catastrofico terremoto in Val di Noto del 1693, da cui poi nacquero alcune delle più straordinarie realizzazioni artistiche del barocco siciliano. Ma persino lo spaventoso groviglio di contraddizioni che è Palermo la Rossa, su cui si chiude il libro, riconferma una dinamica analoga. Santa Rosalia, infatti, la “Santa estatica” patrona di Palermo, coincide con “tutte la Sante vergini di Sicilia, Agata Lucia Venera Ninfa, ed è insieme Kore e Persefone”, e si colloca dunque di nuovo sotto il segno della vita che rinasce, di Demetra che torna alla superficie e alla luce: “Come fa l’ape nella primavera, come fa la primavera della storia” (p. 138). Con questa certezza anche noi, dopo tanto buio, ricominciamo il nostro viaggio.

RINGRAZIAMENTI. Un grazie specialmente sentito va a Giuseppe Leone, che per la presente edizione ha rivisto e arricchito lo splendido apparato fotografico: così questo libro è un ritorno, ma anche un libro nuovo. Grazie, di cuore, a Claudio Masetta Milone, che mi ha rivelato le postille di Consolo al volume, e a Francesca Adamo, che ha creduto in questo libro e ne ha curato con competenza impaginazione e redazione.


[1] Per una ricostruzione dettagliata della storia delle opere a cavallo fra fine anni Ottanta a primi anni Novanta mi permetto di rimandare a G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta, e con uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, pp. 1351-1425.

[2] A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 28.

[3] Ivi, p. 25n.

LA SEDUZIONE: DALLA SIRENA A RETABLO

di Giovanna Di Marco

È il 1985 quando Vincenzo Consolo scrive la prefazione al saggio Sirene siciliane. L’anima esiliata di Lighea di Basilio Reale, uno studio che, seguendo i precetti del pensiero junghiano, analizza l’ultimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La sirena. In poche pagine, Consolo delinea una sorta di geografia della letteratura siciliana, non prima però di espletarne un’altra: quella di alcuni suoi esuli. Ricorda infatti il suo primo incontro con Reale, avvenuto a Milano nel 1953: i due esuli dalla terra del mito, la Sicilia, provengono della stessa provincia (di Sant’Agata di Militello, Consolo, di Capo d’Orlando, Reale). Ma in questi esili ci fa ricordare quello di Vittorini e quello più antico di Verga.

“Scoprimmo subito, io e Reale, d’avere le stesse aspirazioni e ispirazioni, che da una parte si declinavano in prosa, dall’altra in poesia”.

Dal mito e dai vagheggiamenti sulla loro terra del mito, passano entrambi alla storia, alla necessità dell’impegno. Da qui parte la divisione ideale della letteratura siciliana in due indirizzi: “quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura o del mito). Filoni che possono coincidere con le due parti dell’Isola”, dove a Occidente si riscontra il primo, a Oriente il secondo, con numerose e straordinarie eccezioni:

“E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia e lo storicismo d’Occidente”.

E, da quella Finisterre, ‘di qua dal faro’, la Sicilia, Consolo intercetta un luogo, incrocio tra le due anime dell’Isola: Capo d’Orlando, che significa Lucio Piccolo. A lui è dedicata una sua opera, Lunaria, divagazione nel sogno con queste parole: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”.

Piccolo tra l’altro fu figura di riferimento anche per Reale, ed è individuato da Consolo come l’ispiratore della sirena per il cugino Tomasi di Lampedusa. Quest’ultimo alla storia aveva dedicato Il Gattopardo, ma si spostò nella Sicilia orientale per scrivere di Lighea e, appunto, per rivisitare il mito. La sirena di Piccolo appartiene più a quelle entità di “ninfe campestri, boscherecce, sia pure in apparenza stregonesche il senso panico della natura”. Ma certamente l’influsso di Piccolo determinò sul cugino la deposizione “dell’armatura teutonica del Principe Fabrizio di Salina” per l’approdo alla seduzione e a un ricongiungimento con lo spirito della Natura. Ma cosa è dunque Lighea per Consolo? Alla fine della prefazione al saggio ci dice che Lighea è un ipogeo, un profondo scavo archeologico. E tra questo andare e tornare tra storia e mito, Lighea è dunque la ricerca dell’originario, attraverso l’eterno femminino. Come i dialetti greci del professor La Ciura, protagonista del racconto La sirena di Tomasi, tutta l’opera consoliana è una ricerca continua dell’arcaico e dell’originario. Lo si riscontra anche nelle sue scelte linguistiche.

La ricerca di questo ipogeo, prima che nella Sicilia orientale de Le pietre di Pantalica – indimenticabile quell’incipit: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” – possiamo riscontrarla nell’unica opera consoliana, pubblicata nel 1987, che ha come tema la seduzione erotica e conoscitiva: Retablo. La seduzione, in quest’opera ambientata nella Sicilia del Settecento – e che racconta due storie di amori infelici – è rappresentata da due donne: Teresa Blasco, nonna del Manzoni, amata da Fabrizio Clerici e Rosalia, la bella popolana per cui fugge il monaco Isidoro. Fabrizio Clerici, lombardo, discende in Sicilia per conoscere la terra degli antenati di Teresa, in un viaggio iniziatico che lo riporta al mito. Proprio le Sirene vengono evocate nell’ascolto del canto di alcune donne al bagno di Segesta nell’episodio centrale del romanzo tripartito:

“o chi si perse ascoltando una volta il canto stregato di Sirene, come mi persi anch’io nel vacuo smemorante, nel vago vorticare, nella felicità senza sorgente e nome, nel profondo jato che disgiunge il futuro dal passato”.

Ma è nella sezione iniziale e nella storia di Isidoro che l’eterno femminino prende forma. Da tensione irrazionale si fa monumento e si fa storia sotto l’effigie della bella Rosalia, prima presagita nelle forme muliebri della santa patrona palermitana, di cui la donna porta il nome: “Lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne”, poi nel riconoscimento (una vera e propria agnizione) che avviene nell’Oratorio di San Lorenzo di Palermo: la statua in gesso della Virtù della Veritas, realizzata da Giacomo Serpotta, viene riconosciuta da Isidoro come l’amata Rosalia, che dello scultore era stata modella: “Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dìa, m’arrestai. VERITAS portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino a cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti”.

La figura archetipica e la tensione erotica si trasformano per sempre, passando dalla Natura alla storia e consolidando in Consolo ciò che aveva anticipato nella prefazione al saggio di Reale: “un andare e tornare, un perenne oscillare, è un sondare e riattivare il sepolto e riportarlo alla luce”. Diventa dunque sintesi di movimenti opposti e incontro tra il primigenio e istintuale mito e la storia.

