Vincenzo Consolo lettore di Pirandello

CINZIA GALLO

L’attenzione e l’interesse di Consolo per Pirandello sono costanti, come dimostrano i numerosi riferimenti, espliciti od impliciti, allo scrittore agrigentino che Consolo dissemina in gran parte dei suoi lavori. La figura di Pirandello sembra intanto esemplificare la profonda influenza esercitata dai luoghi sugli individui. Infatti, se «si può cadere su questo mondo per caso, […] non si nasce in un luogo impunemente. […] senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» (Consolo 2012: 135)2. In Uomini e paesi dello zolfo, allora, Consolo asserisce: «E, come Pirandello, ogni siciliano credo possa dire “son figlio del Caos”. È il caos prima della formazione del cosmo, la materia informe, la “mescolanza di cose frammiste” di cui parla Empedocle (anch’egli nato nel “caos” d’Agrigento)» (Consolo 1999: 9). Ovviamente Consolo si riferisce alla grandissima varietà della terra siciliana3, dal punto di vista fisico, che gli eventi storici, però, riproducono: Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni, qua e là, diversi, distinti dagli altri e in conflitto: 1 Cinzia Gallo, Università di Catania. 2 Consolo ricorda, anche, quanto Pirandello asserisce su se stesso: «Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni…» (Consolo 2012: 135). 3 Sottolinea Consolo: «[…] la Sicilia, […] quest’isola in mezzo al Mediterraneo è quanto fisicamente di più vario possa in sé raccogliere una piccola terra. Un vasto campionario di terreni, argille, lave, tufi, rocce, gessi, minerali… E quindi varietà di colture, boschi, giardini, uliveti, vigne, seminativi, pascoli, sabbie, distese desertiche. In questa terra sembra che la natura abbia subìto come un arresto nella sua evoluzione, si sia come cristallizzata nel passaggio dal caos primordiale all’amalgama, all’uniformazione, alla serena ricomposizione, alla benigna quiete. Sì, crediamo che tutta la Sicilia sia rimasta per sempre quel caos fisico come quella campagna di Girgenti in cui vide la luce Pirandello da qui, forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo difficile d’essere uomo di quell’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il suo sforzo continuo della ricerca d’identità. Ma questi problemi ci porterebbero lontano, nel magma esistenziale o nel procelloso mare pirandelliano, ed è meglio quindi che rimaniamo ancorati alla terra (Consolo 1999: 10). Dunque, proprio perché Pirandello è «Uomo di zolfo» (Consolo 1999: 26), vissuto a stretto contatto con lo zolfo, ne tratta compiutamente nelle sue opere, che assumono carattere di denunzia. Consolo sottolinea così come nella novella Il fumo appaia chiaramente la «distruzione della campagna da parte della zolfara» (Consolo 1999: 18), mentre in Ciàula scopre la luna «la condizione del caruso […] viene fuori in tutta la sua straziante pena; e […] nei vecchi e i giovani […] il tema dello zolfo serpeggia, prima sommessamente, […] fino ad esplodere nel finale con la rivolta degli zolfatari e con l’eccidio dell’ingegner Aurelio Costa e della sua amante […]» (Consolo 1999: 27). Questi temi, attestanti la funzione civile della letteratura, sempre presente in Consolo, si articolano però in una filosofia «che non è sistema chiuso e definitivo, ma progressione verso […] la poesia» (Consolo 1999: 26). Sembrerebbe, questa, una giustificazione, una spiegazione della narrazione poematica a cui Consolo approda, a partire da L’olivo e l’olivastro, anche se già ne Il sorriso dell’ignoto marinaio se ne notano delle avvisaglie. Pirandello, «un certo Pirandello novelliere e romanziere» rappresenterebbe, inoltre, la letteratura della Sicilia occidentale, «zona fortemente implicata con la storia, […] marcata da temi di ordine relativo – la storia, la cultura, la civiltà, la pace o la guerra sociale», mentre Verga simboleggerebbe la letteratura della Sicilia orientale, «contrassegnata […] da temi di ordine assoluto: la vita, la morte, il mito, il fato […]» (Consolo 2012: 134)4. È stato perciò Pirandello – sottolinea Consolo – a dare ai personaggi siciliani «l’arma della dialettica, del sofisma» (Consolo 1999: 121), in sostituzione della violenza, delle passioni istintive che guidavano i contadini di Verga5. Lo spazio ristretto del villaggio di Trezza, allora, «si restringe ancora di più, si riduce alla stanza borghese, in quella che Giovanni Macchia chiama “la stanza della tortura”, dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento, in quella stanza, è solo verbale» (Consolo 1999: 269). 4 Consolo aveva espresso queste idee già nel 1986, in Sirene siciliane, considerando, però, questa «Divisione ideale, immaginaria, […]. E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia o lo storicismo d’Occidente» (Consolo 1999: 178-179). 5 Queste idee sono confermate nel 1999, ne Lo spazio in letteratura. Pirandello avrebbe rotto «il cerchio linguistico verghiano», portandolo «su una infinita linearità attraverso il processo verbale, la perorazione, la dialettica, i dissoi lógoi: […] squarcia la scena con la lama dell’umorismo, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma» (Consolo 1999: 269). Non stupisce, dunque, che i due autori, Pirandello e Verga, siano posti uno di fronte all’altro ne L’olivo e l’olivastro. E non è certamente un caso che sia Pirandello, in questo testo, a rendersi conto dell’isolamento, dell’estraneità, nel suo stesso ambiente, retrivo, di Verga, estraneità che un sapiente uso dell’aggettivazione, delle figure retoriche (anafore, metafore, enumerazioni) sottolinea, costituendo, appunto, un esempio di scrittura poematica: Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna ricorrenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio osceno, poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io. Pensò che la Demente, la sua Antonietta, la suor Agata della Capinera, la povera madre, il fratello suicida di San Secondo, ogni pura fragile creatura che s’allontana, che sparisce, non è che un barlume persistente, segno di un’estrema sanità nella malattia generale, nella follia del presente (Consolo 1994: 67). «Follia del presente» (Consolo 1994: 67) è sicuramente anche quella descritta da Consolo in gran parte dei suoi lavori: pensiamo alla realtà distorta, stravolta, frantumata propria di tutti i testi consoliani, da Il sorriso dell’ignoto marinaio a Lo Spasimo di Palermo. Giustamente, quindi, Consolo è, sostiene Anna Frabetti, un «autore di linea pirandelliana […] in cui il sublime precipita in umoristico, il dramma borghese […] degenera nella “vastasata”, nella farsa del mondo rovesciato, privo di centro» (1995: 1). Una «Vastasata» (Consolo 1985: 10), del resto, è presente in Lunaria, in cui il Vicerè recita «la sua parte di sovrano» (Consolo 1985: 26), definisce «finzione la vita» (Consolo 1985: 66), si mostra consapevole, ricorrendo ad interrogative retoriche ed enumerazioni, della vanità, del carattere relativo del reale: «Dov’è Abacena, Apollonia, Agatirno, Entella, Ibla, Selinunte? Dov’è Ninive, Tebe, Babilonia, Menfi, Persepoli, Palmira? Tutto è maceria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti» (Consolo 1985: 61); e Tutti commentano, con sapiente uso delle figure retoriche: «Così è stato e così [anafora] sempre sarà [poliptoto]: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà [enumerazione], cadono astri, si sfaldano, si spengono [climax], uguale sorte hanno mitologie credenze religioni. Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione [chiasmo], stiamo saldi, pazienza, in altri teatri, su nuove illusioni nascono certezze» (Consolo 1985: 34). E la Sesta donna: «Tutto si frantuma, / cade, passa [climax]» (Consolo 1985: 54). Su questa scia, nella prima sezione di Retablo, Isidoro scorge, nella chiesa di S. Lorenzo, una statua, che reca sul piedistallo la parola«VERITAS» (Consolo 1992: 19), dalle fattezze simili a quelle di Rosalia, ad attestare il carattere apparente, relativo del reale. Lo stesso significato ha, nella terza sezione, l’espressione «Bella, la verità» (Consolo 1992: 149)6 ripetuta da Rosalia che, del resto, sottolinea esplicitamente il contrasto fra apparenza e realtà: «Bagascia, sì, all’apparenza, ma per il bene nostro, tuo e mio»; «Fu per questo che scappai, ch’accettai questa parte dell’amante, questa figura della mantenuta» (Consolo 1992: 149, 155). Se pirandelliana è la costrizione dell’individuo in una forma, Pirandello offre pure le coordinate con cui spiegare l’aspirazione ad essere diversi da quello che si è e con cui si ritiene che ciò sia possibile modificando l’aspetto esteriore, la propria forma, a svuotare di consistenza ruoli e funzioni. Ecco che Consolo, ne Le vele apparivano a Mozia, ricorda come l’«autista-inserviente-guardiano» del pittore Guttuso7, «dal bel nome greco dalla Spagna poi donato alla Sicilia d’Isidoro8 […] come nella novella di Pirandello Sua Maestà, in un desiderio di mimesi, di immedesimazione, si vestiva alla stessa maniera del padrone: giacca e pantaloni blu, camicia azzurra, pullover rosso, fazzoletto rosso che trabocca dal taschino» (Consolo 2012: 124). Anche l’importanza data ai nomi si pone, del resto, sulla scia di Pirandello, che – è noto – istituisce uno stretto «rapporto» fra «nome – identità dei personaggi» (De Villi2013: 278), «per affinità o per antifrasi» (De Villi 2013: 277). Analogamente Consolo esclama: «il destino dei nomi!» (Consolo 2012: 128)9. E la parola, il nome è spesso segno di predestinazione o di destino. Dei nomi dati agli uomini, voglio dire, e dei destini degli uomini: il destino dei nomi. Ma non sappiamo se è l’uomo sul nascere, già segnato da un destino, che si versa e assesta dentro il suo giusto e appropriato involucro di nome (e cognome) oppure se sono il nome e il cognome che, capitati per caso sulla pelle di un uomo come maglietta e brache, ne incidono le carni, ne determinano cioè il destino (Consolo 2012: 66). Definisce, così, le poesie della poetessa Assunta Della Musa, «fra le più ispirate, le più eccitate, le più squisite e belle tra le poesie d’amore scritte in tutti i tempi e in tutti i luoghi. […] Può una donna di nome Assunta Della Musa, coniugata ad Apollo Barilà, non scrivere poesie, essere della poesia, essere la poesia? Essere Erato, la poesia erotica?» (Consolo 2012: 69). Perciò, non a caso, con chiara allusione al leopardiano Dialogo di Plotino e Porfirio, in cui quest’ultimo è 6 Cfr., su questo argomento, Galvagno 2015: 39-64. 7 È, questi, l’unico pittore a cui Consolo attribuisce, ne L’enorme realtà, «il dono della capacità del racconto, della rappresentazione […] che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia» (Consolo 1999: 271). 8 Con caratteristiche simili, a confermare l’importanza dei nomi, in Lunaria si chiama Isidoro il maestro di cerimonie del Vicerè, attento alle apparenze, «intransigente custode di […] inderogabili forme palatine» (16). 9 In Lunaria, gli abitanti della «selvaggia Contrada senza nome» sono «uomini senza legge, senza lingua, senza storia, anime boschive, […]» (61).
consapevole della «vanità di ogni cosa» (Leopardi 1978: 530), si chiama Porfirio il valletto di Casimiro, il vicerè di Lunaria, che non prende mai la parola, ma è consapevole della «recitazione» (Consolo 1985: 10) del suo signore. Lucia, poi, si chiama – per antifrasi in rapporto all’etimologia del nome –, la sorella di Petro Marano, affetta da disturbi mentali. E il quinto capitolo di Nottetempo, casa per casa, che la mostra, alla fine, pazza, reca, in epigrafe, una battuta di Come tu mi vuoi: «Chiami, chi sa da qual momento lontano… felice…/ della tua vita, a cui sei rimasta sospesa… là…» (Consolo 1992: 59). Erasmo, ancora, con probabile riferimento ad Erasmo da Rotterdam e al suo Elogio della follia – oltre che, a confermare la rilevanza attribuita dal nostro scrittore allo spazio – al piano di sant’Erasmo, nei dintorni di Palermo, si chiama il «vecchietto lindo, bizzarro» (Consolo 1998: 103) de Lo Spasimo di Palermo, a cui è affidato il compito di mettere in evidenza, alla fine del romanzo, l’importanza della letteratura. Costui, infatti, coinvolto nell’attentato al giudice Borsellino, recita, in punto di morte, due versi de La storia di la Baronissa di Carini, ad attestare come, anche se al presente la letteratura non è ascoltata, è da questa, voce della tradizione, della memoria storica, che deve venire la salvezza: O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi! (Consolo 1998: 131) E, ancora, Consolo dichiara: «La salvezza è stata solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione» (Consolo 1999: 272). Petro Marano, perciò, si aggrappa «alla parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete», desideroso di «rinominare, ricreare il mondo» (Consolo 1992: 42-43). Egli, poi, alla fine si rifugia a Tunisi, così come anche Lando Laurentano avrebbe voluto imbarcarsi per Malta o per Tunisi (Pirandello 1953: 394). Consolo, quindi, mette in relazione, attraverso la figura di Antonio Crisafi de La pallottola in testa, il disagio, l’estraneità dell’intellettuale nella moderna società, sia quella del «Meridione depresso» (Consolo 2012: 157) sia quella legata all’avvento dei mass media, della televisione, all’isolamento del professor Lamis de L’eresia catara di Pirandello. Ed anche in Un giorno come gli altri, discutendo della funzione dell’intellettuale, Consolo si richiama a Pirandello. A proposito, infatti, della differenza, instaurata da Moravia e Vittorini, fra artista e intellettuale, egli asserisce: A me la distinzione sembra vecchia, mi ricorda l’affermazione di Pirandello: “La vita, o la si scrive o la si vive”. Ché l’alternativa, oltre a valere per tutti, non solo per l’artista, dopo Marx non ha più senso. Oggi siamo tutti intellettuali, siamo tutti politici, […]. Il problema mi sembra che stia nel voler essere o no dentro le “regole”, nel voler essere o no, totalmente, incondizionatamente, dentro un partito, dentro la logica “politica” di un partito. Questo mi sembra il punto, il punto di Vittorini (Consolo 2012: 91-92). Arriva, quindi, alla sua celebre distinzione fra scrivere e narrare: Riprendo a lavorare a un articolo per un rotocalco sul poeta Lucio Piccolo. Mi accorgo che l’articolo mi è diventato racconto, che più che parlare di Piccolo […] in termini razionali, critici, parlo di me, della mia adolescenza in Sicilia, di mio nonno, del mio paese: mi sono lasciato prendere la mano dall’onda piacevole del ricordo, della memoria. […] È […] il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, […]. Diverso è lo scrivere, […] operazione […] impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta (Consolo 2012: 92)10. Pirandello simboleggia la Sicilia, insieme a Verga, Meli, Capuana, secondo il mafioso catanese, sottoposto al 41 bis nel carcere di Opera – Milano, dopo aver «fatto un bel po’ di strada negli affari, appalti, commerci vari» (Consolo 2012: 216): Consolo ironizza sulla politica separatista, portata avanti dal Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile e, di conseguenza, sulla politica della Lega Nord, sottolineando ancora una volta l’importanza della memoria storica. Si pone, ancora, accanto a Pirandello, dichiarando che Il sorriso dell’ignoto marinaio «era d’impianto storico» ma «voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva, a Milano e altrove» (Consolo 2012: 119): «(si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…)» (Consolo 2012: 119)11, accomunati tutti, «da Verga a De Roberto, a Pirandello», da «un costante immobilismo» (Consolo 1999: 169)12, pur nella diversità delle posizioni ideologiche. In particolare, se la rinuncia a rappresentare la rivolta parrebbe accomunare Il sorriso dell’ignoto marinaio a I vecchi e i giovani, le motivazioni dei due scrittori sono differenti. Consolo, consapevole «dei limiti di classe degli intellettuali», nutre «sfiducia nella possibilità, da parte della letteratura, di rendere la visione e il sentire delle classi subalterne senza stravolgimenti mistificatori»; Pirandello, invece, è mosso da un profondo «pessimismo» che lo induce «a svalutare anche gli eventi più tragici ed epocali come frutto di vane illusioni e follie destinate ad essere cancellate dal 10 Nel 1997, richiamandosi alle tesi espresse da Walter Benjamin in Angelus novus, Consolo preciserà: «E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità». (Consolo 1999: 144). Per quest’argomento, cfr. Francese 2015. L’influsso di Benjamin su Consolo è stato evidenziato anche da Daragh O’Connell (2008: 161-184), che ricorda la traduzione in italiano de Il narratore di Benjamin effettuata, per Einaudi, da Renato Solmi nel 1962 (162, nota 2). 11 Pure ne Il sorriso, vent’anni dopo, Consolo asserisce che il suo romanzo è nato da una «rilettura della letteratura che investe il Risorgimento, soprattutto siciliana, ch’era sempre critica, antirisorgimentale, che partiva da Verga e, per De Roberto e Pirandello, arrivava allo Sciascia de Il Quarantotto, fino al Lampedusa de Il Gattopardo» (Consolo 1999: 279). 12 Consolo ricorda come i critici di orientamento lukácsiano avessero posto Il Gattopardo accanto a I Vicerè di De Roberto e a I vecchi e i giovani di Pirandello (Consolo 1999: 173). tempo, […]» (Baldi 2014: 254). In entrambi i romanzi, però, il Risorgimento si risolve in una «disillusione del vecchio sogno della terra» (Consolo 2012: 109)13 e nei pensieri di Lando Laurentano si scorge un’eco di quei contrasti di classe che Consolo pone in primo piano14: «Da una parte il costume feudale, l’uso di trattar come bestie i contadini, e l’avarizia e l’usura; dall’altra l’odio inveterato e feroce contro i signori e la sconfidenza assoluta nella giustizia, si paravano come ostacoli insormontabili a ogni tentativo per quella cooperazione» (Pirandello 1953: 392)15. E precedentemente, ascoltando il discorso di Cataldo Sclàfani, considera: «Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, come quelle accordate da lui nei suoi possedimenti, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri […]» (Pirandello 1953: 288). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, del resto, anche la figura di Garibaldi, su cui si concentrano le aspettative dei ‘giovani’ (Roberto Auriti, Mauro Mortara, Corrado Selmi, Rosario Trigona), consente di stabilire delle corrispondenze con Pirandello. Consolo, difatti, sottolinea il favore ottenuto da Garibaldi («[…] vanno dicendo che [Garibaldi] gli dà giustizia e terre.»), ritenuto però, al tempo stesso, un «Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re […] Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge avanzi di galera…» (Consolo 2004: 66). E ribadisce le sue riserve su Garibaldi anche in altri testi. Parlando, nel 1982, della rivolta di Bronte, dell’agosto 1860, Consolo, oltre ad evidenziare la «crudeltà», la «sommarietà di giustizia» (Consolo 2012: 108) di Bixio, afferma riguardo Garibaldi: In questa annata di celebrazione garibaldinesca in chiave post-moderna, in cui tutti gli stili, le citazioni, i repêchages si fanno stile, in cui le pagine chiare e oscure, le glorie e le vergogne, le vittime e gli scheletri, più che nascosti nell’armadio, esibiti si fanno levigato stile eroico, gloriosa epopea da consumo, soffermarsi 13 Scrive Pirandello: «Sì, aveva esposto la verità dei fatti quel deputato siciliano: quei contadini di Sicilia, […] s’erano recati a zappare le terre demaniali usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune: intimoriti dall’intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; […]» (Pirandello 1953: 238). 14 Pensiamo a quest’episodio, che trova corrispondenza nella terza scritta al nono capitolo: «“Ah ah, puzzo di merda, papà, ah ah” sentirono ancora alle spalle che faceva Salvatorino, grasso come ‘na femmina, babbalèo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio, unico erede, presciutto tesoro calasìa, al padre professore Ignazio e al nonno sindaco, il notaio Bàrtolo. / Tanticchia girò la testa sopra il tronco e lo guatò sbieco. / “Garrusello e figlio di garruso alletterato!” disse, e poi sputò per terra, bianco e sodo, tondo come un’onza» (Consolo 2004: 95-96). 15 Lo stesso Consolo ricorda le «Insurrezioni che spesso non sono solo contro i borbonici, ma di contadini e braccianti contro i loro nemici di sempre, i nobili e i borghesi che quasi dappertutto avevano usurpato terre demaniali» (Consolo 2012: 107). 178 su un episodio come quello di Bronte, estrapolarlo dal contesto post-moderno, appunto, può farci apparire fuori moda, arretrati, forse striduli (Consolo 2012: 107) Ma che Consolo consideri in modo non del tutto positivo Garibaldi e il suo influsso è dimostrato, ancora, dai giudizi formulati nell’articolo Il più bel monumento: Questo ironico (speriamo) e autoironico personaggio, nella sua campagna d’Italia, non fece che imitare, nel dire, nel fare e nel posare, il monumento di sé ch’era già idealmente eretto, in uno spassoso scambio tra l’immagine e il reale, in gara di esaltazione e in doppio accrescimento senza fine. Tutti rimasero vittime del giuoco, e ogni città e villa non poté che innalzargli il monumento. […] Ed era questo che Garibaldi in fondo desiderava: volare, volare in un teatrino d’invenzione per dimenticare le colpe e sopire i rimorsi che dentro gli rodevano (Consolo 2012: 70-71). Analogamente, nella novella pirandelliana L’altro figlio, Garibaldi è colui che «fece ribellare a ogni legge degli uomini e di Dio campagne e città» (Pirandello 1955: 242). E Maragrazia prosegue, servendosi di enumerazioni, metafore, esclamazioni, paragoni, puntini di sospensione, per coinvolgere emotivamente il lettore e rendere il suo racconto più persuasivo: […] vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena… Tra gli altri, ce n’era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi, capo-brigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come se fossero mosche, per provare la polvere, – diceva – per vedere se la carabina era parata bene. […] Ah, che vidi! […] Giocavano… là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò. […] cane assassino! (Pirandello 1955: 242-244). Pirandello è per Consolo, ancora, il termine di paragone attraverso cui giudicare i testi della contemporaneità, a metterne in evidenza la vitalità, il carattere paradigmatico. Asserisce così: «La storia di Creatura di sabbia [di Tahar Ben Jelloun] è una delle più felici invenzioni letterarie del romanzo contemporaneo, uguale forse, per la metafora, per la verità profonda che riesce a liberare, a quella de Il fu Mattia Pascal di Pirandello» (Consolo 1999: 232-233). Analogamente, pure vari aspetti della produzione di Sciascia sono spiegati in rapporto a Pirandello. Nella prefazione a Le epigrafi di Leonardo Sciascia di Pino Di Silvestro, Consolo considera quale «più grande epigrafe di tutta l’opera di Sciascia, non scritta ma vistosamente implicita, […] la stanza della tortura pirandelliana declinata sul piano della storia, sul palcoscenico della violenza, della sconfitta» (Consolo 1999: 202). Tre anni più tardi, nel 1999, Consolo, evidenziando la funzione civile sottesa all’opera di Sciascia, gli attribuisce il merito di avere spostato «la dialettica pirandelliana dalla stanza alla piazza, nella civile agorà» (Consolo 1999: 269). Sciascia, allora, in questa sua «conversazione loica e laica sui fatti sociali e politici» si rivela «figlio di Pirandello» (Consolo 1999: 186), al punto tale che il personaggio narrante di Todo modo è «nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani – al punto [dice] che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuto fin oltre la giovinezza, non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti» (Consolo 1999: 187-188). Quest’interesse, questa consonanza di idee con Pirandello, porta Consolo a riunire in Di qua dal faro, con il titolo di Asterischi su Pirandello, alcuni saggi dedicati allo scrittore agrigentino, pubblicati fra il 1986 e il 1997. In Album Pirandello Consolo ribadisce la funzione modellizzante che lo spazio ha esercitato su tutta la famiglia dello scrittore agrigentino: «quell’albero genealogico […] dispiega i suoi rami contro un cielo di luce crudele, affonda le sue radici in quell’asperrimo terreno che è la Sicilia, in quel caos di marne e di zolfi che è Girgenti» (Consolo 1999: 150). E così anche l’eclissi di sole a cui assistette «graverà sul mondo dello scrittore» (Consolo 1999: 150) e si combinerà con «quella […] della città in cui si trovò a vivere, di Girgenti. Una città dove è morta la storia, la civiltà, lasciando il vuoto, il deserto, […] la stasi, l’immobilità» (Consolo 1999: 150-151). Ricordiamo, difatti, che Consolo, ne L’olivo e l’olivastro e ne Lo Spasimo di Palermo, per esempio, individua, nella perdita della memoria storica, la causa della crisi del presente. Scrive così: «si può mai narrare senza la memoria?»; «Non è vero, io non so scrivere di Milano, non ho memoria» (Consolo 2012: 88, 97). Unica soluzione, allora, l’evasione, come quelle di Mattia Pascal o di Enrico IV, oppure rivestire delle forme, difenderle con le armi della dialettica, del sofisma, della retorica. L’operazione di Pirandello sembra perciò trovare dei riscontri nell’età contemporanea, in cui «l’io s’è perso nell’indistinta massa, la vita nelle prigioni sempre più disumane delle forme imposte dal potere, l’essere nell’apparire fantasmatico dei media» (Consolo 1999: 152). E non dimentichiamo che pure Consolo considera negativamente l’omologazione. Gioacchino Martinez, per esempio, sul treno che lo conduce a Palermo, prova piacere «a risentire quei suoni, quelle cadenze meridionali, quelle parlate che non erano più dialetto, ma non ancora la trucida nuova lingua nazionale» (Consolo 1998: 94-95) annunciata da Pasolini. Il viaggiatore de L’olivo e l’olivastro, poi, giudica «vacui» i giovani che, «con l’orecchino al lobo, i lunghi capelli legati sulla nuca» (Consolo 1994: 112), affollano la piazza di Avola. Altri legami fra Pirandello e Consolo ne L’ulivo e la giara. Gli stucchi di Giacomo Serpotta, che lo scrittore agrigentino ebbe modo, molto probabilmente, di osservare nella chiesa di Santo Spirito, con il loro carattere «mortuario […] fantasmatico» che «ha colto il pittore Fabrizio Clerici nella sua Confessione palermitana» (Consolo 1999: 156), hanno influenzato pure Consolo, il quale, in Retablo, chiama Fabrizio Clerici il protagonista e descrive le sculture in stucco dell’oratorio di via Immacolatella di Procopio Serpotta, figlio di Giacomo. «La bianca, spettrale fantasmagoria serpottiana» (Consolo 1999: 156), inoltre, richiama la «servetta Fantasia» attraverso cui i vari personaggi delle opere letterarie si materializzano, così come Macchia per Pirandello e Carandente per Serpotta parlano del «cannocchiale rovesciato» (Consolo 1999: 157). Analogamente, la superiorità di Cefalù su Palermo, sostenuta da Consolo varie volte16, è colta anche da Pirandello. Consolo immagina che questi, in viaggio da Palermo a Sant’Agata, in preda alla profonda suggestione «che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…», si accorge che, «dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi [per] a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena» (Consolo 1999: 157-158). Pirandello, a confermare l’importanza dei luoghi, ebbe sicuramente presente, secondo Consolo, «il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Dèmone» (Consolo 1999: 161) nello scrivere La giara, «la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano» (Consolo 1999: 160). La novella, perciò, giudicata di recente una «divertita denuncia dell’intrinseca capziosità sia delle vicende che delle soluzioni giuridiche, calata in pieghe di umoristica densità» (Zappulla Muscarà 2007: 143), acquista nuovo significato nell’interpretazione di Consolo. La giara è per lui, infatti, a richiamare la sua tipica figura chiave della chiocciola, della spirale, sia «l’involucro della nascita, l’utero» sia «la tomba», mentre «quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene sì dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza» (Consolo 1999: 161-162), a ricordare la commistione delle due culture, araba e greca, della Sicilia. Consolo può allora vedere nel pino di Pirandello, tranciato, un simbolo degli «scadimenti, delle perdite, reali e simboliche, nel nostro Paese» (Consolo 1999: 163), a confermare la «visione del mondo, della vita come caos, mutamento incessante di forme, […] approdo all’assenza, al nulla» (Consolo 1999: 165). Anche in ciò Consolo si trova in consonanza con Sciascia17, che commenta, alla fine di Fuoco dell’anima: «Questa è la classe dirigente – per meglio dire digerente – che preferisce fare il pino di plastica piuttosto che salvare quello vero. Ed è così per tante, tante altre cose…» (Consolo 1999: 164). Con tutto questo, Consolo mostra l’importanza della ricezione dei testi letterari, avvicinandosi al lector in fabula descritto da Eco (1979). 16 Mi sia consentito, per questo, un rimando a Gallo 2017: 287-296. 17 Gianni Turchetta sottolinea, a proposito del termine ‘impostura’ de Il sorriso dell’ignoto marinaio, i legami di Consolo con Sciascia (2015: 1304-1305). Ne Lo Spasimo di Palermo, inoltre, Gioacchino Martinez legge, ne La corda pazza, la vita di Antonio Veneziano (115) e il narratore ricorda il «rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese» (93-94). Vincenzo Consolo lettore di Pirandello 181

Bibliografia
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Retablo e altra narrativa di Vincenzo Consolo: lingua e significato nei nomi paralleli di scritture parallele


Enzo Caffarelli
Di Vincenzo Consolo sono stati più volte e da più voci messi in luce i percorsi paralleli della scrittura. Solo per citarne alcuni: – il racconto che si affianca all’immagine, all’illustrazione; l’opera consoliana è costantemente caratterizzata da riferimenti alle arti figurative. Se, in Retablo, al centro della vicenda è posto il dipinto, a scomparti e a scene, che intitola l’opera, nel Sorriso dell’ignoto marinaio un ritratto di Antonello da Messina fa da filo conduttore del romanzo; Raffaello figura con il suo Spasimo di Sicilia (Andata al Calvario) appunto nello Spasimo di Palermo; nell’Olivo e l’olivastro, Caravaggio approda a Siracusa per dipingere il Seppellimento di Santa Lucia. Un saggio di Consolo reca il titolo di un quadro di Renato Guttuso, Fuga dall’Etna;1 ancora in Retablo, si pensi all’inventario del museo del Soldano Lodovico, alla descrizione dei resti di Selinunte e alla menzione di pittori contemporanei. Peraltro le citazioni pittoriche sono spiegate dallo stesso Consolo,

memore delle riflessioni di Cesare Segre,2 con 1 Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli 1993. «Il riferimento all’opera guttusiana testimonia di un’amicizia e di una consonanza ideale che si traduce in altre citazioni presenti nei romanzi, fino a giungere ad una più ampia riflessione critica nel saggio L’immensa realtà, compreso nella silloge Di qua dal faro» (Dario Stazzone, «Quel pittore celebrato della Bagarìa». Guttuso nell’opera di Vincenzo Consolo, «Oblio», IV (2014), 14-15, pp. 79-90, p. 81). 2 Cfr. Cesare Segre, La pelle di San Bartolomeo, Torino, Einaudi 2003, dedicato al nesso tra lettura e pittura e ai rapporti di transcodificazione, studio conosciuto e meditato da Consolo, come la ricerca di un equilibrio tra temporalità e spazialità, come affermato in un’intervista concessa a Giuseppe Traina:

Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il ‘retablo’ appartiene alla pittura ma è anche ‘teatro’, come nell’intermezzo di Cervantes;3 – la poesia che, anziché rappresentare uno sviluppo autonomo e nettamente distinto dalla prosa nella produzione dello scrittore – come in altri Siciliani contemporanei (Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri, ecc.) – s’infiltra nella prosa stessa, scandendo un ritmo particolarissimo per opere come Retablo e, prima, La ferita dell’aprile (ma anche Nottetempo casa per casa e altro). Si tratta di un ritmo intessuto su frequentissimi endecasillabi (e inoltre settenari e dodecasillabi): ne ho contati 62 soltanto nelle 7 pagine dell’introduttivo «Oratorio», spesso a coppie, talvolta più numerosi, fino a 5 consecutivi.4 In un passo della «Peregrinazione» sono 6 i consecutivi;5 nelle 6 righe tipografiche iniziali del cap. ‘In Egesta degli Elìmi’ risultano 8, e 6 nella descrizione della statua della Veritas (p. 23), nella quale Isidoro
riconosce la sua Rosalia (e che si conclude con un verso di sapore dantesco: «urlai, e caddi a terra tramortito»); sono 9 nella presentazione del retablo delle meraviglie da parte dello «scoltor d’effimeri Crisèmalo» e del «poeta vernacolo Chinigò». Ne sono ricchi soprattutto gli incipit (cfr. anche Lunaria e Nottetempo casa per casa). Ma, insieme alla lirica ‘alta’, Consolo mira alla rievocazione di echi strofici popolari; egli stesso ribadiva il suo amore per le narrazioni ritmiche, i cantastorie, i racconti orali che, a forza di ripetersi, perdono tutto ciò che non è essenziale; – la miscela di storia reale e di finzione, anche nei nomi propri. In Retablo non solo il protagonista e io narrante della centrale Peregrinazione, Fabrizio Clerici, corrisponde a un personaggio reale (1913-1993), ma il pittore Clerici e l’amico Consolo compirono effettivamente un viaggio in Sicilia e visi-

dimostra la sua comunicazione Antonello e altri pittori, letta presso l’Accademia Carrara di Bergamo il 4 febbraio 2004 (cito da Stazzone, «Quel pittore…, cit., p. 79). 3 Cfr. Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze), Ed. Cadmo 2001, p. 130. 4 «Dio che/ non mi scansò dalle nasse o rizzelle/ che un bel dì si misero a calarmi/ una coppia di donne, madre e figlia/ ch’io d’un subito, fraticello mondo,/ credei di casa, oneste e timorate» (p. 18). Per la numerazione delle pagine seguo la 1ª ediz. «Il castello», Palermo, Sellerio 1990. 5 «È una terra nordica, luntana,/ ’na piana chiusa da montagne altissime/ d’eterni ghiacci e d’intricati boschi,/ rotta da lunghi fiumi e laghi vasti,/ terra priva di mare, cielo, sole,/ stelle, lune, coi verni interminabili», 49

-tarono alcuni luoghi poi rappresentati nel racconto, per es. Mozia sull’isola di San Pantaleo.6 Clerici era un grande estimatore di Giacomo Serpotta, più volte citato in Retablo come lo scultore (e decoratore) palermitano che usa come modella la Rosalia di Isidoro. Si pensi poi ai soprannomi dei pittori, elencati da Isidoro, quando si complimenta con don Fabrizio per un suo disegno appena abbozzato: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo 1di Gangi, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa»7 (pp. 62-63). E al barone Enrico Pirajno di Mandralisca, nel Sorriso dell’ignoto marinaio, al marinaio Giovanni Interdonato, al capopopolo Filippo Siciliano e altri personaggi di Ratumemi (dalle Pietre di Pantalica), ecc.; – l’amore religioso e l’amore carnale, come emergono da Retablo e in particolare dalla santa e dalle donne che portano il nome Rosalia… ma anche nella vita e figura della santa, «doppia nella grotta che si vuole sia stata il suo eremo, tra Monte Pellegrino e la Quisquina, doppia anche nel regno delle immagini, se è vero che alla fanciulla siciliana van Dyck impresse i lineamenti di una florida giovinotta fiamminga, bionda e dall’incarnato roseo, che si sarebbe presto imposta sull’altra figura, emaciata come si conviene a una eremita».8 In fondo, la Rosalia che ha indotto in tentazione il fraticello Isidoro è, paradossalmente, anche l’immagine della santa – nella statua del Serpotta – cui il poveretto si rivolge nelle sue preghiere; – la scelta di un linguaggio che combina elementi non solo lontani dall’italiano standard o dagli standard regionali, ma si muove sul piano lessicale, fonetico, morfologico e sintattico su piani paralleli, con il recupero colto di latinismi e grecismi, di arabismi e con il ricorso al dialetto nelle sue sfumature, una lingua ‘verticale’, in contrasto con quella orizzontale, «rigida e anche fragile perché invasa da un super-potere economico che non è il nostro».9 Ha scritto Cesare Segre, a proposito del Sorriso dell’ignoto marinaio, del tentativo di «far esplodere il linguaggio medio, spingendolo contemporaneamente verso i livelli più alti e quelli più bassi dello spazio linguistico»;10


6 Cfr. Paolo Mauri, Fabrizio delle meraviglie, «la Repubblica.it», 8/10/1987; in rete: http://ricerca. repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/10/08/fabrizio-delle-meraviglie.html. 7 I pittori sono facilmente identificabili: il Monrealese è Pietro Novelli, secentista caro anche a Federico De Roberto, che lo cita nei suoi romanzi; lo Zoppo di Gangi è pseudonimo dietro cui si celano due pittori manieristi; il Monocolo di racalmuto o Monocolus Recalmutensis è Pietro D’Asero; il non nominato è tale perché si tratta di un contemporaneo del Clerici reale e di Consolo, Renato Guttuso. 8 Sergio Troisi, Van Dyck a Palermo e la Santuzza girò il mondo, «la Repubblica.it», 9/07/2015. 9 C fr. le interviste di Italialibri: Intervista con Vincenzo Consolo, gennaio-febbraio-marzo 2001, in rete: www.italialibri.net/interviste/consolo/consolo31.html. 10 Cesare Segre, La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, in Intreccio di voci, Torino, Einaudi 1991, pp. 71-86.

– la scelta di nomi che hanno spesso una doppia motivazione, come nel caso della famiglia di Pietro Marano in Nottetempo casa per casa: Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi […] e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura meridionalista.11 Un altro esempio è posto in bocca a un personaggio, il Madralisca del Sorriso, che chiosa il cognome di «un celebre ministro di Polizia alla corte del sovrano Ferdinando, vicarioto di nome, nonché di fatto, creduto che in vicarìa o bagno dimori malavita», con riferimento al sic. vicarioto ‘galeotto’12 e, aggiungo, etnico arcaico del paese di Vìcari alle porte di Palermo.13 – la doppia lingua, ossia il mondo reinventato attraverso la ridenominazione di ogni cosa, nei Linguaggi del bosco, grazie alla ‘selvatica’ amica Amalia: «Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che in quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e
personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava»;14 – addirittura si può parlare di un parallelismo tra scrittura e lettura, autore e lettore: «Io penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza. […] Io penso a uno che sia veramente il mio doppio, che abbia la mia stessa storia, la mia stessa cultura, le mie stesse letture, che faccia parte di una stessa sfera culturale».15 In Retablo, in particolare, si muovono in parallelo: le vicende del nobile milanese Fabrizio Clerici e del fraticello palermitano Isidoro, nato Cicco Paolo Cricchiò, che viaggiano per la Sicilia insieme, per lenire le proprie delusioni amorose con un bagno di storia, rovine, cultura; le storie d’amore del Cricchiò e di Vito Sammataro, accomunati dal nome della donna amata, Rosalia; 11

C fr. Le interviste di Italialibri: Intervista con Vincenzo Consolo, cit. 12 Leonardo Terrusi, L’onomastica nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, «il Nome nel testo», XIV (2012), pp. 55-63, p. 62. 13 Cfr. Teresa Cappello – Carlo Tagliavini, Dizionario degli etnici e dei toponimi italiani, Bologna, Pàtron 1981, s.v. 14 Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano, Oscar Mondadori 1990 (1ª ed. 1988), p. 155. 15
C fr. le interviste di Italialibri: Intervista con Vincenzo Consolo, cit.


la scrittura del diario del Clerici – il diario dedicato da Fabrizio all’amata doña Teresa – sul retro dei fogli dove suor Amata di Gesù, al secolo Rosalia Granata, narra la vicenda del corrotto frate Giacinto e di Vito Sammataro; il parallelo tra seduzione amorosa e seduzione artistica della scrittura, evidenziato da Tatiana Basanti16 e ben esemplificato da Rosalia, oggetto di culto e donna amata su cui convergono i percorsi di desiderio dei vari personaggi i Retablo; la duplice lettura del romanzo come intreccio di fughe e come ideale guida ai loca memorabilia della Sicilia occidentale, proposta da Nicolò Messina;17 lo stesso titolo, di cui disse l’A.: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum): il senso, per me, dietro e oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana»,18 può essere interpretato come allusione all’organizzazione strutturale del libro, diviso in tre parti come tavole di un polittico; e come riferimento all’affabulazione letteraria e al tratto illusorio dell’arte, attraverso l’evocazione cervantina, ossia all’Intermezzo el Retablo de las maravillas che compare in una delle pagine più barocche dell’autore del Quijote.19 Viene spontaneo chiedersi se questa dualità, questa presenza di parallelismi, si estenda ai nomi propri. Partiamo dal protagonista della vicenda cui Consolo attribuisce il nome e il cognome, e qualche altro aspetto del comportamento e del personaggio reale, del suo amico pittore milanese Fabrizio Clerici. E qui attenzione. Lo stesso meccanismo onomastico (attinzione di una catena onimica appartenente al Clerici reale) era già stato utilizzato da Alberto Savinio in Ascolto il tuo cuore, città (1944), storia di un vagabondare per Milano dei due artisti.20 16

Cfr. Tatiana Basanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo, «Cahiers d’études italiennes», V (2006), pp. 57-68. 17 Cfr. Nicolò Messina, Breve viaggio testuale a ritroso: i retablos di Vincenzo Consolo, «Cuadernos de Filología Italiana», IV (1997), pp. 217-249, p. 223. 18 C it. in Salvo Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale (Catania)/Roma, Bonanno 2008, p. 207. 19 Pubblicato nel volume Ocho comedias y ocho entremeses nunca representados del 1615. Cfr. Stazzone, «Quel pittore…, cit., p. 80. 20 P er tacere del fatto che alcuni individuano nello stesso artista il protagonista di Todo modo di Leonardo Sciascia. Cfr. Traina, Nomi, misteri, pittori. Il punto su Todo Modo, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, a c. di P. Nifosi, Racalmuto (Agrigento), Fondazione Sciascia – Salarchi Immagini 1999, ora in Traina, Una problematica modernità. Verità pubbliche e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia, Acireale (Catania)/Roma, Bonanno 2009.

Ora, Savinio è anagraficamente un De Chirico, cognome barese di Terlizzi, in particolare, e balza all’attenzione l’omonimia, Clerici/(De) Chirico, che peraltro Savinio aveva già sottolineato nel 1942 scrivendo all’amico: «Tu come Clerici e io come Chirico […] siamo oltre a tutto anche parenti […] e assieme risaliamo al comune klericós e kleros, cioè a dire a quel che tocca in sorte», come riporta Paolo Mauri.21 Consolo riprende, dunque, il nome di casato Clerici prima di tutto, disse, perché aveva bisogno di un nome di antica e sicura tradizione lombarda22 e, inoltre, perché vedeva in Fabrizio «un ideale lombardo del Settecento, di quel gruppo che rappresenta il volto migliore di Milano, della sua cultura e civiltà».23 Assegna, poi, al fraticello che gli farà da guida, il nome Cicco (Francesco) Paolo e il cognome Cricchiò.
Cricchio (senza accento) è un nome di famiglia siciliano, accentrato nel Palermitano,
con presenze sparse nell’isola, che può avere varie etimologie e tra queste, rimettendoci al dizionario di Girolamo Caracausi,24 prevale il significato di clericus.25 Cricchiò nella realtà odierna sembra non esistere, ma è una variante grecizzante, presumibilmente attestata in passato e perfettamente parallela a Chiricò – catanzarese, e con un gruppo a Trabia, nel Palermitano –, al salentino Chiriacò e al catanzarese Clericò, appartenenti alla medesima famiglia onomastica. Dunque, non solo Chirico e Clerici, ma anche Clerici e Cricchiò hanno il medesimo cognome; e non la voce dell’italiano Chirico, sopravvissuta nella variante chierico e nel suffissato chierichetto, ma da un lato la forma latineggiante che ha conservato il nesso -cl-, dall’altra una voce dialettale, a siglare il contrasto di status, almeno iniziale, tra i due personaggi e a ratificare il distanziamento bidirezionale dalla lingua standard. Quanto agli altri cognomi, in Retablo, si vedano quelli delle due Rosalie: Guarnaccia, la donna amata dal fraticello Isidoro, e Granata, quella di cui s’era infatuato frate Giacinto di Salemi, protagonista di una sorta di novella boccaccesca, dove la donna fugge dopo la decapitazione del religioso che 21

Cfr. Mauri, Fabrizio delle meraviglie, cit. 22 Tra i primi 100 per frequenza in Lombardia e tra i primi 16 nel Comasco, cui si richiama nel finale di Retablo, quando incontra alcuni corregionali presso il rettorato della Nazione Lombarda di Palermo. Cfr. Enzo Caffarelli – Carla Marcato, I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico, Torino, Utet 2008, 2 voll., s.v. 3 Cfr. Mauri, Fabrizio delle meraviglie, cit. 24 Cfr. Girolamo Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani 1993, 2 voll. 25 Mentre, secondo una diversa ipotesi, rifletterebbe il siciliano crìcchiu ‘cima di un monte’; soltanto s.v. Lo Cricchio, cognome altrettanto di Palermo e dintorni, Caracausi ammette una terza possibilità, e cioè da cricchio ‘capriccio’, seguendo qui Gerhard Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi della Sicilia orientale, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani 1984, area dove peraltro il cognome pare attestato solo isolatamente.

l’aveva più volte posseduta. Ora, Guarnaccia può interpretarsi come ‘vestito
di donna povera’,26 altro cognome trasparente e corrispondente al personaggio,
mentre Granata può derivare, sì da un nome di persona, da Granada toponimo o da granata nelle accezioni di ‘scopa’, ‘mela granata’, ecc., ma anche ‘pietra preziosa di colore rosso vinato’.27 E in tal caso ci troveremmo di fronte a un’ulteriore dicotomia – povertà e ricchezza – che corre in parallelo tra le pagine di Retablo. Mentre il cognome di Cristina Insàlico, madre di Rosalia Guarnaccia, variante del più diffuso Insàlaco, dall’arabo sallāq, ‘conciapelli, cuoiaio’, non comunica nulla sui genitori della fanciulla, diverso può essere il caso di Affronti, ossia don Gennariello, già cantante (voce bianca) e ora maestro di canto di Rosalia, che vive, mantenuta da un vecchio marchese, in regime di castità; Affronti è cognome raro e palermitano dalla voce siciliana affruntu ‘disonore, vergogna’:28 forse un’allusione alla castrazione giovanile della voce bianca? Lo stesso vale per don Vito Sammataro, che per amore dell’altra Rosalia, la Granata, aveva ucciso ed era divenuto brigante. Sammataro è cognome raro dell’area tra Palermo e Messina e corrisponde al siciliano zambataru, ‘mandriano, addetto alla custodia e alla cura delle vacche di una cascina, e alla raccolta e lavorazione del latte’, calabrese sambataru, ‘capo di una mandria’;29 nel nostro caso lo si più leggere come un nome parlante, se per mandria intendiamo anche ‘banda di briganti’, piuttosto sbandati, come quella guidata da don Vito. Quanto ai nomi personali dei protagonisti, Fabrizio in letteratura sa di nobiltà e cultura forse per il ricordo di don Fabrizio Corbera, principe di Salina, del Gattopardo, forse perché, come notato da Paolo Mauri,30 il Clerici pare il sosia di Fabrizio del Dongo, nobiluomo milanese (anche la figura stendhaliana è protagonista di viaggi e fughe, e si noti che, nel coniare un cognome di fantasia, Stendhal dovette ispirarsi al toponimo Dongo, comune del Comasco, e Clerici è cognome tipicamente comasco).31 Il nome personale con cui il Cricchiò è citato nel racconto è, però, quello assunto una volta indossato il saio, e cioè Isidoro, ‘dono della dea Iside’. Esso induce a correre il rischio di una superinterpretazione: si presenta etimologicamente come profano e pagano, avendo Iside quale eponimo, ma anche come nome della cristianità, grazie ai tanti santi, Isidoro di Siviglia in

26 Cfr. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, cit., s.v.
27 Cfr. Caffarelli – Marcato, I cognomi d’Italia…, cit., s.v.
28 Cfr. Dizionario onomastico della Sicilia, cit., s.v.
29 Ivi, s.v. 30 Cfr. Mauri, Fabrizio delle meraviglie, cit.
31 I l Fabrizio personaggio vanta dei parenti dalle parti di Stazzona – citato in Retablo come luogo di partenza di alcuni emigrati in Sicilia (p. 104).


primo luogo, che lo hanno portato. Del nome anagrafico abbiamo notizia
in due soli casi, se ho ben letto: nell’ultimo elemento del trittico, «Veritas»,
così richiamato dall’amata Rosalia, e quando Isidoro e Fabrizio si presentano
al curatolo Nino Alàimo senza borse né abiti, perché aggrediti e spogliati d’ogni cosa dai briganti. Come a dire che il nome di nascita emerge esclusivamente nei momenti di ‘nuda verità’. Se consideriamo il nome anagrafico del monachello-guida, il doppio Francesco Paolo, si tratta, al contrario di Fabrizio, di un nome popolare, nella sua doppia accezione: da un lato, di ‘popolano’ – appartenente al popolo e al culto vivissimo in Sicilia per il calabrese San Francesco di Paola –, e dall’altro lato di ‘diffuso’, perché nell’antroponimia isolana spicca con le sue elevate frequenze.32 Popolano, dicevo, tanto più che nel racconto è soltanto Cicco Paolo, cioè un ipocoristico (il primo elemento) che è, sì, fungibile per l’uso vezzeggiativo indipendente dal nome base, ma in Sicilia non difficilmente ricollegabile a Francesco.33 Si noti peraltro la doppiezza di Francesco Paolo, caso davvero raro di toponimo (Paola) adattato ad antroponimo con cambiamento di genere e con naturalezza, perché l’esistenza del latino Paulus copre la trasparenza del processo transonimico (e che peraltro cela a sua volta l’etimologia del toponimo, non un deantroponimico, in quanto deriva dal sostantivo plurale pabula ‘pascoli’ o da terra pabula come aggettivo singolare). Basterebbe comunque l’incipit dell’«Oratorio» di Retablo per convincersi che il nome proprio è parte integrante delle attenzioni ‘espressionistiche’ di Consolo. Si potrebbe scrivere un ampio saggio esclusivamente su questo incipit e sul nome Rosalia, che ha qualche precedente, ad es. l’elaborazione
petrarchesca di Laura e quello della Lolita di Nabokov (1955). Ne riporto (con qualche omissis) alcune righe. A parlare è l’ex frate Isodoro: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato, la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa […]. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine,

32 Rappresenta, unico caso nelle diverse regioni d’Italia, il nome composto più diffuso nel XX secolo, e attualmente 18º in assoluto nella città di Palermo con circa 3600 portatori (dati forniti dalle Anagrafi Comunali). 33 Ritroviamo un altro ipocoristico di Francesco in Chino Martinez, protagonista dello Spasimo
di Palermo.


rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare,
vacua notte senza lune, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?» (p. 17). Ebbene, anche qui abbiamo quasi due lasse poetiche che corrono in parallelo, contrapposte ma complementari. La dualità nasce, prima di tutto, dalla segmentazione errata del nome, frutto di una reinterpretazione popolare, di una paretimologica interpretazione del nome francese antico Roscelin o Rocelin – a sua volta dal germanico Ruozelin/Rozelin nell’adattamento all’italiano (insieme a Rusulina), col significativo complessivo di ‘cavallo glorioso’ – come composto di Rosa e di Lia, o comunque derivato-variante di Rosa,34 il che non è (lo conferma, ove necessario, il corrispondente maschile che ha invece conservato compattamente, in Sicilia almeno, anche la nasale finale, Rosalino o Rosolino, forse anche qui per rietimologizzazione, ossia per l’interpretazione di -ino come suffisso).35 Tale processo di rietimologizzazione, a partire dall’etimo normanno, sarà stata nota a Consolo? ritengo di sì, anche se lo scrittore ha affermato di aver «scelto il nome Rosalia per S. Rosalia, ma anche per la scomposizione rosa e lia».36 Conta comunque notare come Rosa e Lia diano vita a una serie di allitterazioni in parallelo, dove Rosa gioca un ruolo positivo per l’innamorato e Lia un ruolo negativo; anche in alcune battute i ruoli s’invertono e alla fine si ricompone il nome intero nel segno del proprio sangue e dell’inimicizia. In questa scomposizione del nome palermitano di donna per eccellenza, anche nome della sua generazione,37 lo scrittore compie un’operazione di acrobazia espressionistica, ma non spregiudicata, perché legittimata dalla secolare rifondazione popolare del significante, benché non dall’etimo. La scrittrice e saggista caltagironese Maria Attanasio ne dà una convincente interpretazione quando afferma che Consolo scava «nelle sonorità del nome Rosalia, trovando in esso occultati tutti i sensi e i segni della passione. Ognuna delle due parti del nome genera infatti una appassionata proliferazione di figure d’amore, se ‘Rosa’ è l’immaginifica sorgente di tutti [i] fiori, i colori,

34 Precisa Emidio De Felice in proposito che Rusulina per influsso di Lia «si è trasformato in Rusulia e quindi, per un accostamento dovuto a etimologia popolare a Rosa e rosa, nella forma italianizzata Rosalia attuale» (Dizionario dei nomi italiani, Milano, Oscar Mondadori 1986). 35 Rosalino La Rosa è un personaggio di una novella di Pirandello, Le medaglie (1923). 36 C fr. M. De Martino, Intervista a Vincenzo Consolo, nella dissertazione L’opera di Vincenzo Consolo (presentata alla University of Alberta), 1992, pp. 35-49, p. 48. 37 Rosalia, patrona del capoluogo siciliano, era al rango 2 nel 2014, dopo Maria, tra le siciliane oggi viventi residenti in Palermo, e al r. 2 nell’analisi sincronica dei nati anno per anno per quasi tutto il secolo; attorno agli anni 40 la forma assurse addirittura al rango 1, con una frequenza pari al 10% del totale delle nuove nate (elaborati su dati forniti dall’Anagrafe del Comune di Palermo).

gli aromi, di tutte le sfumature di bellezza dell’nata […] il ‘li’ di ‘Lia’ invece
si moltiplica in una spirale di indicibili tormenti amorosi».38 E questo incipit fa vibrare la ricchezza dei predicati, puntualmente inanellati con preziosi attributi, talora con suggestioni omofoniche anche se non corradicali (‘rosa che ha roso’), contrasti semantici (‘rosa che è… viola’), allitterazioni e rimandi fonetici (‘lia… liana… libame… licore… lilio… lima… limaccia… lingua… lioparda… lippo… liquame…’) fino al verbo liare (‘m’ha liato la vita’) che vale ‘legare’ e di cui lia costituisce la terza persona singolare del presente. Rosalia è dunque il nome femminile che pervade pressoché ogni pagina del romanzo di cui ci stiamo occupando, presente ovunque anche nella letteratura siciliana: lo stesso Consolo se n’era servito nel suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile (1963), per la sorella della baronessa Ninfa e di don Mimillo. L’omonimia delle donne amate è smaccata e trasparente, ma anche realistica. Tuttavia quando, tra echi d’amore, Isidoro e Vito Sammataro credono di riconoscere ciascuno la propria amata nel disegno che per Fabrizio rappresenta invece la ‘sua’ Teresa Blasco, la figura incarna «solamente la
Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 66). E allora Rosalia si fa quasi antonomasia e nome comune, una sorta di deonimico ideale, per indicare un qualsiasi oggetto femminile d’amore. E nello stesso tempo, ancora in parallelo, Rosalia è nome misterioso per Fabrizio, che non intende come possa ossessionare da sveglio e da dormiente il fido fraticello che lo guida nel viaggio di fuga e di dimenticanza: – Isidoro, – gli dissi resoluto – tu mi devi finalmente disvelare il mistero che nasconde questo nome: Rosalia! – Eccellenza, eccellenza, mi lasciasse al mio rimorso e al mio tormento… – implorò quegli. Ma io mi feci più imperioso e più insistente. E allora quel tapino cominciò a parlare, a sospirare, ma le parole, incompiute, rotte, annegavano in un mare di sospiri. […] Rosalia è l’angelo più bello che sta in cielo… No, è ’na diavola! (p. 39) Il nome proprio si fa così oggetto di discussione e motore d’azione e ancora una volta stimola, nell’innamorato, sentimenti fortemente contrastanti. Sono dunque numerose le piste che portano a individuare una varietà di significati nei nomi opposti e paralleli del Consolo di Retablo. Ma la ricchezza dell’antroponimia e della toponimia del racconto non si esaurisce qui. Ricchezza che è data sia dal ricorso a voci arcaiche, appartenenti a più lingue

38 Maria Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, «Quaderns d’Italia», X (2005), pp. 19-30, p. 24.

e dialetti (il plurilinguismo dei nomi propri); sia dall’uso narrativo, attraverso dittologie, terne e accumuli, che si fanno inventari preziosi, articolati su colori, sapori, profumi, complementi di materia,39 o elaborazione fonetica di singoli nomi in allitterazioni insistite, come per il nome Meli di un poeta incontrato da Fabrizio e Isodoro: «Ma Mele dico ei doversi dire, come mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male», p. 55; e, per il brigante inteso Trono: «Trono, trono che introna e allampa», p. 63. Ancor più gli accumuli si fanno frequenti e ampi in àmbito toponimico: nomi rari, antichi e preziosi, legati comunque alla realtà del viaggio, come Burghetto, Bagni Segestani, Gàggera, Calèmici, Ràbisi, Gibèli, Rapicaldo, Mokarta, Settesoli, Campobello, Rodi Mìlici, Montevago, Zabut, Simplegadi,
Belìce, Melos, Sabatra, Maràusa, Levanso, Bonagìa, la Gerba e Gabès, Kelibia
e Karkenna, Dàttilo, Nàpola; alcuni arcaismi paiono fin troppo ricercati, come Lilibeo e Panormo, altri lo sono sul piano fonetico (Bagarìa, Favognana, Pertenico). Alcamo diventa la «terra di Halcamah» (p. 29).40 Da notare i nomi stranieri a volte adattati – così Shakespeàro e Winkelmano, p. 90 – e i toponimi sono anche nei titoli che suddividono la «Peregrinazione » del racconto: ‘Nel paese di Halcamah’, p. 29, ‘In Selinunte greca’, p. 66, ‘In Mozia de’ Fenici’, p. 81, ‘In Trapani falcata’, p. 91, ‘In Palermo’, p. 102; e anche il primo titolo, dopo la breve ‘Dedicatoria’, contiene un naonimo, ‘Sull’Aurora, all’aurora’, p. 28, il battello da cui Fabrizio sbarca a Palermo. I nomi propri, ma in questo caso al pari delle voci di lessico, danno inoltre l’opportunità di misurare i tratti dialettali della prosa di Consolo. E alcuni esempi paiono confermare che siamo di fronte più a una koiné siciliana ai limiti dell’italiano regionale, dato che i tratti rappresentati in Retablo non identificano alcuna precisa area linguistica all’interno dell’isola,41 con due eccezioni: il rotacismo di laterale preconsonantica (Arcamo ‘Alcamo’, p. 35) nel parlato del Soldano, tratto proprio della sezione occidentale dell’isola in cui si svolge il racconto; e l’assimilazione in Lombaddia, p. 50 (a parlare è un brigante del Trapanese, mentre il palermitano Isidoro pronuncia nella battuta precedente «Lombardia»), come pure il cavalier Serpotta citato dal 39

C fr. anche Gianluca D’Acunti, Alla ricerca della sacralità della parola: Vincenzo Consolo, in Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore. La lingua della narrativa contemporanea dagli anni Settanta a oggi, a c. di V. Della Valle, Roma, Minimum Fax 1997, pp. 101-116. 40 E per «i fastosi cataloghi o elenchi di toponimi, spesso accostati in asindeto puro, privi finanche di virgole separative, che caratterizzano la tessitura del Sorriso oltre ogni ragionevole istanza descrittiva o realistica», rimando a Terrusi, L’onomastica nel Sorriso dell’ignoto marinaio…, cit., p. 59.41 M i sono fondato su Alberto Varvaro, Italienisch: Areallinguistik XII. Sizilien, «LRL», Tübingen, Niemeyer 1988, vol. VI, pp. 716-731; e sulle isoglosse in Ruffino, Dialetto e dialetti di Sicilia…, cit.

sultano Lodovico come Seppotta, p. 36, esiti questi assai meno ovvi a occidente. 42
Ancora sul piano stilistico, in una prosa costellata di metafore e comparazioni, i nomi propri sono sovente i referenti. Solo per citarne alcune, dal mondo classico: «spavaldo e paonante, credendosi un Medoro», p. 39, «bella come la caprigna figlia di Melisso», p. 56, «come la testa mozzata del Battista offerta a Salomè», p. 84, ecc. – ma anche calate nella cultura, nel costume e nella storia locale: «carico come uno sceicco di Pantelleria», p. 19, «figlia pare del principe di Butera o Resuttana», p. 20, «mi parvi preso da’ turchi, da’ corsari», p. 22, «biondo e rizzuto come un San Giovanni», p.
109, «torvo, nero come un san Calogero», p. 109, ecc. Poi ci sono i soprannomi, dove lo sfoggio onimico è in piena armonia con l’autocompiacimento linguistico complessivo: don Vito Sammataro inteso Trono, i suoi ‘compagni antichi’ Sciarabba e Fulgatore, il corsaro saracino Spalacchiata, Crisèmolo, Calòrio, ecc. E gli pseudonimi dei membri dell’Accademia de’ Ciulli Ardenti: Abelio Zenòdoto per don Erminio Chinigò, Aristeo Apollonio alias don Getulio Camàro. Di un certo interesse è l’uso frequente di un doppio allocutivo: «Amabilissimo signùre, cavalère Clerici», p. 35, «Cavalère, maestro don Fabrizio», p. 36, «Cavalèr Soldano, don Lodovico», p. 40, «Andate, andate via subito, signor Maestro Clerici, andate, don Fabrizio», p. 101, «Don Fabrizio, signor don Fabrizio Clerici», p. 104, «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria», p. 105. Consolo non si ferma neppure dinnanzi alla spiegazione etimologica, se questa gli offre l’opportunità di giocare con le parole, come quando, giungendo al villaggio, Vita scrive: «Vita che non dalla vita prese il nome, ma da un tal Vito come il Vito nostro Sammataro, che poi è nome che dalla vita viene» (p. 67): una sintetica ricostruzione di un processo lessiconimico e transonimico relativo a Vito Sicomo, esimio giureconsulto che fece costruire
il primo nucleo dell’attuale comune del Trapanese. I nomi sono anche richiami intertestuali: quanto c’è di voluto nel mettere insieme Lorenzo e Lucia, il primo, un giovane di Stazzona, comune comasco, trasferitosi con la famiglia a Palermo, la seconda, destinataria di un dono di orecchini affidati al Clerici dallo stesso ragazzo? In conclusione, il nome proprio dà in modo evidentissimo il suo contributo a questa lingua di Consolo, che per Renato Minore mette insieme l’ansia 42

La pronuncia assimilata di liquida più consonante è propria della Sicilia orientale, ma si riscontra sporadicamente anche a Cefalù e a Sciacca (Ruffino, Dialetto e dialetti di Sicilia…, cit., p. 112). Per altre deformazioni popolari rimando a Terrusi, L’onomastica nel Sorriso dell’ignoto marinaio…, cit., p. 57.

di conoscenza di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda e per Stefano Giovanardi è «musicale e misteriosa, attorta su termini rari e preziosi e poi
improvvisamente sciolta con ritmi di sistole e diastole nel giro del parlato
popolare, capace di attingere alla più alta tradizione letteraria italiana come alla materia, vivente o arcaica, del dialetto siciliano; forse quella lingua è una semplice efflorescenza del silenzio, ora il camuffamento di un urlo disumano».43 Ma, inoltre, i nomi propri contribuiscono a creare dicotomie e paralleli, diventano motore d’azione e oggetto di riflessione metalinguistica, richiamo intertestuale e documento linguistico, a mio parere in piena armonia con quelle scritture in parallelo che sembrano caratterizzare la maggior parte dell’opera di Vincenzo Consolo. In Retablo, l’omonimia dissimulata dei protagonisti, Clerici e Cricchio, la doppiezza di luci e sapori del falso composto Rosalia, così ricorrente al punto di quasi lessicalizzarsi, e altri stilemi (richiami espliciti a personaggi reali, elenchi nominali, ecc.) paiono delle tessere, a conferma dei mosaici paralleli attentamente composti dall’autore.

Biodata: Enzo Caffarelli ha fondato e dirige dal 1995 la «Rivista Italiana di Onomastica » e ha coordinato il «Laboratorio Internazionale di Onomastica» dell’Università di Roma «Tor Vergata», dove è stato professore a contratto tenendo corsi di Onomastica. È direttore di numerose collane di onomastica scientifica e divulgativa, tra le quali i «Quaderni Italiani di RIOn», i «Quaderni Internazionali di RIOn» e «L’arte del nome». È consulente dell’Accademia della Crusca per i nomi propri. 43 Stefano Giovanardi, Uomini come lupi parole come silenzi, in rete dal 2005: http://vincenzoconsolo.it
Enzo Caffarelli
Di Vincenzo Consolo sono stati più volte e da più voci messi in luce i percorsi paralleli della scrittura. Solo per citarne alcuni: – il racconto che si affianca all’immagine, all’illustrazione; l’opera consoliana è costantemente caratterizzata da riferimenti alle arti figurative. Se, in Retablo, al centro della vicenda è posto il dipinto, a scomparti e a scene, che intitola l’opera, nel Sorriso dell’ignoto marinaio un ritratto di Antonello da Messina fa da filo conduttore del romanzo; Raffaello figura con il suo Spasimo di Sicilia (Andata al Calvario) appunto nello Spasimo di Palermo; nell’Olivo e l’olivastro, Caravaggio approda a Siracusa per dipingere il Seppellimento di Santa Lucia. Un saggio di Consolo reca il titolo di un quadro
di Renato Guttuso, Fuga dall’Etna;1 ancora in Retablo, si pensi all’inventario
del museo del Soldano Lodovico, alla descrizione dei resti di Selinunte e alla menzione di pittori contemporanei. Peraltro le citazioni pittoriche sono spiegate dallo stesso Consolo, memore delle riflessioni di Cesare Segre,2 con 1 Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli 1993. «Il riferimento all’opera guttusiana testimonia di un’amicizia e di una consonanza ideale che si traduce in altre citazioni presenti nei romanzi, fino a giungere ad una più ampia riflessione critica nel saggio L’immensa realtà, compreso nella silloge Di qua dal faro» (Dario Stazzone, «Quel pittore celebrato della Bagarìa». Guttuso nell’opera di Vincenzo Consolo, «Oblio», IV (2014), 14-15, pp. 79-90, p. 81). 2 Cfr. Cesare Segre, La pelle di San Bartolomeo, Torino, Einaudi 2003, dedicato al nesso tra lettura e pittura e ai rapporti di transcodificazione, studio conosciuto e meditato da Consolo, come la ricerca di un equilibrio tra temporalità e spazialità, come affermato in un’intervista concessa a Giuseppe Traina: Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il ‘retablo’ appartiene alla pittura ma è anche ‘teatro’, come nell’intermezzo di Cervantes;3 – la poesia che, anziché rappresentare uno sviluppo autonomo e nettamente distinto dalla prosa nella produzione dello scrittore – come in altri Siciliani contemporanei (Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri, ecc.) – s’infiltra nella prosa stessa, scandendo un ritmo particolarissimo per opere come Retablo e, prima, La ferita dell’aprile (ma anche Nottetempo casa per casa e altro). Si tratta di un ritmo intessuto su frequentissimi endecasillabi (e inoltre settenari e dodecasillabi): ne ho contati 62 soltanto nelle 7 pagine dell’introduttivo «Oratorio», spesso a coppie, talvolta più numerosi, fino a 5 consecutivi.4 In un passo della «Peregrinazione» sono 6 i consecutivi;5 nelle 6 righe tipografiche iniziali del cap. ‘In Egesta degli Elìmi’ risultano 8, e 6 nella descrizione della statua della Veritas (p. 23), nella quale Isidoro riconosce la sua Rosalia (e che si conclude con un verso di sapore dantesco: «urlai, e caddi a terra tramortito»); sono 9 nella presentazione del retablo
delle meraviglie da parte dello «scoltor d’effimeri Crisèmalo» e del «poeta vernacolo Chinigò». Ne sono ricchi soprattutto gli incipit (cfr. anche Lunaria e Nottetempo casa per casa). Ma, insieme alla lirica ‘alta’, Consolo mira alla rievocazione di echi strofici popolari; egli stesso ribadiva il suo amore per le narrazioni ritmiche, i cantastorie, i racconti orali che, a forza di ripetersi, perdono tutto ciò che non è essenziale; – la miscela di storia reale e di finzione, anche nei nomi propri. In Retablo non solo il protagonista e io narrante della centrale Peregrinazione, Fabrizio Clerici, corrisponde a un personaggio reale (1913-1993), ma il pittore Clerici e l’amico Consolo compirono effettivamente un viaggio in Sicilia e visi

dimostra la sua comunicazione Antonello e altri pittori, letta presso l’Accademia Carrara di Bergamo il 4 febbraio 2004 (cito da Stazzone, «Quel pittore…, cit., p. 79). 3 Cfr. Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze), Ed. Cadmo 2001, p. 130. 4 «Dio che/ non mi scansò dalle nasse o rizzelle/ che un bel dì si misero a calarmi/ una coppia di donne, madre e figlia/ ch’io d’un subito, fraticello mondo,/ credei di casa, oneste e timorate» (p. 18). Per la numerazione delle pagine seguo la 1ª ediz. «Il castello», Palermo, Sellerio 1990. 5 «È una terra nordica, luntana,/ ’na piana chiusa da montagne altissime/ d’eterni ghiacci e d’intricati boschi,/ rotta da lunghi fiumi e laghi vasti,/ terra priva di mare, cielo, sole,/ stelle, lune, coi verni interminabili», 49

tarono alcuni luoghi poi rappresentati nel racconto, per es. Mozia sull’isola
di San Pantaleo.6 Clerici era un grande estimatore di Giacomo Serpotta, più
volte citato in Retablo come lo scultore (e decoratore) palermitano che usa
come modella la Rosalia di Isidoro. Si pensi poi ai soprannomi dei pittori,
elencati da Isidoro, quando si complimenta con don Fabrizio per un suo disegno
appena abbozzato: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo di Gangi, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa»7 (pp. 62-63). E al barone Enrico Pirajno di Mandralisca, nel Sorriso dell’ignoto marinaio, al marinaio Giovanni Interdonato, al capopopolo Filippo Siciliano e altri personaggi di Ratumemi (dalle Pietre di Pantalica), ecc.; – l’amore religioso e l’amore carnale, come emergono da Retablo e in particolare dalla santa e dalle donne che portano il nome Rosalia… ma anche nella vita e figura della santa, «doppia nella grotta che si vuole sia stata il suo eremo, tra Monte Pellegrino e la Quisquina, doppia anche nel regno delle immagini, se è vero che alla fanciulla siciliana van Dyck impresse i lineamenti di una florida giovinotta fiamminga, bionda e dall’incarnato roseo, che si sarebbe presto imposta sull’altra figura, emaciata come si conviene a una eremita».8 In fondo, la Rosalia che ha indotto in tentazione il fraticello Isidoro è, paradossalmente, anche l’immagine della santa – nella statua del Serpotta – cui il poveretto si rivolge nelle sue preghiere; – la scelta di un linguaggio che combina elementi non solo lontani dall’italiano standard o dagli standard regionali, ma si muove sul piano lessicale, fonetico, morfologico e sintattico su piani paralleli, con il recupero colto di latinismi e grecismi, di arabismi e con il ricorso al dialetto nelle sue sfumature, una lingua ‘verticale’, in contrasto con quella orizzontale, «rigida e anche fragile perché invasa da un super-potere economico che non è il nostro».9 Ha scritto Cesare Segre, a proposito del Sorriso dell’ignoto marinaio, del tentativo di «far esplodere il linguaggio medio, spingendolo contemporaneamente verso i livelli più alti e quelli più bassi dello spazio linguistico»;10


6 Cfr. Paolo Mauri, Fabrizio delle meraviglie, «la Repubblica.it», 8/10/1987; in rete: http://ricerca. repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1987/10/08/fabrizio-delle-meraviglie.html. 7 I pittori sono facilmente identificabili: il Monrealese è Pietro Novelli, secentista caro anche a Federico De Roberto, che lo cita nei suoi romanzi; lo Zoppo di Gangi è pseudonimo dietro cui si celano due pittori manieristi; il Monocolo di Racalmuto o Monocolus Recalmutensis è Pietro D’Asero; il non nominato è tale perché si tratta di un contemporaneo del Clerici reale e di Consolo, Renato Guttuso. 8 Sergio Troisi, Van Dyck a Palermo e la Santuzza girò il mondo, «la Repubblica.it», 9/07/2015. 9 C fr. le interviste di Italialibri: Intervista con Vincenzo Consolo, gennaio-febbraio-marzo 2001, in rete: www.italialibri.net/interviste/consolo/consolo31.html. 10 Cesare Segre, La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, in Intreccio di voci, Torino, Einaudi 1991, pp. 71-86.