11 maggio 2021
Morel – Voci dall’isola

E la fantasia più fantastica di tutte




“E la fantasia più fantastica di tutte si trova dispiegata in quel catoio profondo, ipogeo sènia, imbuto torto, solfara a giravolta, che fa quasi da specchio, da faccia arrovesciata del corpo principale del castello sotto cui si spiega, il carcere: immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume”.

da Vincenzo Consolo, “Il sorriso dell’Ignoto marinaio”, Torino, Einaudi, 1976

Così scriveva Vincenzo Consolo nel romanzo che lo consacra al canone del Novecento italiano. La planimetria del mondo in cui si muove il suo protagonista, il barone Mandralisca, è un attorcigliarsi, un involversi, un contorcersi e firriarsi di tempi e luoghi, della stessa volontà del protagonista, che smanierebbe di rinchiudersi nel suo studio a catalogare conchiglie.
Conchiglie, labirinti, la Storia e la storia come guazzabuglio incomprensibile, sporco e violento, rispetto al quale verrebbe voglia di arretrare, scappare, nascondersi, rifugiarsi tra “vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina”. Tra le buone cose di pessimo gusto, tra le belle cose frivole e rassicuranti che proteggono dal frastuono della Storia e della storia.
E invece no, Vincenzo Consolo il suo intellettuale lo vuole immerso nelle cose del mondo, attenta e vigile sentinella, costantemente impegnato a combattere, prima di tutto dentro di sé, la tentazione di accomodarsi tra le buone cose di pessimo gusto.
Ce n’è bisogno, Maestro, di sentinelle vigili.

Buon compleanno.
18 febbraio 1933 Sant’Agata Di Militello

Purché ci resti Itaca: nelle radici una speranza per domani. La voce di Consolo

Ada Bellanova

Purché ci resti Itaca:

nelle radici una speranza per dopodomani.

La voce di Consolo.

1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il dramma di Ulisse e di Ifigenia.

            Senza la letteratura Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].

            Ulisse in viaggio, intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare. Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra, sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2]. Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e, smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia. Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è insanabile, inestinguibile[3]. Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo, neppure nell’opportunità di un ritorno. 

            Ifigenia a sua volta, la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può essere estremamente traumatico.

           Il mito e la letteratura, proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di vivere gli spazi.

            Ne sa qualcosa Vincenzo Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina – ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4], non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro, deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado – culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in causa i simboli della tragedia euripidea[5], tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6], che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità – l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi, dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una perdita irreparabile in termini di valori e identità[7]. La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.

2. Proteggere le radici.

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati […]

       P.P. Pasolini[8]

            Eppure, affrontato il rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.

            La vera letteratura ha questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi stessi.

           Trovo illuminante la sua riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado, i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha una sua indubbia fragilità.

            Nella sua rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi.

            La sua opera invita dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.

            Il passato – come insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.

            Mi piace pensare che nei versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante[9].

            Solo se ripartiamo da questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso, difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche speranza, se non per domani, almeno per dopodomani. 


[1]A. Montandon, Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.

[2]Odissea XIII 200-202.

[3]V. Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983, pp. 370-371.

[4]V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Mondadori, Milano 2015, p. 869.

[5]V. Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.

[6]Ifigenia fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.

[7]«Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma 1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili. Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento: dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti, espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante, che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp. 20-22).

[8]P.P. Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)

L’idea della Sicilia – di Vincenzo Consolo

L’idea della Sicilia – di Vincenzo Consolo

E’ ancora possibile il viaggio, oggi che sola ci è concessa la via unica, obbligata del risaputo e prevedibile per questo gran villaggio uguale in ogni punto che è diventato il mondo?

Oggi che siamo spinti verso la stasi – anticipo di quella definitiva -, in cui il mondo in sequenza ininterrotta di immagini ci scorre avanti agli occhi? Oggi che l’altrove, il lontano e ignorato è fuori dalla terra? Solo che dentro o fuori, qui o altrove forse poco è diverso.

Non è figura del tedio nostro, del sonno senza sogni il nero, infinito vuoto siderale; figura della nostra mente, dell’anima ogni squallido mar della Tranquillità o Serenità? (Tutto comincia, o finisce, quel 21 luglio del 1969, quando l’astronauta violò la superficie del satellite.

Si frantumò allora. cadde sulla terra a pioggia, oltre la poesia. ogni desiderio o Illusione di viaggio. Anche, crediamo, la fantasia, la gioia della ricerca nello spazio d’ ogni vero scienziato – “… appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione di levitazione: ci s’innalza in un’incantata sospensione” dice Calvino – non è tutto ormai sotto il dominio della fredda tecnologia?).

Impossibile oggi il viaggio. Ma mai come oggi si è viaggiato, mai tante compagnie, tanti grantours, planetours, international travels hanno mosso masse nei luoghi più “esotici” remoti del pianeta. Ma, privo d’ignoto, di scoperta, ridotto al livello dei consumi più accessibili e più rapidi, mai come oggi il viaggio ci è apparso più incosciente e insieme più innocente.

Viaggio in cui finalmente non si rischia più l’errore, I’ omissione, l’incomprensione, come al contrario si rischiava nel passato, dall’antichità e fino a ieri.

Cos’era nel passato il viaggiare? Cos’era per un uomo lasciare la propria casa, il proprio paese e mettersi sulla via, cominciare il viaggio? Era, sappiamo, il bisogno di conoscere e di conoscersi. Ma era anche interrompere una vita e viverne contemporaneamente un’altra, era un moltiplicarla; era un lasciare l’inverno e cercare la primavera, un morire e rinascere, un rigenerarsi.

La chari est triste, helas! et j’ai lu tous les livres. Fuir! là-bas fuir!…

Ma non tutti avevano letto tous les livres, non tutti hanno avuto  l’ansia radicale di Mallarmé, non tutti sono stati dei Rimbaud o dei Mattia Pascal, questi viaggiatori assoluti nella metafora della vita come viaggio? Quasi sempre i viaggiatori si son portati appresso scorie dell’altra vita, memorie, sentimenti, idee, preconcetti, certezze che fossero puntelli, difesa allo smarrimento, al panico del nuovo e dell’ignoto.

I viaggiatori, per esempio, che dal nord dell’Europa tra il Sette e I’ Ottocento venivano in Italia. E, ancor di più, quelli che venivano in Sicilia. In quest’isola remota, antica (ecco due condizioni che generano poesia, dice Leopardi), carica di miti, di storia; in questa terra del caos e della minaccia, dei terremoti, dei vulcani, delle caligini, delle aride rocce, dei gessi e degli zolfo (“E la bella Trinacria che caliga / tra Pachino e Peloro, sopra il golfo / che riceve da Euro maggior briga / non per Tifeo ma per nascere solfo”: così Dante la dipinge nel Paradiso); in questa terra della quiete, dell’abbandono, della natura più bella e generosa, della luce chiara, delle acque, dei boschi, dei giardini e delle zagare.

In questa terra dei contrasti, in quest’isola ipotecata dalla letteratura, dal mito, dalla leggenda.

Già nel Medioevo e fino al Cinquecento, al Seicento e oltre – ci informa Atanasio Mozzillo nel suo saggio – la Sicilia appariva, infuocata e folgorata di lave e di sole, come un terrestre inferno, abitata da gente più simile a diavoli che ad uomini: era (per Montesquieu, per l’Encyclopédie, ad esempio) una deserta landa, una infinita distesa di ruderi, di macerie, con città come Palermo o Siracusa distrutte dai terremoti. scomparse nell’oblio.

Realistici, attendibili altrove, messo piede in Sicilia, quasi sempre i viaggiatori si avvolgono la testa nelle spesse bende del mito, dell’affabulazione. E l’esempio più evidente dice Mozzillo, è il domenicano Leandro Alberti.

Ma anche successivamente, il padre Labat, il barone vC, l’abate Saint-Non, e tanti e tanti altri non sfuggono a questa legge. Sì che ci viene da immaginare che le lettres, le relazioni di viaggi in Sicilia più veritiere – vere nell’ordine del vagheggiamento, della fantasia – potrebbero forse apparirci quelle di famosi personaggi che il viaggio in Sicilia avrebbero voluto compiere e non compirono, o, anche se I’ hanno compiuto, di esso han lasciato nessuna o labile traccia.