– la scelta di nomi che hanno spesso una doppia motivazione, come nel caso della famiglia di Pietro Marano in Nottetempo casa per casa: Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi […] e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura meridionalista.11 Un altro esempio è posto in bocca a un personaggio, il Madralisca del Sorriso, che chiosa il cognome di «un celebre ministro di Polizia alla corte del sovrano Ferdinando, Vicarioto di nome, nonché di fatto, creduto che in vicarìa o bagno dimori malavita», con riferimento al sic. vicarioto ‘galeotto’12 e, aggiungo, etnico arcaico del paese di Vìcari alle porte di Palermo.13 – la doppia lingua, ossia il mondo reinventato attraverso la ridenominazione di ogni cosa, nei Linguaggi del bosco, grazie alla ‘selvatica’ amica Amalia: «Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che in quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e
personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava»;14 – addirittura si può parlare di un parallelismo tra scrittura e lettura, autore e lettore: «Io penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza. […] Io penso a uno che sia veramente il mio doppio, che abbia la mia stessa storia, la mia stessa cultura, le mie stesse letture, che faccia parte di una stessa sfera culturale».15 In Retablo, in particolare, si muovono in parallelo: le vicende del nobile milanese Fabrizio Clerici e del fraticello palermitano Isidoro, nato Cicco Paolo Cricchiò, che viaggiano per la Sicilia insieme, per lenire le proprie delusioni amorose con un bagno di storia, rovine, cultura; le storie d’amore del Cricchiò e di Vito Sammataro, accomunati dal nome della donna amata, Rosalia; 11

C fr. Le interviste di Italialibri: Intervista con Vincenzo Consolo, cit. 12 Leonardo Terrusi, L’onomastica nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, «il Nome nel testo», XIV (2012), pp. 55-63, p. 62. 13 Cfr. Teresa Cappello – Carlo Tagliavini, Dizionario degli etnici e dei toponimi italiani, Bologna, Pàtron 1981, s.v. 14 Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano, Oscar Mondadori 1990 (1ª ed. 1988), p. 155. 15
C fr. le interviste di Italialibri: Intervista con Vincenzo Consolo, cit.


la scrittura del diario del Clerici – il diario dedicato da Fabrizio all’amata doña Teresa – sul retro dei fogli dove suor Amata di Gesù, al secolo Rosalia Granata, narra la vicenda del corrotto frate Giacinto e di Vito Sammataro; il parallelo tra seduzione amorosa e seduzione artistica della scrittura, evidenziato da Tatiana Basanti16 e ben esemplificato da Rosalia, oggetto di culto e donna amata su cui convergono i percorsi di desiderio dei vari personaggi di Retablo; la duplice lettura del romanzo come intreccio di fughe e come ideale guida ai loca memorabilia della Sicilia occidentale, proposta da Nicolò Messina;17 lo stesso titolo, di cui disse l’A.: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum): il senso, per me, dietro e oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana»,18 può essere interpretato come allusione
all’organizzazione strutturale del libro, diviso in tre parti come tavole di un polittico; e come riferimento all’affabulazione letteraria e al tratto illusorio dell’arte, attraverso l’evocazione cervantina, ossia all’Intermezzo del Retablo de las maravillas che compare in una delle pagine più barocche dell’autore del Quijote.19 Viene spontaneo chiedersi se questa dualità, questa presenza di parallelismi, si estenda ai nomi propri. Partiamo dal protagonista della vicenda cui Consolo attribuisce il nome e il cognome, e qualche altro aspetto del comportamento e del personaggio reale, del suo amico pittore milanese Fabrizio Clerici. E qui attenzione. Lo stesso meccanismo onomastico (attinzione di una catena onimica appartenente al Clerici reale) era già stato utilizzato da Alberto Savinio in Ascolto il tuo cuore, città (1944), storia di un vagabondare per Milano dei due artisti.20 16

Cfr. Tatiana Basanti, Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo, «Cahiers d’études italiennes», V (2006), pp. 57-68. 17 Cfr. Nicolò Messina, Breve viaggio testuale a ritroso: i retablos di Vincenzo Consolo, «Cuadernos de Filología Italiana», IV (1997), pp. 217-249, p. 223.
18 C it. in Salvo Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale (Catania)/Roma, Bonanno 2008, p. 207. 19 Pubblicato nel volume Ocho comedias y ocho entremeses nunca representados del 1615. Cfr. Stazzone, «Quel pittore…, cit., p. 80. 20 P er tacere del fatto che alcuni individuano nello stesso artista il protagonista di Todo modo di Leonardo Sciascia. Cfr. Traina, Nomi, misteri, pittori. Il punto su Todo Modo, in La bella pittura. Leonardo Sciascia e le arti figurative, a c. di P. Nifosi, Racalmuto (Agrigento), Fondazione Sciascia – Salarchi Immagini 1999, ora in Traina, Una problematica modernità. Verità pubbliche e scrittura a nascondere in Leonardo Sciascia, Acireale (Catania)/Roma, Bonanno 2009.


Ora, Savinio è anagraficamente un De Chirico, cognome barese di Terlizzi, in particolare, e balza all’attenzione l’omonimia, Clerici/(De) Chirico, che peraltro Savinio aveva già sottolineato nel 1942 scrivendo all’amico: «Tu come Clerici e io come Chirico […] siamo oltre a tutto anche parenti […] e assieme risaliamo al comune klericós e kleros, cioè a dire a quel che tocca in sorte», come riporta Paolo Mauri.21 Consolo riprende, dunque, il nome di casato Clerici prima di tutto, disse, perché aveva bisogno di un nome di antica e sicura tradizione lombarda22 e, inoltre, perché vedeva in Fabrizio «un ideale lombardo del Settecento, di quel gruppo che rappresenta il volto migliore di Milano, della sua cultura e civiltà».23 Assegna, poi, al fraticello che gli farà da guida, il nome Cicco (Francesco) Paolo e il cognome Cricchiò.
Cricchio (senza accento) è un nome di famiglia siciliano, accentrato nel Palermitano,
con presenze sparse nell’isola, che può avere varie etimologie e tra queste, rimettendoci al dizionario di Girolamo Caracausi,24 prevale il significato di clericus.25 Cricchiò nella realtà odierna sembra non esistere, ma è una variante grecizzante, presumibilmente attestata in passato e perfettamente parallela a Chiricò – catanzarese, e con un gruppo a Trabia, nel Palermitano –, al salentino Chiriacò e al catanzarese Clericò, appartenenti alla medesima famiglia onomastica. Dunque, non solo Chirico e Clerici, ma anche Clerici e Cricchiò hanno il medesimo cognome; e non la voce dell’italiano Chirico, sopravvissuta nella variante chierico e nel suffissato chierichetto, ma da un lato la forma latineggiante che ha conservato il nesso -cl-, dall’altra una voce dialettale, a siglare il contrasto di status, almeno iniziale, tra i due personaggi e a ratificare il distanziamento bidirezionale dalla lingua standard. Quanto agli altri cognomi, in Retablo, si vedano quelli delle due Rosalie: Guarnaccia, la donna amata dal fraticello Isidoro, e Granata, quella di cui s’era infatuato frate Giacinto di Salemi, protagonista di una sorta di novella boccaccesca, dove la donna fugge dopo la decapitazione del religioso che 21

Cfr. Mauri, Fabrizio delle meraviglie, cit. 22 Tra i primi 100 per frequenza in Lombardia e tra i primi 16 nel Comasco, cui si richiama nel finale di Retablo, quando incontra alcuni corregionali presso il rettorato della Nazione Lombarda di Palermo. Cfr. Enzo Caffarelli – Carla Marcato, I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico, Torino, Utet 2008, 2 voll., s.v. 23 Cfr. Mauri, Fabrizio delle meraviglie, cit. 24 Cfr. Girolamo Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani 1993, 2 voll. 25 Mentre, secondo una diversa ipotesi, rifletterebbe il siciliano crìcchiu ‘cima di un monte’; soltanto s.v. Lo Cricchio, cognome altrettanto di Palermo e dintorni, Caracausi ammette una terza possibilità, e cioè da cricchio ‘capriccio’, seguendo qui Gerhard Rohlfs, Dizionario storico dei cognomi della Sicilia orientale, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani 1984, area dove peraltro il cognome pare attestato solo isolatamente.

l’aveva più volte posseduta. Ora, Guarnaccia può interpretarsi come ‘vestito di donna povera’,26 altro cognome trasparente e corrispondente al personaggio, mentre Granata può derivare, sì da un nome di persona, da Granada toponimo o da granata nelle accezioni di ‘scopa’, ‘mela granata’, ecc., ma anche ‘pietra preziosa di colore rosso vinato’.27 E in tal caso ci troveremmo di fronte a un’ulteriore dicotomia – povertà e ricchezza – che corre in parallelo tra le pagine di Retablo. Mentre il cognome di Cristina Insàlico, madre di Rosalia Guarnaccia, variante del più diffuso Insàlaco, dall’arabo sallāq, ‘conciapelli, cuoiaio’, non comunica nulla sui genitori della fanciulla, diverso può essere il caso di Affronti, ossia don Gennariello, già cantante (voce bianca) e ora maestro di canto di Rosalia, che vive, mantenuta da un vecchio marchese, in regime di castità; Affronti è cognome raro e palermitano dalla voce siciliana affruntu ‘disonore, vergogna’:28 forse un’allusione alla castrazione giovanile della voce bianca? Lo stesso vale per don Vito Sammataro, che per amore dell’altra Rosalia, la Granata, aveva ucciso ed era divenuto brigante. Sammataro è cognome raro dell’area tra Palermo e Messina e corrisponde al siciliano zambataru, ‘mandriano, addetto alla custodia e alla cura delle vacche di una cascina, e alla raccolta e lavorazione del latte’, calabrese sambataru, ‘capo di una mandria’;29 nel nostro caso lo si più leggere come un nome parlante, se per mandria intendiamo anche ‘banda di briganti’, piuttosto sbandati, come quella guidata da don Vito. Quanto ai nomi personali dei protagonisti, Fabrizio in letteratura sa di nobiltà e cultura forse per il ricordo di don Fabrizio Corbera, principe di Salina, del Gattopardo, forse perché, come notato da Paolo Mauri,30 il Clerici pare il sosia di Fabrizio del Dongo, nobiluomo milanese (anche la figura stendhaliana è protagonista di viaggi e fughe, e si noti che, nel coniare un cognome di fantasia, Stendhal dovette ispirarsi al toponimo Dongo, comune del Comasco, e Clerici è cognome tipicamente comasco).31 Il nome personale con cui il Cricchiò è citato nel racconto è, però, quello assunto una volta indossato il saio, e cioè Isidoro, ‘dono della dea Iside’. Esso induce a correre il rischio di una superinterpretazione: si presenta etimologicamente come profano e pagano, avendo Iside quale eponimo, ma anche come nome della cristianità, grazie ai tanti santi, Isidoro di Siviglia in

26 Cfr. Caracausi, Dizionario onomastico della Sicilia, cit., s.v.
27 Cfr. Caffarelli – Marcato, I cognomi d’Italia…, cit., s.v.
28 Cfr. Dizionario onomastico della Sicilia, cit., s.v.
29 Ivi, s.v.
30 Cfr. Mauri, Fabrizio delle meraviglie, cit.
31 I l Fabrizio personaggio vanta dei parenti dalle parti di Stazzona – citato in Retablo come luogo di partenza di alcuni emigrati in Sicilia (p. 104).


primo luogo, che lo hanno portato. Del nome anagrafico abbiamo notizia in due soli casi, se ho ben letto: nell’ultimo elemento del trittico, «Veritas», così richiamato dall’amata Rosalia, e quando Isidoro e Fabrizio si presentano al curatolo Nino Alàimo senza borse né abiti, perché aggrediti e spogliati d’ogni cosa dai briganti. Come a dire che il nome di nascita emerge esclusivamente nei momenti di ‘nuda verità’. Se consideriamo il nome anagrafico del monachello-guida, il doppio Francesco Paolo, si tratta, al contrario di Fabrizio, di un nome popolare, nella sua doppia accezione: da un lato, di ‘popolano’ – appartenente al popolo e al culto vivissimo in Sicilia per il calabrese San Francesco di Paola –, e dall’altro lato di ‘diffuso’, perché nell’antroponimia isolana spicca con le sue elevate frequenze.32 Popolano, dicevo, tanto più che nel racconto è soltanto Cicco Paolo, cioè un ipocoristico (il primo elemento) che è, sì, fungibile per l’uso vezzeggiativo indipendente dal nome base, ma in Sicilia non difficilmente ricollegabile a Francesco.33 Si noti peraltro la doppiezza di Francesco Paolo, caso davvero raro di toponimo (Paola) adattato ad antroponimo con cambiamento di genere e con naturalezza, perché l’esistenza del latino Paulus
copre la trasparenza del processo transonimico (e che peraltro cela a sua volta l’etimologia del toponimo, non un deantroponimico, in quanto deriva dal sostantivo plurale pabula ‘pascoli’ o da terra pabula come aggettivo singolare). Basterebbe comunque l’incipit dell’«Oratorio» di Retablo per convincersi che il nome proprio è parte integrante delle attenzioni ‘espressionistiche’ di Consolo. Si potrebbe scrivere un ampio saggio esclusivamente su questo incipit e sul nome Rosalia, che ha qualche precedente, ad es. l’elaborazione petrarchesca di Laura e quello della Lolita di Nabokov (1955). Ne riporto (con qualche omissis) alcune righe. A parlare è l’ex frate Isodoro: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.
[…] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato, la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa […]. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine,

32 Rappresenta, unico caso nelle diverse regioni d’Italia, il nome composto più diffuso nel XX secolo, e attualmente 18º in assoluto nella città di Palermo con circa 3600 portatori (dati forniti dalle Anagrafi Comunali). 33 Ritroviamo un altro ipocoristico di Francesco in Chino Martinez, protagonista dello Spasimo di Palermo.

rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare,
vacua notte senza lune, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?» (p. 17). Ebbene, anche qui abbiamo quasi due lasse poetiche che corrono in parallelo, contrapposte ma complementari. La dualità nasce, prima di tutto, dalla segmentazione errata del nome, frutto di una reinterpretazione popolare, di una paretimologica interpretazione del nome francese antico Roscelin o Rocelin – a sua volta dal germanico Ruozelin/Rozelin nell’adattamento all’italiano (insieme a Rusulina), col significativo complessivo di ‘cavallo glorioso’ – come composto di Rosa e di Lia, o comunque derivato-variante di Rosa,34 il che non è (lo conferma, ove necessario, il corrispondente maschile che ha invece conservato compattamente, in Sicilia almeno, anche la nasale finale, Rosalino o Rosolino, forse anche qui per rietimologizzazione, ossia per l’interpretazione di -ino come suffisso).35 Tale processo di rietimologizzazione, a partire dall’etimo normanno, sarà stata nota a Consolo? Ritengo di sì, anche se lo scrittore ha affermato di aver «scelto il nome Rosalia per S. Rosalia, ma anche per la scomposizione rosa e lia».36 Conta comunque notare come Rosa e Lia diano vita a una serie di allitterazioni in parallelo, dove Rosa gioca un ruolo positivo per l’innamorato e Lia un ruolo negativo; anche in alcune battute i ruoli s’invertono e alla fine si ricompone il nome intero nel segno del proprio sangue e dell’inimicizia. In questa scomposizione del nome palermitano di donna per eccellenza, anche nome della sua generazione,37 lo scrittore compie un’operazione di acrobazia espressionistica, ma non spregiudicata, perché legittimata dalla secolare rifondazione popolare del significante, benché non dall’etimo. La scrittrice e saggista caltagironese Maria Attanasio ne dà una convincente interpretazione quando afferma che Consolo scava «nelle sonorità del nome Rosalia, trovando in esso occultati tutti i sensi e i segni della passione. Ognuna delle due parti del nome genera infatti una appassionata proliferazione di figure d’amore, se ‘Rosa’ è l’immaginifica sorgente di tutti [i] fiori, i colori,

34 Precisa Emidio De Felice in proposito che Rusulina per influsso di Lia «si è trasformato in Rusulia e quindi, per un accostamento dovuto a etimologia popolare a Rosa e rosa, nella forma italianizzata Rosalia attuale» (Dizionario dei nomi italiani, Milano, Oscar Mondadori 1986). 35 Rosalino La Rosa è un personaggio di una novella di Pirandello, Le medaglie (1923). 36 C fr. M. De Martino, Intervista a Vincenzo Consolo, nella dissertazione L’opera di Vincenzo Consolo (presentata alla University of Alberta), 1992, pp. 35-49, p. 48. 37 Rosalia, patrona del capoluogo siciliano, era al rango 2 nel 2014, dopo Maria, tra le siciliane oggi viventi residenti in Palermo, e al r. 2 nell’analisi sincronica dei nati anno per anno per quasi tutto il secolo; attorno agli anni 40 la forma assurse addirittura al rango 1, con una frequenza pari al 10% del totale delle nuove nate (elaborati su dati forniti dall’Anagrafe del Comune di Palermo).

gli aromi, di tutte le sfumature di bellezza dell’nata […] il ‘li’ di ‘Lia’ invece
si moltiplica in una spirale di indicibili tormenti amorosi».38 E questo incipit fa vibrare la ricchezza dei predicati, puntualmente inanellati con preziosi attributi, talora con suggestioni omofoniche anche se non corradicali (‘rosa che ha roso’), contrasti semantici (‘rosa che è… viola’), allitterazioni e rimandi fonetici (‘lia… liana… libame… licore… lilio… lima… limaccia… lingua… lioparda… lippo… liquame…’) fino al verbo liare (‘m’ha liato la vita’) che vale ‘legare’ e di cui lia costituisce la terza persona singolare del presente. Rosalia è dunque il nome femminile che pervade pressoché ogni pagina del romanzo di cui ci stiamo occupando, presente ovunque anche nella letteratura siciliana: lo stesso Consolo se n’era servito nel suo romanzo d’esordio,
La ferita dell’aprile (1963), per la sorella della baronessa Ninfa e di don Mimillo. L’omonimia delle donne amate è smaccata e trasparente, ma anche realistica. Tuttavia quando, tra echi d’amore, Isidoro e Vito Sammataro credono di riconoscere ciascuno la propria amata nel disegno che per Fabrizio rappresenta invece la ‘sua’ Teresa Blasco, la figura incarna «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 66). E allora Rosalia si fa quasi antonomasia e nome comune, una sorta di deonimico ideale, per indicare un qualsiasi oggetto femminile d’amore. E nello stesso tempo, ancora in parallelo, Rosalia è nome misterioso per Fabrizio, che non intende come possa ossessionare da sveglio e da dormiente il fido fraticello
che lo guida nel viaggio di fuga e di dimenticanza: – Isidoro, – gli dissi resoluto – tu mi devi finalmente disvelare il mistero che nasconde questo nome: Rosalia!
– Eccellenza, eccellenza, mi lasciasse al mio rimorso e al mio tormento… – implorò
quegli. Ma io mi feci più imperioso e più insistente. E allora quel tapino cominciò
a parlare, a sospirare, ma le parole, incompiute, rotte, annegavano in un mare di
sospiri. […] Rosalia è l’angelo più bello che sta in cielo… No, è ’na diavola! (p. 39)
Il nome proprio si fa così oggetto di discussione e motore d’azione e ancora una volta stimola, nell’innamorato, sentimenti fortemente contrastanti. Sono dunque numerose le piste che portano a individuare una varietà di significati nei nomi opposti e paralleli del Consolo di Retablo. Ma la ricchezza dell’antroponimia e della toponimia del racconto non si esaurisce qui. Ricchezza che è data sia dal ricorso a voci arcaiche, appartenenti a più lingue

38 Maria Attanasio, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo, «Quaderns d’Italia», X (2005), pp. 19-30, p. 24.

e dialetti (il plurilinguismo dei nomi propri); sia dall’uso narrativo, attraverso
dittologie, terne e accumuli, che si fanno inventari preziosi, articolati su
colori, sapori, profumi, complementi di materia,39 o elaborazione fonetica
di singoli nomi in allitterazioni insistite, come per il nome Meli di un poeta
incontrato da Fabrizio e Isodoro: «Ma Mele dico ei doversi dire, come mele
o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male», p. 55; e, per il
brigante inteso Trono: «Trono, trono che introna e allampa», p. 63.
Ancor più gli accumuli si fanno frequenti e ampi in àmbito toponimico:
nomi rari, antichi e preziosi, legati comunque alla realtà del viaggio, come
Burghetto, Bagni Segestani, Gàggera, Calèmici, Ràbisi, Gibèli, Rapicaldo,
Mokarta, Settesoli, Campobello, Rodi Mìlici, Montevago, Zabut, Simplegadi,
Belìce, Melos, Sabatra, Maràusa, Levanso, Bonagìa, la Gerba e Gabès, Kelibia
e Karkenna, Dàttilo, Nàpola; alcuni arcaismi paiono fin troppo ricercati,
come Lilibeo e Panormo, altri lo sono sul piano fonetico (Bagarìa, Favognana,
Pertenico). Alcamo diventa la «terra di Halcamah» (p. 29).40 Da notare i nomi stranieri a volte adattati – così Shakespeàro e Winkelmano, p. 90 – e i toponimi sono anche nei titoli che suddividono la «Peregrinazione » del racconto: ‘Nel paese di Halcamah’, p. 29, ‘In Selinunte greca’, p. 66, ‘In Mozia de’ Fenici’, p. 81, ‘In Trapani falcata’, p. 91, ‘In Palermo’, p. 102; e anche il primo titolo, dopo la breve ‘Dedicatoria’, contiene un naonimo, ‘Sull’Aurora, all’aurora’, p. 28, il battello da cui Fabrizio sbarca a Palermo. I nomi propri, ma in questo caso al pari delle voci di lessico, danno inoltre
l’opportunità di misurare i tratti dialettali della prosa di Consolo. E alcuni
esempi paiono confermare che siamo di fronte più a una koiné siciliana ai
limiti dell’italiano regionale, dato che i tratti rappresentati in Retablo non
identificano alcuna precisa area linguistica all’interno dell’isola,41 con due
eccezioni: il rotacismo di laterale preconsonantica (Arcamo ‘Alcamo’, p. 35)
nel parlato del Soldano, tratto proprio della sezione occidentale dell’isola
in cui si svolge il racconto; e l’assimilazione in Lombaddia, p. 50 (a parlare
è un brigante del Trapanese, mentre il palermitano Isidoro pronuncia nella
battuta precedente «Lombardia»), come pure il cavalier Serpotta citato dal
39
C fr. anche Gianluca D’Acunti, Alla ricerca della sacralità della parola: Vincenzo Consolo, in Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore. La lingua della narrativa contemporanea dagli anni Settanta a oggi, a c. di V. Della Valle, Roma, Minimum Fax 1997, pp. 101-116. 40 E per «i fastosi cataloghi o elenchi di toponimi, spesso accostati in asindeto puro, privi finanche di virgole separative, che caratterizzano la tessitura del Sorriso oltre ogni ragionevole istanza descrittiva o realistica», rimando a Terrusi, L’onomastica nel Sorriso dell’ignoto marinaio…, cit., p. 59.41 M i sono fondato su Alberto Varvaro, Italienisch: Areallinguistik XII. Sizilien, «LRL», Tübingen, Niemeyer 1988, vol. VI, pp. 716-731; e sulle isoglosse in Ruffino, Dialetto e dialetti di Sicilia…, cit.

sultano Lodovico come Seppotta, p. 36, esiti questi assai meno ovvi a occidente. 42
Ancora sul piano stilistico, in una prosa costellata di metafore e comparazioni,
i nomi propri sono sovente i referenti. Solo per citarne alcune, dal mondo classico: «spavaldo e paonante, credendosi un Medoro», p. 39, «bella come la caprigna figlia di Melisso», p. 56, «come la testa mozzata del Battista offerta a Salomè», p. 84, ecc. – ma anche calate nella cultura, nel costume e nella storia locale: «carico come uno sceicco di Pantelleria», p. 19, «figlia pare del principe di Butera o Resuttana», p. 20, «mi parvi preso da’ turchi, da’ corsari», p. 22, «biondo e rizzuto come un San Giovanni», p. 109, «torvo, nero come un san Calogero», p. 109, ecc. Poi ci sono i soprannomi, dove lo sfoggio onimico è in piena armonia con l’autocompiacimento linguistico complessivo: don Vito Sammataro inteso Trono, i suoi ‘compagni antichi’ Sciarabba e Fulgatore, il corsaro saracino Spalacchiata, Crisèmolo, Calòrio, ecc. E gli pseudonimi dei membri dell’Accademia de’ Ciulli Ardenti: Abelio Zenòdoto per don Erminio Chinigò, Aristeo Apollonio alias don Getulio Camàro. Di un certo interesse è l’uso frequente di un doppio allocutivo: «Amabilissimo signùre, cavalère Clerici», p. 35, «Cavalère, maestro don Fabrizio», p. 36, «Cavalèr Soldano, don Lodovico», p. 40, «Andate, andate via subito, signor Maestro Clerici, andate, don Fabrizio», p. 101, «Don Fabrizio, signor don Fabrizio Clerici», p. 104, «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria», p. 105. Consolo non si ferma neppure dinnanzi alla spiegazione etimologica, se questa gli offre l’opportunità di giocare con le parole, come quando, giungendo al villaggio, Vita scrive: «Vita che non dalla vita prese il nome, ma da un tal Vito come il Vito nostro Sammataro, che poi è nome che dalla vita viene» (p. 67): una sintetica ricostruzione di un processo lessiconimico e
transonimico relativo a Vito Sicomo, esimio giureconsulto che fece costruire
il primo nucleo dell’attuale comune del Trapanese. I nomi sono anche richiami intertestuali: quanto c’è di voluto nel mettere insieme Lorenzo e Lucia, il primo, un giovane di Stazzona, comune comasco, trasferitosi con la famiglia a Palermo, la seconda, destinataria di un dono di orecchini affidati al Clerici dallo stesso ragazzo? In conclusione, il nome proprio dà in modo evidentissimo il suo contributo a questa lingua di Consolo, che per Renato Minore mette insieme l’ansia 42

La pronuncia assimilata di liquida più consonante è propria della Sicilia orientale, ma si riscontra sporadicamente anche a Cefalù e a Sciacca (Ruffino, Dialetto e dialetti di Sicilia…, cit., p. 112). Per altre deformazioni popolari rimando a Terrusi, L’onomastica nel Sorriso dell’ignoto marinaio…, cit., p. 57.

di conoscenza di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda e per Stefano
Giovanardi è «musicale e misteriosa, attorta su termini rari e preziosi e poi
improvvisamente sciolta con ritmi di sistole e diastole nel giro del parlato
popolare, capace di attingere alla più alta tradizione letteraria italiana come alla materia, vivente o arcaica, del dialetto siciliano; forse quella lingua è una semplice efflorescenza del silenzio, ora il camuffamento di un urlo disumano».43 Ma, inoltre, i nomi propri contribuiscono a creare dicotomie e paralleli, diventano motore d’azione e oggetto di riflessione metalinguistica, richiamo intertestuale e documento linguistico, a mio parere in piena armonia con quelle scritture in parallelo che sembrano caratterizzare la maggior parte dell’opera di Vincenzo Consolo. In Retablo, l’omonimia dissimulata dei protagonisti, Clerici e Cricchio, la doppiezza di luci e sapori del falso composto Rosalia, così ricorrente al punto di quasi lessicalizzarsi, e altri stilemi (richiami espliciti a personaggi reali, elenchi nominali, ecc.) paiono delle tessere, a conferma dei mosaici paralleli attentamente composti dall’autore.

Biodata: Enzo Caffarelli ha fondato e dirige dal 1995 la «Rivista Italiana di Onomastica » e ha coordinato il «Laboratorio Internazionale di Onomastica» dell’Università di Roma «Tor Vergata», dove è stato professore a contratto tenendo corsi di Onomastica. È direttore di numerose collane di onomastica scientifica e divulgativa, tra le quali i «Quaderni Italiani di RIOn», i «Quaderni Internazionali di RIOn» e «L’arte del nome». È consulente dell’Accademia della Crusca per i nomi propri. 43 Stefano Giovanardi, Uomini come lupi parole come silenzi, in rete dal 2005: http://vincenzoconsolo.it

La mutazione antropologica tra sud e nord: i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati

DANIEL RAFFINI
Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Tra gli scrittori che si interessarono al fenomeno, cercando di trasferirne gli effetti nelle loro narrazioni e ragionando su di esso a livello teorico, si analizzano qui i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati. Il primo descrive nei suoi racconti la fine del mondo contadino siciliano, il dramma della dissoluzione di un sapere millenario e la resistenza strenua ma inutile di alcuni personaggi reali che entrano nelle narrazioni. La mutazione antropologica sfocia in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, la Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio e nei suoi racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio e viene riportata dallo scrittore sulla pagina attraverso una scrittura scarna frutto di un’attenta osservazione. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Pasolini se ne occupa in una serie di articoli usciti tra il 1973 e il 1974 su varie testate, dando vita a un dibattito che vede l’intervento di molti scrittori e intellettuali italiani, tra cui Alberto Moravia, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Maurizio Ferrara, Tullio De Mauro, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. In particolare, Pasolini viene accusato di rinnegare lo sviluppo e di ripetere concetti già formulati. Lo scrittore riprende in effetti discorsi sulla società contemporanea già formulati da Marcuse, Horkheimer e Adorno, quando parlavano ad esempio di uomo a una dimensione e di tolleranza repressiva. Tuttavia, specifica Berardinelli nell’introduzione agli Scritti Corsari che «solo ora quei processi di cui aveva parlato la sociologia critica in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, arrivano a compimento in Italia, con una violenza concentrata e improvvisa»1. Gli articoli di Pasolini ci restituiscono l’idea della società contemporanea come di sistema repressivo teso all’omologazione culturale, in cui una nuova classe media formata culturalmente su modelli esterni imposti dal potere viene a sostituire le vecchie categorie oppositive di fascismo e antifascismo. Scrive ancora Berardinelli che «per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo»2. La mitizzazione dei processi sociologici rende possibile la trasfigurazione letteraria di questo mondo che va scomparendo in un gruppo di poesie italo-friulane tarde, pubblicate da Pasolini in quegli anni e poi entrate nella sezione Tetro entusiasmo della raccolta La Nuova Gioventù. Nell’articolo Acculturazione e acculturazione, uscito per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione, Pasolini si scaglia contro la centralizzazione come livellazione delle differenze: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana? Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. […] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.3 La religione del consumo avrebbe preso il posto della religione vera e propria in qualità di oppio dei popoli di marxista memoria. Da qui parte Pasolini nel suo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, dalla costatazione – in seguito alla vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio – che la società italiana è più evoluta in fatto di laicismo rispetto a quanto credessero il Vaticano e il PCI. Pasolini ne deduce un cambiamento del ceto medio, non più legato ai valori cristiani ma all’ideologia del consumo e ne trae la conclusione «che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione»4. Pasolini registra insomma un cambiamento profondo nella società italiana a seguito del boom economico: Si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa in realtà è enorme: è un fenomeno, insito, di «mutazione» antropologica.5 La mutazione antropologica implica da una parte il miglioramento delle effettive condizioni di vita delle persone, dall’altra determina però la fine delle culture popolari italiane in favore di un’unica cultura centralizzata fondata su un modello esterno di origine statunitense. D’altra parte Pasolini ha una visione fortemente ideologizzata e negativa della civiltà dei consumi, che definisce come il «più repressivo totalitarismo che si sia mai visto»6 e alla quale sente la necessita di opporre una battaglia politica prima ancora che culturale fondata sui principi di una rivoluzione proletaria e contadina. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pasolini sarà ripreso da scrittori del decennio successivo. Tra di essi un punto di vista privilegiato è quello del siciliano Vincenzo Consolo. Privilegiato perché è quello di uno scrittore attento ai contrasti insiti e ai cambiamenti storici della sua terra, la Sicilia. In Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino Pasolini parlava di un «illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa»7, per il quale gli stati preunitari, l’Italia unita, l’Italia fascista e l’Italia democratica hanno rappresentato senza soluzione di continuità la nazione estranea, l’altro e l’oppressore. Consolo, dal canto suo, tornerà a parlare di quel mondo contadino in termini mitici, come «di tempi andati, di tempi d’oro, tempi che sono durati fino all’altro ieri»8, e descriverà le rivolte dei siciliani di fronte al potere La raccolta postuma La mia isola è Las Vegas raccoglie testi brevi pubblicati nel corso degli anni da Consolo su vari giornali e fondamentali per capire l’evoluzione del pensiero dello scrittore così come la genesi 3 borbonico, all’unificazione, al Fascismo e all’Italia dopoguerra, per arrivare alla fine di quel mondo che pure aveva fatto in tempo a conoscere da bambino e che aveva descritto in alcuni racconti degli anni Cinquanta e Sessanta9. In due racconti tardi, pubblicati per la prima volta nel 2007 e nel 2008 e poi inclusi nella raccolta La mia isola è Las Vegas, Consolo cita direttamente il concetto pasoliniano di mutazione antropologica. In Alésia al tempo de Li Causi, parlando degli anni in cui studiava a Milano, l’autore scrive: Erano quelli gli anni della fine del mondo contadino e della rapida trasformazione dell’Italia in Paese neo-industriale, del miracolo economico e della mutazione antropologica; gli anni, quelli dell’espulsione dal Paese di milioni e milioni di lavoratori in cerca d’un futuro, d’un destino migliore. 10 Mentre nel racconto E Ciro vide Anna Magnani, riferendosi agli stessi anni, scrive: Era quello il momento della fine del mondo contadino, del fallimento della riforma agraria in Sicilia, della vittoria dei feudatari, eterni Gattopardi, e dei loro sovrastanti o gabelloti mafiosi. Era il momento quello che Pasolini poi chiamò della “mutazione antropologica” di questo nostro Paese.11 L’attenzione dello scrittore al tema della mutazione risale almeno agli anni Ottanta ed è legata all’osservazione del fenomeno dell’emigrazione di massa dei siciliani verso il nord Italia, dovuta all’irruzione delle nuove tecniche di produzione che mettono fine a tradizioni che in Sicilia, oltre ad essere millenarie, rivestivano un forte ruolo identitario, come quella della coltivazione degli aranci o della pesca del tonno12. In un racconto del 1985 dedicato al tema dell’emigrazione a Milano, Consolo parlerà del sud come di una terra «dove la storia si è conclusa»13. La mutazione antropologica rappresenta nella narrativa consoliana una cesura netta e su di essa lo scrittore fonda la funzione etica della propria scrittura. Se il mondo globalizzato digerisce nel suo ventre le culture particolari, se la cultura del centro progressivamente sostituisce le culture periferiche, il compito della letteratura è quello di narrare ciò che non c’è più. In questo senso fortemente significativi sono alcuni personaggi della sezione Persone della raccolta del 1989 Le Pietre di Pantalica, attraverso i quali Consolo prova a raccontare il momento di passaggio, l’attimo della fine, attraverso le figure di chi tentò di opporvisi. Antonino Uccello, poeta-etnologo amico di Consolo, cerca di salvare le vestigia di ciò che sta finendo, raccogliendo gli strumenti e le testimonianze del mondo contadino; oggetti che trova abbandonati, relitti della storia, il cui unico destino è quello di essere musealizzati. In un’intervista Consolo accosterà il proprio compito a quello dell’amico: di alcune delle sue opere. 4 Il poeta-etnologo de La casa di Icaro, credo che sia il personaggio più importante, la figura-simbolo di tutto il libro. È stato uno, Uccello, che, come un pietoso raccoglitore di detriti dopo la risacca, ha cercato di salvare, nel momento in cui essi sparivano, i resti, le testimonianze del mondo contadino. E non è questo in fondo il dovere e il destino di ogni scrittore della mia età e della mia estrazione, che si è trovato a cavallo della grande trasformazione, tra un mondo che spariva e un mondo che iniziava? Non è questo il compito e il destino sempre, in ogni epoca, di uno scrittore: raccogliere e custodire memorie, reliquie di un mondo che continuamente frana, sparisce?14 Ad un’altra Sicilia che va scomparendo, quella magica e barocca, sognante e mitologica, rimanda invece la figura del barone Lucio Piccolo, poeta fuori dalle mode e fuori dal tempo, simbolo di un’erudizione che ci ricorda quella di Mandralisca de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Piccolo fu amico e mentore di Consolo, che in queste pagine racconta il loro primo incontro, gli insegnamenti, le visite nella casa di Capo d’Orlando. Come Uccello, Piccolo è emblema di un mondo che non esiste più, tanto che nel momento della sua scomparsa il dolore che Consolo prova non è solo per la perdita dell’amico e maestro, ma anche «per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»15. Andando ancora indietro, Consolo risale ai tempi in cui quel mondo esisteva, con i suoi riti e le sue usanze, con la sua cultura, quella cultura popolare rivendicata come tale da Pasolini, contro tutti quegli intellettuali che la relegavano agli strati prerazionali. Consolo ci racconta le lotte di quel mondo, le rivolte e le battaglie per la sua sopravvivenza, in molti racconti de Le Pietre di Pantalica e in alcuni di quelli poi confluiti ne La mia isola è Las Vegas, così come nei romanzi, basti pensare alle rivolte di Alcara Li Fusi narrate ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Come afferma Flora Di Legami la scrittura di Consolo viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sé il compito di narrare quanto è andato disperso.16 Anche per quanto riguarda il discorso sull’evoluzione linguaggio nell’epoca della mutazione antropologica Consolo sembra essere in linea con quanto Pasolini diceva in Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva.17 Il discorso di Consolo sulla lingua è più profondo di quello di Pasolini, non si limita solo a un recupero linguistico di tipo dialettale, ma allarga la propria ricerca e l’operazione di salvataggio anche al piano diacronico e ai diversi livelli d’uso della lingua, restituendo sulla pagina una grande dose di ricchezza e invenzione verbale, contro l’appiattimento del linguaggio letterario su quello dei media. 5 La mutazione antropologica sfocia dunque in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino e le difficoltà della nascita di una nuova società. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, nella Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio di Verso la foce e nei racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio determinando una descrizione in cui la parola stessa diventa scarna ed essenziale e il paesaggio postindustriale ci mostra quanto la nuova società derivata dalla mutazione abbia in realtà un carattere effimero e transitorio. A differenza dello sguardo politicizzato di Pasolini e di quello partecipe di Consolo, Celati si pone dal punto di vista dell’osservatore anonimo, lasciando la centralità dell’evocazione all’immagine nuda. Una tecnica che gli viene dalla frequentazione, nei primi anni Ottanta, di quei fotografi raggruppati intorno alla figura Luigi Ghirri, i quali si proponevano di registrare attraverso il loro lavoro la mutazione del paesaggio italiano. Nell’introduzione a Verso la foce Celati definisce questi diari di viaggio come «racconti d’osservazione»18 e specifica meglio il tipo di osservazione necessaria e lo scopo che intende perseguire: Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non si capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.19 L’osservazione di Celati non ha dunque un fine consolatorio, parte dallo straniamento e arriva allo spaesamento, ma solo così lo scrittore sente di poter rendere il senso ultimo di quel «deserto di solitudine»20 che si trova ad attraversare durante le sue peregrinazioni. Celati descrive il paesaggio padano svuotato della sua storicità in seguito a una mutazione di cui rimangono solo ruderi. Anche qui, come nella Sicilia descritta da Consolo, permangono relitti di una storia che non c’è più, che entrano in contrasto con le superfetazioni della modernità. L’esempio più evidente sono forse le corti, fattorie tipiche di queste zone, ora abbandonate: Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle vilette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali.21 Di fronte alla piattezza e all’omologazione delle costruzioni moderne, le corti presentano una grande varietà di soluzioni architettoniche, che cambia da una provincia all’altra. I segni dell’antica bellezza non sono solo nelle corti, ma si possono ravvisare anche in alcuni centri storici, come in quello di Casalmaggiore Vedo strade girovaganti, portici e palazzi scrostati, finché non si arriva nelle stradine dietro il palazzo municipale, e da lì nella piazza centrale. […] Dalla piazza, ripassando per stradine un po’ in salita dietro il municipio, si arriva all’argine del Po. Accanto a una vecchia porta della città, la fila irregolare di palazzi sette-ottocenteschi, ognuno con facciata e forma e altezza 6 diverse, movimenti di linee senza mai forti squadrature, segue l’andamento sinuoso dell’argine e del fiume che si allarga in prospettiva.22 La differenza tra antico e moderno è dunque per Celati prima di tutto una questione di linee e di forme. A Codigoro lo scrittore osserva le case dalle facciate veneziane e le villette in stile liberty disposte lungo il canale, elementi che «formano davvero un luogo» e mostrano che qui «il tempo è diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco sull’altro, come le rughe sulla nostra pelle»23. A ciò si oppone la fine del tempo, fine della storia e le forme geometrizzanti rappresentate dagli elementi della modernità, che minacciano i luoghi antichi: le industrie, che finiscono per costituire delle nuove città; i centri commerciali, che nel giro di pochi anni stravolgono il paesaggio; le strutture turistiche, presenti persino nelle zone più solitarie della foce del fiume; i cartelloni pubblicitari, che ostruiscono la visuale sostituendosi al paesaggio; infine, le nuove tipologie abitative dell’omologazione, le villette a schiera. La mutazione antropologica descritta da Celati non interessa solo il paesaggio, ma lo scrittore si sofferma anche sulle modalità di vita. L’alienazione dei luoghi rispecchia quelle delle persone. I nuovi non-luoghi creati dalla società di consumo, che di lì a qualche anno saranno teorizzati da Marc Augé, sono occupati da delle non-persone, svuotate anch’esse di storicità e private della diversità in favore dell’omologazione imposta24. In Acculturazione e acculturazione Pasolini si chiedeva se le persone sarebbero davvero riuscite a realizzare il modello imposto dalla cultura di massa e si rispondeva: No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi.25 In questo senso va anche l’osservazione compiuta da Gianni Celati sui luoghi dell’abitare che la mutazione antropologica impone agli abitanti della pianura, le villette a schiera che ricorrono come leitmotiv di queste pagine. Celati riprende le teorie dell’abitare espresse da Bachelard negli degli anni Cinquanta, adattandole al nuovo contesto depersonalizzato successivo alla mutazione antropologica. Le villette diventano allora simbolo stesso dell’alienazione postindustriale dei luoghi descritti, simbolo di un tentativo falso e illusorio di nascondersi della «vita piena di pena»26 e di non vedere «l’orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali»27: Quelle case non hanno volto, hanno solo aperture di sicurezza e superfici protettive dietro cui si va a nascondere. Si esce a vedere se in giro è tutto normale, poi si torna a nascondersi nelle tane.28 Se i luoghi precedentemente descritti da Celati mostrano una stratificazione del tempo e delle epoche, qui il tempo risulta sospeso, nelle villette le persone si autoesiliano involontariamente dal7 proprio tempo. Nel 1957 Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio descriveva la casa come il luogo dove le persone si rifugiano a seguito dell’aumento di importanza della vita pubblica determinato dal progresso economico e tecnologico29. Se in Bachelard il senso di protezione evocato dalla casa ha ancora un valore positivo, Celati ci presenta trent’anni dopo i risultati di quel processo e ripropone in chiave negativa la visione della casa come rifugio. La mutazione antropologica cambia insomma i luoghi e le persone che li abitano. Raccontare la mutazione antropologica significa per gli scrittori raccontare la realtà in un momento in cui il realismo sembra essere una via non più percorribile. Ciò rende necessaria una riflessione e un lavoro da parte degli scrittori sulle forme e sui generi. Se Pasolini sceglie la via di una poesia per metà dialettale e per metà italiana per trasfigurare in forma artistica ciò che andava scrivendo nei suoi saggi, Consolo opta invece da una parte sulla rifondazione del romanzo storico su basi antiromanzesche e dall’altra sull’inserimento dell’elemento autobiografico all’interno delle strutture finzionali del racconto. Celati, infine, sceglie il diario di viaggio, un diario di viaggio denso di narratività e riflessioni, che fungono da punto di partenza per i racconti veri e propri di Narratori delle pianure e per le Quattro novelle sulle apparenze. Si nota insomma come la mutazione antropologica sia stata un motore, forse primo, che spinse gli scrittori a un ripensamento delle forme, quel ripensamento che culminerà nei nuovi realismi e nella fioritura della nonfiction a partire dagli anni Novanta, ma che affonda le basi sui grandi cambiamenti antropologici e sociologici che hanno interessato il mondo e l’Italia nella seconda metà del Novecento.

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1 A. BERARDINELLI, Premessa, in P.P. PASOLINI, Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. X. 2 Ivi, VIII.
3 PASOLINI, Acculturazione e acculturazione, in ID., Scritti corsari…, 22-23. 4 PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari…, 40. L’articolo era uscito per la prima
volta sul «Corriere della Sera» il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. 5 Ivi, 41. 6 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, 53-54. L’articolo viene pubblicato l’8 luglio 1974 su «Paese sera» come lettera aperta in risposta a Italo Calvino.
7 Ivi, 53. 8 V. CONSOLO, Arancio, sogno e nostalgia, in ID., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano, Mondadori, 2012, 133. Il racconto è pubblicato per la prima volta su «Sicilia Magazine» nel dicembre d
el 1988. Cfr. D. RAFFINI, La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario, in A.
Frabetti e L. Toppan (a cura di), Studi per Vincenzo Consolo. Come lo scrivere può forse cambiare il mondo,
«Recherches», n. 21, automne 2018, 129-142. 9 Si fa riferimento in particolare ai racconti Un sacco di magnolie, Befana di novembre, Grandine come neve e Triangolo e
luna, riproposti anch’essi nella raccolta La mia isola è Las Vegas. 10 CONSOLO, Alèsia al tempo di Li Causi, in ID., La mia isola…, 226. 11 ID., E Ciro vide Anna Magnani, in ID., La mia isola…, 229. 12 Alla coltivazione degli aranci Consolo dedica il già citato racconto Arancio, sogno e nostalgia; mentre sul tema
delle tonnare è il saggio La pesca del tonno pubblicato nella raccolta Di qua dal faro. 13 CONSOLO, Porta Venezia, in ID., La mia isola…, 113. 14 CONSOLO, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, 1388. 15 ID., Piccolo grande Gattopardo, in ID., La mia isola…, 214. 16 F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 10. 17 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in ID., Scritti corsari…, 54. 18 G. CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 2011, 9. 19 Ivi, 10. 20 Ivi, 9. 21 Ivi, 32. 22 Ivi, 38-39. 23 Ivi, 95. 24 Secondo la definizione di Augé: «Se un luogo può definirci some identitario, relazionale, storico, uno spazio
che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (M. AUGÉ, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, 73). 25 PASOLINI, Acculturazione…, 23. 26 CELATI, Verso la foce…, 35. 27 Ivi, 31. 28 Ivi, 94.
29 Cfr. G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 31-45

Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018),
a cura di A. Campana e F. Giunta,
Roma, Adi editore, 2020



Blu

Vincenzo Consolo scrive questo testo ispirandosi
all’ opera dell’ artista Marcello Lo Giudice.

blu 12
BLU

Per isole di calce, passaggi di carminio, per sprazzi gialli e sfumature verdi, ai bordi, sul ciglio d’un ignoto mondo, del più profondo azzurro, ci muoviamo. Sfioriamo un mare immenso, un immenso cielo, uno smisurato spazio, la soglia del panico, la voluttà del naufragio, del sogno e della stasi, dell’oblìo. Denso, compatto come lapislazzulo precipita, scorre tra sponde d’oro, argini di smalti. Ci prende e ci trascina questo fiume imperioso nella Venezia e Samarcanda del racconto, della favola, nell’oriente di splendori, nella Bisanzio al culmine del fasto e della grazia. Si ritrae e stempera l’azzurro, ristagna e vortica tra scialbature, muschi, biacche. Più lieve, trasparente, invade ancora il nostro spazio, con lampi incandescenti nel suo sottile corpo di cristallo, linee, curve, squarci allarmanti di scarlatto: a ogni nuova forma, metamorfosi, scrive per noi, apparecchia ansie, sortilegi, ci chiude nel recinto dell’incanto. Tracima ora dagli argini, scorre per invisibili passaggi, colma ogni vuoto, abisso, s’addensa a strati, spegne ogni luce, riflesso, culmina nella notte del mondo, nel blu più cupo, nell’assoluto nero. Compiamo questo viaggio dentro le quinte mobili e fugaci, dentro l’illusione, l’inganno, la malìa dei colori, fra l’apparenza della pittura. Dentro l’avventura dell’azzurro, del colore dell’origine, dell’infinito spazio e dell’eterno, del

dolce colore d’oriental zaffiro.

Andiamo dentro il magma etneo, il fluire e il cristallizzarsi del colore, il suo stringersi ed espandersi, stratificarsi sopra verdi, bianchi, rossi, il suo crepare e aprirsi in voragini, in abissi, il suo disintegrarsi come per immane cataclisma e stendersi sereno, denso e profondo come a suggerire acque, cieli d’una prima creazione. Una mano d’istinto e d’irruenza sembra abbia predisposto questo gioco, la mano d’un pittore che rapito dall’ incanto del colore, dall’ energia primigenia del cobalto, abbia superato, per il nostro rapimento, il nostro incanto, la superficie della tela, il confine del suo spazio, sia andato, per illuminazione, naufragio, oltre ogni grammatica, ogni sintassi.

1995, maschietto&musolino Firenze, Siena.
Confluito nel libro L’ ora sospesa ed. Le Farfalle. 2018

NOTTETEMPO, CASA PER CASA

1920, Cefalù. È notte. Al sorgere della luna gli ulivi che affollano la collina Santa Barbara sembrano “sradicarsi, muover dondolando, in tentativo di danza, in mutolo corteo, aspri, rugosi, piagati dalle folgori, maculati da lupe, da fumiggini, spansi o attorti con spasimo in se stessi”. Un’atmosfera magica ma anche angosciosa si sparge per la cittadina. Una porta si spalanca di colpo, ne esce barcollando un uomo che si morde le mani, si strappa la camicia al collo, inizia a correre ululando e urlando per le stradine silenziose. “Il luponario! Il luponario”, bisbigliano i suoi compaesani chiusi in casa al suo passaggio. L’uomo ogni tanto cade a terra, si inginocchia, si rotola nella polvere, batte i pugni contro il suolo, piange e ulula ancora. Giunge al mare e vorrebbe gettarsi dagli scogli, ma lo raggiunge, lo abbraccia e lo salva suo figlio Petro. Lui si divincola, corre verso il cimitero, si accascia su una lapide, finalmente si calma. 1920, Cefalù. È giorno. Fa molto caldo e “la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze”. La bottega della Piluchera è affollata, si bevono vino, gazzosa, cedrata, persino acqua. Dal viale Margherita, procedendo su per via Mazzini e accompagnato da una strana musica “segreta d’ascosi pifferi, timballi e ciaramelle”, appare d’un tratto senza preavviso il corteo di forestieri più stravagante mai visto a Cefalù. Davanti a tutti marciano “due fantolini biondi, arricciolati”, vestiti di panni sgargianti. Seguono due donne in tunica color porpora e a piedi nudi. Chiude il corteo l’individuo più strano di tutti: è pieno di anelli e collane, ha un grande bastone dorato e con l’altro braccio tiene un neonato avvolto in panni di pizzo. È “un uomo maestoso, giacca d’alpagà sopra brache variopinte, (…) il cranio raso tranne una ciocca che come corno o fiamma gli si rizzava al colmo della fronte”…

Il magnifico romanzo di Vincenzo Consolo – nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 e morto a Milano, dove per una vita ha lavorato alla RAI, nel 2012 – è stato insignito del Premio Strega nel 1992. Magnifico per l’impianto narrativo complesso e sfaccettato, una vera sinfonia in cui la singola nota suonata dal singolo strumento è necessaria e contribuisce alla maestosità dell’insieme, magnifico per i temi affrontati (l’impatto dell’occultista Aleister Crowley e della sua corte variegata sull’ambiente della provincia siciliana degli anni Venti, e contemporaneamente l’avvento del Fascismo). Magnifico più di tutto per la lingua ricchissima, piena di arcaismi, neologismi e localismi. Non è raro imbattersi in prose ricercate, soprattutto nella narrativa italiana, lo sappiamo bene e lo riteniamo un difetto, un limite, un peccato originale. Ma Consolo è tra i pochissimi autori che possono permettersi uno stile così barocco, perché ha la sensibilità e l’approccio del poeta, maneggia la parola come fosse un orafo. Ecco perché le sue frasi profumano di zagara, di arancia, di acqua di mare, di notte d’estate, di sesso femminile. E la spiccata sensualità che la lingua di Consolo trasmette, come fosse un incantesimo arcaico, si adatta alla perfezione a raccontare le avventure di Mr. Crowley, che alla villa di Santa Barbara di Cefalù – da lui ribattezzata Abbazia di Thélema richiamando la sua dottrina, a sua volta così chiamata in onore del Gargantua di Rabelais – mise in scena una colorata rappresentazione di sé e delle sue rivoluzionarie idee in tema di religione, sesso e società, fondando una sorta di “comune” ante litteram. Libero amore, nudismo, abolizione dei vincoli e delle proprietà, droghe, rituali religiosi eretici. Uno scandalo che l’asfittica società siciliana non poteva tollerare (Crowley fu addirittura ribattezzato “u diavulu”) e che peraltro fu inquinato anche da voci false di cannibalismo, sacrifici umani, stupri, fino alla cacciata dell’occultista inglese dall’Italia ad opera delle autorità fasciste.

David Frati 
http://www.mangialibri.com/libri/nottetempo-casa-casa

Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo

Nicola Izzo

Negli anni Ottanta, la produzione di Consolo è contraddistinta dalla stilizzazione barocca, che raggiunge il suo culmine con Retablo (1987), opera-laboratorio e straordinario compendio letterario. Tale studio si concentra sulla pratica di riscrittura espletata dall’autore siciliano, che, quale il Pierre Menard autore del Chisciotte borgesiano, ricrea e rivisita testi importanti della letteratura italiana (Leopardi, Ariosto) ed europea (Goethe, Jaufré Rudel, Eliot).

Parole chiave:Consolo , Retablo , Leopardi , Ariosto , Genette , intertestualità , palinsesto , parodia , ribaltamento

1 Retablo è un che si contraddistingue per la sua fitta stratificazione linguistica e letteraria, che va a termine – declinandosi attraverso un’abile e ricercata commistione di prosa e lirismo, raffinato pastiche espressionistico di toni e stili un vero e proprio palinsesto, che richiama quanto teorizzato da Gerard Genette a proposito della letteratura della seconda metà del Novecento (Genette 1982). L’intento di tale studio è pertanto di penetrare tra i vari livelli dell’opera, alla ricerca dei numerosi riferimenti intertestuali presenti, estrinsecandone in modo speciale i giochi di parodie e ribaltamenti operati da Consolo.
A ciò va premio che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comp (…)

2 Il primo obiettivo è quello di analizzare il modo in cui i personaggi dell’opera interagiscono all’interno del microcosmo consolano. La passione che lega frate Isidoro a Rosalia e il sentimento di Fabrizio Clerici sono manifestazioni di due opposte concezioni amorose, che rimandano a topoi medievali attestati repertorio della letteratura.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, ro (…)
Alle prime intense parole d’ordine di utilizzatore», non notare quanto esse presentino le medesime caratteristiche li forma che Guiette identificava nel modello utilizzato, riconoscevi «la supremazia dell’ordine estetico utilizzato per il suo valore incantatorio» e sublimato « ove «il linguaggio verrà utilizzato per suo valore incantatorio» e sublimato « dalla sua collocazione, dal suo volume, dall’uso che ne viene fatto» (Guiette 1990: 140).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Conso (…)
Il racconto di Isidoro e Rosalia è affiancabile al contrasto di Cielo o Ciullo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima , breve composizione che il De Sanctis identificava come il primo testo della letteratura italiana (De Sanctis 1981: 59) e che rielaborava il modello della pastorella (sottogenere della lirica medievale che Bec inserimento nel registro popolareggiante) (Formisano 1990: 123) attraverso la «rottura del contrasto un po’ meccanico fra il portatore delle convenzioni cortesi e la detentrice dell’istintiva diffidenza e riottosità dell’ambiente plebeo» ( Pasquini 1987: 119).
5 Alcune concordanze possono anche il gioco evidenziabili e confermerebbero letterario operato dallo scrittore siciliano:
Ahi, non abènto , e majormente ora ch’uscii di Vicarìa (Consolo 1987: 19).
Per te non ajo abènto notte e dia (Rosa fresca aulentissima, str. I, v. 4).

O ancora:
[…] la quale m’illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze , smesso il saio, avrei impalmato la figlia sua adorata Rosaliuzza (Consolo 1987: 23).
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
men’este di mill’ onze lo tuo abere (Rosa fresca aulentissima, str. XVIII, vv. 4-5).
Il rivolgersi in prima persona al proprio amato scandendone il nome in funzione vocativa richiamerebbe una certa teatralità, non estranea all’ambito giullaresco e popolaresco (Apollonio 1981: 107-109); tuttavia, alle prime intense evocazioni dei due incipit di Oratorio e Veritas , vi sono due cesure orientate ad includere le due opposte della versione vicenda che deve l’ini afflato lirico-sentimentale a una struttura dal respiro diegetico più ampio, la cui vivacità e concretezza ricondurrebbero alla tradizione dei fabliaux .

6 Un modesto chierico e un’umile popolana si configurano come due protagonisti ideali di un ipotetico fabliau , dacché, come afferma Charmaine Lee «i frequentatori di questi luoghi ci vengono descritti con abbondanza di dettagli, e quasi con una sorta di compiacimento nel ritrarre gli aspetti più bassi della realtà» ( Lee 1976: 27) . E racconto senso di concretezza si declina nell’accezione tutta erotica dell’amore che congiunge i due protagonisti.
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesi (…)

7 Considerata la coscienza tabuizzata medievale, l’oscenità andava infatti a costituire un serbatoio rilevante di temi per i fabliaux ; seppure tale licenziosità non fosse affatto l’esito di menti pretestuosamente lubriche, bensì espressione di un carnevalesco e faceto senso del contrario che si risolveva nella parodia del modello di riferimento, ovvero quel fin’amor cortese che plasmava il modello curiale e che in Retablo è riconoscibile nel racconto di Fabrizio intorno al quale ruota il secondo capitolo dell’opera, Peregrinazione 5 .

8 Questo senso del contrario è rilevabile anche attraverso la maniera in cui Isidoro e Rosalia utilizza l’immaginario religioso. Le fattezze di Rosalia nella mente d’Isidoro si ricollegano alla statua dell’omonima Santa (Consolo 1987: 19), così come l’aspetto del fraticello viene da lei giudicato «torvo, nero come un san Calogero» (Consolo 1987: 194) paragonato al giovane «biondo e rizzuto come un San Giovanni» (Consolo 1987: 194) di cui ella s’infatua all’inizio del racconto. Tale operazione di sniženie bachtiniano, di iconoclastico abbassamento sul piano materiale e corporeo di figure spirituali (invero giocato al limite della blasfemia), porta con sé una non trascurabile carica di irriverenza; e al devotamente suscettibile uditorio medievale non poteva che destare il riso (o quantomeno suscitarne lo scandalo) (Bachtin 1979: 25).

9 L’amore che lega Rosalia ed Isidoro è un sentimento denso di passione e di sensualità, che, come canta Ariosto, «guarda e involva e stempre/ogni nostro disegno razionale» (Ariosto 1976: XIII, 20) e che alla fine conduce all ‘insania il protagonista. Tale immagine di follia amorosa – «questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso, a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello» (Consolo 1987: 58) – non può che rievocare le mirabolanti vicende dell’Orlando Furioso, verso cui lo scioglimento di alcuni nodi intertestuali riconduce il lettore di Retablo.
10 Già lo stesso elegiaco lamento di Isidoro, che occupa le pagine iniziali di Oratorio , rende assimilabile la percezione del proprio sentimento a quell’effetto insieme inebriante e stuporoso cantato dall’Ariosto:

[…] libame oppioso, licore affatturato, letale pozione (Consolo 1987: 17).

«e questo hanno causato due fontane
che di effetto liquore
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie core;
che bee de l’altra, senza amor rimane» (Ariosto 1976: I, 78).

6 Ma anche Ariosto 1976: X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri (…)Passione che logora e consuma, provocando quel «duol che sempre il rode e lima» (Ariosto 1976: I, 41) 6 , ea cui Consolo in Retablo conferisce maggiore carnalità rispetto all’accezione intellettuale ariostesca:
lima che sordamente mi corrose l’ossa (Consolo 1987: 18).
che ‘l poco ingegno ad o ad o mi lima (Ariosto 1976: I, 2).
Tale poche erotismo viene riassunto nelle righe che narrano della ben celata dote del fraticello,
[…] e t’appressasti a me che già dormivo, ah Isidoro, Dio benedica, io subito m’accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità (Consolo 1987: 194). E che rievocano parodisticamente uno dei più salaci episodi ariosteschi, quello di Bradamante, Ricciardetto e Fiordispina.

E se non fosse che senza dimora

Vi potete chiarir, non credereste:

e qual nell’altro sesso, in questo ancora

ho le mie voglie ad ubbidirvi preste.

Commandate lor pur, che fieno o ora

e sempre mai per voi vigile e deste.

Così le dissi; e feci ch’ella istessa

Trovò con man la veritade espressa (Ariosto 1976: XXV, 65)

11 La voluttuosa follia di Isidoro, in cui convivono illusione e eros, è al centro anche di Peregrinazione , secondo capitolo di Retablo in cui – invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello «che per amor venne in furore e matto» (Ariosto 1976: I, 2)
[…] divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un forsennato (Consolo 1987: 186).

E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo

l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;

e cominciò la gran follia, sì orrenda,

che de la più non sarà mai ch’intenda. (Ariosto 1976: XXIII, 133)
D’altronde al lettore colto di Retablo non sarà sfuggito che il racconto di Fabrizio Clerici si avvicina per rutilante vitalismo, visività e inventiva all’opera ariostesca, ovvero a quell’ideale di rappresentazione della vita «nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali» (Consolo 1987: 63).

12 Il viaggio di Fabrizio in Sicilia presenta, attraverso efficaci immagini e ironici capovolgimenti, una realtà in cui il confine con la menzogna risulta labile, ove ci si imbatte in «venditori d’incanti e illusioni» (Consolo 1987: 63), in retablos de las maravillas che trasportano in lontani castelli d’Atlante in cui «a tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun brama e desia» (Ariosto 1976: XII, 20), attraverso una lunga e immaginifica sequela di visioni in cui sfilano anche io potenziale:
Ecco che in mezzo a voi passa, sul suo destrier bianco e lo stendardo in mano del Redentore nostro Gesù Cristo, seguito da’ chiari e baldi, dai più arditi cavalèr normanni, il Conte magno, Roggiero d’Altavilla, il grande condottiero che l ‘isola liberò dal giogo saracino […] (Consolo 1987: 65).
A tal proposito, è d’uopo rimarcare che Consolo, richiamando il poema ariostesco, ne dissolve il proposito encomiastico in un ironico rovesciamento di prospettiva, in linea con i suoi propositi critici ed estetico-ideologici. L’autore di Retablo è stato uno scrittore permanentemente protetto alla ricerca della verità, in lotta contro le falsificazioni imposte dai poteri costituiti, rappresentati un tempo proprio da quella cavalleria cantata da Ludovico Ariosto, e di cui con sarcasmo egli mette in dubbio i valori, come è evidenziabile in questo passaggio: «voglia il cielo che in fatto d’armi, di violenze e guerre, valga comunque e sempre la finzione» (Consolo 1987: 112).
13 Valori dissolti in una dimensione etica che appare infatti contraddittoria, ambigua, manipolata. Sa lo scrittore siciliano che l’asservimento è costume troppo frequent, come deplorava già San Giovanni ad Astolfo riconoscendo «la giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli/che viveno alle corti e che vi sono/più grati assai che ‘il virtuoso e ‘l buono» (Ariosto 1976: XXXV, 20) e come Fabrizio stigmatizza nella sua invettiva a mo’ di serventese, scagliandosi contro «l’impostore, il bauscia, ciarlatan» (Consolo 1987: 128).
14 In Retablo , Consolo si confronta soprattutto con il tema metaletterario della mistificazione artistica ad uso del potere, rappresentato da «il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa» e dal «poeta dalla putrida grascia brianzola» (Consolo 1987: 128), domanda che già Ariosto aveva posto cinque secoli o sono:

Non fu sì santo né benigno Augusto

Come la tuba di Virgilio suona.

L’aver avuto in poesia buon gusto

La proscrizion iniqua gli perdona (Ariosto 1976: XXXV, 26)
Chiedendosi se in «questo che tutti chiamano il teatro del gran mondo, vale sovente la rappresentazione, la maschera, il romore vuoto che la sostanza vera della realtate» (Consolo 1987: 112).

15 Come accennato in precedenza, al sentimento segnato dalla carnalità e dalla sensualità di Isidoro si contrappone l’aureo amore ideale di Fabrizio, narratoci da lui stesso in Peregrinazione.
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blas (…)

16 Già in epigrafe Consolo consegna al lettore attento e meticoloso la chiave per aprire il portello centrale di Retablo, dove ci viene narrato il sentimento di Fabrizio Clerici per la contessina Teresa Blasco 7:

Avendo gran disio,

dipinsi una figura

bella, a voi somigliante.

Come in questa canzonetta Jacopo da Lentini rielabora e adatta al proprio substrato culturale stilemi e temi della lirica trobadorica provenzale, l’autore di Retablo svolge in questo capitolo – riprendendolo e proponendone un’ironica lettura in prospettiva postmoderna – il leitmotiv del fin’amor , l’amore inteso come suprema forma di affinamento spirituale. Fin’amor che contrapponendosi al fals’amor , l’amore nel senso carnale che lega Isidoro a Rosalia, va a formare una struttura a chiasmo in cui le due coppie – Isidoro e Rosalia, Fabrizio e Teresa – si pongono l’una al polo contrario dell’altra.

17 In Retablo sono presenti quei già largamente attestati nella retorica mediolatina che tutti i simboli devono riconoscersi subito quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione artistica e il cui ricorso implicava, per i poeti, collocarsi nell’alveo di una tradizione consolidata e insieme approfondirla (Di Girolamo 1989: 36).
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si ri (…)
9 È Fabrizia Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo , a suggerire, nella sua re (…)
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.

18 Sin dalla dedicatoria il cavaliere Fabrizio pone in risalto la sottomissione alla sua domna 8 , doña Teresa, raffigurata come sublime figura («donna bella e sagace, amica mia, che un padre di Spagna e una madre di Sicilia ornaro di virtù speciali», Ret .:33) attorniata da una turba di savai , uomini vili («sciocchi e muffi e mercantili», Ret .: 33). E, mentre procede egli nella sua quête 9 cavalleresca, il pittore milanese vagheggia della propria amata, la cui dimensione platonica viene caricata da Consolo nei suoi tratti d’irraggiung. irraggiungibilità che si collega al tema della distanza (e quan me sui partitz de lai/remembram, d’un amor de lonh ) 10 che nel fitto repertorio della letteratura provenzale è trattato da Jaufré Rudel.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si c (…)12 Ibidem.

19 Quelle che rimangono ad oggi alcune delle più interessanti interpretazioni date all’ amor del lonh rudeliano 11 sono sovrapponibili al sentimento di Fabrizio ea «quel volontario vallo», «gelida distanza» (Consolo 1987: 76) che pone egli tra sé e la sua dama. L ‘amor de lonh di Fabrizio Clerici traduce in concreto quel sottile senso di angoscia compendiato nel paradosso cristiano di un «reale irreale» (il mondo invisibile esiste mentre quello visibile non ha nessuna esistenza) 12, come del resto conferme le sue inquietudini metafisiche («cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, […]?», (Consolo 1987: 134)). Da qui laperegrinazione come forma di affinamento spirituale.

20 Tuttavia, questo esemplare riconducibile al filone dell’amor cortese viene anch’esso capovolto in Retablo . Come è narrato nella sua vida , Jaufré Rudel dirigeva il suo amore verso la Contessa di Tripoli, donna che non aveva mai visto, ma di cui aveva ascoltato la descrizione, procedendo dunque dall’ideale al concreto. Al contrario, Fabrizio vagola alla ricerca di un’astrazione da ricondurre al concreto modello di partenza, di un «frammentario brano di poesia o d’un eccelso modello di beltà» (Consolo 1987: 77). Questo di Fabrizio è un amore dunque perfettamente intellettualistico, totalmente contemplativo, e che nulla concede al desiderio de «le carni ascose immaginate» (Consolo 1987: 172).

21 Tale eccesso di mezura – per usare un efficace ossimoro – non porta ad alcuno forma di elevazione e perfezione spirituale quale prevista dal fin’amor . Il nostro protagonista, alla fine della sua peregrinazione, si ritroverà più smarrito di prima e l’unico cambiamento inferto alla sua condizione di partenza sarà la notizia del matrimonio tra la sua amata Teresa Blasco e il Marchese Cesare Beccaria.

22 In Retablo, nel finale, si verifica anche questo estremo ribaltamento dello schema di riferimento: il protagonista non accetterà il «compromesso» che è posto alla base del fin’amor : all’ amor del lonh preferirà un’errabonda solitudine e alla servitium amoris un prematuro comiat : «Ora addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria» (Consolo 1987: 189).
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tou (…)

23 Siamo giunti in questo modo alla fine del percorso compiuto dai protagonisti, percorso che presenta molti tratti assimilabili alla tradizione della narrativa picaresca 13. Tuttavia, poiché poiché Consolo rovescia anche la struttura del Bildungsroman , Fabrizio, alla fine del suo cammino, non avrà raggiunto né una crescita interiore, né tantomeno una calma accettazione del presente, ma vivrà per sempre con quello che definisce un «dolore senza nome» (Consolo 1987: 140).

24 Questo senso di ineluttabilità non è soltanto un’angoscia individuale, ma in Retablo si collega alla concezione postmoderna della Storia, («[…] noi naufraghi di una storia infranta», (Consolo 1987: 146)), di cui è andata persa l ‘idea di causalità. Ed è in questa atmosfera rarefatta di disincanto che riecheggiano i versi del Leopardi, la cui memoria letteraria è importante anche per l’analisi dell’altra grande opera barocca di Consolo, Lunaria (Consolo 1985 e 1996) , pubblicata due anni prima di Retablo . Il dialogo col poeta di Recanati non è solo poetico, ma anche filosofico, in quanto il pessimismo di Fabrizio Clerici è assimilabile a quello che pervade i Canti leopardiani.

25 Inequivocabili sono le concordanze con L’infinito :
sedendo e mirando , e ascoltando… (Consolo 1987 : 101)
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
Ma sedendo e mirando … (L’Infinito , v. 4) 14

26 E con La Ginestra :
O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!» (Consolo 1987: 128)
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco (La Ginestra, vv. 52-53)
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubbli (…)

Il pessimismo storico di Leopardi viene da Consolo tradotto nello scetticismo antilluministico di Fabrizio Clerici («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!»; Consolo 1987: 42) che porta questi ad allontanarsi dalla Milano illustri dove intellettuali come i fratelli Verri e Cesare Beccaria, l’autore del saggio Dei delitti e delle pene, che diffondendo le nuove idee del Secolo dei Lumi 15.

27 La critica antistoricistica postmoderna si esprime in Retablo attraverso la caduta del mito del progresso. E, riflesso nella finzione romanzesca settecentesca, è riconoscibile il giudizio che dà l’autore agli anni Ottanta del Novecento, anni in cui alla composizione letteraria egli affianca la pratica giornalistica. La Milano tanto odiata da Fabrizio Clerici è la stessa città contro cui l’autore scaglia la propria invettiva. Erano quelli gli anni del governo socialista di Bettino Craxi (che darà vita dieci anni dopo allo scandalo di Tangentopoli) e in cui in Italia c’era una diffusa idea di benessere. Consolo, da grande intellettuale, individua proprio in quel periodo la nascita del degrado sociale e culturale italiano, e non esita a condannarlo dalle pagine del suo romanzo:
Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solo nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrica grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987: 128)
Al tema storico di Retablo si coniuga anche il tema metafisico del Tempo. Uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Consolo è proprio il «male di vivere», la profonda consapevolezza della caducità delle cose. Le rovine di antiche civiltà presenti durante la Peregrinazione dei nostri protagonisti ci vengono come destino «simboli indecifrati ed allarmanti» (Consolo 1987: 42), manifestazioni della contingenza che domina il destino dell’Uomo.