O assolutamente “inventata”, com’è nel caso limite di Stendhal. dice ne “La duchesse de Palliano: . . . il mio scopo principale, viaggiando per la Sicilia, non è stato quello di osservare i fenomeni dell’Etna, né di chiarire, per me e per gli antichi altri, quel che gli antichi autori greci hanno detto della Sicilia. Ho cercato soprattutto il piacere degli occhi, che in questo singolare paese è grande. Si dice che assomigli all’Africa: ma quel che per me è certo, è che non all’Italia se non per passioni divoranti”.

Ecco con quali occhiali, o con quali deliziose bende, se si vuole, l’autore della Chartreuse avrebbe fatto il suo viaggio in Sicilia. Ma, più indietro nel tempo,

pensiamo ad un pittore come Pietere Bruegel, che nel 1552, dopo Napoli e Reggio Calabria, sembra che approdi nella bella, popolosa, ricca, per il suo porto. di traffici, di commerci. Messina.

“Et enfin il peut-ètre vu le détroit de Messine, ou il place un Combat naval dans une gravure…” scrive Marcel Fryns. Ma per noi è più suggestiva l’idea che Bruegel, a Palermo, abbia visto il famoso “Trionfo della morte di palazzo Sclafani” e che, nel suo Trionfo abbia ripreso quel cavallo e quel cavaliere scheletriti.

Topos pittorico che scivolerà poi fino a Guernica di Picasso. E pensiamo al viaggio, tra Siracusa e Messina e Palermo, sicuramente avventuroso e maudit, del Caravaggio.

A tanti altri pittori o disegnatori, pensiamo, che hanno o no lasciato appunti. Come quel Vivan Denon, versione francese del napoletano Liborio Pirro, quel segretario d’ambasciata a Napoli per il re di Francia e poi Direttore delle Belle Arti per Napoleone. che del suo viaggio in Sicilia oltre che con disegni, con un diario ci lascia traccia.

Ma penso soprattutto al viaggio desiderato ma non compiuto in Sicilia di Leopardi. Penso con rammarico a una mancata Ginestra dell’Etna, o a un tramonto della luna, o a un Infinito siciliani. Dicevamo sopra dei concetti o preconcetti, del bagaglio rassicurante che ogni viaggiatore in Sicilia si portava appresso.

Così il più grande di questa schiera di viaggiatori, il Viaggiatore: Goethe.

Quante omissioni, quante censure. quante imprecisioni gli hanno rimproverato. soprattutto nella parte siciliana, insigni lettori dell’Italienische reise. certo. il poeta di Weimar, partendo da Kralsbad il 3 settembre del 1786, cerca di spogliarsi di tutto – si spoglia anche del nome, ormai famoso, che cambia con un più anonimo Philipp Moller -, cerca di “morire e di rinascere”, ma non può fare a meno del suo bagaglio.

In cui vi sono. a fargli da metro, da certezza, in quel mare periglioso e infinito di natura e cultura che è la Sicilia, oltre ai classici, ad Omero, Diodoro, a Virgilio, a Ovidio, (gli affìora a Roma, davanti al colosseo), vi sono Winkckelmann, Spinoza, Michelangelo, Poussin. Lorrain, Ratfaello, Palladio. . .

E, come pratico baedeker, vi è il viaggio del predecessore e compatriota von Riedesel. Cos’è il viaggio di Goethe in Sicilia? E’ la conclusione necessaria per progressus alle origini, è il viaggio al termine della storia, della civiltà e del tempo; il viaggio anche al cuore della natura. La Sicilia, il prodigioso e antichissimo grembo di questa terra contiene, per chi sa trovarlo, l’Aleph: il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi, la storia che contiene tutte le storie… “La Sicilia per me è un preannuncio dell’Asia e dell’Africa, e il trovarsi in persona al centro del prodigioso cui convergono tanti raggi della storia del mondo non è cosa da poco” dirà alla vigilia della sua partenza per l’Isola.

In cui, una volta giuntovi, come in una iniziazione misterica o una discesa agli Inferi, gli saranno rivelati, fuori di sè e dentro di sè, veramente dei prodigi. Come il prodigio del tempio di Segesta o quello, rovesciato e contrario, di Villa Palagonia, o quello “naturale” del’ Etna, o, infine, il prodigio di vedersi, in Sicilia, al di là d’ogni particolare contingenza, cadere dagli occhi ogni benda, di sopportare la realtà nella misura più alta in cui erano arrivati a sopportarla i Greci.

Dirà, dopo il viaggio: “per quanto riguarda Omero, è come se mi fosse caduta una benda dagli occhi… Ora l’Odissea è davvero per me una parola viva”; e ancora: ‘L’aver aderito in stretto contatto al reale; mi ha dato un’incredibile scioltezza nell’esprimersi, per così dire, a prima vista su ogni cosa, e mi sento veramente felice che nel mio animo sia rimasta un’idea tanto chiara, completa e pura della grande, bella, impareggiabile Sicilia”. Goethe riassume e rappresenta tutti gli altri viaggiatori stranieri in Sicilia, quelli che, pur non vedendo o stravedendo tanti aspetti della realtà siciliana, hanno tuttavia, ciascuno a suo modo, dato la visibilità di quell’evidenza che per Sciascia ai Siciliani prima era invisibile.

Li rappresenta anche nel senso del “rischio” oggettivo che è ciascun viaggio, rischio di errore ed omissione, e nella consapevolezza di questo rischio. “Eppure spesso mi appare evidente come siano lacunose le mie osservazioni; e se il viaggio compiuto sembra trascorrere come un fiume davanti agli occhi del viaggiatore, e la fantasia ne serba un’immagine di continuità ininterrotta, ciò malgrado non ci si può sottrarre alla sensazione che questa immagine sia, in fondo, incomunicabile” scrive.

E conclude, sulla impossibilità per il viaggiatore di “rendere” compiutamente un luogo: “Davvero ci vorrebbe tutta una vita umana, anzi la vita di parecchi uomini, che man mano ci trasmettessero le loro conoscenze”. Ma sa, Goethe, che il viaggio, ogni viaggio, è sì nella realtà, ma è soprattutto nella “idealità”. Quello di Goethe, come d’ogni viaggiatore nell’Isola di ieri e di oggi, è la ricerca, come dice la Tuzet, d’una “idea” platonica della Sicilia.

Appunti sparsi

LO SPASIMO DI PALERMO FRA CRISI E MEMORIA


Cinzia Gallo
Università di Catania

Riassunto Lo Spasimo di Palermo è esempio di una crisi che ha ripercussioni nella forma espressiva: da una parte, emerge la consapevolezza che «sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa […] simbolo sfuggente», dall’altra il romanzo appare un «genere scaduto, corrotto, impraticabile». Il conflitto generazionale fra Chino e Mauro rientra pure in quest’ambito. Da qui derivano varie soluzioni che portano al «poema narrativo» di Consolo e testimoniano il disorientamento prevalente: accumuli paratattici, metafore, figure retoriche, figure del discorso. Le suggestioni pittoriche trovano il loro centro nello Spasimo di Sicilia di Raffaello, simbolo di una sofferenza che da Palermo arriva alla Sicilia e a tutto il mondo, mentre gli spazi hanno una grande importanza e mostrano la perdita della memoria storica, responsabile della crisi.