28 Fabrizio si reca tra gli antichi templi siciliani per abbandonare il concetto di Tempo escatologico e tornare al Tempo classico e circolare del mito e finalmente ritrovare ristoro dalle proprie angosce nella «stasi metafisica» (Consolo 1987: 40).
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quel (…)

29 Il tour siciliano di Fabrizio avviene nella stessa epoca in cui si colloca un altro importante resoconto di viaggio, quasi parallelo al tour del nostro protagonista, quello di Goethe in Sicilia 16 , parte centrale del suo tour italico alla ricerca delle radici culturali e civili dell’ Occidente. Il grande poeta – che all’epoca aveva trentasette anni, nel pieno del suo fulgore artistico – arriva in Sicilia dopo averto le raffinate suggestioni di Venezia, l’eleganza colorata rinascimentale di Ferrara, la maestosità di Roma, la confusa e vivacità di Napoli , ed aver goduto sia dei diversi paesaggi culturali sia dei vasti campionari minerali, vegetali e paesaggistici offerti dalla penisola.

30 Alle tre pomeridiane del 2 aprile, allo sguardo estasiato del poeta tedesco, si offrì «il più ridente dei panorami», Palermo:
La città, situata ai piedi d’alte montagne, guarda verso nord; su di essa, conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino con la sua elegante linea in piena luce, a sinistra la lunga distesa della costa, rotta da baie, penisolette, promontori. Nuovo fascino aggiungevano al quadro certi slanciati alberi dal delicato color verde, le cui cime, illuminate di luce riflessa, ondeggiavano come grandi sciami di lucciole vegetali davanti alle case buie. (Goethe 1983: 255-257)
Il medesimo spettacolo si offre a Fabrizio, assalito sul ponte nave dalle prime impressioni antelucane di una Palermo immersa nell’incantevole aria mattutina e inondata di luce:
[…] in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d ‘antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontano correvano le strade. (Consolo 1987: 35)
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo (…)
Gli effetti di luce e di riverbero su cui indugiano le consoliane fanno parte di quella «retorica della luce» 17 descritto da Paola Capponi, e in cui pagine va considerata la stessa esperienza biografica dello scrittore. La polarizzazione su cui è incentrata tale riflessione si basa ancora su due coppie disposte a chiasmo: una che si muove sul piano orizzontale e diatopico – la Milano di Fabrizio Clerici e dell’ emigréVincenzo Consolo contrapposta ai luoghi natii dello scrittore siciliano – e l’altra di ordine verticale e diacronico – che si muove tra il grigio presente lombardo e le atmosfere mediterranee del suo passato: «Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro. » (Consolo 1987: 34). E la memoria influenza così la percezione dei fenomeni esterni, come viene espresso in queste righe:
«E sognare è viepiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato» (Consolo 1987: 95).

31 Ma ciò si verifica soltanto in quella metaforica camera oscura ove acquistano forma le reminiscenze dell’autore. Infatti nella dimensione reale e presente, come ha modo di testimoniare il milanese Fabrizio ad Alcamo, ove vige un iniquo sistema di poteri, lo splendore isolano si effonde anche sulla miseria ed ha forza abbacinante, dissimulatoria:
Ma fu quello come il segnale d’un assalto nella guerra, la guerra intendo, antica e vana, contra il nemico della fama. Che non si scorge qui, di primo acchitto, come da noi ne’ nebbiosi e gelati inverni nella campagna bassa o su per le valli sopra i laghi o sotto le gran montagne delle Alpi, ovvero meglio in alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano, per la chiarità del cielo e pei colori, per la natura benevola e accogliente […] (Consolo 1987: 69).
Anche Goethe, perso nelle sue ricognizioni artistiche e scientifiche, ha modo di assistere, proprio ad Alcamo, al penoso spettacolo di questa «guerra tra poveri»:
Qualche cane ingoiava avido le pelli di salame che noi gettavamo; un piccolo mendicante cacciò via i cani, divorò di buon appetito le bucce delle nostre mele e venne a sua volta messo in fuga dal vecchio accattone. La gelosia di mestiere è di casa ovunque. (Goethe 1983: 297)
e di misurare la propria indignazione sulle problematiche sociali dell’isola, di biasimarne l’ambiguo e corrotto sistema di poteri che fa perno sulla religiosità cristiana,
[…] l’intera cristianità, che da milleottocento anni asside il suo dominio, la sua pompa ei suoi solenni tripudi sulla miseria dei propri fondatori e dei più zelanti seguaci (Goethe 1983: 264)
e di cui siamo efficaci ragguaglio anche in Retablo.
E il Soldano in pompa magna, quale sindaco della civitate, in uno con i decurioni, e con gli amici, seguito da cavalieri e da pedoni, in quella festa della patrona santa, fece la visita e l’omaggio a tutti i conventi, ritiri , orfanotrofi, spedali, chiese, collegi, monasteri e compagnie. E in ognuno, in sale, refettori o sacrestie, era ogni volta un ricevimento con dolciumi e creme, rosoli, caffè e cioccolata (Consolo 1987: 60).
La Sicilia si offre quale realtà composita, come egli ha modo di notare appena sbarcatovi in ​​quel di Palermo «assai facile da osservarsi superficialmente ma difficile da conoscere» (Goethe 1983: 255); un metaforico vasto retablo, meraviglioso e vivace, che può rivelare una miserrima realtà.

32 Tuttavia è da notare che l’animo, seppur sensibile, del grande autore del Werther, non sembra turbarsi intimamente, come accade invece a Fabrizio Clerici. Ciò è giustificabile con la semplice constatazione che, mentre il viaggio di Goethe in Sicilia in uno dei tanti tour che uomini di alta cultura compivano in quel tempo per gustare gli splendori naturali dell’isola e immergersi nelle sue anticheggianti suggestioni, dietro
Il viaggio letterario del lombardo Fabrizio Clerici si cela il nóstos di Vincenzo Consolo e il lamento per la sua terra ferita intride di sé le pagine dell’opera:
Dietro la croce e la Compagnia, venia la gente più miserevole, la più lacera, malata e infelice. Ed era, così ammassata, così livida, come la teoria d’un oltretomba, una processione d’ombre, d’umanità priva di vita e di colore (Consolo 1987: 184).
L’autore siciliano sa che dietro alle mirabolanti facciate come quelle architettoniche di Trapani, dietro alle bellezze fastose, si cela una realtà di brutture, su cui si spande un mirabolante, quanto ingannevole, velo:
Mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali de’ palazzi della rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava (Consolo 1987: 184).
La prosa consolaana rivela, attraverso la sua efficace espressività, una tensione maggiore, un più acuto sguardo, laddove Goethe sembra solo intento a gratificare la propria algida curiosità di visitatore, come accade tra le rovine della terremotata Messina. Nell’autore tedesco sembra che l’itinerario siciliano produca nulla più di un vacuo corroboramento del suo gusto estetizzante e razionale. Laddove Fabrizio sembra inquietarsi, sconfortarsi sempre più per il desengaño che ad ogni piè sospinto sembra squarciare il velo di maraviglia che ammanta l’isola, il poeta tedesco sembra esaltarsi:
l’esaltazione poetica che provavo su questo suolo supremamente classico faceva sì che di tutto quanto apprendevo, vedevo, osservavo, incontravo, m’impossessassi per custodirlo in una riserva di felicità (Goethe 1983: 333).
Eppure sia Clerici che Goethe giungono in Sicilia con un bagaglio estetico e culturale similitudine. Goethiana infatti è l’intenzione di risalita alle origini, storiche e culturali in prima istanza, ma anche naturali, a cui Fabrizio aggiunge un ulteriore fattore sentimentale:
[…] mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro meraviglioso sembiante, della grazia che dagli avoli del corno di Sicilia ereditaste, in tanto che viaggio in cerca delle tracce d’ogni più antica civiltate. (Consolo 1987: 77).
Mentre la ricerca del poeta tedesco sembra focalizzarsi su una più asettica analisi biologica, ovvero uno studio sull’ Urpflanze , la pianta originaria che egli stesso aveva teorizzato:
Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria (Goethe 1983: 295).
Ma soprattutto il poeta dell’ Italienische Reise e il pittore di Retablo – dalla predilezione artistica tuttavia analoga a quella del compagno di viaggio di Goethe, il pittore Christoph Heinrich Kniep – sono accomunati dal medesimo punto di riferimento artistico: quel canone neoclassico ed ellenizzante, winkelmanniano , ravvisabile nell’opera di Consolo nell’episodio della statua moziese:
Più che un umano atleta trionfante, un dio mi parve, un Apolline, dalle forme classiche, ideali, di quelle tanto amate dal Winkelmano.(Consolo 1987: 159)
e rintracciabile più volte nelle proprie di Goethe. Tuttavia equilibrio il poeta tedesco vi dimostra un più legame, rivelando una maggior aderenza a quell’ sintesi d’armonia, compostezza e razionalità mediato dal von Riedesel: «[…] alludo all’eccellente von Riedesel, il cuicino custodisco in seno come breviario o talismano.» (Goethe 1983: 307). Mentre, per quanto riguarda il protagonista dell’opera di Consolo, nel gusto della descrizione-elencazione sono ravvisabili influssi barocchi.

33 Efficace, a tal proposito, è il raffronto che può essere operato attraverso le opposte rappresentazioni del tempio di Segesta, al centro di una delle scene più suggestive di Retablo, ove si palesa la differenza sostanziale di atteggiamento dei due viaggiatori:
Le colonne sono tutte ritte; due, ch’erano cadute, sono state risollevate di recente. Se rivela o no uno zoccolo è difficile definire, e non esiste un disegno che c’illumini al riguardo […]. Un architetto potrebbe risolvere la questione (Goethe 1983: 306).

Il diametro di tutte le colonne è di 6 piedi, quattro pollici, sei linee; l’altezza di 28 piedi, e sei pollici… E potrei viepiù continuare se non temessi di tediarvi con altezze e larghezze e volumi, con piedi e pollici e linee (Consolo 1987: 97)
Laddove Goethe rivolge la sua attenzione alla semplice ricognizione tecnico-strutturale, il pittore milanese si lascia rapire dalla fascinazione «del tempio che vorrei ritrarre in modo distanziato, come fosse una realtà che poggia sopra un altro pianoforte, in un’aura irreale o trasognata» (Consolo 1987: 109); e alle speculazioni estetico-architettoniche goethiane si contrappongono le riflessioni di carattere metafisico del protagonista consolano:
[…] Come porta o passaggio concepire verso l’ignoto, verso l’eternitate e l’infinito. (Consolo 1987: 99)
Goethe, come ci suggerisce lo stesso Consolo, giunge in Sicilia, questa realtà eterogenea e prismatica, cercando non di raccontarla, bensì di «misurarla», con la capziosa – o piuttosto presuntuosa – crede di decifrare il mistero siciliano:
Sono, ripetiamo, queste certezze riposte nella bellezza, nell’ordine, nell’armonia, nella cognizione e classificazione della natura, gli argini, le barriere contro l’indistinto, il caos, l’imprevedibile, il disordine. Contro l’infinito (Consolo 2001: 246).
A differenza di Goethe, Fabrizio riesce a spogliarsi dei suoi oberanti metri illuministici e riesce ad abbandonare gli stereotipi estetizzanti e classicheggianti legati al mito siciliano. Le antiche vestigia così alimentano le sue inquietudini in quanto tracce degli orrori alla storia dell’Uomo che «vive sopravvivendo sordo, cieco e indifferente su una distesa di struttura e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe» (Consolo 1987: 151). Nel viaggio storico del poeta tedesco invece non vi è traccia di tali riflessioni, da cui, anzi, sembra rifuggire:
Non bastava, osservai, che di tempo in tempo le sementi venivaro, se non da elefanti, calpestate da cavalli e uomini? Che bisogno c’era di ridestare bruscamente dal suo sogno di pace la fantasia risuscitando tali frastuoni? (Goethe 1983: 259)
Clerici si arrenderà al mistero siciliano, alla sua ricchezza ed al suo fascino, contrariamente al poeta tedesco che schiavo della sua razionale riluttanza di non varcare, nel viaggio a ritroso verso l’antichità della storia, verso l’origine della civiltà, la soglia dell’ignoto, di non inoltrarsi nell’oscura e indecifrabile eternità; di non smarrirsi, immerso in una natura troppo evidente e prorompente, nell’indistinto, nel caos infinito. (Consolo 2001: 244)
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est (…)

34 Come è stato scritto da Genette «une dialettique perplexe de la veille et du rêve, du réel et de l’imaginaire, de la sagesse et de la folie, traverse toute la pensée baroque» (Genette 1996: 18). Opera barocca per eccellenza, Retablo gioca sull’oscillazione tra i temi della maravilla ed il desengaño , della verità e della mistificazione, tra le percezioni sensibili della superficie dei fenomeni e l’abisso dell’esistenza, tra le visioni che il mondo propone ei riflessi capovolti di esse. I protagonisti consoliani si trovano quindi «a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido», e ciò lungo il corso di un divertissement letterario, che – collegandosi e capovolgendo un celebre pensiero di Blaise Pascal 18– non spinge alla distrazione dalle domande dell’interiorità, ma ne esprime attraverso un’intensa sensibilità stilistica, dacché come affermare ancora Genette «l’univers baroque est ce sophisme pathétique où le tourment de la vision se résout – et s ‘achève – en bonheur d’expression».
O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio ​​sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? (Consolo 1987:135)

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I DOI vengono aggiunti automaticamente ai riferimenti da Bilbo, lo strumento di annotazione bibliografica di OpenEdition.
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APPUNTI

2 A ciò va premesso che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comprensione e decodifica del racconto di Isidoro e Rosalia – senza dimenticare la predella situata nell’esatta metà dell’opera – presuppone una lettura unitaria laddove essa si presenta scissa in due capitoli: Oratorio e Veritas, e presentanti ciascuno il relativo punto di vista narrativo.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato.» (Consolo 1987: 17-18). A queste parole nella risposta quelle di Rosalia, su parte finale dell’opera: «Isidoro, dono dell’alma e gioia delle carni, spirito di miele, verdello della state, suggello d’oro, candela della Pasqua, battaglio d’ogni festa […]» (Consolo 1987: 193).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Consolo a favore della seconda ipotesi quando introdurrà, ammantata da una notevole ironia, la sedicente Accademia poetica de Ciulli Ardenti. A tal proposito, è interessante notare che anche Dario Fo si è soffermato su Rosa fresca aulentissima, identificando il nome esatto dell’autore in Ciullo e scartando l’invalso Cielo, risultato questo di una mistificazione culturale a scopo censorio (ciulloindica anche membro il maschile). È quanto meno ipotizzabile che Consolo conosca l’altro e più scurrile significato della parola, tant’è che sembra giocarci col lettore in queste righe: «di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de l’Accademia ardente che al nome suo s’appenne» (Consolo 1987: 54).
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesia, del clero, del contado, o anche dell’aristocrazia, ma in una chiave beffarda che sembra antitetica a quella del romanzo o del lai » (Rutebeuf 2007 : 13).
6 Ma anche Ariosto 1976 : X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri il cor ti lima».
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blasco, rivelandone, attraverso i documenti dell’epoca, le vicende – invero scabrose – che la videro protagonista nella Milano dei Lumi, e che la allontanano notevolmente dalla figura di donna vereconda tratteggiata nel diario di viaggio di Fabrizio.
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si rimanda al più agevole glossario posto a margine di Cataldi 2006: 226-229.
9 È Fabri Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo, a suggerire, nella sua recensione all’opera inclusa nel numero del 3 novembre 1987 de «Il Mattino», che il romanzo è costruito secondo lo schema della quête dei cavalieri erranti: l’orazione, la peregrinazione e la verità ritrovata.
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si consiglia inoltre la lettura dell’introduzione dell’edizione curata da Chiarini 2003.
12 Ibidem.
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tour siciliano sono intravedibili le sagome dei personaggi di Jacques le fataliste.
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubblicato nel 1962, e che ha sviluppato, per temi e atmosfere, Vincenzo Consolo.
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quello del protagonista di Retablo.
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo», in: AA.VV. 2005.
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est cela qui nous empêche principalement de songer à nous, et qui nous fait perdre insensiblement. Sans cela, nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement nous amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort .» (Pascal 1971: I, 268).
Nicola Izzo , “Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo ” ,  reCHERches , 21 | 2018, 113-128.

Nicola Izzo

Université Jean Monnet, Saint-Étienne

La Metafora del Sorriso. Vincenzo Consolo e l’Antonello del Mandralisca

Alessandro Dell’Aira
Editor, iberista

Incontrai Consolo per la prima volta a Madrid, nell’autunno del ’95.
Allora dirigevo la rivista “Quaderni” del Liceo Italiano Enrico Fermi,
di cui ero preside. L’Istituto Italiano di Cultura seguiva con interesse
il nostro lavoro e ci autorizzava a pubblicare i testi delle conferenze
che organizzava nella sua sede o patrocinava in Spagna. Certo di
fargli piacere, gli donai una copia della prima edizione italiana della
commedia di Lope sul Santo negro Rosambuco de la ciudad de Palermo,
da me curata, edita qualche mese prima a Palermo.
Consolo, in quell’autunno, lasciò Madrid per Barcelona e Salamanca,
dove tenne una lezione accademica, La retta e la spirale, su temi siciliani
intrecciati con la storia spagnola tra Rinascimento e Barocco. Cedette
generosamente ai “Quaderni” copia del testo che avrebbe poi inserito
in Di qua dal faro,1 che accennava anche alla commedia di Rosambuco
come esempio di legame interculturale nel Siglo de Oro, e si concludeva
con una riflessione amara e attualissima sul “dolore senza catarsi”.
Prima di inviare il dattiloscritto in tipografia mi venne il dubbio che
vi fosse un evidente refuso, perdita anziché perdida, nella trascrizione di
una quartina dalla Galatea di Cervantes incisa sull’arco d’ingresso di una
villa di Bagheria:

Ya la esperanza es perdida
Y un solo bien me consuela

1 “La Retta e la Spirale”, «Quaderni del Liceo Italiano di Madrid», 4 (giugno 1996),pp. 83-84. IL testo è preceduto da parte di un’intervista con Valeria Cioffi. Di qua dal Faro (d’ora in avanti DQF), in L’opera completa (d’ora in avanti OC), a cura di Gianni Turchetta, prefazione di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2015 (I Meridiani), pp.1234-1238.

Que el tiempo que pasa y buela
Llevará presto la vida.2

Chiamai Consolo a Barcelona: mi disse che avrebbe controllato. E infatti mi chiamò la mattina dopo, molto divertito. Mi aveva cercato a scuola qualche ora dopo, e in mia assenza gli aveva risposto Juanita, la custode. Consolo le disse: «Per favore, avvisi il preside che la esperanza es perdida». Juanita si allarmò: «No signore, questa brutta notizia al preside gliela dia lei. Richiami domani». Tutto avrei immaginato, tranne che sarei tornato su questo divertente equivoco ventitré anni dopo, per presentare a Valencia Sfidando L’Ignoto, diario narrato della ricerca condotta da Sandro e Salvatore Varzi e da me sul capolavoro di Antonello oggi nel Museo Mandralisca di Cefalù, celebrato da Consolo ne Il Sorriso dell’Ignoto marinaio. Corredato di note finali rigorose, Sfidando L’Ignoto è un saggio di ‘filologia leggera’, nel senso che non cede di una sillaba all’invenzione e agevola la condivisione di un percorso in cui non mancano fasi di incertezza e di suspense. Consolo, messo sulla pista del marinaio da Lucio Piccolo,3 precisò poi che non aveva mai creduto a quella diceria. Lo rivelò rievocando l’incontro con Roberto Longhi a Milano nel ’69, quando chiese notizie al noto critico d’arte sul primo capitolo del Sorriso che gli aveva inviato qualche tempo prima. Longhi gli rispose bruscamente: «Sì sì, ho letto

2 La villa-fortezza apparteneva a don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino, capo di una congiura contro Filippo IV di Spagna, scoperta e sventata per tempo. L’iscrizione è del 1658. La quartina è abbinata a un emistichio di Torquato Tasso, O corte a dio. 3 Il sorriso dell’ignoto marinaio, d’ora in avanti SIM, Note e notizie sui testi, in OC, p. 1300. Secondo Consolo, il primo fotografo a riprodurre il quadro fu Domenico Anderson intorno al 1915 (OC, p. 1309). In realtà di trattò del fotografo palermitano Giovanni Fiorenza, autorizzato dalla Soprintendenza di Palermo il 22 giugno 1914, in vista della dichiarazione di rilevante interesse artistico e storico del ritratto, notificata l’11 febbraio 1916. Poiché non vi è traccia della riproduzione presso gli archivi della Fondazione Mandralisca, si suppone che la lastra venne acquistata nel 1930 da Domenico Anderson. Cfr. Sfidando l’Ignoto, Palermo, Ed. Torri del Vento, 2017
(d’ora in avanti SI), pp. 87-88, n. 28.

le sue pagine, ma questa storia del marinaio deve finire».4 Abbiamo inserito questa frase in quarta di copertina, consapevoli che la diceria sarà dura a morire. Il fatto nuovo è che ne abbiamo dimostrato l’infondatezza, partendo da un sigillo mai notato prima, apposto nel Settecento sul retro della tavoletta da un prozio del barone Mandralisca, l’arcidiacono Giuseppe Pirajno, all’epoca vescovo vicario di Cefalù. A
nostro parere, anche in assenza di fonti scritte, questo sigillo e varie altre evidenze iconografiche bastano a identificare il personaggio raffigurato nella tavoletta, misterioso come tutti gli ‘Ignoti’ di Antonello. Tuttavia, è bene che il gap tra Mistero e Ignoto persista: lo svelamento toutcourt toglierebbe al ritratto parte del fascino di cui lo stesso Consolo partecipa.5 Cesare Segre ha osservato che l’Antonello del Mandralisca è divenuto «una specie di doppio di Vincenzo Consolo».6 In ogni caso,
non c’è ricerca in grado di andare oltre quel sorriso-lumaca, «fiore
di ragione»,7 insondabile, condiviso dagli artisti in azione –pittore e
narratore– e dal modello in posa. A nostro parere si tratta di Francesco Vitale da Noja presso Bari, oggi Noicattaro. Dottore alla Sorbona in Teologia e Arti, precettore, segretario e ambasciatore di Ferdinando il Cattolico, valoroso umanista e profondo esperto di Duns Scoto, fu designato vescovo di Cefalù nel 1484, quando tra i diplomatici di Ferdinando e Isabella gli ‘aragonesi’ furono rimpiazzati dai ‘castigliani’. Si fece ritrarre su xilografie e medaglie. In Sicilia sostenne gli interessi della casa d’Aragona. Colto da ictus a Valencia nel 1491, dopo un soggiorno a Siviglia, rientrò a Cefalù

4 SI, p. 7, n. 1 con rinvii a Fuga dall’Etna e a MESSINA, N., “Per una storia di «Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo”, «Quaderns d’Italià», 10 (2005), pp. 113-126. 5 SI, pp. 75-76. Consolo non dubitò mai della provenienza ‘precaria’ del ritratto, da lui associato al cratere siceliota con la scena della vendita del tonno, acquistato dal barone a Lipari (La Pesca del Tonno, in DQF, OC, p. 1007). 6 SEGRE, C., “Un profilo di Vincenzo Consolo”, in OC, p. XVI. 7 Così in L’Olivo e l’olivastro (in OC, p. 853) Consolo definisce il sorriso dell’Ignoto, rivolto alla «grande storia di Palermo».

e vi mori in data incerta, comunque anteriore al 14 febbraio 1494.8 Quando il prozio del Mandralisca la fece propria, la tavoletta era molto malridotta. Forse non si sapeva più chi raffigurasse. Consolo si dimostra certo della provenienza liparitana del ritratto. Imposta la narrazione sulla «planimetria metaforica» Lipari-Cefalù- Messina,9 ma sa di non avere a che fare con un marinaio. Lo confermano due sue descrizioni, stilisticamente lontane ma convergenti. Nella prima si accenna alla reazione del barone, che stringe sotto un’ascella la tavoletta avvolta in una tela cerata, a bordo di un veliero stipato di gente e di mercanzie. Consolo descrive il ritratto con gli occhi del barone che scruta il misterioso Giovanni Interdonato, dopo i colpi di tosse che scuotono un vecchio cavatore di pomice:
[…] Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza

8 Vitale, semiparalizzato, il 10 marzo 1492 fece apporre una chiosa da altri sull’ultimo foglio di un incunabolo stampato a Venezia nel 1481, aggiungendo a margine un tremolante manu propria (SI, pp. 50-53). Il 12 febbraio 1494 Ferdinando il Cattolico scrisse di avere appena appreso della morte di Vitale (SI, p. 53, n. 53). Il documento è trascritto da Óscar Perea Rodríguez nella sua tesi di dottorato: «[…] en esta hora es venida aquí nueua que es fallecido maestre Francisco de Noya, obispo de Cefalú; y comoquier que no se sabe muy certificadamente si ello es assí, cordamos de vos preuenir de nuestra voluntat sobre la prouisión del dicho obispado […]» [Las cortes literarias hispánicas delsiglo XV: el entorno histórico del Cancionero general de Hernando del Castillo (1511). Universidad Complutense de Madrid, a.a. 2003-2004, p. 194 n. 587]. Da un documento della Curia cefaludense risulta che la sede di Cefalù fu dichiarata vacante nel febbraio del 1495. 9 Cefalù e l’Ignoto di Antonello sono uno dei vertici del triangolo metaforico. I cavatori di pomice liparitani e i rivoltosi di Alcàra Li Fusi occupano gli altri due. e vi mori in data incerta, comunque anteriore al 14 febbraio 1494.8 Quando il prozio del Mandralisca la fece propria, la tavoletta era molto malridotta. Forse non si sapeva più chi raffigurasse. Consolo si dimostra certo della provenienza liparitana del ritratto. Imposta la narrazione sulla «planimetria metaforica» Lipari-Cefalù- Messina,9 ma sa di non avere a che fare con un marinaio. Lo confermano due sue descrizioni, stilisticamente lontane ma convergenti.
Nella prima si accenna alla reazione del barone, che stringe sotto un’ascella la tavoletta avvolta in una tela cerata, a bordo di un veliero stipato di gente e di mercanzie. Consolo descrive il ritratto con gli occhi del barone che scruta il misterioso Giovanni Interdonato, dopo i colpi di tosse che scuotono un vecchio cavatore di pomice:
[…] Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza

8Vitale, semiparalizzato, il 10 marzo 1492 fece apporre una chiosa da altri sull’ultimo
foglio di un incunabolo stampato a Venezia nel 1481, aggiungendo a margine un tremolante manu propria (SI, pp. 50-53). Il 12 febbraio 1494 Ferdinando il Cattolico
scrisse di avere appena appreso della morte di Vitale (SI, p. 53, n. 53). Il documento
è trascritto da Óscar Perea Rodríguez nella sua tesi di dottorato: «[…] en esta hora
es venida aquí nueua que es fallecido maestre Francisco de Noya, obispo de Cefalú;
y comoquier que no se sabe muy certificadamente si ello es assí, acordamos de vos
preuenir de nuestra voluntat sobre la prouisión del dicho obispado […]» [Las cortes
literarias hispánicas delsiglo XV: el entorno histórico del Cancionero general de Hernando del Castillo (1511). Universidad Complutense de Madrid, a.a. 2003-2004, p. 194 n.587]. Da un documento della Curia cefaludense risulta che la sede di Cefalù fu
dichiarata vacante nel febbraio del 1495. 9 Cefalù e l’Ignoto di Antonello sono uno dei vertici del triangolo metaforico. I cavatori di pomice liparitani e i rivoltosi di Alcàra Li Fusi occupano gli altri due. dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e alle vicende loro. E, avvertivasi in colui, la grande dignità di un signore […].10


In questa oscillazione tra conoscenza e pietà, Consolo coglie da rabdomante il profilo di un conciliatore di storia e spiritualità, umanesimo e missioni diplomatico-ecclesiastiche. Vitale visse in mezzo agli uomini e alle vicende loro, ancor più di Interdonato, riconosciuto da Mandralisca nell’Ignoto del ritratto, mentre di notte, nel suo studio, si concentra sulla tavoletta appesa a una parete tra gli scaffali. Un’agnizione-insight degna di un romanzo di Dumas. Per quanto ci risulta, tuttavia, il barone non era certo, o ignorava di possedere un Antonello prima che nel gennaio del 1860 Giovan Battista Cavalcaselle, in casa sua, ne ricavasse un geniale bozzetto. Cavalcaselle, garibaldino mazziniano esule a Londra dopo il 1849, critico d’arte e pittore, giunto in Sicilia per ragioni di studio qualche mese prima di Garibaldi, forse con una missione coperta, è una specie di doppio attenuato del democratico Interdonato. Nella seconda descrizione, a tratti impressionistica, risuonano il lessico e i luoghi comuni dei frequentatori di pinacoteche. Ha per sfondo una festa organizzata dal barone in casa sua per presentare il ritratto ad amici e conoscenti. Quando Enrico sfila il panno dal leggìo su cui ha collocato la tavoletta, l’Ignoto si svela e il Mistero, volendo rubare il titolo a un romanzo di Marco Malvaldi, si accentua «negli occhi di chi guarda»:

[…] Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta,
10 SIM, in OC, pp. 129-130.

le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini. Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con
i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentì come a disagio […].11


Come nel cambio di scena di un’opera lirica, questa seconda
descrizione è interrotta da colpi di schioppo e abbaiar di cani in
lontananza, equivalenti ai colpi di tosse del cavatore a bordo del veliero.
Dal suo leggìo, l’Ignoto sembra allargare il sorriso in un ghigno. In un
angolo del salone, il cefalutano Salvatore Spinuzza, pressoché ignorato
dagli altri invitati perché ‘facinoroso’ come Giovanni Interdonato,
rabbrividisce.
Di qua dal faro, pubblicato nel ’99, contiene il testo della conferenza
salmantina del ’95, affidato quattro anni prima ai «Quaderni del Liceo
Italiano». Tra gli altri ‘pezzi’, contiene anche un bilancio d’autore sul
Sorriso vent’anni dopo, definito come metafora del superamento dei
«romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore», come approdo
alla pari dignità dialettica dei linguaggi, «compresi quelli marginali».12
Consolo è entrato da anni in una fase nuova. Coglie nel segno Joseph
Francese quando afferma che gli attentati mafiosi dei giudici Falcone e
Borsellino, mesi in atto nel ’92 per conto di raffinati mandanti, segnano
il passaggio definitivo di Consolo dall’aventino sciasciano all’impegno
politico scoperto.13 E quanto al «parricidio» da lui perpetrato, ingrato
e miope è il giudizio di chi lo ha definito «un infelice che voleva essere

11 Ivi, pp. 143-144.
12 CONSOLO, V., “Il «Sorriso» vent’anni dopo”, in DQF, OC, p. 1254.
13 FRANCESE, J., Vincenzo Consolo. Gli anni de «L’Unità» (1992-2012), ovvero la
poetica della colpa-espiazione, Firenze, University Press, 2015.

Sciascia».14 Se Sciascia fu un superbo autore di romanzi e saggista, Consolo fu un artista, un linguista, un «orafo della parola». A tanta distanza da quell’equivoco sulla esperanza perdida, che allarmò la simpatica custode del Liceo Italiano, verrebbe da dire che nulla accade per caso. C’è ancora speranza. Il dibattito in ambito letterario e non solo, che in quei giorni Consolo giudicava «quasi spento»,15 è in agonia, ma il decesso del romanzo non è sopravvenuto. A rantolare, semmai, sono i lettori. Da rappresentazione del reale e dell’esistenziale, da intreccio di storie più o meno rilevanti o defilate, la letteratura di oggi si apre allo svelamento di crimini sommersi (per esempio, in Resto qui, di Marco Balzano, che nel 2015 ha vinto il Campiello con la storia di un giovane del Sud immigrato a Milano). In Italia, in Spagna, in Europa,
la narrativa si è aperta all’epica delle culture migranti e alle voci critiche dai paesi ‘banditi’, quelli che il presidente USA in carica ha definito latrine. Scrittori-migranti e migranti-scrittori,16 protagonisti dell’epica dell’andare e venire viaggiando, narrano storie di emarginazione nelle lingue dell’Unione. Sicché la partita non è persa del tutto. Tra guerre e violenze endemiche, speculazione spietata, politici e amministratori corrotti, vincere l’impotenza si può, sorridere da lumache si può, con
o senza il supporto dell’ideologia, ma senza rinunciare alla speranza e senza bandire l’immaginazione creativa. La speranza, se cade, trova sempre il modo di rialzarsi. Diversamente dal sorriso, non è mai stata quel che si dice una metafora, neppure in letteratura.

14 CARUSO, C., “Vincenzo Consolo: «Un infelice che voleva essere Sciascia». Il ricordo del fotografo Fernando Scianna amico di Vincenzo Consolo, che Mondadori pubblica nella Collana «I Meridiani»”, «Panorama», 9 febbraio 2015. 15 In I ritorni (in DQF, OC, p. 1121) Consolo scrive: «Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la relazione sociale, non si possono che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo». 16 La distinzione è del brasiliano Julio Monteiro Martins, scomparso a Lucca nel 2014.




L’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo


Giuseppe Traina 1
Per provare a ragionare sull’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo bisogna tener conto sia dei debiti di Consolo con l’Odissea come testo, sia della varia commistione fra il nostro scrittore e il protagonista dell’Odissea come personaggio che vive oltre il poema e diventa antonomastico. Si tratta di rapporti diretti, che Consolo ha esplicitato, per esempio quando ha definito l’Odissea un «grande archetipo» (Consolo 2015: 1241). Ma si tratta anche di elementi riconducibili a una nozione più ampia di ulissismo intellettuale da intendere come avventura della conoscenza oltre i confini disciplinari, temporali e geografici, di cui magari Consolo non ha lasciato tracce esplicite ma che si possono ugualmente riscontrare, pensando soprattutto alle feconde ambiguità di Ulisse, personaggio moderno non tanto perché astuto ma perché problematico portatore dell’ambivalente potere della parola2.
Consolo ha tematizzato l’ulissismo prima di tutto nel viaggio narrato in Retablo e poi in tre elementi basilari: la costruzione della trilogia composta da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo Spasimo di Palermo, che evidenzia rimarchevoli elementi ulissiaci in comune, come l’azzardo e lo scacco che condannano alla morte, all’erranza o all’afasia; la concezione a dittico di L’olivo e l’olivastro e Lo Spasimo di Palermo, fondata sul tema del nostos;

  1. la pubblicazione di testi laterali ma ai quali Consolo mi sembra desse una certa importanza, come Il viaggio di Odisseo e soprattutto Fuga dall’Etna3. 1 Giuseppe Traina, Università di Catania.
    2 La bibliografia su Ulisse è impossibile da riassumere in una noterella: cfr. almeno Boitani 20122. 3 Cfr. Consolo 1993 e Consolo, Nicolao 1999. Sull’ulissismo esplicito in Consolo esiste un bel saggio di Massimo Lollini nel quale quest’aspetto mi pare sia affrontato in modo quasi esaustivo. Riassumo i punti principali del discorso di Lollini: I. Ulisse è eroe del Mediterraneo, ma la civilizzazione del Mediterraneo ha rivelato in sé tanto il volto della violenza quanto quello della cultura e dell’intelligenza: sicché Consolo, in tale direzione, ipervalorizza l’emblema omerico dell’olivo e dell’olivastro, ripetendolo in più luoghi e facendone il perno del suo libro più inclassificabile; II. «il viaggio di Odisseo diventa la metafora che consente a Consolo di ritrovare nel mito e nella letteratura un senso drammatico e complesso dell’esistenza personale e collettiva, non più legato ad alcuna ideologia di progresso della civiltà mediterranea» (Lollini 2005: 25); III. Ulisse è anche immagine dell’esilio «inappagato per l’infinito che lo pervade e lo proietta in una dimensione di alterità»: da questa alterità deriva il lavoro dello scrittore, un lavoro di scavo nel linguaggio alla ricerca di «una parvenza di umano» (Lollini 2005: 25); IV. odissiaco è il viaggio in mare come esperienza di tipo sia storicamente determinato (economico), sia come avventura intellettuale, nel senso codificato da Dante nel XXVI canto dell’Inferno; V. il racconto omerico è diventato fondativo di un mito perché ha unito i tre elementi basilari della civilizzazione mediterranea: il viaggio, il mare, la guerra; VI. odissiaca è la centralità della catabasi come luogo del riconoscimento del dolore, della paura di morire; VII. la profezia di Tiresia ha messo al centro del destino di Ulisse l’erranza, l’esilio come «riconoscimento dell’alterità intrinseca nella condizione dell’Ulisse moderno», che Consolo studia «in una prospettiva di lunga durata» (Lollini 2005: 29): talché discendono dall’inquietudine ulissiaca non solo i suoi protagonisti più immediatamente riconoscibili in questa condizione, ma perfino i satanisti di Aleister Crowley e il barone Cicio di Nottetempo, casa per casa; VIII. data l’importanza del precedente rappresentato dall’Iliade, poema della guerra, in Consolo l’Odissea diventa «un viaggio penitenziale, un nostos di espiazione» (Lollini 2005: 30) del sopravvissuto rispetto agli orrori della guerra, un po’ come in Primo Levi. Dunque la meta del nostos non è la patria, ma l’esilio stesso, anche perché non si può avere nostalgia di una patria distrutta dalla tecnologia, come dimostra L’olivo e l’olivastro; IX. Consolo è condannato all’erranza nei due poli opposti del disgusto: Milano e la Sicilia. L’erranza non è una scelta ma una condizione dolorosa dell’Ulisse moderno; X. unica alternativa per Ulisse è il naufragio. Ovvero, nei termini consoliani, il naufragio del romanzo, l’afasia. Che è poi effetto L’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo 101 della dimensione etica che distingue Consolo dal mero approccio solipsistico al presente (la disperazione); XI. se l’Ulisse omerico ha messo in discussione il suo nome e la sua identità, chiamandosi Nessuno, l’Ulisse moderno riconosce la mancanza di identità come un valore perché apre all’ibridazione culturale (che è un vero e proprio topos del Consolo saggista tra gli anni Ottanta e Duemila, dunque con ampio e preveggente anticipo su temi che poi diventeranno vulgata culturale, almeno per buona parte della sinistra intellettuale italiana). Fin qui Lollini. A integrazione della sua analisi si può ulteriormente sottolineare che la dimensione tragica (ma anche di pietas4) del discorso di Consolo, soprattutto dell’ultimo Consolo vieppiù odissiaco, non è soltanto riconducibile alla formazione classica, con netta preferenza per la cultura greca su quella latina, ma si innerva anche di contributi che sul piano strettamente letterario si rivolgono soprattutto alla cultura araba (con naturale predilezione per i poeti arabi di Sicilia) e dei paesi sudamericani o, in genere, delle culture postcoloniali. Mentre sul piano non letterario è sempre viva in Consolo l’attenzione alla cultura popolare siciliana. E qui si potrebbe innestare una riflessione su quello che Consolo considera popolare, perché mi pare che ci sia in lui, come c’è nella migliore tradizione letteraria siciliana, un netto rifiuto delle forme più arcaiche e arretrate della cultura popolare5 mentre c’è un interesse sempre vivo (e atipico, per un letterato italiano) nei confronti del popolo che vuole emanciparsi attraverso l’acculturazione (l’olivo) e anche verso la cultura tecnico-scientifica purché nella sua versione pre-tecnologica: si pensi alla botanica e all’arboricoltura che si affaccia in Retablo e di cui si fa vessillifero soprattutto lo zio/padre putativo di Chino Martinez nello Spasimo di Palermo. Queste aperture si sostanziano di una conoscenza perfino erudita di tutta una pubblicistica scientifica, soprattutto di ambito pre-novecentesco e siciliano; e anche queste aperture rientrano, a mio avviso, nella prospettiva ulissiaca in quanto si collegano alla dicotomia tra olivo e olivastro e anche in quanto considerano la techne non meccanizzata come una forma tra le più alte dell’intelletto umano e di una misura umana del vivere: si ricordi il grande emblema del letto nuziale costruito da Ulisse ricavandolo da un unico blocco di legno d’ulivo. Ci sono però alcuni micro-elementi che rinviano a singoli punti della presenza odissiaca in Consolo e che non mi pare siano stati messi in evidenza a sufficienza. Per esempio, vorrei ricordare che, ben prima di Retablo, emerge il tema del viaggio, non massicciamente nella Ferita dell’aprile ma più chiaramente nel Sorriso dell’ignoto marinaio, e comunque sempre in posizione incipitaria:
    4 Cfr. Turchetta 2015: LXVIII-LXXIV. 5 Leggiamo in Ratumemi: «“Contra la forza nun cci vali la raggiuni” concluse il primo. E: “E basta, vah! Finiamola con ‘sti proverbi vani degli antichi!”» (Consolo 2015: 534). «Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere» (Consolo 2015: 5)6 – ma è bene ricordare che nel primo romanzo il viaggio non si compie via mare: né questo di cui parla all’inizio, che gli serve a raggiungere la scuola, né quello in camion col padre: quest’ultimo, però, occupa un importante spazio nella Bildung dell’io narrante, sia perché lo lega al padre (figura positiva, alla stregua del vero padre di Consolo e a lui abbastanza somigliante, peraltro) sia perché gli permette di abbozzare un episodio nel bosco che rimanda all’importante racconto I linguaggi del bosco (che si legge nella seconda sezione delle Pietre di Pantalica). Anche il Sorriso dell’ignoto marinaio comincia all’insegna del viaggio con un clamoroso periodo nominale e proprio con le parole: «Viaggio in mare di Enrico Pirajno barone di Mandralisca da Lipari a Cefalù con la tavoletta del ritratto d’Antonello […]» (Consolo 2015: 127). A proposito di viaggi, forse si potrebbe ricondurre al modello dell’Odissea anche la struttura del viaggio ‘a stazioni’7 molto presente nella narrativa consoliana: spesso si tratta di tappe previste, ma talvolta è il contrario e i personaggi si fermano a causa di rapine, fughe o accidenti vari; questa struttura è tipica della tavola centrale di Retablo e ovviamente anche dell’Olivo e l’olivastro (ma non è assente neppure nello Spasimo di Palermo) e appare in singoli momenti di altri testi, come nel caso dei due viaggi col padre a cui accennavo prima, o in Le vele apparivano a Mozia (Consolo 2012: 124-127), che racconta il viaggio a cui fu ispirato Retablo, o ancora in un racconto come La grande vacanza orientale occidentale (Consolo 2012: 163-169), che ci dà modo di risalire con molta chiarezza alla vocazione del giovane Consolo a viaggiare per la Sicilia e a leggerne l’identità all’insegna della grecità. Vocazione alla quale si giustapporrà, senza scacciarla, l’altra e successiva vocazione a valorizzare l’età dell’oro della Sicilia araba, «unico e irripetibile esempio di equilibrio ateniese» (Consolo 2015: 1215). Non vanno sottovalutati anche taluni micro-aspetti ricondotti esplicitamente dall’autore a Omero: per esempio, quasi alla fine del quinto capitolo della Ferita dell’aprile, Filippo Mùstica si spoglia, salta in groppa al mulo ed entra in acqua per fare il bagno con l’animale. È una sequenza che ci verrebbe facile definire panica8 ma che invece Consolo attribuisce a tutt’altra ispirazione, perché il ragazzo «tirò avanti come un condottiero, di quelli delle storie d’Omero» (Consolo 2015: 54). Dell’Iliade, insomma. Ancora: all’inizio del capitolo X della Ferita dell’aprile, troviamo un intrigante paragone tra il mare e i campi coltivati: 6 Per inciso, un nastro arrotolato è abbastanza simile, come forma, a una chiocciola e ci pare quasi un’anticipazione del simbolo fondativo del Sorriso dell’ignoto marinaio. 7 E chissà che Consolo, attento lettore di Benjamin e di Enzensberger, non avesse letto anche Mittner e riflettuto sul modello dello Stationendrama o che l’abbia ripreso direttamente da Conversazione in Sicilia. 8 Forse anche dannunziana, se si potesse azzardare – e io lo farei – anche quest’aggettivo per definire certi aspetti della prosa consoliana. Le reti stese sopra la spiaggia parevano campi di terra grassa, orti concimati, tra la rena grigia. Il cielo scivolava fitto di qua dalle colline e sopra il mare verde e come scosso da un brivido si levava un tetto, spesso, che finiva lontano verso l’orizzonte, dov’era chiaro, lucente, come una lista di sole fra le stecche della gelosia: mare e cielo erano due piani paralleli, all’infinito. (Consolo 2015: 97). Può essere utile ricordare, sempre nella logica dell’interesse di Consolo per le specificità della coltivazione agricola, quei punti, presenti in altre opere, in cui il nostro autore si sofferma sulla fertilità della terra: per esempio la terra grassa che si nasconde sotto la lumaca nel Sorriso dell’ignoto marinaio o quel bellissimo passo di Filosofiana in cui Vito Parlagreco comincia a zappare un campo pieno di quelli che noi chiameremmo reperti archeologici e che per lui non sono inutili cocci senza valore (come, invece, lo sono per gli abitanti di Mozia che guardano il cavaliere Clerici come un matto quando vuol pagare loro la statua dell’Efebo) ma «capricci» (Consolo 2015: 542) degli antichi, che però lo distraggono dall’occupazione primaria, cioè la coltivazione di quel gramo spicchio di terra. Perché, nonostante l’apparenza di inutile petraia, sotto questo strato di antichi cocci, Vito trova «una terra nera e grassa, terra di verginità immacolata» (Consolo 2015: 540). Se volessimo un po’ estremizzare, potremmo perfino dire che non solo la natura è sotto la natura (la terra sotto la chiocciola), ma anche che sotto la cultura (che può anche essere percepita come sovrastruttura) c’è la natura, nella sua forma colturale ma anche, appunto, culturale: insomma, ci sono due forme dell’olivo ma non l’olivastro. La bipartizione tra olivo e olivastro non è stata sempre così netta e dominante in Consolo: starei per dire ‘fortunatamente’, dato che a me sembra perfino un po’ eccessiva nella sua formulazione così oppositiva. Si legge nella Ferita dell’aprile, in un passo in cui circola aria non soltanto siciliana ma anche greca, omerica: così rugoso e scuro, così contorto, il carrubo l’avevo sempre pensato venuto dall’oscurità del tempo, che affondasse le radici al centro della terra: e il tronco mi pareva di tufo e i frutti di carbone. L’ulivo come il carrubo, la vite e l’asino e le capre, le lancelle di mosto e gli scifi di quagliata, certi vecchi accoccati ma saldi, mi parevano cose antichissime e immortali. (Consolo 2015: 111). La conclusione della Ferita dell’aprile recita: «Così girai tanti anni per i paesi, all’isole, sulle montagne, alle marine, dal comune d’Alì fino a Messina» (Consolo 2015: 121). In pochissime parole, c’è quasi una panoramica, prima, sull’intero ‘mondo’ che il giovane siciliano impiegato del Dazio può immaginare e accogliere in una definizione vaga quanto vasta; poi, c’è la precisazione, che riduce tutto al vero ‘mondo conosciuto’, una porzione nemmeno troppo grande della provincia di Messina, che non è certo la più piccola tra le province siciliane: un allargamento della prospettiva geografica senza una chiara visione di quello che concretamente attende l’io narrante. Sarà certo ben più ampia la rinnovata prospettiva esistenziale del viaggiatore Petro Marano approdato in Tunisia alla conclusione di Nottetempo, casa per casa; ma ricordiamo che l’io narrante della Ferita dell’aprile prima viaggiava soltanto sui monti più vicini a casa e invece alla fine si slancia, con il nuovo lavoro che è frutto della sua educazione scolastica, alla conquista di un territorio sia montuoso che marittimo (l’autore lo specifica, volutamente). Dal canto suo, Petro non è ancora il viaggiatore che sperimenta la disperazione radicale dell’Olivo e l’olivastro e dello Spasimo di Palermo9, tant’è che rifiuta l’esilio in versione anarchica del compagno di viaggio Schicchi e si considera, costruttivamente, «solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto. Solo ad aspettare con pazienza che passasse la bufera» (Consolo 2015: 755). Come ha ricordato Lollini, uno degli elementi basilari del viaggio di Ulisse è la catabasi: sorvolando sulla sensazione che per Consolo il vero viaggio all’inferno sia l’imbattersi nella sofferenza degli uomini nel mondo, nelle sue varie forme – una tra le più rilevanti è senz’altro la follia –, può essere interessante rilevare, a ulteriore conferma del ruolo tutto particolare giocato da Retablo nella storia letteraria del suo autore10, la continua alternanza metaforica tra inferno in terra e paradiso in terra. Quando Isidoro comincia a lavorare come facchino alla Cala dice: «Ero nell’inferno» (Consolo 2015: 373); quando, di ritorno dal viaggio, si aggira in cerca di Rosalia: «Mi parvi preso da’ turchi, da’ corsari, rapito in un sogno angustiante. Girai per vichi, per strade, per piazze, del Borgo, della Kalsa». Poi, dopo questo nuovo tuffo all’inferno, ascende al paradiso nell’oratorio di San Lorenzo: «Entrai, mi parve d’entrare in paradiso» (Consolo 2015: 375). E poi di nuovo in giro, «senza posa sulla strada, pazzo, forsennato» (Consolo 2015: 376). Si ritrova nell’intero romanzo, però, l’idea che tutta la realtà siciliana sia un’alternanza di inferno e paradiso: ancora Isidoro, durante il bagno termale a Segesta, «“Ma qui è il paradiso!” sclamò Isidoro, più sempre in beatitudine o in ebetudine vagante» (Consolo 2015: 402). Allusioni all’inferno ci sono invece nel rivolgersi di Clerici alla Beccaria: «nulladimeno, pur sulla soglia di questa forte terra, nel primo cerchio di questo vortice di luce, sull’ingresso di questo laberinto degli olezzi, nell’incamminamento di questa galleria de’ singolari tratti e d’occhi ardenti» (Consolo 2015: 403). La narrazione del viaggio da parte di Clerici è trasognata: «E a mano a mano io mi trovai a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido, alla visione più netta delle cose, ne la luce di giugno più vere e crude, ch’invade l’animo mio d’incertezza e d’ansia pel futuro, finito questo tempo sospeso e irreale del viaggio» (Consolo 2015: 380-381); anche per lui, i facchini arrembanti tra la folla della Cala si presentano come invadenti e infernali, tanto più dopo la visione dei corpi degli impiccati e dei torturati. Ne deriva l’elezione di Isidoro come unica persona umile e istruita, che si distingue nel branco. In realtà Clerici, anche se porta con sé l’Odissea11, si presenta come un viaggiatore fin troppo diverso dall’Ulisse omerico. Ricordiamo la sua motivazione al viaggio: 9 Molto interessante l’interpretazione di Daragh O’ Connell, che distingue tra la «disfatta» del personaggio e la «disperazione» dell’autore: cfr. O’ Connell 2008: 174. 10 Cfr. Traina 2001 e Traina 2014. 11 Cfr. Consolo 2015: 406. volli sottrarmi alla tempesta insana d’ogni sentimento percorrendo a ritroso, per gli antichi sentieri della storia, questo tempo umano del conato, del movimento cieco e incontrollato, fino al punto oscuro iniziale per cui si passa nell’immota eternitate da cui veniamo, nel tempo senza soli e senza lune, giorni e stagioni, natività e morte, del vuoto e del silenzio, nell’immensa stasi, la somma e infinita quiete metafisica, nel modo come spiega il Campanella (Consolo 2015: 383). Egli sembra proprio l’antitesi del viaggiatore, soprattutto del viaggiatore per mare; gli basta lo sballottamento d’un sentiero disagevole ed ecco il paragone enfatico: «E la lettica è come il maremoto, un guscio di barchetta sopra creste e avvalli delle onde, e i naviganti sbattuti e tormentati a dritta e a manca» (Consolo 2015: 385). Poi però impara dell’altro: Poi domani, vicende sempre nuove, nuove avventure, ignote, che è l’essenza stessa della vita, che dentro i due certi punti, l’avvio e la sua fine, ricomincia l’avventura ogni mattina. E ancor di più l’essenza della vita dentro nel viaggio, per cui viaggio si fa dentro il viaggio, ignoto nell’ignoto. Così ora capisco coloro che viaggiano, capisco gli eterni erranti, i nomadi, i gitani: vivono ancor di più dei sedentari, dilatano il tempo, ingannano la morte (Consolo 2015: 440). D’altronde non c’è differenza tra sogno, viaggio e scrittura di viaggio, per il cavaliere Clerici: Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra
    del passato. Come questo diario di viaggio che io per voi vado scrivendo, mia signora» (Consolo 2015: 413). Infine, la prosecuzione del viaggio, verso la Spagna, forse il Nuovo Mondo, sembra dettata, di botto, soltanto dalla notizia del matrimonio di donna Teresa, non da altri motivi più consoni a un vero viaggiatore. In Retablo troviamo altri episodi o motivi riconducibili all’Odissea. L’ospitalità di Soldano Lodovico potrebbe ricordare quella di Alcinoo; anche l’impressione che Clerici suscita al suo apparire – «e mi sentii, così chiaro di pelo, chiaro di pelle e panni, così alto e scarno, un’apparizione inusitata, un palo o baccalaro come bersaglio di tutte quell’occhiate dritte e acute della corte, oblique e gravi della loggia» (Consolo 2015: 388) – ricorda un po’ l’apparizione di Ulisse a Nausicaa, dopo che si è lavato ma anche dopo che «Atena, la figlia di Zeus, lo fece / più grande e più robusto a vedersi»12. Ci sono dei paragoni espliciti: immergersi nei Bagni Segestani provoca Una dimenticanza di sé, degli altri, di passioni e crucci, come i compagni d’Ulisse che nella terra dei Lotofagi mangiando il fior dolcissimo obliarono il ritorno o chi assunse il farmaco triste o altri doni accettò della magica Circe, o chi si perse ascoltando una volta il canto stregato di Sirene, come mi persi anch’io nel vacuo 12 Omero 2010: 407 (libro VI, vv. 229-230). smemorante, nel vago vorticare, nella felicità senza sorgente e nome» (Consolo 2015: 402). Mentre nella palude di Mozia «annega la memoria: vana sembra la ricerca, la prova d’un racconto»: qui però la posta è più alta, è in gioco la possibilità stessa di narrare, come sfida di conoscenza all’ignoto: «Ma se appena ci volgiamo, castigo di sale, siamo spinti ancora, per lo scarto d’un riquadro, più dentro alla cascata, più presso alla montagna: e troveremo un varco, un passaggio, e cosa ci attende dietro quel sipario?» (Consolo 2015: 442). Nella storia dell’interpretazione del personaggio Ulisse molti si sono soffermati sul fatto che Ulisse è tanto personaggio narrato quanto personaggio narratore di sé, dunque, in qualche modo, controfigura archetipica del narratore, dello scrittore13.
    Altri segni odissiaci in Retablo possono esserci anche per opposizione: Curàtolo Nino, «quell’uomo, alto e vigoroso, vestito delle pelli dei montoni» (Consolo 2015: 407), è un anti-Polifemo: ed è talmente anti-Polifemo da essere maestro d’inganni, quando suggerisce a Clerici di fingersi medico risanatore del mal di denti del brigante. Si ricordi il ritornare, come basso continuo nell’opera di Consolo, di Morte per acqua di T. S. Eliot: una sorta di monito periodico, che riguarda il conflitto natura-cultura, oriente-occidente, terra-mare, poesia-commercio. Una specie di inceppo della fantasia, forse un incubo, forse il grande incubo di un greco abitatore di isole14. Ma sul motivo dell’isola bisognerebbe rileggere con attenzione almeno lo Spasimo di Palermo, dove si trovano diverse declinazioni, anche metaforiche, di tale tema: dagli «anni di serena gioia» in cui Chino e Lucia vivono «davanti al grandioso mare, all’isola che appare e che dispare all’orizzonte» (Consolo 2015: 928) giù giù fino all’isola, «che egli in cuore malediva, matrice d’ogni male, estremo lembo, perenne scivolio, annientamento», e infine a Enna, «isola sopra l’altipiano» (Consolo 2015: 931). Lollini giustamente ha ricordato che il viaggio per mare è anche temuto dalla cultura greca, perché implica il rischio della morte per acqua senza seppellimento: in Retablo abbiamo una versione felicemente capovolta di questo timore nell’episodio dell’inabissamento della statua dell’Efebo di Mozia. Dunque, il viaggio non promana soltanto il fascino intellettuale della sfida ai propri limiti (come in Dante), ma anche autentica paura. Tali ambivalenze riguardano anche il rapporto con la Natura di alcuni personaggi di Consolo: si pensi al tema del licantropismo che domina Nottetempo, casa per casa, o in Filosofiana al ‘notturno’ leopardiano di Vito Parlagreco, il quale, per la verità, s’interroga soprattutto sulla labilità della storia, ma poi – nel confronto con il pastorello mutangolo e con la lepre morta – viene profondamente inquietato dal tema funebre. Da lì a una riflessione sulla scrittura, il passo è breve: 13 Ma, a tal proposito, si legga la finissima analisi di O’ Connell, fondata sul confronto tra un passo dello Spasimo di Palermo e il suo avantesto Consolo 1995. Cfr. O’ Connell 2008: 174-179. 14 Cfr. Curi 2005: 77-84. Solo che sogno o favola poco è diverso. Non è sogno tutto quanto si racconta, s’inventa o si riporta, per voce, per scrittura o in altro modo, d’una vicenda d’ieri, di oggi o di domani, d’una vicenda possibile o fantastica? È sempre sogno l’impresa del narrare, uno staccarsi dalla vera vita e vivere in un’altra. Sogno o forse anche una follia, perché dalla follia è proprio la vita che si stacca e che procede accanto, come ombra, fantàsima, illusione, all’altra che noi diciamo la reale. O della morte? (Consolo 2015: 545-546) A proposito della grande metafora ulissiaca dell’erranza, va detto che Consolo la riserva, sì, a diversi suoi protagonisti ma, prima che essa trovi gli accenti tragici e non riconciliati dello Spasimo di Palermo (romanzo in cui sono in gioco davvero tante cose, forse troppe), la metafora dell’erranza mi pare che assuma tinte anche alquanto ambivalenti. Per esempio, se riflettiamo sulla componente autobiografica del tema dell’erranza o dell’esilio, si consideri che Consolo ha narrato in tante occasioni e dietro diversi schermi, finzionali o no, il suo arrivo a Milano, da studente universitario, e la scoperta che esisteva a Milano, non lontano dall’Università Cattolica dove studiava, una sorta di luogo concentrazionario di accoglienza e smistamento per gli emigranti meridionali. Molto onestamente, Consolo non ha mancato di sottolineare come, rispetto al destino animalesco degli emigrati poveri, la sua condizione di studente emigrante fosse piuttosto diversa: non un privilegiato, ma neppure un disperato, ammassato in transito verso altre destinazioni. Ma sul tema dell’esilio abbiamo due ulteriori approfondimenti della prospettiva di Consolo: come abbiamo già visto, nell’Olivo e l’olivastro l’esilio è l’autoesilio, conseguenza del disgusto per l’invivibilità della Sicilia; nello Spasimo di Palermo il discorso da un lato si allarga alla tragedia civile della Sicilia infettata dalla mafia, dall’altro si restringe – ma quanto si restringe in profondità! Mi verrebbe da dire che si verticalizza verso il basso, nel romanzo del marabutto, della tragedia del nascondiglio ipogeo – a una prospettiva individuale, come dimostrano le parole conclusive del primo capitolo: «L’esilio è nella perdita, l’assenza, in noi l’oblio, la cieca indifferenza» (Consolo 2015: 890). In uno scrittore come Consolo, l’influsso omerico non può mancare anche nelle scelte stilistiche. È sufficiente procedere un po’ a casaccio, quasi ad apertura di libro, per trovare qualche esempio. Attingo alle Pietre di Pantalica per un riconoscibilissimo calco omerico come «E Filippo Siciliano […] così parlò» (Consolo 2015: 520), che dà slancio epico a un personaggio di cui Consolo è stato amico e di cui ammirava la coerenza nella lotta per i diritti dei contadini; ma attingo allo stesso libro anche per un modulo spiccatamente narrativo (e che al nostro orecchio suona omerico) che è l’abbrivio epico al passato remoto, spesso seguito da complemento di luogo. Un solo esempio, tra i tanti possibili: «Mossero per via Bivona e Castelvecchio, su per la mulattiera» (Consolo 2015: 515). Weinrich ci ha insegnato che, se il passato remoto è il tempo grammaticale della storia, dell’epos, della guerra, delle vittorie e delle sconfitte, l’imperfetto durativo è il tempo dell’eterna e immutabile ciclicità; attingo da Malophòros: «S’adagiava, tutta l’area sacra, circondata da mura, sul fianco della collina» (Consolo 2015: 580); e, ancor più, alla fine del racconto: A poco a poco non sentii più le parole di Tusa, guardavo Angelina e Ignazio, questi due giovani vecchi di ottant’anni passati, […]. Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità infinita del Tempo. (Consolo 2015: 581) Nell’economia delle Pietre di Pantalica, Malophòros è il racconto della quiete illusoria, delle accoglienze oneste e liete, dell’immersione nel mondo umano e civile di Selinunte ma anche in quello ctonio della Malophòros appunto: insomma, uno tra i racconti più sereni e rasserenanti che Consolo abbia scritto. Ma come dimenticare che questa quiete è continuamente insidiata dall’agitazione motoria di Ignazio, dell’inarrestabile Buttitta? E come non dire che al suo un po’ eccezionale ritmo piano, alla sua quiete, quantitativamente Consolo preferisce l’agitazione dromomaniaca dei suoi protagonisti? Non solo il cavaliere Clerici, ma anche l’io saggistico di certe pagine delle Pietre di Pantalica (penso soprattutto a Comiso), l’io narrante dell’Olivo e l’olivastro, e soprattutto il povero Chino Martinez dello Spasimo di Palermo. In questi testi è tutto un andare e venire da un punto a un altro della Sicilia, o tra Milano, Parigi e la Sicilia, secondo tragitti – non sono sempre logici sul piano topografico ma dettati da un istinto che è soprattutto non dominabile istinto di fuga – che trovano il loro modulo espressivo preferito nel sintagma «Via da…» che ricorre tante di quelle volte che quasi non fa macchia nel testo; mentre non si può dimenticare, se non altro per l’inciampo semantico costituito dalla voce di origine dialettale e rara, quella sequenza di Retablo di identico significato ma che inizia con «Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva» e si conclude circolarmente con «Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan!» (Consolo 2015: 433), dove il cavaliere Clerici sembra recuperare in extremis con l’avverbio tronco la sua milanesità linguistica pesantemente revocata in gioco dall’uso del meridionalissimo ‘arrasso’15. A questo punto, una piccola divagazione, sempre di segno odissiaco: proprio mentre si trova, e sappiamo che non è un caso, a Selinunte il cavaliere Clerici rifiuta la prospettiva del nostos a Milano, si dichiara felicemente prigioniero (anche dal punto di vista linguistico) della Sicilia che attraversa da ulisside. Bene, il rifiuto della Milano «attiva, mercatora» a me fa pensare non soltanto alle note prese di posizione antiborghesi di Consolo ma anche a un sottotesto che mi rifiuto di credere Consolo non conoscesse: ossia all’Ulisse di Tennyson, che poteva aver letto nella classica traduzione di Giovanni Pascoli, al rifiuto del nostos compiuto, del continuare a regnare su un’Itaca in cui gli abitanti sono in preda alla logica solo economica, alla necessità per questo Ulisse nauseato 15 Lessema il cui uso risale, in Consolo, già alla Ferita dell’aprile: cfr. O’ Connell 2008: 182, nota 59. di ripartire verso l’ignoto e di affidare lo scettro a Telemaco (di lui più adatto a intendersi con i regnicoli imborghesiti). Mentre non sarà senza significato che nello Spasimo di Palermo sia il figlio a sperimentare la condizione dell’esilio: come dire che a Itaca non c’è più posto nemmeno per Telemaco, mentre a Ulisse-Chino Martinez è riservato non l’esilio in un luogo (Parigi) dove, di fatto, Mauro si è rifatta una vita, ma l’erranza. Un paio di considerazioni finali. Non ho ancora menzionato il rapporto tra i viaggi dei personaggi alter ego di Consolo e il viaggio di Goethe in Sicilia, perché la mia intenzione era quella di utilizzare il meno possibile le pagine saggistiche e concentrarmi sul Consolo narratore. Però il saggio raccolto in Di qua dal faro mi dà l’agio di ricordare che, mentre Consolo sottolinea il fatto che Goethe ha dimostrato, in Sicilia, di volere sfuggire al rischio di «varcare la soglia dell’ignoto» (Consolo 2015: 1220), Consolo, nei suoi romanzi, ha dimostrato di volere affrontare l’ignoto, i suoi fantasmi, il mondo ctonio che li contiene anche se non li placa, ma l’ha fatto utilizzando tutte le mistificazioni letterarie possibili: i mascheramenti, gli spostamenti, i veli e i filtri che gli venivano offerti dal gioco, appunto letterario, di specchi, reduplicazioni, metafore, simboli, rimescolamenti di carte e raddoppiamenti di alter ego. Tutte armi più che legittime del suo armamentario mentale che forse non è barocco soltanto in Retablo o in Lunaria: si pensi al fatto che il romanziere delle scritte del Sorriso dell’ignoto marinaio ha inserito una scritta anche nel testamentario Spasimo di Palermo, ed è, non a caso, l’iscrizione incisa sull’arco dell’ingresso alla grotta dei Beati Paoli, che recita «per arte e per inganno» (Consolo 2015: 910). Se le armi del raddoppiamento e del nascondimento sono per l’autore più che legittime, anche il lettore è legittimato a tentare di smascherarle. E a chiedersi, per esempio, se il marabutto dello Spasimo di Palermo non sia anche un aleph, ovvero – come mi pare che il testo suggerisca – l’illuminazione su una verità sconcertante, appresa da «un libro raro, da sempre sognato, sul quale aveva oltremodo fantasticato, topographia e historia general de argel» (Consolo 2015: 954). A interrogarsi su «i sensi vari del nome marabutto» (Consolo 2015: 955): non solo un luogo-incubo il cui ricordo rinnova lo strazio di Lucia e di Chino, ma anche un uomo, prete della moschea o maestro del Corano, eremita santo o sacro pazzo: si ricordi che nella pagina proemiale in corsivo leggiamo un «T’assista l’eremita» (Consolo 2015: 877), dunque un auspicio che così viene a cadere; e si pensi, sia pure per un attimo e senza trarne illazione alcuna, alla follia di frate Agrippino o al male catubbo del luponario. D’altra parte, lo sappiamo bene dal proemio, Chino Martinez è un’ennesima nuova versione del multiforme mito di Ulisse: è un Ulisse che arriva, sì, a Itaca ma trova la reggia vuota, senza la Penelope impazzita e morta, dunque non sa a chi svelare «il segreto che sta nelle radici» e, preda di questa tragedia, ha bisogno della calma per «ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza». Il nome, il punto: l’aleph, insomma. E siamo legittimati a chiederci, infine, perché nello Spasimo di Palermo Consolo fa morire Chino Martinez insieme a Borsellino e non insieme a Falcone. Domanda stupida? Non so, io me la sono posta solo adesso, ripensando al fatto che, nell’immaginario collettivo degli anni atroci che abbiamo vissuto – noi da spettatori, altri un po’ meno –, il giudice Falcone aveva una ‘presenza’ simbolica e un carisma superiori a quelli di Borsellino. E allora, perché non lui ma Borsellino? Mi sono dato tre risposte, di ordine assai diverso: la prima, che spalmo sul piano della realtà, è che, se già la strage di Capaci era stata vissuta dall’opinione pubblica come un’enormità, l’omicidio di Borsellino, così immediatamente successivo, fu vissuto ancora peggio, come l’emblema di una misura ormai colma; la seconda risposta è che sarebbe apparsa una ben misera casualità il fatto che Chino Martinez sfrecciasse sull’autostrada contemporaneamente alla macchina di Falcone (però questa risposta funziona sul piano della coerenza narrativa e della verosimiglianza romanzesca, a dimostrazione del fatto che, anche in un’opera-limite come lo Spasimo di Palermo, Consolo doveva pur fare i conti con le regole e le tradizioni del romanzo, che invece non mancava mai di definire come un genere ormai defunto); la terza risposta non si colloca su un piano, ma s’inabissa nei sottoscala del profondo, o dell’inconscio, e riguarda il fatto che, mentre Falcone muore insieme alla moglie, Borsellino invece
    muore davanti agli occhi della madre. Della quale Chino aveva in precedenza immaginato la pena, l’ansia e, nella sua immaginazione, aveva pensato a come
    anche Lucia, se fosse sopravvissuta alla follia, avrebbe atteso con ansia e con pena il ritorno di Mauro. L’ansia e la pena, se si vuole, di Penelope. E già che siamo a questa trafila metaforica femminile, vale la pena di ricordare il bellissimo inizio del decimo capitolo, quando Chino stenta a ricordare i tratti del volto di Lucia, che pare poi trascolorare in Euridice («il volgere le spalle, l’andarsene man mano, lontana nel sacro regno, oscuro») ma anche, poco dopo, nella potentissima immagine omerica dell’impossibile abbraccio di Ulisse all’ombra della madre: «La piena assenza. Lui mùtilo, smarrito, perso nell’inconsistenza, nel protendere le braccia, stringere a sé un’ombra» (Consolo 2015: 958). La madre, dunque, arcana immagine – omerica e perenne – collegata alla morte.

    Bibliografia
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    Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».
    Consolo V., Nicolao M., 1999, Il viaggio di Odisseo, Milano, Bompiani.
    L’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo 111
    Curi U., 2005, «Uno, nessuno, molti: ritratto di Odisseo», Letture Classensi,
    n° 32-34, 2005, p. 77-84.
    Lollini M., 2005, «Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo,
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    Omero, 2010, Odissea, traduzione di Vincenzo Di Benedetto, Milano, Rizzoli.
    Traina G., 2001, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo.
    Traina G., 2014, Siciliani ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre,
    Modena, Mucchi.
    Turchetta G., 2015, «Da un luogo bellissimo e tremendo», in: Consolo V., L’opera
    completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno
    scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani», p. XXIII-LXXIV

reCHERches
Culture et histoire dans l’espace roman
21 | 2018
Studi per Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche»

Laura Toppan.

Nella conversazione  Le Pietre di Pantalica – uscita sul Corriere della Sera del 13 febbraio 1989 –, Consolo risponde che la sua «consonanza con Zanzotto è evidente». Una consonanza stilistico-formale, con la sola differenza che il poeta di Pieve di Soligo l’ha declinata in poesia e Consolo in prosa. Zanzotto è un poeta che egli ha «moltissimo amato e letto» e va da sé che la stima profonda fosse reciproca, a giudicare anche, come vedremo, dal tono della recensione di Zanzotto e dall’omaggio esplicito di Consolo allo stesso poeta ne Lo Spasimo di Palermo (1998). I due autori si sono frequentati poco, ma ‘studiati’ da lontano, con un’attenzione costante al lavoro dell’altro. Due autori profondamente diversi, ma animati entrambi dalla volontà di resistere alla mercificazione e alla corruzione del linguaggio e di tentare l’ardua impresa di restituire una dignità alla lingua letteraria attraverso la tradizione, rinnovandola e, in un certo senso, ‘stravolgendola’ anche, quella tradizione che il Gruppo ’63 cercava in qualche modo di ‘azzerare’ e da cui sia Consolo che Zanzotto si sentivano lontanissimi, seppur ne fossero incuriositi, e con cui si dovettero comunque misurare.

2Dal confronto / scontro con i “Novissimi” si sono quindi ‘sprigionati’ due percorsi molto originali, in linea più con il Pasolini (2000: 5-24) delle Nuove questioni linguistiche del ’64, che con i Neoavanguardisti del ’63. Nel suo saggio Pasolini non si proponeva di definire un modello ideale di lingua nazionale, ma si concentrava piuttosto su un’analisi socio-linguistica del contesto italiano del dopoguerra e in particolare degli anni del boom economico. Egli vedeva nell’italiano della nuova civiltà industriale delle trasformazioni portate dall’arrivo del lessico tecnico, tipico del settore industriale. In effetti, mentre dal dopoguerra sino agli anni Sessanta aveva prevalso piuttosto l’asse delle parlate Roma-Napoli, a partire dagli anni Sessanta in poi prevarrà soprattutto quello dell’asse Milano-Torino, polo industriale attrattivo per tutta una massa di persone provenienti dall’Est e dal Nord del paese. Pasolini registrava quindi la cessazione, per l’italiano, dell’osmosi con il latino e intuiva che la guida della lingua non sarebbe più stata la letteratura, ma la tecnica, che il fine della lingua sarebbe ora rientrato nel ciclo produzione-consumo. Contro queste trasformazioni Pasolini cerca di resistere, e così fanno Consolo e Zanzotto che, attentissimi ai mutamenti del cosiddetto italiano ‘standard’, si costruiscono un percorso tutto personale in materia di sperimentazione linguistica, di lingua poetica, diverso comunque anche dall’operazione dello stesso Pasolini. Lo scrittore siciliano infatti scriverà:

La mia sperimentazione […] non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettale di Pasolini o la degradazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico o una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell’Introduzione a Il Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permetteva di non adottare un codice linguistico imposto (Consolo 1993: 16)

  • 2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza (…)

Zanzotto, dal canto suo, in un’intervista dal titolo L’italiano siamo noi (otto brevi risposte)2 del ’62 osservava:

Il latino è oggi una faglia che s’apre nel terreno discusso dell’italiano, è più un richiamo agli Inferi (come i dialetti, seppure con diverso significato) che ai Superi. (Zanzotto 1999: 1104)

Il ’62 è anche l’anno della recensione di Zanzotto in cui prende distanza dai Novissimi (Zanzotto 1999: 1105-1113), oltre che della pubblicazione di IX Ecloghe, raccolta in cui la lingua inizia ad aprirsi agli inserti che derivano dal registro scientifico tecnologico (mucillagini, cariocinesi, geyser, anancasma, macromolecola) e che convivono con latinismi, arcaismi, recuperi danteschi e letterari in generale. Il latino, in particolare, interviene spesso a fungere da ‘mediatore’ tra il repertorio tradizionale e la terminologia tecnica (Dal Bianco 2011: XXV).