Consolo, crisi, memoria, storia Secondo Ugo Dotti,

Lo Spasimo di Palermo è caratterizzato dal «contrapporsi di storia a memoria, nel vano bisogno di conforto che il . 8 ricordo potrebbe dare e che suscita al contrario un cocente sentimento di patimento, di sconfitta, di spasimo» (Dotti, 2012, 315). Dunque, uno stretto nesso fra storia, crisi e memoria percorre l’intero testo, anche se esso è, innanzitutto, specchio di una crisi, sia collettiva che individuale. Consolo presenta non solo «il fallimento della generazione del dopoguerra nel creare una società più giusta e più civile» (O’Connell, 2008, 173), per cui terrorismo e mafia risultano uniti «in un clima da fine dei tempi, che nega la storia» (Donnarumma, 2011, 446), ma anche la sconfitta di Chino, padre e scrittore. Da ciò l’impossibilità di narrare, cioè di utilizzare i tradizionali mezzi espressivi. Raccontare è però necessario, come attestano le due battute del Prometeo incatenato di Eschilo poste in epigrafe: «Rivela tutto, grida il tuo racconto… / Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» (Consolo, 1998, 7). Quest’urgenza di dire si realizza subito tramite la letteratura, come nella conclusione di Nottetempo, casa per casa, in cui essa appare «ultima consolazione […] e ultima possibilità di spiegazione del “dolore” del mondo» (Luperini, 1999, 166). Lo stesso Consolo chiarisce: «[…] è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità […] della funzione sociale, politica della scrittura. Non rimane […] che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva alla dura e sorda notte, la forza della poesia» (Consolo, 1993, 58). Il gioco citazionistico è, quindi, subito in primo piano: l’iniziale «Allora tu, […] ed io» (Consolo, 1998, 9), con cui il narratore si rivolge a Chino, è stato collegato da O’Connell (2008, 181) al celebre verso di Eliot «Let us go then – you and I», con cui, peraltro, si chiude il quinto capitolo. Un’altra citazione eliotiana («In my beginning is my end» [Consolo, 1998, 9]), rimandando al consueto simbolo consoliano della chiocciola, della spirale, rileva invece l’importanza della memoria, necessaria per recuperare un’identità veicolata dai nomi («il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza» [Consolo, 1998, 9]), di cui Consolo sottolinea spesso l’importanza come segno identitario. Queste citazioni forniscono subito una prima chiave di lettura, in quanto Eliot utilizza termini spesso non uniti fra loro da legami logici, alterna espressioni auliche con altre colloquiali, mescola svariate lingue, rappresentando così la crisi esistenziale dell’uomo: similmente si comporta Consolo. Anche nel nostro testo, comunque, il narrare significa «rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo, 2012, 92), che «assolva la tua pena, il tuo smarrimento» (Consolo, 1998,10). Questi stati d’animo, già nel primo capitolo, sono rapportati da Chino, giunto a Parigi per incontrare il figlio, con la parola che «si fa suono fermo, […] simbolo sfuggente» (Consolo, 1998, 12). Egli, dunque, respinge come false la lingua accademica («Stendono prose piane i professori, […] decorano le accademiche palandre di placche luccicanti» [Consolo, 1998, 12]) e quella giornalistica («Nul n’échappe décidément, au journalisme ou voudrait-il…» [Consolo, 1998, 12]), e nega il potere evocativo del linguaggio: se dapprima, infatti, il prete oppone alla forza delle armi quella delle parole (Giacomo – Marcellesi, 2004, 73-74), quando chiede, all’inizio dei bombardamenti, «di cantare l’aria con parole senza senso» (Consolo, 1998, 14), queste, poi, non servono a disincantare una «trovatura» (Consolo, 1998, 19). Tornano in mente a Chino, invece, termini legati ad epoche passate («Il maggiore parlò in un modo che credeva ancora di quel luogo» [Consolo, 1998, 13]). Per Consolo, difatti, «la vera scrittura […] poggia sulla memoria letteraria soprattutto» (Consolo, 2006, 71 – 72). O’Connell l’ha definita «un ricco mosaico di intertestualità, le cui tessere sono fatte di testi sia antichi sia moderni», in quanto pone accanto «linguaggi e dialetti diversi e spesso stridenti tra di loro», oscillando «tra registro alto e basso» (O’Connell, 2008, 164). Nei primi due capitoli, alcuni termini dialettali o colloquiali («anciove» [Consolo, 1998,15]; «caruso», «scarparo» [Consolo, 1998, 26]; «buatta» [Consolo, 1998, 32]; «a forma di lasagne» [Consolo, 1998, 25]) coesistono, dunque, con altri più elevati, o desueti, formando uno strano impasto linguistico, espressione dello smarrimento in cui vive Chino nel tentativo di superare i fantasmi del passato. Lo stesso Consolo ha dichiarato, in un’intervista: «sono stato […] sperimentatore, senza però arrivare all’estensione linguistica e alla straordinaria polifonia gaddiana, ma operando verticalmente, nel senso di riportare in superficie, […] parole e strutture di lingue sepolte» (Ciccarelli, 2005, 96). Si inserisce in tale ambito il termine «marabutto», di origine araba e perciò legato alla storia della Sicilia, che ritornando varie volte nel nostro testo, ne suggellerà l’andamento circolare svelando il suo carattere di «metafora malinconica» (Traina, 2001, 107). Rientra in questa circolarità anche il rilievo dato alle immagini, in quanto Consolo avverte «Sempre […] l’esigenza di equilibrare la seduzione […] della parola con la visualità, con […] una concretezza visiva» (O’Connell, 2004, 241). . 10 Il primo capitolo, così, accosta, secondo una tecnica cinematografica, parti quasi autonome, corrispondenti alle vicende affiorate alla memoria di Chino. Non a caso l’albergo di Parigi in cui egli soggiorna, oltre a chiamarsi La dixième muse, mostra alle pareti foto di vari divi del cinema, e alla mente di Chino ritorna l’immagine del IUDEX, protagonista del serial cinematografico di Feuillade che adesso egli vede per intero, dopo cinquant’anni, e che sarà richiamato anche alla fine del libro. L’ultimo segmento del capitolo presenta invece il dolore di Chino quale dolore collettivo attraverso il tipico uso consoliano delle figure retoriche, confermando l’orientamento dello scrittore verso il ben noto poema narrativo: Lo strazio fu di tutti, di tutti [anadiplosi] nel tempo il silenzio fermo [allitterazione], la dura pena, il rimorso scuro [chiasmo], come d’ognuno ch’è ragione, […] d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo [metafora], vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo che dispare di cherosene [iperbato]. L’esilio è nella perdita, l’assenza, in noi l’oblio, la cieca indifferenza (Consolo, 1998, 24). Un’anastrofe («il tempo suo più avventuroso» [Consolo, 1998, 25]) conclude invece le enumerazioni con cui si esprime lo stato di abbandono di Chino dopo la morte del padre. Analogamente, le enumerazioni indicano il disordine, il caos che contraddistinguono il viaggio di Chino ed Urelia, il loro arrivo a Palermo: Il viaggio fu infinito, nel fumo, nel freddo, raffiche di vento, pioggia, spruzzi delle onde, stretti fra reduci, sbandati, intrallazzisti, donne scasate e di mestiere, ragazzi fuggitivi, frati di questua e ceffi di galera. […] Mai erano stati Urelia e Chino nella città, mai avevano udito tanto chiasso, urla richiami imbonimenti, visto tanto correre e affannarsi tra macerie, travi fili ferri lamiere tufi calcinacci, cantoni in bilico, tappezzerie e maioliche esposte all’aria, giare e bidoni su lastrici crollati, statue riverse, guglie mozzate e cupole sventrate (Consolo, 1998, 31). piccano l’aggettivo dialettale «scasate», il neologismo «intrallazzisti» tra termini più elevati, quali «questua», «fuggitivi», mentre gli aggettivi «riverse», «mozzate», «sventrate» umanizzano gli oggetti, rendendo più forte la sensazione di sofferenza. A Palermo, i «ciechi vaiolosi, storpi, appestati d’ogni sorta che dallo Spasimo si recavano ogni giorno per mangiare alla Dogana» (Consolo, 1998, 32) ricordano l’ «orda di mendichi, ciechi, storpi, nani, malformati» che, in Retablo, si presentano davanti a Clerici, «con lamenti, cantilene e preghiere strazianti» (Consolo, 1992, 