3Fin dai loro esordi letterari, quindi, sia Consolo che Zanzotto cercano di costruirsi una lingua poetica, una lingua della creazione che attraversi tutta la tradizione letteraria italiana ed europea (ed extra-europea) risalendo verticalmente sino alle origini della/e lingua/e, in un’immersione da cui poi le parole risalgano rigenerate o vengano riscoperte. Consolo spiegherà:

[le parole] le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocaboli italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. (Consolo 1993: 54)

  • 3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’U (…)
  • 4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it (…)
  • 5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2 (…)

4Ma se la sperimentazione linguistica dello scrittore siciliano e del poeta di Pieve di Soligo – ormai due “classici” del secondo Novecento italiano – è un punto forte e comune, il loro percorso di vita è, potremmo dire, all’opposto. Consolo parte dalla Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta per andare a studiare a Milano3, città che poi sceglierà per vivere e lavorare, anche perché «era la stessa in cui operava Vittorini, dove aveva passato circa un ventennio Verga nell’Ottocento e dove aveva avuto luogo la rivoluzione industriale»4, secondo le parole dello stesso Consolo in un’intervista per la R.A.I. della serie Scrittori per un anno. Il capoluogo lombardo diventa il luogo privilegiato da cui osservare la propria isola e il mondo, con continue partenze e ritorni tra Nord e Sud e frequenti viaggi all’estero, per quella sua necessità irrefrenabile di movimento spaziale, nel tentativo di capire e di interpretare i grandi eventi epocali: le nuove migrazioni, le ingiustizie, le connivenze, come il fenomeno mafioso a cui Consolo dedicherà molte riflessioni5. La scrittura diventa quindi un’arma per opporsi ai poteri, denuncia contro i mali del nostro tempo. Zanzotto, al contrario, rimane praticamente ‘stanziale’ per tutta la vita, se escludiamo brevi soggiorni a Milano e il periodo in cui partì per la Svizzera tra il ’46 e il ’47 per un’esperienza di lavoro: entro il perimetro geografico della sua Pieve, ai piedi delle Alpi trevigiane e attorniato dal paesaggio dei colli, egli osserva il mondo locale e globale, cercando di interpretarne i cambiamenti. Questo piccolo centro, la sua Pieve, ha rappresentato non il punto fermo di un universo in movimento, ma un luogo che il poeta ha visto ‘girare e muoversi’ secondo ritmi sempre più rapidi, sino a diventare quasi irriconoscibile, inghiottito dalla mostruosa conurbazione che va dal Garda al Friuli e che è chiamata «la Los Angeles veneta». In Consolo, invece, sarà la sua isola, la Sicilia, ad essere sempre il punto di partenza: «Io porto in me questo unico punto del mondo, questo paese» (Consolo 2014: 137-138), e aggiunge:

  • 6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014.

Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. (Consolo 2014: 135)6

  • 7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare (…)

E il narrare è da intendersi nell’accezione definita da Benjamin (2011) nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, per il quale il narratore è pre-borghese (rispetto al romanziere), è colui che «riferisce di un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio» . Per Zanzotto, al contrario, Pieve di Soligo è il punto da cui allontanarsi ogni tanto, ma sempre centro del suo vivere. Nei mesi dopo il 25 aprile e durante l’estate del ’45, egli si reca più volte a Milano, compiendo il viaggio su convogli di camion partigiani che, dai paesi devastati della zona intorno al Piave, erano alla ricerca di viveri e di materiali, in assenza di una rete di rifornimenti. Nel ’46, al referendum per determinare la forma di governo che dovrà guidare l’Italia postbellica e che mobilita l’opinione pubblica, Zanzotto sostiene il voto in favore della Repubblica e si troverà in contrasto con la propaganda ecclesiastica. La direzione del collegio Balbi-Valier dove ha da poco ottenuto una supplenza, fa intendere ai dipendenti il gradimento per una scelta anche politica e Zanzotto quindi, terminato l’anno scolastico ’45-’46, decide di emigrare in Svizzera, dove rimarrà per più di un anno7. Una volta rientrato nella sua Pieve, inizierà da lì il suo percorso letterario, tanto che la definizione consoliana relativa ai tanti scrittori siciliani che avevano rinunciato alla ‘fuga’ dall’isola, ovvero che appartenevano ad una «letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33), può forse essere applicata anche all’opera del poeta del solighese. Nella conversazione con Calcaterra, Consolo affermava che «esiste una letteratura della distanza spaziale, o dell’esilio» (Calcaterra 2014: 33) e «una letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33): per lui, ancor più incisiva della distanza spaziale è la distanza intellettuale, poiché si riesce ad «affinare una grande saggezza e lucidità rispetto alle cose» (Calcaterra 2014: 32) e al mondo che si osserva. Lucidità che Zanzotto ebbe tutto lungo il suo percorso ‘scosceso’: pensiamo solo, a titolo di esempio, al volume In questo progresso scorsoio (Zanzotto 2009) in cui il poeta, dialogando con l’amico giornalista Marzio Breda, affronta temi capitali come le emergenze climatiche e le crisi ambientali, i conflitti per l’energia e i fondamentalismi religiosi, il ‘turbocapitalismo’ in panne e l’eclissi degli idiomi minori. Per Zanzotto, agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un tempo che «strapiomba», in cui si aprono nuove difficili sfide di cui a volte siamo addirittura inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia così di portarci verso l’autodistruzione.

5Pur con dodici anni di differenza – Zanzotto nato nel ’21 e Consolo nel ’33 – entrambi vivranno in prima persona il trauma della Seconda Guerra Mondiale: Consolo prima da bambino, sotto i bombardamenti degli Americani sulla Sicilia nell’estate del ’43, in particolare a Palermo e a Messina; in seguito da sfollato, e poi tramite i giochi pericolosi delle bombe e delle mine disseminate sul territorio che lasceranno tracce indelebili nella sua memoria. Zanzotto invece, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, è poco più che ventenne e partecipa in prima persona alla Resistenza veneta nelle Brigate di “Giustizia e Libertà” occupandosi della stampa e della propaganda del movimento. Si era formata la Brigata Mazzini che, pur essendo sotto il controllo del Partito Comunista, accoglieva anche altre forze antifasciste e Zanzotto, avendo deciso di non far uso delle armi, partecipò alla realizzazione di manifesti e fogli informativi. Nell’inverno del ’44 Pieve di Soligo diventa una sorta di campo di concentramento e il poeta viene reclutato a forza e inviato al lavoro coatto. Nel ’45 riprenderà l’attività partigiana di propaganda sulle colline e in quel periodo non scriverà quasi nulla, tranne qualche frammento diaristico e una poesia per i morti fucilati del paese (Zanzotto 1999: CXII). Gli scontri continuano sino al 30 aprile, data a partire dalla quale la zona viene liberata dalle truppe alleate e si avvia verso il processo di normalizzazione.

6Le tracce della guerra nei Nostri si trasmisero anche attraverso i padri: il padre di Consolo era stato in prima linea sul Carso nella Guerra del ’15-’18, mentre il padre di Zanzotto, pittore-decoratore, a causa delle sue posizioni apertamente antifasciste era dovuto partire per l’esilio in Francia nel ’25 e nel ’26 e, successivamente, a Santo Stefano di Cadore, in montagna. La Storia entra quindi violentemente nella vita dei due autori e segnerà profondamente la loro opera, anche per contrasto al fenomeno della cancellazione della memoria del nostro tempo che entrambi hanno denunciato in più occasioni in varie interviste. Consolo affermava che funzione della letteratura rimane quello di portare alla luce le verità nascoste, di svelare, smascherare, denunciare. Lo scrittore deve riscoprire la forza della parolaverticalizzare la scritturarenderla più possibile densa e pregna di significatitrovare strumenti più incisivi e graffianti, perché lo scandalo venga raccontato, la colpa denunciata, il misfatto scoperto, l’ingiustizia rivelata8. E il paesaggio da cui scaturisce questa parola è il testimone di questa ricerca: per Consolo è la Sicilia, con il suo Mar Mediterraneo carico di approdi e di tragedie; per Zanzotto è il Veneto, quello delle Prealpi sino alla Laguna e all’Adriatico, «luoghi ricchi di lontananze ed intrecci di tempo-spazio» (Zanzotto 2013: 142), li definisce il poeta ne La memoria della lingua, tanto che per lui:

muoversi, aggirarsi, stare […] in una di queste aree porta sempre un senso di sprofondamento, di peso sulle spalle, e insieme di spinta verso altri orizzonti, verso altezze atmosferiche e perfino stellari. (Zanzotto 2013: 142)

8Anche Consolo, probabilmente, ha avuto un senso di sprofondamento aggirandosi nella sua isola, ma è proprio da quel peso, paradossalmente, che si è mosso, che è partito verso un’avventura «archeologica» della lingua e della Storia siciliana, che è poi Storia italiana, europea, mondiale. Allo stesso modo Zanzotto, sin dall’infanzia, ha «avvertito gli spostamenti entro la geografia [veneta] come spostamenti nella storia» (Zanzotto 2013: 143), legati alla terra in modo radicale e ciò dovuto in parte «alla frequenza ossessiva delle commemorazioni della Grande Guerra» (Zanzotto 2013: 143). Di conseguenza egli si è «interiormente segnato un tracciato particolare, quello dell’ubicazione degli Ossari, che inneva la linea del Piave». Per il poeta di Pieve di Soligo, infatti:

una vera memoria è propria della lingua, prima ancora della letteratura, nelle profondità in cui diviene continuamente e continua ad essere ‘lingua nascente’ […] in contatto […] con la “fisica” antropologica e [la] geografia dell’ambiente, in continue interazioni. (Zanzotto 2013: 142)

Zanzotto cerca di recuperare la memoria della lingua e alla stessa impresa ha dedicato tutta la sua opera Consolo, come mette in evidenza Cesare Segre nel Profilo del Meridiano:

[egli] mostra […] che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei Greci delle colonie, e poi dei Romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori delle classi subalterne. (Segre 2015: XX-XXI)

Ecco allora che, attraverso il plurilinguismo, Consolo apre degli orizzonti verso i momenti significativi della storia siciliana: «archeologo della lingua» o «delle lingue», egli scava in altri dialetti siciliani e nell’italiano per riportare alla luce significati perduti, originari, con innesti da varie lingue. La sua sperimentazione si svolge sia sul piano della storia che della lingua nelle sue diverse stratificazioni (Domenico 2014: 53). E sempre secondo Segre:

ciò che tiene insieme questo plurilinguismo è un fatto musicale, [grazie alla] tecnica del pastiche [e al ricorso di] frammenti [di] altre [e numerose] lingue. (Segre 2015: XXI)

  • 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it

9Gianni Turchetta, inoltre, nella sua ricchissima Introduzione al Meridiano, evidenzia che «il dialetto siciliano è di norma italianizzato e l’italiano spesso sicilianizzato» (Turchetta 2015: XXXI), mentre in un’intervista Consolo precisa che in Sicilia esistono sette aree linguistiche di gallo-italico, ovvero dialetti che sono arrivati con i Normanni e quindi con residui di lombardo9. Di conseguenza:

gli strati siciliani della lingua di Consolo attingono ad un’impressionante molteplicità di varietà locali: [il] siciliano orientale, che ha più riconoscibili radici greco-bizantine […]: [il] sanfratellano, […] oltre al toscano, al napoletano e al milanese. (Turchetta 2015: XXXI)

  • 10 Il sabir era chiamata anche petit mauresqueferenghi‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse u (…)
  • 11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni (…)

Si tratta di «lacerti di lingue vive e morte, corrette o deformate: il greco classico, il latino classico, liturgico e medioevale, il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il sabir10» (Turchetta 2015: XXXI), che è la lingua franca del Mediterraneo. Diamo qui solo qualche esempio11: per il latino della liturgia, «Regem venturum Dominum / Venite Adoremus / Ecce Dominus veniet, et erit in die illa lux magna» (FA: 8); per il greco, «Agios o Théos / Agios ischirós / Agios athanós, / eléison imás» (FA: 76); «chiocciola, kochlías nella lingua greca, còchlea nella latina» (S: 235); per il francese, «Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois» (R: 445); per lo spagnolo, uno dei personaggi principali, Doña Sol, è spagnola: «También, Madre de Dios?! Hombre sin nervio, debilidad, ságoma sin vida, sombra sin consistencia, ausencia, lástima de mi vida, cojón de algodón!» (L: 278); per l’inglese, «(Broccolino, Broccolino), che alla lunga identificai con Brooklyn» (PP: 493); per un mélange di francese e di arabo, parlato da un tunisino in Sicilia, «E l’alìve? Sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’». (PP: 502); per l’arabo, «Inshallah» (R: 440) e per un dialogo a più lingue (PP: 569):

«Alò» gli fece uno dei giovinotti per rompere il silenzio e l’imbarazzo. «Hallo» gli rispose Robert. «Do you speak english?» Silenzio dall’altra parte. «Habla español?» Silenzio. «Parlez-vous français?» «Moi, je parle français» rispose il Piancimòre. «Êtes-vous allé en France?» «Non, je suis allé en Belgique, à travailler, dans les mines» «…» «Et êtes-vous américain?» «Non, non, je suis hongrois, mais j’habite en France.» «Ah, la France, le pays de Prudhon et de Victor Hugo!» escalamó il Pinciamòre. «Oui, de Proudhon, de Hugo et bien d’autres…» rispose Robert ridendo apertamente. Ma capì subito di fronte a chi si trovava, e pensò, guardando la faccia del suo interlocutore, ai contadini catalani di Durruti, ai duri minatori delle Asturie. «Dites-moi, était-il de ce pays le cardinal Mazarin?» chiese il francese. «Bah, ici il n’y a jamais eu un cardinal, mais seulement des prêtres, des religieuses et des capucins. Nous en avons déjà assez!» Robert gli tese la mano sorridendo e l’altro gliela strinse. «Au revoir» disse «au revoir» «Au revoir» rispose il Pinciamòre «Vive la France!» «Oh…Vive le monde tout entier!» disse Robert. (Consolo 2015: 569)

10Consolo ricorre poi a una pluralità di termini appartenenti ad una lista impressionante di settori, quali «la pesca, la marineria, la botanica, l’agricoltura, la zoologia, la cucina, l’architettura, la tessitura, la medicina e l’astronomia» (Turchetta 2015: XXXII), solo per citarne alcuni, e in questi «impasti linguistici, la lingua di Consolo lavora sistematicamente e progressivamente sugli estremi» (Turchetta 2015: XXXII), passando dall’aulico, all’iper-letterario al registro più basso e familiare («il bambino con la testa a vaporino grufolava per terra, agitava le mani e tirava sgrigne soffocate», FA: 51; «sulle ginocchia e sul didietro», FA: 13; «ci dissero cacati e, per l’invidia, ci presero a sfottò», FA: 15; «o stronzo, o merda!…e calci e cinque franchi», FA: 15; «Si vede nu cazzu!», S: 152), e anche se con il tempo il suo sperimentalismo vira verso il tragico, il registro comico, ironico, rimane comunque sempre presente come sottobosco; quell’ironia che fa capolino sin dal primo libro, La ferita dell’aprile: «Puressa, puressa, primavera di bellessa» (FA: 13); «zanglé…sta piova, lesanglé, non inglesi, ma normanni», (FA: 24). E il carattere predominante nei saggi critici e nella poesia di Zanzotto, come per esempio ne La Beltà, raccolta uscita nel 1968 in pieno boom economico, è proprio l’ironia, che si trasforma in aperta comicità o in sarcasmo (come nel componimento Sì ancora la neve: “per voi bimbi con diritto / e programma di pappa, per tutti / ferocemente tutti, voi (sniff sniff / gnam gnam yum yum slurp slurp: / perché sempre si continui l’«umbra fuimus fumo e fumetto»); «colorini più o meno truffaldini») (Zanzotto 2001: 240).

11Il plurilinguismo di Zanzotto, inteso come la messa in opera di elementi appartenenti a diverse lingue e di una pluralità di voci, dialoganti o meno, può esser considerato, secondo Jean Nimis, «una delle caratteristiche ‘fondanti’ della poetica dell’autore» (Nimis 2018: 23). Si tratta di un fenomeno ancora in nuce fino a Vocativo (’57), che diventa esplicito a partire dalla raccolta IX Ecloghe (’62), per poi prendere tutta la sua forza ne La Beltà (’68), ne Gli sguardi i fatti e i Senhal (’69) e in Pasque (’73), in cui la commistione di lingue, linguaggi e voci genera una musicalità molto particolare, ovvero «quel grain de la voix di cui parlava Roland Barthes» – suggerisce Nimis (2018: 23) – e che contraddistingue la poetica zanzottiana. A questa raccolta si deve aggiungere anche il Filò (del ’76), in un dialetto intessuto della koiné veneta. La poesia di Zanzotto è stata una vera e propria «esperienza di linguaggio» – secondo una formula di Stefano Agosti – e dunque un’esperienza sul e nel linguaggio e possiamo attribuire la stessa formula al lavoro letterario di Consolo, che ha realizzato un’escursione a largo raggio verso le origini del linguaggio.

12Anche il plurilinguismo di Zanzotto, come quello di Consolo, riguarda l’uso di varie lingue: l’italiano; il latino, che secondo Dal Bianco, dalla raccolta Vocativo (1957) in poi rappresenta la lingua della Storia, con tutta la sua portata di terrore, soprattutto quando è accompagnata dal lessico scientifico (Dal Bianco 2018: 41); il dialetto, che è la lingua dell’inconscio, la lingua materna e della madre (l’uso del dialetto in Zanzotto esplode dopo il ’73, ovvero dopo la morte della madre), ma che ad un certo punto, in Idioma (1986), diventa la lingua dei morti; il greco, in particolare quello dei Vangeli e di San Paolo, utilizzato quindi come lingua dell’alterità massima, della Natura; il francese, che in genere compare in citazioni letterarie; il tedesco, che è la lingua dell’abbrutimento nazista e al tempo stesso il sublime di Hölderlin – uno dei modelli più alti in poesia –, quindi lingua «dell’antiumano e della somma umanità» (Dal Bianco 2018: 41-43); l’ungherese, che entra nell’ultima raccolta, Conglomerati (2009), in particolare nel componimento Silvia, Silvia, là sul confine… (Zanzotto 2011: 1041-1042), dedicata alla figlia del poeta Cecchinel, morta in giovane età, che studiava lingua e letteratura ungherese all’università di Venezia («Jó estét, kisasszoni!», che significa «Buonasera Signorina!»).

  • 12 Breda 2012: 3.

13Dal Bianco osserva che, a partire dalla trilogia di Zanzotto ch’egli ha definito «dell’Oltremondo» (Dal Bianco 2018: 43), ovvero Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), gli inserti delle varie lingue a cui ricorre Zanzotto giocano in un certo senso al ribasso, ovvero ad un «abbassamento di registro». Alle lingue già citate si aggiunge l’inglese, la lingua disprezzata (perché in Italia è quella della pubblicità, della mercificazione) ma che negli anni Ottanta, dopo un lungo periodo di depressione e di afasia, sorge dal profondo per la composizione di pseudo-haiku: Zanzotto dirà che fiorivano spontaneamente, come degli zampilli improvvisi provenienti da qualche luogo recondito della psiche, da un fondo oscuro e fangoso, quasi delle bolle, a testimonianza del fatto che nonostante il deserto doloroso della malattia, un’oasi salvatrice, una fonte di creazione esisteva ancora. Nel saggio Europa, melograno di lingue, il poeta definisce l’inglese «una lingua vulcanica, […] che non può non stimolare alle grandi arrampicate» (Zanzotto 2011: 45), e il suo è un inglese petèl, come lui stesso l’ha definito, ovvero quello dei bambini piccoli che iniziano a parlare: ricorrendo ad elementi minimi della fonologia inglese, Zanzotto spiega «che gli pseudo-haiku gli si congegnavano un po’ alla volta, si coagulavano quasi da sé, grazie alla spinta allitterativa così caratteristica di questa lingua» (Zanzotto 2011: 45). Egli aveva provato a tradurre quei frammenti in italiano, ma restavano in qualche modo sminuiti; e si era anche industriato a tradurli in francese, ma senza grandi risultati e quindi vi aveva rinunciato. Gli riuscivano bene in inglese e non sapeva nemmeno lui bene il perché: partiva forse da una citazione molto conosciuta e da lì nasceva un vero haiku. Solo in un secondo momento li tradurrà in italiano e verranno pubblicati postumi in edizione bilingue negli Stati Uniti: Haiku for a season / Haiku per una stagione (Zanzotto 2012)12.

14La lingua poetica di Zanzotto ricorre inoltre, come la prosa consoliana, a vari lessici specifici appartenenti a numerosissime e svariate discipline, come la medicina, la psicanalisi, la botanica, l’astrofisica, la matematica, l’astronomia, la geologia, l’ottica, oltre ad elementi espressivi connessi all’uso dei linguaggi, come il balbettio rappresentato, gli ideogrammi, i disegni e gli scarabocchi (qualificabili tutti come «iconografie»), i disegni e i collages che accompagnano i testi (cfr. Dal Bianco 2011). E molto importante è anche la dimensione sonora, ove i segni sulla pagina bianca sono da considerarsi come delle ‘scansioni’, dei ‘segnali metronomici’, delle ‘pause’: indicazioni ritmiche per un’interpretazione musicale. Il suo procedere mette in atto un dispositivo sonoro molto denso, costituito da onomatopee, spezzoni di enunciati in diverse lingue, serie di versi dal tessuto ‘acustico’: ora rumoroso, ora sussurrante, ora quasi bisbigliato. Lo stesso Montale aveva definito il poeta di Pieve di Soligo «un poeta percussivo» (Montale 1968: 338). Anche in Consolo, seppur con procedimenti diversi, vi è una «tensione verso la pronuncia fisica [delle parole] e dunque [un’]evocazione permanente dell’oralità» (Turchetta 2015: XXXV), anche perché legata ad una lingua che ha in sé una forte teatralità, quindi che ben si presta alla recitazione. E ricordiamo anche la pratica di riportare melodie e canti popolari in Consolo, così come filastrocche, proverbi e modi di dire in dialetto in Zanzotto.

15Entrambi gli autori, inoltre, scrivono quella che è stata definita una trilogia o, nel caso di Zanzotto, una «pseudo trilogia», secondo le parole dello stesso poeta: un connubio di lingua e storia, le due componenti fondamentali nell’opera dei Nostri.

16La trilogia di Consolo comprende il Sorriso dell’ignoto marinaio (’76) ambientato nel periodo del Risorgimento, un momento di grandi speranze e di grandi delusioni; Nottetempo, casa per casa (’92), che mette a confronto l’avvento del fascismo, segnato da un’estrema violenza tra Cefalù e Palermo attraverso le vicende della famiglia Marano e, allo stesso tempo, con l’Italia degli anni Novanta, dell’avvento della destra; e Lo Spasimo di Palermo (’98) che mette in luce le collusioni tra il potere politico e la mafia con le stragi degli anni Novanta.

17Anche la trilogia di Zanzotto è legata alla Storia, ma comprende un arco temporale che parte dalla grande tragedia popolare della Prima Guerra Mondiale con la prima ‘anta’, Il Galateo in Bosco (’78), nella prospettiva di rivitalizzarne la memoria nel presente. Il Bosco è quello del Montello, a sud di Pieve di Soligo, visto dal poeta come un’enorme pattumiera che r-accoglie i sedimenti organici e inorganici del processo naturale, i resti dei picnic dei villeggianti assieme alle ossa dei soldati della Grande Guerra, il cumulo delle tracce lasciate dall’uomo nei secoli. Questo Bosco rimasto quasi intatto, seppur sfruttato, nei secoli venne distrutto dopo l’Unificazione, nelle varie battaglie che portarono, nel ’18, alla vittoria italiana contro l’Austria-Ungheria. Le tracce di questa tragedia sono rimaste nella terra, tanto che la topografia della zona segna la linea degli Ossari nel Montello (Tessari 2009). Parecchi titoli dei componimenti – come indica Zanzotto in una Nota – sono tratti da parole o frasi del Bollettino della Vittoria e questo è un procedere anche di Consolo, che si spinge forse ancora più in là riportando in alcuni casi, nei suoi romanzi, stralci di documenti inediti consultati in archivio, con quella sua preoccupazione di verità e soprattutto di dar voce a chi non ne ha avutaGalateo è un codice di comportamento, espressione delle regole che presiedono al vivere civile, ma che storicamente si sono incarnate nella retorica del potere e nella volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; è il Galateo overo de’ costumi che Giovanni della Casa scrisse probabilmente negli anni in cui si ritirò nell’abbazia di Sant’Eustachio, presso Nervesa, nel trevigiano, tra il 1551 e il 1555 (e pubblicato postumo nel 1558). Ambiguo e lacerato è lo statuto della poesia: da una parte si rivolge al bosco come unica fonte di sostentamento e speranza di vita autentica, dall’altra si riconosce nelle istanze razionalizzanti del Galateo, poiché memoria stratificata nel codice letterario. Al centro della raccolta vi è l’Ipersonetto (16 sonetti), che sta ad indicare l’elezione di un codice altamente letterario, ma ‘stravolto’, poiché vi è la tendenza del poeta ad incorporare grafismiideogrammisimboli matematicidisegni naïf, a volte con valore di notazioni musicali, influendo quindi sull’intonazione degli enunciati; a volte con funzione di semplice “commento” al testo; a volte con funzione di “disturbo” o monito, poiché manifestazioni del “rumore” della storia e del mondo contemporaneo.

18In Fosfeni (dell’83), il paesaggio è quello a nord di Pieve di Soligo e il carico di responsabilità sulla lingua poetica aumenta progressivamente, mentre in Idioma (dell’86) – la terza ‘anta’ della Trilogia – il centro geografico è la Pieve del poeta, un paese che è come un giardino devastato qua e là, una mappa, un palinsesto. La necessità di una presa di coscienza della distanza presente da ciò che ci costituisce in quanto passato è certamente uno dei principi guida della trilogia. Idioma contiene i Mestieròi, una sorta di ‘museo d’ombre’ in dialetto solighese, e una vecchia canzoncina satirica locale, I putèi del Mulineto, e vi è l’espressione queimada brasilèira, con cui Zanzotto denuncia il fatto di bruciare le foreste per coltivare il terreno (ciò’ è legato all’emigrazione veneta in Brasile alla fine del XIX secolo). Ma anche la foresta del Montello era stata abbattuta nell’82 per poter coltivare il terreno. In questo processo di nominazione (da Idioma, appunto) entra sempre la Storia e un esempio ne è la poesia intitolata Il nome di Maria Fresu, dedicata a una ragazza letteralmente polverizzata dalla bomba della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente tra le vittime: ridotta unicamente al suo nome:

E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp. (Zanzotto 2011: 700)

La necessità di registrare gli accadimenti passati e più recenti ritorna costantemente nell’opera di Zanzotto e Consolo, ma nell’ultima ‘anta’ della trilogia dello scrittore siciliano è presente il rischio dell’afasia, rappresentata dal protagonista Gioacchino Martinez, dietro cui si cela lo stesso Consolo, uno scrittore che non scrive e non vuole più scrivere, nemmeno le dediche sui propri libri. Questo silenzio è causato dall’esigenza di dire una verità e dalla constatazione dell’impossibilità di farlo. L’afasia qui  si accentua, testimone anche della coerenza e del coraggio del percorso letterario di Consolo: Decise di scuotersi, di fare, dar mano al proposito, da tempo accantonato, d’indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes e a quella, insieme, d’un poeta di qua dialettale, Antonio Veneziano. Sarebbe riuscito forse a scriverne, scrivere d’una realtà storica, della pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine d’una pieve saccheggiata – tutt’ossa del Montello questo mondo – «Le tue ecloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa…’ questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d’un antico Mediterraneo devastato13. (Consolo 2015: 953-954)

Il «veneto» è chiaramente Zanzotto che, «rinchiuso nella sua solitudine», registra i mutamenti di Pieve di Soligo e la dissacrazione del paesaggio che lo circonda dovuta alla cementificazione e al disboscamento; «le tue ecloghe» fa riferimento alla raccolta del ’62, IX Ecloghe, e la «puella pallidula vagante» è citazione appunto da IX Ecloghe, in particolare dal componimento:

13 settembre 1959 (Variante)
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
distonia vita traviata,
atonia vita evitata,
mataia, matta morula,
vampirisma, paralisi,
[…] (Zanzotto 2011: 171)

19Ritorna il tema della luna – che ha tanto affascinato Consolo tanto da comporre Lunaria (1985) – legato ad una serie di nominazioni provenienti da diversi campi linguistici: selenita, che in astronomia è tutto ciò che è in rapporto con la luna; distonia, che è l’alterazione del tono muscolare; l’atonia, che in linguistica è la mancanza di accento e in medicina la perdita del tono muscolare; la mataia, che deriva dal greco e significa folle, stolta; morula, che in biologia è la fase con cui ha inizio il processo di sviluppo di un embrione e infine vampirisma, che deriva da vampiro, spettro che esce dalle tombe la notte. «La tua lingua prima balbettante» è invece il dialetto di Zanzotto, mentre «la seconda ancor più ardua, scoscesa» è l’italiano. In questo passaggio, che possiamo considerare un omaggio di Consolo al poeta di Pieve di Soligo, l’io narrante aborre il romanzo e lamenta di non avere il dono della poesia, che per lo scrittore siciliano rappresenta

un’esigenza primaria dell’uomo. Se non ci fosse la poesia, se si estinguesse il canto, l’umanità rischierebbe parecchio, perché la poesia ha la capacità di risorgere, rifiorire inaspettata, riapparire anche nei luoghi più imprevedibili. In Italia rimane certamente la forma letteraria più irriducibile (perché meno mercificabile), continua a possedere un genuino nucleo di forza espressiva e verità. (Calcaterra 2016: 66)

Da questa concezione alta della poesia, deriva anche la prosa ritmica di Consolo e l’omaggio esplicito a Zanzotto va de soi, forse perché, come suggerisce Massimo Onofri, egli è:

abituato a lavorare sull’ideologia per alchimia sintattica, fermento lessicale, combustioni prosodiche […] dentro una «metrica della memoria» proprio come Consolo, senza compromessi. Entrambi hanno fatto della forma una questione di sostanza (Onofri 2004: 193-199).

  • 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RA (…)

20Ricordiamo inoltre che nella seconda metà degli anni Settanta, Consolo realizzerà per la RAI il documentario dal titolo Una giornata di Iseo Tesser. Dentro e fuori una mostra sulla cultura contadina veneta, nato dall’esposizione Settecento anni di costume nel Veneto per la regia di Raoul Bozzi. La sceneggiatura è di Consolo, mentre l’intervistatore è Andrea Zanzotto, che parla con Iseo Tesser, un mezzadro sulle terre dei principi di Collalto (il ramo italiano degli Hohenzollern), ultimo di una famiglia che esercita quel mestiere da secoli14. Questo lavoro è testimonianza dell’attenzione dei due scrittori per i mestieri legati alla terra e la storia, nei secoli, di determinati territori, in particolare quelli delle loro regioni, che rappresentano sempre il punto di partenza.

21E veniamo ora alla recensione di Zanzotto alle Pietre di Pantalica, (Zanzotto 2001: 308-310):

Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati […]. L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare [ed] è sempre un rivolgersi ai molti […] è quasi una preghiera […]. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, […]. […] all’orizzonte, [vi sono] quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. […] trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore (odore penetrante e acre) di memoria, o perfino di necessario vuoto-di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

Ma il momento più alto del libro è […][il] fascinoso imperio linguistico di Amalia: che trascina (l’amico) […] iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto. (Zanzotto 2001: 308-310)15

Zanzotto, così attento alla lingua, alle parole, in particolare a tutti i nomi di piante, di fiori, di alberi, al paesaggio in generale e a quello del bosco in particolare, e così ‘funambolo’ nell’invenzione linguistica (pensiamo alla fantasia linguistica de Il Galateo in bosco del ’78), non poteva non apprezzare, sopra tutti, il magnifico racconto consoliano Il linguaggio del bosco, tanto che alla fine della sua recensione scriverà:

Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, […], [m]a non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere. (Zanzotto 2001: 308-310)16

Ci sembra importante sottolineare che per la scrittura di Consolo si è parlato di “palinsesto” (‘O Connell 2010: 42-66), un termine che si riferisce al codice di pergamena su cui, raschiata la prima scrittura, si può scrivere un nuovo testo e dove l’originale rimane in trasparenza: così l’ipertesto si innesta nell’ipotesto. Zanzotto, nel 2001, pubblica la raccolta Sovrimpressioni e il primo significato del titolo è il riemergere di parole, di storie e di figure antiche di un tempo ormai lontano, ma confuso-fuso con quello reale. Il titolo deve quindi essere letto in relazione al ritorno di ricordi e di “tracce scritturali”: il poeta registra il degrado del paesaggio della sua amata terra, esprime la propria amarezza e lo fa rivivere, in dialetto, attraverso il ricordo di figure ‘mitiche’ del suo passato, già incontrate nella sua opera (come la Maestra Morchet o l’agricoltore Nino). Il modo di procedere è personalissimo, ma delle convergenze sono riscontrabili nell’idea di traccia, di recupero di modelli letterari, fatti storici, immagini di persone che hanno segnato in qualche modo il loro percorso.

22Questo studio si propone quindi come un primo contributo all’analisi comparativa di due autori che sono accomunati da un forte interesse per la sperimentazione linguistica e da una poetica comune, pur nell’estrema diversità dei risultati e dei generi praticati. Lo sforzo di recuperare dall’oblio pezzi di Storia, Consolo e Zanzotto l’hanno investito tutto nella lingua, e anche nei momenti più terribili, più tragici, quando la tentazione di abbandonare l’impresa era forte, da un degré zéro della pagina bianca hanno sempre continuato, nonostante tutto, l’entreprise, forti di un valore prima di tutto etico, che estetico, della letteratura e della lingua.Haut de page

Bibliographie

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Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone.Haut de page

Note

2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza di diritti, ma non meno tra parentesi che gli altri fenomeni. […] si rende impossibile salvare, attraverso tanto legittimo disamore, qualche cosa che alluda, almeno, all’amore, ne isoli l’immagine per assurdo».
3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’Università. Intervenne mio fratello: ‘Lo mandiamo a Milano all’Università Cattolica’. Io felice. Vincenzo si iscrive quindi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano: Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo il desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito».
4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2010, ovvero poco prima di morire. Ora riuniti in Consolo 2017.
6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014. I corsivi sono nostri.