51). Con queste autocitazioni, Lo Spasimo di Palermo si conferma, come la critica unanime ha riconosciuto, testo che riassume l’evoluzione artistica ed ideologica di Consolo. Dopo un’ellissi, intanto, tornati nel tempo primo della narrazione, il terzo capitolo inizia, significativamente, con la parola «orrore» (Consolo, 1998, 33): è lo stato d’animo di Chino davanti al suo volto ritratto nello specchio, segno, perciò, quasi, di un’intima dissociazione, che egli descrive, grazie alle enumerazioni, espressionisticamente. Del resto, Norma Bouchard ha riscontrato, ne Lo Spasimo, «[…] an expressionism so radical that it has baffled more than one critic» (Bouchard, 2005, 6). Il pensiero subito rivolto al padre testimonia la persistenza di una lacerante distanza, messa in risalto dall’interrogativa: «Fosse vissuto, sarebbe scaduto così anche suo padre, avrebbe avuto quella faccia, quella sagoma avvilita, si sarebbe piegata la sua testa, il suo orgoglio si sarebbe [chiasmo] con gli anni incenerito [metafora]?» (Consolo, 1998, 33). La stessa incomunicabilità impernia, adesso, il suo rapporto con il figlio Mauro: le parole appaiono infatti «una pazzia recitata, un teatro dell’inganno» (Consolo, 1998, 35) quando i due si incontrano, in un clima di precarietà evidenziato da metafore: «Chi può sapere in questo mulinello di sagome simili e cangianti, questo turbinio di figure, quest’infinito scorrer d’apparenze?» (Consolo, 1998, 34). Se, da una parte, tale incertezza si manifesta, nuovamente, a livello individuale, per cui Chino è consapevole di non essere «riuscito a placare» i suoi «assilli» (Consolo, 1998, 36), «il panico, l’arresto, […] l’impotenza, l’afasia, il disastro» della sua vita, dall’altra lo «scadimento» (Consolo, 1998, 37) è generale, rappresentato dai gusti letterari dei frequentatori della libreria che Daniela ha voluto, per tentare di diffondere romanzi e poesie fra i compagni, «ignari e sprezzanti d’ogni forma letteraria» (Consolo, 12 1998, 37). Responsabile è l’omologazione, lo smarrimento della memoria storica, il predominio delle «mode» (Consolo, 1998, 37): nella vetrina della libreria, antifrasticamente chiamata «La porta d’Ishtar», notiamo allora «la foto d’un giovanotto levigato, riccioletti e occhio vellutato [omoteleuto], ultimo autore di successo, mistico e divo della tivù, […]» (Consolo, 1998, 36). Rafforza questo svilimento della memoria culturale il menu del ristorante Les philosophes: «Cotolette Spinoza – Salade Bergson – Salade Platon – Salade Aristote – Coupe Virgile – Coupe Socrate» (Consolo, 1998, 38). Mauro, poi, che enumera i mali italiani («Sempre nel marasma, nel fascismo inveterato, nell’ingerenza del pretame, nella mafia statuale il paese beneamato?» [Consolo, 1998, 39]), sottolineando le responsabilità del fascismo con l’omoteleuto («inveterato […] beneamato») e l’allitterazione («marasma […] fascismo»), rivolge al padre delle accuse ben precise, rese più incisive dalle metafore, dall’omoteleuto (ornamento-annientamento), dall’anafora, e che coinvolgono tutti i letterati: «tu e i soavi letterati siete le epigrafi d’ornamento, la lapide incongrua e compiaciuta sul muro di quel carcere mentale, quel manicomio d’annientamento» (Consolo, 1998, 39). I riferimenti al romanzo El recurso del método di Carpentier, autore particolarmente caro a Consolo, alla vicenda di Camille Rodin ribadiscono, poi, ancora, la volontà di distacco da una realtà costituita da un «tempo feroce e allucinato» (Consolo, 1998, 42). Il capitolo IV si apre allora con un lungo periodo che accosta immagini metaforiche apparentemente distinte, in realtà accomunate da un senso di negatività, dolore, precarietà, sottolineato dalle enumerazioni miste ad anafore e assonanze: Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla [assonanza], esito fra ruderi sferzati dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’ insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri (Consolo, 1998, 45). La serie di metafore può apparentarsi al flusso di coscienza di Joyce, il cui Ulisse Consolo definisce «L’odissea dei vinti»[1] (Consolo, 1999, 111). D’altra parte, vedere il film della sua giovinezza non risolve i problemi di Chino ma gli fa capire l’importanza dell’immaginazione e della memoria[2]: «Il tempo, la memoria esalta, abbellisce ogni pochezza, ogni squallore, la realtà più vera. Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore» (Consolo, 1998, 53). La reazione di Mauro («”Ne hanno combinate i letterati!”» [Consolo, 1998, 53]) conferma che il contrasto generazionale con il padre coinvolge pure la funzione della letteratura e dei letterati, come si chiarirà nella conclusione. L’incomunicabilità fra i due sembra venir meno solo quando Chino dice al padre: «Portale [alla madre, Lucia] per me, quando sarà fiorito, il gelsomino» (Consolo, 1998, 55), mostrando così che, pure per lui, i legami con la Sicilia, di cui quel fiore è simbolo, al pari di quello che avviene ne L’olivo e l’olivastro, sono ineludibili. Per Chino, invece, ritornare in Sicilia significa ripercorrere le vicende della propria vita, che somiglia sempre più ad una fuga, per placare le proprie angosce. Milano e la Sicilia, ovvero i «due poli» entro cui si svolge la vicenda di questo e di molti testi consoliani, si precisano quali simboli «di una condizione di esilio perenne» (Lollini, 2005, 32). Da qui le tantissime «metafore dell’esilio, dell’erranza» (Lollini, 2005, 29), la ricorrenza dei termini ‘esilio-esule’, ‘fuga-fuggire, ‘partire-partenza’, ‘evadere-scappare’, insieme a quelli relativi al campo semantico del dolore. Il quinto capitolo registra questi concetti in modo particolare. Il primo segmento esprime ancora il disagio di Chino con i procedimenti già notati: brevi proposizioni cooordinate per asindeto, enumerazioni. Spicca il chiasmo «lame squame gemini binari» (Consolo, 1998, 57), in cui i due aggettivi aulici (‘squame’, antico; ‘gemini’, latinismo) sono incastonati fra i sostantivi ‘lame, binari’, del registro quotidiano. Segue un’analessi in cui vita e letteratura appaiono strettamente unite, visto che i libri hanno scandito le varie tappe dell’esistenza di Chino. Inverano, intanto, lo spazio: Chino si reca con Lucia, infatti, a visitare la tonnara e il mare descritti nelle [1] Un’allusione all’Ulysses di Joyce e «the re-inauguration of the modern nostos into twentieth-century literary culture», si troverebbe, secondo O’Connell (2012, 246), nel seguente passo: «Ascesero man mano e si dispersero per i vari cieli, entro le celle di quella Sandycove dell’introibo, teca babelica, averno del viaggio» (Consolo, 1998, 46). [2] Secondo O’Connell (Consolo narratore cit., 178), si ha qui un richiamo al saggio Angelus Novus di Benjamin, che peraltro Consolo cita in I ritorni, ed esattamente ai concetti di «rimembranza» e memoria. 14 Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino dei tonni. Quando i poliziotti perquisiscono la sua casa, come si narra anche in Un giorno come gli altri, i suoi libri sparpagliati sembrano «storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri testi della sua illusione, del suo fallimento» (Consolo, 1998, 66), dovuto, comunque, al «tempo feroce, disumano» (Consolo, 1998, 67) in cui vive. Lo testimoniano i procedimenti espressivi. Il «boemo paonazzo», in cui si riconosce Milan Kundera, definisce infatti «merde» gli intellettuali insensibili ai problemi della primavera di Praga nella discussione tra le signore che, con allusione ad Eliot, «in seriche casacche orientali andavano e venivano, […] rivolgevano domande a Saul Bellow» (Consolo, 1998, 66). Il narratore, poi, inserisce la parola antica ‘grascia’ in un’enumerazione («ingombro, grascia, fermento, trionfo di laidume, baccano d’osceno carnevale» [Consolo, 1998, 68]) per raffigurare la disastrosa situazione di Milano. Essa, la «città ignota» è poi descritta con una citazione da Excelsior di Luigi Manzotti («“D’improvviso la scena si trasforma, la Luce e la Civiltà trovansi abbracciate…”» [Consolo, 1998, 69]), menzionato pure in Sopra il vulcano, e una dai Promessi Sposi («“Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria”» [Consolo, 1998, 70]). Il segmento successivo rielabora il brano I barboni, scritto nel 1995 per il catalogo di Ottavio Sgubin, che termina con una citazione dell’Odissea, l’unica di tutto Lo Spasimo («Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi / quando odi la sorte…» [Consolo, 1998, 72]), che, non a caso, rimanda ad una condizione di sofferenza. Lo stesso Consolo ne chiarisce, ne Lo spazio in letteratura, il significato, collegando il nostro testo con L’olivo e l’olivastro. Quindi risponde alla richiesta contenuta nella citazione dell’Odissea sostenendo l’impossibilità della narrazione: «“Io sono… no, no, l’aridità, la lingua spessa, l’oblio d’ogni nesso… illuso ancora dell’ascolto, tu procedi”» (Consolo, 1998, 72), affermazione apparentemente in contrasto con il montaliano «varco» che avrebbe condotto Chino, all’inizio del capitolo, «nel passato, nel racconto, in cui […] tutto sembrava decifrabile» (Consolo, 1998, 69). In effetti, nell’analessi in cui il narratore rievoca la vita familiare inizialmente felice di Chino, di Lucia e poi devastata dalle circostanze, la letteratura è dapprima celebrata come depositaria della «verità umana» («“Là si trova” […] “negli assoluti libri, la verità umana”») ma poi, di fronte al precipitare degli eventi, ritenuta inadeguata a riprodurre correttamente la realtà («Ogni parola ora, povera, incapace, riduce quell’incanto, […]» [Consolo, 1998, 73]). Consolo, allora, da un canto adotta una tecnica cinematografica, mostrando i vari eventi (le intimidazioni, la conversazione con il commissario, la vendita della casa) come fotogrammi, dall’altro ritorna alla ‘narrazione poematica’ propria de L’olivo e l’olivastro[3], a confermare la corrispondenza tra i due testi. Così è facile riconoscere degli endecasillabi quando il narratore riferisce la decisione di Chino di lasciare Palermo per andare sulle tracce dell’originaria ed autentica identità siciliana. E il viaggio, vero e proprio topos per Consolo, avviene, significativamente, durante la Pasqua, momento di resurrezione: «S’era fatta smunta, pallida, inquieta /, […] Chino decise di rompere l’assedio, / d’evadere, fuggire dalla casa, / […] Andò con l’infelice per le strade, / […]. Andò in un aprile, nel tempo della Pasqua [due settenari]» (Consolo, 1998, 76-77). Una serie di immagini, combinate con un’anafora e un endecasillabo finale, presenta la Sicilia quale metafora del mondo: «Era là il centro dello spazio, la visione sconfinata, là il cuore della terra, / del mito più oscuro e luminoso» (Consolo, 1998, 77). Il nome di Borges, del resto, rimanda non solo ai «sogni», agli «incubi», agli «specchi», ai «labirinti» (Consolo, 1998, 80), temi presenti nel nostro testo, ma al suo prevalente carattere metaforico. La vicenda di Lucia, con il suo «precipitare nel gorgo medicale, nell’ignoranza, nel dominio, nel cinico interesse di luminari, case di cura, […] rete di sciacalli» (Consolo, 1998, 78) e quella di Chino testimoniano i danni causati dalla perdita della memoria storica: Palermo è, difatti, ormai, una città «stravolta, squallida nell’uniforme volto, nell’anonima sua morsa, nel cieco manto sopra ogni verde luce, nella grigia muraglia avanti a vecchi squarci, immobili macerie, […]» (Consolo, 1998, 79). All’insegna della metafora si svolge, allora, il capitolo settimo. «un re che narra e che governa, elude la metafora, annulla la contraddizione della prosa» (Consolo, 1998, 83) è, intanto, il personaggio principale del racconto letto dal glottologo protagonista de La perquisizione, dietro cui la critica ha scorto Un giorno come gli altri. La metafora si precisa, dunque, quale una necessità, legata a una narrazione in crisi, che tratta di periodi in crisi: appaiono così chiari i rapporti di Consolo con il postmodernismo. Da [3] Esso è l’«apice» di una vera e propria «sperimentazione “poetica”» (Francese, 2015, 70) . 16 una parte vi sembrerebbero rimandare il citazionismo, il plurilinguismo, il tema del complotto; dall’altra, però, Consolo se ne mantiene distante, proprio per l’importanza attribuita alla memoria e alla storia, come Norma Bouchard ha puntualizzato: «it is important to point out that even though Consolo’s novels exhibit many of the rhetorical devices that we have come to associate with postmodern writing practices, they also remain fundamentally distinct from dominant, majoritarian forms of postmodernism» (Bouchard, 2005, 10-11). Una «metafora perenne» giudica poi Chino il romanzo di Manzoni, modello per Consolo di romanzo storico, in quanto allude «alle pesti in ogni tempo di Milano» (Consolo, 1998, 85). Il «lazzaretto più appestato» sembra a Chino «una piazzetta» in cui, avvolti in un’omologazione che cancella ogni identità, «Stavano ragazzi barcollanti o immobili, il busto avanti, piegati sui ginocchi. Sembravano bloccati in quelle pose, pietrificati […]» (Consolo, 1998, 85). Modellato sull’Addio ai monti di Manzoni è, inoltre, l’Addio che Consolo rivolge a Milano, «Città perduta» (Consolo, 1998, 91) non meno della Milano di Berlusconi e della Lega Nord, condannata attraverso la consueta tecnica dell’accumulo: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, […] scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità (Consolo, 1998, 91). Così, quando Mauro chiede al padre se stia scrivendo, egli risponde negativamente. E se il suo comportamento è differente da quello di altri scrittori (Calvino, Moravia, Sciascia, indicati con delle metafore – «il castoro ligure, il romano indifferente, l’amaro tuo amico siciliano»), ciò accade perché essi hanno «la forza […] della ragione, […] la geometria civile dei francesi» (Consolo, 1998, 88): non vivono cioè una condizione di disorientamento. Costituiscono dunque, queste parole, opinioni dello stesso Consolo (Chino Martinez sarebbe cioè un alter ego dello scrittore), che, proseguendo il suo discorso, una sorta di dichiarazione di poetica, confessa: «mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…» (Consolo, 1998, 88). La letteratura, però, deve essere, soprattutto, espressione di una società, tant’è che Mauro, in carcere, chiede al padre di portargli I demoni di Dostoevskij, L’affaire Moro di Sciascia, Scritti corsari di Pasolini, Une saison en enfer, Illuminations di Rimbaud. Chino, allora, abbina alla letteratura, che perciò rappresenterebbe un’ancora di salvezza come nella conclusione di Nottetempo (si rifugia nella biblioteca, per esempio), il valore della memoria, delle radici, individuali e collettive. Sul treno per Napoli, infatti, ascoltando parlare dei ragazzi, individua facilmente, e con piacere, «le città e i paesi da cui quei ragazzi provenivano. […] Leggeva in quel concerto la storia d’ogni luogo, i segni […] superstiti delle migrazioni, dei remoti insediamenti» (Consolo, 1998, 95). Egli, pertanto, considera negativamente, al punto da definirla «trucida» (Consolo, 1998, 94), la nuova lingua annunciata da Pasolini, in quanto segno di un’omologazione negatrice della storia. Di questa sono testimonianza i luoghi, lo spazio, che Consolo ritiene, sempre, molto importanti. In prossimità di Palermo Chino scorge, difatti, «il piano di Sant’Erasmo, la foce melmosa dell’Oreto, […] la Porta dei Greci, […] gli antichi palazzi dietro nobiliari, le cupole e i campanili delle chiese, il Càssaro Morto e la Porta Felice, Santa Maria della Catena, la conca stagna affollata d’alberi di lussuose barche della Cala» ma anche «le palazzate nuove del sacco mafioso» (Consolo, 1998, 98). Attraverso lo spazio, cioè, è possibile leggere i cambiamenti della società. Se i luoghi, allora, come la letteratura, manifestano la memoria storica, Chino sente di dover «ricominciare» dai libri, oltre che «dalla chiara geografia» (Consolo, 1998, 102). Si presentano, questi, strettamente uniti, interdipendenti nelle pagine finali dello Spasimo, che, perciò, chiarisce e conclude l’esperienza letteraria di Consolo, rappresentando «al contempo la mediazione verso» quella che Consolo considera una vera e propria «impasse e la risposta ad essa» (O’Connell, 2008, 174). Così, dopo aver raccolto notizie sul musicista D’Astorga, da cui prende nome la strada in cui abita, ed aver scoperto il quartiere intorno, aver collegato il castello della Favara ad alcuni versi del poeta arabo Ab dar-Rahmân, Chino decide di «indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes», su quella di Antonio Veneziano[4] e di scrivere «della [4] Ne L’olivo e l’olivastro (1994, 105), Consolo afferma che, ad Algeri, Cervantes scrive dei versi per Antonio Veneziano. 