7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare. Da amici trevigiani apprende che in Svizzera si può trovare un impiego: gli segnalano in particolare un posto di insegnante presso il collegio della cittadina turistica di Villars sur Ollon, nel Vaud, sulle montagne sopra Losanna, dove prende servizio nel mese di settembre. L’ambiente si dimostra alquanto opprimente, sia per una singolare figura di direttrice-padrona […] sia perché viene impiegato per supplenze e lezioni innumerevoli in tutte le materie, compresa la matematica. Rimane in Svizzera quasi un intero anno scolastico, poi è costretto a rientrare per essere operato di appendicite e per il successivo mese di convalescenza. Al ritorno in Svizzera decide di abbandonare il collegio tra i monti e si stabilisce a Losanna, dove l’atmosfera è ben più vivace. […] è disposto a fare il barista e il cameriere […] viene in contatto con i seguaci di Swedenborg. Rientrerà in Italia alla fine del’47 all’aprirsi di nuove prospettive per l’insegnamento». Di questo periodo svizzero inizierà a scrivere, in francese, nel Cahier Vaudois, rimasto però incompiuto e a tutt’oggi inedito. 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
10 Il sabir era chiamata anche petit mauresqueferenghi‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse una storpiatura del catalano saber; lingua franca, invece, deriva dall’arabo lisān-al-faranğī. Il secondo termine è in seguito passato ad indicare qualsiasi idioma che metta in contatto parlanti di estrazione diversa. Questa lingua ausiliaria serviva a mettere in contatto i commercianti europei con gli arabi e i turchi, ed era parlata anche dagli schiavi di Malta, dai corsari del Maghreb e dai fuggitivi europei che trovavano riparo ad Algeri. La morfologia era molto semplice e l’ordine delle parole molto libero. Per supplire alla mancanza di alcune classi di parole, vi era un largo uso di preposizioni e di aggettivi possessivi e aveva un numero limitato di tempi verbali (il futuro, per esempio, si creava usando il modale bisognio, il passato con il participio passato). Il primo documento in lingua franca risale al 1296 (Compasso da Navegare). Nel 1830 viene pubblicato a Marsiglia il Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque, suivi de quelques dialogues familiers et d’un vocabulaire de mots arabes le plus usuels; à l’usage des Français en Afrique, manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione francese in Algeria per la conquista di Algeri (è l’inizio della colonizzazione francese che si sarebbe protratta fino al 1962). Veniva così alla luce un idioma alquanto misterioso, usato dai secoli medievali nel Mediterraneo come mezzo di comunicazione tra cristiani di lingua romanza da un lato, arabi e poi turchi dall’altro. Doveva servire ai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir. Nell’Impresario delle Smirne, Goldoni inserisce un personaggio che si esprimeva in lingua franca. Cfr. Francesco Bruni, https://web.archive.org/web/20090328135757/http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/lezioni/f_lll5.htm.

11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni, seguite dal numero di pagina: Ferita dell’aprile (FA), Il sorriso dell’ignoto marinaio (S), Retablo (R), Le pietre di Pantalica (PP).
12 Breda 2012: 3. 13 I corsivi sono nostri. 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RAI 1 la sera del 10 luglio 1977.

Référence papier

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches, 21 | 2018, 183-198.

Référence électronique

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches [En ligne], 21 | 2018, mis en ligne le 07 octobre 2021, consulté le 20 septembre 2022. URL : http://journals.openedition.org/cher/1269 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cher.1269

Vincenzo Consolo con Luigi Meneghello “Laurea honoris causa” Palermo 20 giugno 2007

Vincenzo Consolo, dal sorriso allo spasimo: l’impossibile romanzo


Lise Bossi

Lo Spasimo di Palermo può essere considerato l’ultimo romanzo di Vincenzo Consolo, anche se può sembrare «abusivo» classificarlo in questo genere letterario dato che l’opera si presenta come la conclusione di una riflessione e di un lavoro di scrittura che non riconoscono alla narrazione romanzesca, nella sua accezione e nella sua forma classica, la capacità di rendere conto del mondo, di ordinarlo e di dargli un senso. Nelle sue opere precedenti, grazie a un nuovo logos, Consolo ha tentato di sostituire un nuovo epos alle Grandi Narrazioni individuali e collettive – confiscate dai Padri, e più generalmente dal potere – allo scopo di porre le basi di un nuovo ethos. Qui si è voluto esplorare l’ipotesi secondo la quale Lo Spasimo di Palermo sarebbe insieme la forma più estrema di tale tentativo e l’ammissione del suo fallimento, almeno in questa forma. Forse perché non basta uccidere i Padri – siano essi simbolici, politici o letterari – perché i figli si possano salvare.


Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto,

impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in

una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale

ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.

(Consolo 2000: 105)

2 «Si tratterebbe del racconto dei tre fallimenti della storia unitaria. Nel primo, sarebbe rappres (…)

1 Abbiamo scelto di incamminarci sulle orme di Consolo, lungo la traiettoria esistenziale e letteraria da lui percorsa, seguendo i titoli delle tre opere che costituiscono quello che egli stesso ha chiamato «Il ciclo dell’Italia unita» (De Gregorio 2013)2, una traiettoria che va quindi dal sorriso risorgimentale allo spasimo degli anni Novanta attraversando la notte buia del Ventennio fascista. Ci è parso ovvio infatti che, alla stregua di tutte le scelte stilistiche di Consolo, la scelta di quei titoli non fosse e non potesse essere gratuita: attraverso quei titoli ci veniva offerta una strada per arrivare fino all’ultima sua opera, Lo Spasimo di Palermo (Consolo 2000), cioè fino all’ultima tappa di un lungo e doloroso viaggio, fino agli ultimi frammenti, alle ultime parole troncate e stroncate di una conversazione nostalgica e metaforica con e sulla Sicilia.

2 Allo stesso modo, non poteva essere e non è gratuito il fatto che Consolo apra Lo Spasimo di Palermo, quel libro che porta quindi il dolore iscritto nel proprio titolo, con una citazione tratta dal Prometeo incatenato di Eschilo, in cui Prometeo, colui che viene martoriato per aver portato la luce, ossia, metaforicamente e ulissianamente, virtute e conoscenza al genere umano, dichiari che «il racconto è dolore ma anche il silenzio è dolore» (Consolo 2000: 7). Questo incipit fa sorgere un certo numero di domande poiché, com’è risaputo, un incipit – e Consolo, autore di un saggio sulle Epigrafi (Consolo 1999b), più di ogni altro lo sa e lo mette in pratica – fornisce indicazioni sul significato, se non sul contenuto, dell’opera che apre.

3 Una domanda, per cominciare, sull’ambiguità della dichiarazione di Prometeo, prima delle tante e senz’altro volute ambiguità che troveremo nel testo di Consolo non appena si tratterà di racconto o, meglio, di narrazione. Tale dichiarazione significa infatti che il raccontare è doloroso quanto o più del tacere, oppure che, quando si tratta di esprimere il dolore, il silenzio è efficace quanto o più del racconto?

4 Nella prima ipotesi, l’incipit ci induce a pensare che il racconto sia una specie di male minore al quale per lo scrittore sia stato giocoforza rassegnarsi pur di non incorrere nel dolore maggiore che sarebbe potuto derivare dal silenzio. Nella seconda ipotesi, lo stesso incipit ci porta a pensare che il silenzio non sia meno adatto del racconto a dire il dolore, ma anzi, possa esserne l’espressione più alta e compiuta. Se accolta, questa seconda interpretazione implica che il dolore, lo spasimo, che, come la sciasciana linea della palma, si dilata «da Palermo, alla Sicilia, al mondo» (Consolo 2000: 112), si può dire facendo a meno del racconto. Ovvero, se proseguiamo fino in fondo con il ragionamento, ciò significa che Lo spasimo di Palermo è un non-racconto nei cui silenzi viene detto il dolore prima dell’opera, e il dolore espresso nell’opera s’inabissa definitivamente nel silenzio. Il che, se guardiamo alla bibliografia di Consolo, corrisponde esattamente alla realtà, giacché, dopo Lo Spasimo, egli non ha effettivamente più scritto nessun racconto, romanzo o anti-romanzo.

5 Queste prime constatazioni ci permettono, tra l’altro, di capire perché Lo Spasimo di Palermo si configuri insieme come un testamento e un tombeau letterario. Un testamento, perché l’opera si chiude proprio con una lettera in forma di bilancio personale e intellettuale scritta dal protagonista al proprio figlio; ma anche di bilancio dall’autore al proprio lettore, prima che chi scrive scompaia con le sue ultime parole ancora nella penna, in una di quelle esplosioni al tritolo che ricorrono in un crescendo ossessivo negli ultimi racconti di Consolo, proprio come nei giorni e nelle notti di Palermo. E Lo Spasimo è anche un tombeau poetico-letterario perché, posto fin dall’inizio sotto il segno di un’oscillazione tra i due poli opposti e complementari del racconto e del silenzio, quest’ultimo opus sembra destinato a spiegare le ragioni di tale oscillazione, offrendo al lettore una specie di compendium di tutti i precedenti tentativi stilistici attraverso i quali Consolo ha cercato di proporre un epos alternativo che, partendo da una lingua poematica, lo ha portato fino all’urlo panico, per poi riportarlo alla narrazione. In effetti, si tratta di un doppio tombeau, i cui piani sovrapposti entrano in relazione attraverso una serrata rete intra- ed intertestuale, poiché quella specie di sopralluogo personale e letterario si combina con un paradossale omaggio parricida di Consolo a tutti gli auctores che egli ha ammirato per poi rinnegarli, come fanno tutti i figli quando intraprendono una crociata contro i propri padri, nella vita e nella letteratura; perché i padri sono stati giudicati troppo spesso «imbell[i], ipocrit[i] o impotent[i]» (Consolo 2000: 89); perché le loro parole non hanno saputo essere l’ultimo baluardo contro il sonno della ragione e il caos.

6 Sembra, infatti, che quest’ultimo libro, alla stregua di quanto dichiara l’incipit dell’ultimo romanzo di Sciascia, sia un modo per «ancora una volta […] scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia» (Sciascia 1989: 7) e, vorremmo aggiungere, alla letteratura. Sennonché tale ricerca ha portato Sciascia a scrivere Una storia semplice mentre, per Consolo, è venuta fuori una storia maledettamente complicata, condotta come un’analisi retrospettiva, alla maniera delle inchieste politico-filologiche dello scrittore di Racalmuto, ma senza ricorrere fino in fondo ai suoi strumenti di investigazione della realtà e del discorso; quelli di Pausania, tanto per intenderci, il saccente geografo che ne L’olivo e l’olivastro sentenziava: «a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio» (Consolo 1999a: 39).

7 Come il suo protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, Consolo si è infatti rifiutato di entrare nella logica «fiduciosamente comunicativa, di padre e fratelli – confrères – più anziani, involontari complici, pensav[a], dei responsabili del disastro sociale» (Consolo 2000: 127). Da allora, per lui, ha trovato «solo senso il dire o ridire il male, nel mondo invaso in ogni piega e piaga dal diluvio melmoso e indifferente di parole atone e consunte, con parole antiche o nuove, con diverso accento, di diverso cuore, intelligenza. Dirlo nel greco d’Eschilo, in un volgare vergine come quello di Giacomo o di Cielo o nella lingua pietrosa e aspra d’Acitrezza» (Consolo 1999a: 77). Fino a Lo Spasimo di Palermo. Fino al momento in cui, dopo un ultimo tentativo per lottare contro il disordine, il silenzio sostituisce il coro che, poc’anzi ancora, «in tono alto, poetico, in una lingua non più comunicabile, commenta[va] e lamenta[va] la tragedia senza soluzione, il dolore senza catarsi» (Consolo 1999b: 262).

8 Come la maggior parte dei libri precedenti di Consolo, Lo Spasimo di Palermo è la storia di un viaggio, quello dello scrittore Gioacchino Martinez. Un viaggio nello spazio, da Parigi a Milano e da Milano a Palermo, e un viaggio nel tempo, quello dell’infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale, dei primi trasporti e del matrimonio con Lucia, che diventerà sua moglie e la madre di Mauro, il figlio rifugiatosi appunto a Parigi per sfuggire alla repressione politica della fine degli “anni di piombo”, mentre Lucia sprofonderà a poco a poco nella follia per sfuggire all’insopportabile realtà della violenza mafiosa degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, prima di scomparire nel buio. Un viaggio a misura d’uomo dunque, chiuso e concluso, almeno in apparenza, nei limiti di una vita d’uomo, con gli inevitabili punti di contatto con il mondo che gli sta attorno, cioè con la Storia con la S maiuscola i cui disordini e le cui convulsioni si ripercuotono sull’esistenza dell’individuo e la possono travolgere senza remissione.

9 Però, anche se l’invocazione liminare è quella di un Omero-Consolo a un Ulisse-Consolo la cui commistione-confusione sarà nel libro un’ulteriore fonte di ambiguità, non si tratta più, proprio per lo spasimo, del solito nostos ulissiano di cui L’olivo e l’olivastro è forse l’espressione più compiuta e dichiarata, ma si tratta piuttosto di un percorso di anamnesi dalle coordinate incrociate e sovrapposte, che trasforma l’effettivo ritorno a casa del protagonista e il suo tentativo di ricongiungersi con il proprio passato, in viaggio penitenziale (Francese 2015: 66 e 104; Consolo 1999a: 19). Un viaggio per espiare colpe insite nelle confessate manchevolezze di chi scrive attraverso la di nuovo paradossale, nonché scaramantica, trasformazione della scrittura/lettura di questo libro in una complessa operazione di cifratura e decodifica storico-letteraria.

10 La principale fonte di complessità sta nella frammentazione o variazione della voce narrante. Il procedimento non è nuovo e Consolo lo ha ampiamente sfruttato fin dal Sorriso e anche in Nottetempo (Consolo 1994). Solo che allora si trattava di dare alle «‘voci’ dei margini» (Consolo 1997: 182) una possibilità di farsi sentire pur riconoscendo l’inadeguatezza della scrittura, dotta per definizione, nella restituzione di un’oralità per così dire primitiva, nonché «l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento» (Consolo 1994: 53) per colui che scrive. Il dilemma sembrava si fosse risolto in senso sperimentalista con l’«adottare […] moduli stilistici della poesia, riducendo, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio della narrazione» (Consolo 1997: 183); e l’intento di far combaciare logos, epos ed ethos pareva fosse stato raggiunto ne L’olivo e l’olivastro come dimostrano l’omogeneità di tono e la stabilità dell’istanza narrativa (Bossi 2012).

11 Ma con Lo Spasimo di Palermo si sgretola quel fragile equilibrio nella frantumazione dei punti di vista e nella variazione dei toni e dei gradi della diegesi. Più conturbante ancora: vengono di nuovo sfruttate soluzioni narratologico-espressive da tempo dichiaratamente abbandonate e, nel libro stesso in cui ricompaiono, presentate come detestabili (Consolo 2000: 105).

12 Il corifeo-narratore de L’olivo e l’olivastro – che cantava la storia del nuovo Ulisse in una specie di discorso indiretto libero intriso di quella tragicità antica che per Consolo è «l’esito ultimo […] della

ideologia letteraria, l’espressione estrema della [sua] ricerca stilistica» (Consolo 2007: 21) e in cui si intercalavano registrazioni/restituzioni di voci testimoniali – è ancora presente nel prologo in corsivo, ma solo per un ideale passaggio di testimone narrativo ed esistenziale allo stesso Ulisse. E nel suo augurio per il viaggio da compiere sta senz’altro la spiegazione delle contraddizioni e dei paradossi che abbiamo segnalati fin qui: «Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. In my beginning is my end» (Consolo 2000: 9).

13 Solo attraverso la volontà di tornare al punto di partenza, geografico ed esistenziale, si può infatti spiegare il metaforico ritorno a una specie di autobiografismo letterario che si palesa attraverso una fitta rete di autocitazioni più o meno esplicite come, ad esempio, quella testuale tratta da Le pietre di Pantalica (Consolo 1988: 166): «Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino». Messa in bocca al giudice che ne Lo Spasimo di Palermo (con la S maiuscola) viene omaggiato in quanto uno tra i pochi difensori della polis e del vivere civile, quella citazione già parlava dello spasimo (con la s minuscola) di Palermo e, anche se Gioacchino-Consolo si schermisce dicendo che «sono passati da allora un po’ di anni», il giudice – di nuovo sciascianamente, come conferma il paragrafo successivo – profetizza: «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio» (Consolo 2000: 115).

14 Allo stesso modo, questo appellarsi di continuo a Sciascia come pure a Manzoni con riferimenti espliciti – oltre che alla peste che allora infettava Milano come ora infetta Palermo – anche al famoso manoscritto manzoniano (Consolo 2000: 106), ossia alla finzione letteraria destinata a conferire verosimiglianza al testo fondatore dei Componimenti misti di storia e d’invenzione, delinea una specie di autobiografia non più o non solo personale, bensì familiare, nel senso di una famiglia spirituale, un omaggio intertestuale in forma di metaromanzo di formazione «ai suoi» (Consolo 2000: 36), come egli chiama i suoi autori prediletti.

15 Sembra infatti che Consolo si chieda se proprio nel tornare alle origini, alle fonti e, quindi, a quei «linguaggi logici, illuministici», «alla loro serena geometrizzazione» (Consolo 1997: 182) non risieda la possibilità di dire il male e di sanarlo. Ragion per cui egli conserva effettivamente, ad inizio capitolo, quei paragrafi che segnano «l’interruzione del racconto e il cambio di tono della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica», che sono per lui «le parti corali o i cantica latini» (Consolo 2007: 35); quei paragrafi che dicono il male come rottura, alla stregua di quel passaggio dalla luce all’ombra che spaventa la Lucia di Gioacchino (Consolo 2000: 65 e 117) come segno precursore di un’irrimediabile condanna alla follia, con «lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri» (Consolo 2000: 45). E quelli sono i nessi, tra afasia e urlo, che, soli, la poesia, il linguaggio poematico, possono dire.

16 Ma allo stesso tempo Consolo, come Gioacchino, ha la tentazione di riannodare il discorso interrotto, di riprendere il film dell’infanzia, rappresentato metaforicamente dalla storia di Judex, nel punto in cui è stato tagliato, e farlo ripartire con «la sutura, l’acetone sulla memoria, il nastro che s’attacca, lo scintillio dei carboni, il ronzio che riprende, la storia che prosegue e si conclude». Pena però la riscoperta dei «fotogrammi segreti della sua storia, della vita sua oscura e inconclusa, della frana, delle colpe sepolte e obliate» (Consolo 2000: 47). In altri termini, sembra che Consolo si chieda, in un libro che insiste sull’interruzione della comunicazione tra padri e figli a causa delle compromissioni e dei tradimenti rimproverati dai figli ai padri, se non si dovrebbe compiere una sutura tra gli uni e gli altri, tra passato e presente, ricorrendo ai pure ripetutamente rinnegati strumenti di Pausania – il geografo che, come si diceva prima, conosce «i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio» (Consolo 1999: 39). Ed è proprio a quel lavoro di sutura personale e letteraria che si accinge Gioacchino, confrontato al falso ordine della sua biblioteca risistemata “cromaticamente” dalle incolte persone di casa:
Giorni trascorsi a rimettere ordine fra i libri. Da questi doveva ricominciare, dalla chiara geografia, dai confini certi, dal conforto loro, per potersi orientare, riprendere la strada. Oltre, non era che mutamento, cancellazione d’ogni segno, realtà infida, landa d’inganno, sviamento. (Consolo 2000: 102)
A partire dai libri della sua biblioteca, egli comincia dunque a ricostruire una mappa letteraria della propria città, uno di quei Cruciverba (Sciascia 1983) che tanto piacevano a Sciascia, come quello dedicato dal racalmutese a Parigi dove egli si recava, come ricorda lo stesso Consolo (Consolo 2016: 124), compiendo un viaggio le cui tappe erano Palermo-Milano e poi Milano-Parigi, ovvero l’esatto rovescio, quasi a specchio, del viaggio raccontato dalla doppia, se non dubbia, figura di Empedocle-Pausania e compiuto dall’ambiguo Ulisse de Lo Spasimo di Palermo. Infatti l’Ulisse consoliano ha avuto bisogno di attingere di nuovo ai valori civili e letterari della Francia illuminista tanto amata da Sciascia. Questo spiega perché, per la prima volta, non lo vediamo approdare fin dall’inizio del libro alla sua Itaca-Sicilia come invece succedeva nei precedenti racconti: è dovuto prima andare a cercare a Parigi, nella città in cui «tutto parla di letteratura» e dove si parla «quella che Leopardi chiamava una lingua ‘geometrizzata’» (Consolo 2016: 132), quei pezzi mancanti, quelle colpe sepolte e dimenticate della propria storia, prima di intraprendere il suo nostos espiatorio (Traina 2001: 43).

17 A quell’Ulisse, costretto quindi a usare quasi simultaneamente due lingue diverse, una poematica e l’altra geometrizzata, viene assegnato il compito di riannodare i fili spezzati per tentare non solo di dire, poeticamente ed espressivamente, ma anche di denunciare, razionalmente e comunicativamente, i mali passati e presenti e la loro diffusione-dilatazione. Infatti essi hanno ormai da tempo varcato lo Stretto, come mostra la cantica dedicata a Milano, che fu «approdo della fuga, quell’asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza». Ormai Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dalle acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità. (Consolo 2000: 91) Una Milano reificata attraverso la soppressione di tutte le maiuscole, una Milano al cui quadro orrifico corrisponde, “di qua dal faro”, quello di Palermo. Non la Palermo dell’approdo – e siamo già oltre i tre quarti del libro – di Ulisse-Gioacchino-Consolo al porto che fu anche il loro comune punto di partenza, ancora ingentilita dalla memoria dell’esiliato e dal ricordo dei passati splendori: Nella luce bianca, vaporosa, apparivano il piano di Sant’Erasmo, la foce melmosa dell’Oreto, le palazzate nuove del sacco mafioso, la Flora e le possenti mura, la Porta dei Greci, la passeggiata delle Cattive, gli antichi palazzi dietro nobiliari, le cupole e i campanili delle chiese, il Càssaro Morto e la Porta Felice, Santa Maria della Catena, la conca stagna affollata d’alberi di lussuose barche della Cala. (Consolo 2000: 98)
Ma la Palermo della banalità secolare del male. «L’amata sua odiata» che non nasconde più il proprio vero viso: Intrigo d’ogni storia, teatro di storture, iniquità, divano di potenti, càssaro dei criadi, villena degli apparati, osterio di fanatismo, tribunale impietoso, stanza della corda, ucciardone della nequizia, kalsa del degrado, cortile della ribellione, spasimo della cancrena, loggia della setta, casaprofessa della tenebra, monreale del mantello bianco. (Consolo 2000: 122)
Oltre alle scelte stilistiche illustrate da questi due cantica speculari, la cui espressività, non sempre compensata dalla comunicatività dei fatti e delle date, costringe il lettore a indovinare situazioni ed epoche, nonché bersagli della denuncia, il cambiamento maggiore portato dall’ambiguità della nuova istanza narrativa poematico-geometrica sembra risiedere nel filtro che una specie di stream of conciousness di stampo quasi gattopardiano impone alla rimemorazione, come pure nello sfasamento che tale rimemorazione provoca tra tempo e spazio ricordati rispetto ai tempi e allo spazio della narrazione e a quelli della Storia, con la conseguenza di appiattire e concentrare tempi ed epoche diverse nello stesso movimento narrativo. Come quando, ad esempio, a partire dal vivido ricordo della peste manzoniana (Consolo 2000: 85) e senza nessuna rottura temporale apparente, il narratore ci parla del «tempo febbrile delle pesti, del colera di Palermo» (Consolo 2000: 113), giocando peraltro sull’ambiguità tra tempo meteorologico e tempo cronologico, in una sovrapposizione allucinata in cui diventa impossibile discernere in quale epoca vivano i «ciechi vaiolosi storpi appestati d’ogni sorta che dallo Spasimo si recavano ogni giorno per mangiare alla Dogana» (Consolo 2000: 32).

18 Infatti, se Consolo, fedele alla sua definizione dello scrittore siciliano come uno per cui «il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale [è un] passo obbligato» (Consolo 1997: 181), ci presenta con Lo Spasimo di Palermo «un ulteriore fallimento delle speranze italiane» per cui «[le] speranze di una rinascita crollano di fronte alla pervasività del potere mafioso, e alle sue infiltrazioni nello Stato repubblicano» (De Gregorio 2013), nelle modalità pratiche sembra invece che egli aspiri, da un lato a cancellare e distruggere la rete cronologica, dialogica e narrativa di cui necessita la storia per essere detta o per raccontarsi, dichiarando di «aborri[re] il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile» (Consolo 2000: 105) e, dall’altro, a ristabilire i nessi logici atti a rendere conto dell’orrenda realtà palermitana e italiana di quegli anni.

19 L’operazione di distruzione non è nuova: Consolo aveva infatti rivendicato che Il sorriso dell’ignoto marinaio, primo opus del ciclo, fosse classificato nella categoria degli antiromanzi storici, in una formulazione peraltro già ambigua poiché, se è antiromanzo, non può essere racconto e, se non è racconto, non può essere storia, per cui non si vede come un antiromanzo possa essere storico. Infatti sembrava degno della quadratura del cerchio il tentativo da allora condotto da Consolo di raccontare una storia e, addirittura, la Storia, che è la Grande Narrazione per eccellenza senza gli strumenti del racconto, col solo spostare il problema della scrittura «dalla comunicazione all’espressione» (Consolo 2007: 35). Questa è probabilmente la ragione dello scarso effetto di tali scelte sulla società civile e del conseguente mea culpa di Gioacchino-Consolo a destinazione dei figli che, alla stregua di Mauro Martinez, «si nega[no] a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento» (Consolo 2000: 42), esattamente come lo stesso Gioacchino Martinez confessa di averlo fatto con i propri padri intellettuali e letterari (Consolo 2000: 129).

20 Quello che è nuovo, invece, e diretta conseguenza di quanto precede, è la costruzione filologico-letteraria in puro stile sciasciano avviata da Consolo-Gioacchino a partire da fatti diversi di storia letteraria e civile (Sciascia 1989b), organizzati e ramificati in modo da costituire quello che Sciascia, ancora, chiamava un “teatro della memoria”, cioè un sistema di «oggetti eterni […] che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità» (Sciascia 1979: 231) poiché, come ha scritto lo zio Mauro di Gioacchino nel suo testamento, là si trova, «negli assoluti libri, la verità umana» (Consolo 2000: 73). Infatti, proprio dai libri di botanica e dal giardino dello zio scatta il primo “teatro della memoria” inscenato da Gioacchino, giacché, per lui come per lo zio, il giardino è «luogo platonico, ordine del mondo […], immagine del giardino interiore, sogno del ritorno, ripristino». Sotto il segno di questo ritorno e di questo ripristino, che però possono anche portare «offesa, patimento» (Consolo 2000: 49), nasceranno gli ulteriori elementi del suo sistema di “oggetti eterni” destinati a comporre una specie di antistorica – perché sorta dall’eterna e quindi atemporale verità letteraria – Storia delle storie: messe insieme, la storia delle tonnare (Consolo 2000: 59), quella del codice di San Martino – di nuovo di sciasciana ascendenza – e quella del Libro intorno alle palme di Abu-Hâtem-es-Segestâni (Consolo 2000: 64) tracciano i confini storico-geografici della Sicilia araba; quella poi, già più complessa e ricorrente, della «prigionia in Algeri di Cervantes e [di] quella insieme, d’un poeta [palermitano], dialettale, Antonio Veneziano» (Consolo 2000: 41, 105, 115, 118) disegna i contorni della Sicilia dei tempi dell’occupazione spagnola e conduce a sua volta alla scoperta, nella topographia e historia general de Argel (Consolo 2000: 107), di una parola che permetta a Consolo di collegare gli oggetti letterari già messi in risonanza con la più recente storia siciliana e italiana e, a Gioacchino, di seguire uno dei fili più dolorosi della sua personale storia umana. La parola è “marabutto”, e il filo che da essa dipana Gioacchino va dal massacro di suo padre e della madre di Lucia nel Marabutto di Rassàlemi per arrivare all’ultima scena del libro, quella dell’esplosione, in cui, mentre scrive a suo figlio, egli scompare insieme al giudice, figlio della sua vicina di casa: una scomparsa preannunciata da una specie di predizione dell’amico fioraio: «Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi chi ti manciunu lu pani. Ddiu ti scanza di marabutta» (Consolo 2000: 124). Tutta questa intricata storia di fili e di figli permette inoltre al lettore di ricostruire, pure se a volte faticosamente, i famosi nessi grazie ai quali Gioacchino-Consolo spera di «scrivere di una storia vera […] fuori da ogni invenzione, finzione letteraria» (Consolo 2000: 105), insomma, fuori dall’aborrita scrittura romanzesca.

21 Tuttavia intento alla (per lui) illuminante, salvifica e lenificante ricostruzione letteraria e culturale di un passato comune a sé e, a una seppur «devastata» (Consolo 2000: 105) civiltà mediterranea nella quale riaffondare le proprie radici per ripartire verso un futuro riconciliato, Gioacchino non presta abbastanza attenzione ai messaggi sempre più cupi che provengono dall’altro “teatro della memoria”, concorrente del primo, che si sta costruendo quasi suo malgrado a partire da altri elementi anch’essi perfettamente collegati: un altro “teatro” che ha le stesse radici del primo, ma si sviluppa in modo subdolo e morboso esattamente come, a partire dallo stesso tronco, quello dell’olivo in cui Ulisse ha intagliato il proprio letto, si possono sviluppare sia l’olivo che l’olivastro. E infatti, dalla sua stessa casa, anzi dal suo stesso letto appunto, «sporcato ignobilmente» (Consolo 2000: 119) ad opera dei nuovi Proci, dei sempre rinnovati Proci della mafia e della politica, seguendo poi quella strada intitolata al musicista Emanuele d’Astorga da cui Gioacchino credeva di poter cominciare a riprendere possesso della sua città inseguendo memorie storiche e civili, proprio da lì ricomincia invece a proliferare la mai sanata peste, il cui nome, le cui immagini, i cui manzoniani echi percorrono tutto il libro al ritmo sempre più serrato di un’allucinata cavalcata mortifera per le strade, i monumenti della città, per poi proseguire, alla stregua del quadro di Raffaello, la sua anti-Odissea «da Palermo, alla Sicilia, al mondo» (Consolo 2000: 112), a celebrare il Trionfo della Morte (Consolo 2000: 117), della Follia (Consolo 2000: 111) e del Caos (Consolo 2000: 117). Il “teatro della memoria”, messo in moto dalla vita, ossia dalla vita di d’Astorga, si ramifica generando un’escrescenza cancrenosa che fagocita progressivamente gli “oggetti eterni” positivi che si stavano sviluppando serenamente sull’altro ramo, quello della riconciliazione, fino a mettere in una luce sinistra, di malaugurio, le notizie sulla chiesa di Santa Maria dello Spasimo «per cui Raffaello aveva dipinto La caduta di Cristo sul cammino del Calvario, chiamato qui Lo spasimo di Sicilia», ma chiamato dal suo artefice «sgomento della Vergine e Spasimo del mondo» (Consolo 2000: 112). Come anche la notizia secondo la quale il pezzo più conosciuto di d’Astorga era uno Stabat mater. Quello Stabat mater le cui note, la cui grafia diversa da quella della scrittura, la cui espressività che mai la scrittura potrà raggiungere, anche se cerca di farsi pura espressività e puro suono, bucano ad un tratto la pagina di Consolo a sostituire le parole (Consolo 2000: 125), preannunciando sia lo strazio, lo spasimo della madre del giudice di fronte alla morte del figlio in veste di laico redentore di tutte le colpe dei padri, sia «la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna» (Consolo 2000: 127), confessati da Martinez nella sua lettera al figlio e quindi da Consolo al suo lettore.

3 Basterebbe seguire le tracce lasciate dall’uomo dalle scarpe gialle, dal falso ragioniere, dal ma (…)

22 Ci si può chiedere se sarebbe stato possibile evitare tale sconfitta, una sconfitta che ha portato Consolo a riconoscere, con la metafora della lettera interrotta, l’impossibilità di un sereno passaggio di testimone tra le generazioni, per poi chiudersi nel silenzio dopo la morte del suo doppio letterario. Ci si può chiedere se, rifiutando i nessi razionali, la comunicazione dialogica propria del romanzo e in particolare la lettura ipotetico-deduttiva propria del romanzo poliziesco che gli avrebbe permesso di collegare gli indizi, pur presenti nel testo, della proliferazione del male3 e, limitandosi a scrivere «solo di cultura, storia, vicende curiose del passato, di questa città com’era un tempo» (Consolo 2000: 74), Consolo-Gioacchino non si sia precluso ogni possibilità di analizzare correttamente il presente e di riformarlo. Ci si può chiedere se non sarebbe stato opportuno approfittare di quel «varco che conduceva nel passato, nel racconto, in cui tutto era accaduto, tutto sembrava decifrabile» (Consolo 2000: 69), per scrivere, a dieci anni dalla morte dell’amico Sciascia, una storia finalmente semplice, invece di considerare che la volontà di riannodare i fili della propria storia personale e civile, di riprendere il film della lotta di Judex contro i cattivi laddove si era interrotto era, per finire, «uno sbaglio» (Consolo 2000: 53).

23 Quello che possiamo dire è che Consolo ci ha provato. Con Lo Spasimo di Palermo è infatti giunto a quanto di più vicino al romanzo – al, per lui, “impossibile romanzo” – fosse lecito spingersi, senza rinunciare completamente alle scelte e agli impegni di tutta una vita, in quanto scrittore e in quanto cittadino. Lo ha fatto cercando di ibridare la sua abituale scrittura poematica con quella geometrica comunicazione presa in prestito dal «castoro ligure; [dal] romano indifferente, [dall’]amaro [suo] amico siciliano», ma anche da quelli che, come loro, «hanno la forza […] della ragione, la chiarità, la geometria civile dei francesi» (Consolo 2000: 88): Pasolini, Vittorini, Manzoni, e tanti altri, i cui nomi, i cui libri, compongono a poco a poco un superiore “sistema di oggetti eterni”, una specie di borgesiano Aleph letterario.

24 Sennonché, anche quest’ultimo tentativo per dire il male, seppur condotto sotto l’alto patrocinio di sì autorevoli padri, si conclude con la morte di quelli che, almeno per Consolo, sono, erano, gli ultimi difensori dell’umana civiltà, il giudice e l’intellettuale. E con la loro morte non solo scompare la possibilità di una redenzione civile, ma viene anche dimostrata, attraverso quella specie di suicidio parricida, l’impotenza della letteratura – i cui rappresentanti sono pur stati convocati in schiere compatte – ad arginare, con qualsiasi mezzo o strumento, il dilagare del male.
4 «Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terro (…)
25Il che non ci deve stupire, poiché neanche Judex, che pure «giudica e sentenzia fuori dalle leggi» (Consolo 2000: 129), ci può riuscire: ovunque e comunque «la nera sagoma trionfa del giustiziere» e «si conclude il feuilleton fuori da leggi, tribunali, si scioglie la vendetta precivile nel sentimento, si ricompone l’ordine del denaro e del potere» (Consolo 2000: 47) 4.

Bibliografia
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Consolo, V., 2007, La metrica della memoria, in Vincenzo Consolo, éthique et écriture, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle.

De Gregorio, F., 2013, In ricordo di Vincenzo Consolo in: Eidoteca, https://eidoteca.net/2013/04/30/in-ricordo-di-vincenzo-consolo/
Francese, J., 2015, Vincenzo Consolo: gli anni de «l’Unità» (1992-2012), ovvero la poetica della colpa-espiazione, Firenze University Press.
Sciascia, L., 1979, Nero su nero, Torino, Einaudi.
Sciascia, L., 1983, Cruciverba, Torino, Einaudi.
Sciascia, L., 1989, Una storia semplice, Milano, Adelphi.
Sciascia, L., 1989b, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio.
Traina, G., 2001, Vincenzo Consolo, Firenze, Cadmo.

Note

2 «Si tratterebbe del racconto dei tre fallimenti della storia unitaria. Nel primo, sarebbe rappresentato il fallimento risorgimentale, il naufragio delle speranze democratiche e garibaldine nella Sicilia dei Gattopardi; e con esso, è descritta anche l’eclissi dell’intellettuale: inattuale, inconsapevole, passivo, non ancora engagé, per così dire. Nel secondo romanzo, Nottetempo, casa per casa, anche qui un intellettuale, maestro elementare, è travolto dal secondo e drammatico fallimento dell’Italia unitaria, quello dovuto all’avvento del fascismo. Per la seconda volta, le speranze degli italiani naufragano in un gorgo storico, nel Ventennio del buio novecentesco. E infine il terzo romanzo, Lo Spasimo di Palermo, ci presenta un ulteriore fallimento delle speranze italiane, quello repubblicano. Le speranze di una rinascita crollano di fronte alla pervasività del potere mafioso, e alle sue infiltrazioni nello Stato repubblicano».

3 Basterebbe seguire le tracce lasciate dall’uomo dalle scarpe gialle, dal falso ragioniere, dal mafioso delle Falde…

4 «Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terrorismo vissuto a Milano e anche con quello che è il male della Sicilia, con le atrocità delle stragi di mafia. Infatti, il libro si conclude con la strage di Via d’Amelio e con la morte del giudice Borsellino. Questo è stato il mio progetto letterario. Poi, naturalmente, accanto a questi libri, ci sono dei libri collaterali, ma tutti convergono su questa idea, cioè, sul potere, sulla corruzione del potere» in Intervista inedita a Vincenzo Consolo, a cura di Irene Romera Pintor, http://vincenzoconsolo.it/?p=1299 poi pubblicata in Vincenzo Consolo, “Autobiografia della lingua” – Conversazione con Irene Romera Pintor http://books.openedition.org/res/318.

Autrice
Lise Bossi
Université Paris-Sorbonne

Rcherches
Culture et historie dans l’espace Roman