18 pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione» (Consolo, 1998, 105). Infatti, Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo (Consolo, 1998, 105). Consolo ripropone, in tal modo, le riserve nei confronti del romanzo manifestate in altri testi (Fuga dall’ Etna, Nottetempo, L’olivo e l’olivastro). Un «libro raro» (Consolo, 1998, 106), in spagnolo, trovato in biblioteca, conferma le sue convinzioni. Vi legge di ogni regione d’Italia e del mondo, apprende i vari significati, positivi, del termine ‘marabutto’. È consapevole, anche per questo, di come i tragici eventi che avevano portato alla morte del padre avessero costituito una stortura. Poi, dopo aver vagato per le strade di Palermo ed aver visto, nella «casba di Seralcadio» (Consolo, 1998, 108), un’altra faccia della città, come avvenuto a Milano, si ferma nella chiesa di Santa Maruzza, luogo carico di ricordi, personali e letterari, opposto al drammatico presente. Difatti, «Dentro era l’accesso, racconta il Natoli, alle caverne, alle camere segrete dei processi e delle sentenze dei giustizieri» (Consolo, 1998, 108). Ma al tribunale dei Beati Paoli si lega il vero Palazzo di Giustizia, a cui Chino giunge seguendo un «corteo, fantasmatico» (Consolo, 1998, 109). Il suo pensiero va, allora, al lavoro dei magistrati contro i gruppi mafiosi e, in particolare, al «figlio della sua dirimpettaia» (Consolo, 1998, 109), cioè il giudice Borsellino. L’incontro fra i due avviene nel segno dei libri e conferma come Chino sia alter ego di Consolo «Ho letto i suoi libri… difficili, dicono» (Consolo, 1998, 115), dice il giudice che, dopo aver citato un passo de Le pietre di Pantalica («Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino…» [Consolo, 2012, 132]), commenta: «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio» (Consolo, 1998, 115). Egli legittima, in tal modo, la funzione civile della letteratura, legata anche ad altre arti. Chino trova, infatti, nella «memoria d’un anonimo spagnolo», delle notizie sulla tela che Raffaello dipinge per la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, e che intitola «sgomento della Vergine e Spasimo del Mondo» (Consolo, 1998, 112). Giustamente, dunque, la Sicilia è metafora del mondo: la sua crisi, la sua degenerazione sono generali, così come «questo Spasimo, da Palermo» (Consolo, 1998, 112) coinvolge la Sicilia e il mondo tutto. E i luoghi, come la letteratura testimonia, lo confermano: Lesse di Santa Maria dello Spasimo abbandonata dai frati per il nuovo baluardo di difesa che a ridosso il viceré don Ferrante Gonzaga fece costruire. Della magnifica chiesa che divenne poi nel tempo teatro, lazzaretto nella peste, granaio, magazzino, albergo di poveri, sifilicomio, cronicario, luogo di dolore, solitudine, abbandono (Consolo, 1998, 113). Una metafora indica il perdurare di questa condizione, ormai generalizzata, al presente: lo scirocco è un «sudario molle» (Consolo, 1998, 113). Le immagini mettono poi, in parallelo, la peste e il colera, che nel passato hanno oppresso Palermo, con la mafia. Al «paranzello o brigantino» che arrivava a Palermo «con l’infetto» (Consolo, 1998, 113) corrisponde «il corpo sfatto, quasi scheletrico» (Consolo, 1998, 116) rinvenuto dentro il pilastro del portico del palazzo dove abita Chino, il quale ricorda i vv. 10-12 del quarto canto dell’Inferno quale metafora dell’incapacità di trovare una soluzione a questa situazione: «Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa» (Consolo, 1998, 118). L’ultimo capitolo si svolge dunque la domenica successiva al Festino di Santa Rosalia, per sottolineare come pure la Santa che aveva salvato Palermo dalla peste, nel 1624, sia adesso impotente. La conformazione della città, con «il fitto ammasso dei palazzi, il cantiere dietro il muro, la corta via d’Astorga [allitterazione]», mostra la perdita di ogni memoria storica, «sepolta sotto il cemento» (Consolo, 1998, 123). Le enumerazioni, mettendo insieme termini di origine araba (‘càssaro’, ‘kalsa’), spagnola (‘criadi’), neologismi (‘villena’), rappresentano questa condizione di disordine, che la metafora conclusiva suggella: «Congiura, contagio e peste in ogni tempo» (Consolo, 1998, 123). 9, 2020. 20 Alla memoria storica, invece, ci riporta il fioraio che in «questa città infernale» (Consolo, 1998, 126), in cui ogni ragionevolezza sembra essere venuta meno, si chiama, non a caso (il riferimento è ad Erasmo da Rotterdam e al suo Elogio della follia), Erasmo, e che, dopo aver donato a Chino dei gelsomini, gli rivolge delle parole, apparentemente oscure, inquietanti, ma che legano il suo passato al suo presente: «Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi / chi ti manciunu lu pani. / Ddiu ti scanza di marabutta» (Consolo, 1998, 124). Ciò è evidente nella lettera che Chino scrive al figlio, in cui troviamo insieme i cinque romanzi che Massimo Onofri ha individuato fra le pagine de Lo Spasimo: «un romanzo sul rapporto Italia – Sicilia; un romanzo sul rapporto padre e figlio (il padre di Gioacchino / Chino e Chino); un secondo romanzo padre – figlio (Chino e Mauro); […] un romanzo d’amore (Chino e Lucia); e […] un romanzo di “oblio e dimenticanza”» (Onofri, 2004, 183). Si precisano qui, quando Chino allude all’omicidio del giudice Falcone, le corrispondenze con il passo de Le pietre di Pantalica citato da Borsellino: «Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada per l’aeroporto! – E’ una furia bestiale, uno sterminio»[5] (Consolo, 1998, 128). Ne Le pietre di Pantalica aveva detto: «Questa città è un macello, le strade sono carnazzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. […] La guerra contro la civiltà, la cultura, la decenza» (Consolo, 2012, 132 – 134). E, ne L’olivo e l’olivastro, si indica in modo chiarissimo come responsabile di questa situazione, non limitata a Palermo ma diffusa in tutta Italia, sia la perdita della memoria storica: «Via, via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti. / Ma è Palermo o è Milano, Bologna, Brescia, Roma, Napoli, Firenze?» (Consolo, 1994, 125). Ne Lo Spasimo, questa situazione di crisi comporta una divaricazione tra letteratura e società. Chino ne matura la consapevolezza: Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della legge. E per me anche letterario. Voglio dire: oltre che in Inghilterra, nella [5] Da sottolineare come i quattro verbi (sparano-straziano-carbonizzano-spiaccicano) abbiano la stessa finale. Francia dello Stato e del Diritto è fiorita la figura del giustiziere che giudica e sentenzia fuori dalle leggi. Balzac, Dumas, Sue ne sono i padri, con filiazioni vaste, fino al Bernède e al Feuillade di Judex e al Natoli nostro, […]. In questo Paese invece, in quest’accozzaglia di famiglie, questo materno confessionale d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, […], dove tutti ci impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, da rimuovere. O da uccidere (Consolo, 1998, 129-130). Il letterato, dunque, l’intellettuale vive in una condizione di esilio, non è adeguatamente apprezzato, tant’è che quando Chino tenta di fermare Borsellino mentre suona al citofono, il giudice si gira ma non lo riconosce. Nell’attentato viene colpito Erasmo che, morendo, recita due versi de La storia di la Baronissa di Carini, ad attestare come, anche se al presente la letteratura non è ascoltata, è da questa, voce della tradizione, della memoria storica, che deve venire la salvezza:

O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi!



(Consolo, 1998, 131). 9, 2020. 22 Bibliografia Bouchard, Norma (2005). Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy. Italica, 82, (1), 5 – 23. Ciccarelli Andrea (a cura di) (2005). Intervista a Vincenzo Consolo. Italica, 82, (1), 92 – 97. Consolo, Vincenzo (1988). Le pietre di Pantalica. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1992). Retablo. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1993). Fuga dall’Etna. Roma: Donzelli. Consolo, Vincenzo (1994). L’olivo e l’olivastro. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1998). Lo Spasimo di Palermo. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (1999). Di qua dal faro. Milano: Mondadori. Consolo, Vincenzo (2006). «Ma la luna, la luna…». In Pintor Romera I. (a cura di). Lunaria. Vent’anni dopo. València: Generalitat Valenciana, Conselleria de Cultura, Educació i Esport. Consolo, Vincenzo (2012). La mia isola è Las Vegas. Milano: Mondadori. Donnarumma, Raffaele (2011). Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella letteratura italiana (1969 – 2010). In Aa. Vv., Per Romano Luperini. Palermo: Palumbo. Dotti, Ugo (2012). Il senso della storia nell’opera di Vincenzo Consolo. In Ugo Dotti, Gli scrittori e la storia. La narrativa dell’Italia unita e le trasformazioni del romanzo (da Verga a oggi). Torino: Nino Aragno editore. Francese, Joseph (2015). Vincenzo Consolo: gli anni de «l’Unità» (1992 – 2012), ovvero la poetica della colpa – espiazione. Firenze: Firenze University Press. Lollini, Massimo (2005). Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo. Italica, 82, (1), 24 – 43. Luperini, Romano (1999). Controtempo. Napoli: Liguori. Marcellesi – Giacomo, Mathée (2004). Vincenzo Consolo: l’alchimie du logos. Croniques italiennes. 2-3, 197 – 214. Onofri, Massimo (2004). Il sospetto della realtà: Saggi e paesaggi italiani novecenteschi, Cava de’ Tirreni: Avagliano. O’Connell, Daragh (2004). Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo. The Italianist. 24: II, 238 – 253. DOI: 10.1179 / ita.2004.24.2.238 O’Connell, Daragh (2008). Consolo narratore e scrittore palincestuoso. Quaderns d’Italià, (13), 161 – 184. O’Connell, Daragh (2012). «Tizzone d’Inferno»: Sciascia on Joyce. Totomodo, 237 – 248. Traina, Giuseppe (2001). Vincenzo Consolo. Fiesole: Cadmo.


Summary
Lo Spasimo di Palermo is example of a crisis that has repercussions on the expressive form: on the one hand, the consciousness that «sul ciglio dell’abisso la parola si raggela, si fa […] simbolo sfuggente» comes out, on the other hand novel seems a «genere scaduto, corrotto, impraticabile». The generational conflict between Chino and Mauro is included in this sphere too. Hence it follows many solutions that lead to Consolo’s «poema narrativo» and testify the prevailing disorientation: paratactic accumulation, metaphors, literary quotations, figures of speech. Pictorial suggestions find its centre in Raphael’s Lo Spasimo di Sicilia, symbol of a pain that from Palermo arrives to Sicily and all world, while the spaces have a great importance and show the loss of historical memory, responsible for crisis. Key words: Consolo, crisis, memory, history