Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.

GUIDO BALDI

Università di Torino

II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.

  1. GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA

Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”

(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).

(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.

(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.

Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:

– Un tizio chiamato Garibardo

– Chi e ‘sto cristiano?

  • Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un    quarantotto…

– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge       avanzi di galera

– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…

Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro

A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco

  • VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19

di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.

Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.

Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.

A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.

Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.

Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in

Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.

2. L’ELLISSI NARRATIVA

A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.

La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane  incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).

Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»

Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus  vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.

Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.

Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle

  • Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina,  Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg

parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).

Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).

Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.

Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.

3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI

Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.

In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione

Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.

La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.

Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.

Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.

L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu

“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.

Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,

Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,

suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.

L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.

Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.

(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)

Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo

Aneta Chmiel

Università della Slesia

Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio alla luce di recenti studi

 Non a caso il romanzo di Vincenzo Consolo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio è considerato uno dei maggiori contributi alla letteratura siciliana (Barbagallo, G., 2009: 15/6). L’opera narra della rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcàra Li Fusi, all’indomani dello sbarco dei mille. Con una suggestività inconfondibile Consolo dipinge il quadro quasi fatato del paesaggio siciliano: Le montagne erano nette nella massa di cupo cilestro contro il cielo mondo, viola di parasceve. Vi si distinguevano ancora le costole sanguigne delle rocche, le vene discendenti dei torrenti, strette, slarganti in basso verso le fiumare; ai piedi, ai fianchi, le chiome mobili, grigio argento degli ulivi, e qua e là, nel piano, i fuochi intensi della sulla, dei papaveri, il giallo del frumento, l’azzurro tremulo del lino. Consolo, V., 2006: 7 Questa condizione d’eccezionale benessere nasconde tuttavia un mondo dove stanno per scoppiare tensioni profonde, forti ed irresistibili, dove regna il plurilinguismo e multiculturalismo e dove alla maggioranza siciliana si contrappone una comunità araba e all’elitaria aristocrazia si oppone il popolo e il proletariato. Le personificazioni espresse tramite le parole come: “le costole sanguigne”, “le vene discendenti”, “ai piedi”, “ai fianchi”, “le chiome mobili” denunciano un intento molto più che ovvio di animizzare quella terra, di mostrare il dolore subito dal suo corpo mortificato. Paradossalmente, la bellezza dei luoghi non solo menzionati, ma addirittura ricorrenti e presenti nel corso delle azioni diventa testimone degli scenari più sanguinari della storia. Il dramma del paese dei Nebrodi viene reso ancora più commovente quando ci si rende conto della gravità delle convergenze subite dai contadini innocenti durante lo scontro con le forze risorgimentali. Con questo romanzo lo scrittore vuole stabilire la misura del contributo delle masse contadine del meridione italiano nel Risorgimento, il ruolo dell’intellettuale negli importanti momenti storici e finalmente delineare il rapporto tra la letteratura e la storia, tra la memoria e il presente. Il protagonista del romanzo, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato malacologo, descrive gli episodi avvenuti che costituiscono un apporto importantissimo della vicenda risorgimentale, dato che rivelano il suo lato piuttosto oscuro. Presente in quasi tutti i capitoli, funge da coscienza del libro e anche da alter ego di Consolo (Segre, C., 2005: 130). Si può costatare che c’è una specie di appello alle facoltà empatiche del lettore davanti al quale il narratore cerca di svelare il mistero del prezzo che doveva pagare la Sicilia in nome degli ideali risorgimentali. Questa decisa presa di posizione incitò i lettori alla riflessione su un periodo della storia non del tutto glorioso. Il bisogno di raccontare questa storia non è scaturito solo dai ricordi personali dello scrittore, ma anche, o forse soprattutto, dalle riflessioni ispirate dal dibattito culturale svoltosi in quegli anni . Come prima approssimazione si potrebbe dire che, delineando le conseguenze dell’impresa risorgimentale in Sicilia, Consolo abbia ripreso la polemica non solo con la storia stessa, ma anche con la storia letteraria, e in particolare con il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolato Gattopardo. Non solo nel clima e nella rappresentazione dello stesso avvenimento vi si possono scorgere delle analogie. Soprattutto le figure dei protagonisti costituiscono un’esemplificazione di una contrapposizione ben distinta. Don Fabrizio, anche se uomo potente, risulta impassibile mentre osserva gli avvenimenti che hanno contribuito alla storia, invece il barone di Mandralisca, al contrario, soffre questa drammatica realtà che sta accadendo. Gaetano Barbagallo caratterizza il romanzo con l’aggettivo “audace” e si deve acconsentirlo, soprattutto se si prende in considerazione la quasi mitica presenza dell’impresa garibaldiana nella coscienza degli italiani (Barbagallo, G., 2009: 15/06). Consolo entra nella polemica non solo con la rappresentazione dell’impresa unitaria, ma anche con il passato stesso, perché la sua narrazione è stata pensata come una lettura del presente. Come scrive Sandra Mereu, “il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e del terrorismo” (Mereu, S., 2011: 11/08). Nel romanzo si ha un significativo ritorno al passato inteso come metafora del presente. Particolarmente attento al versante ideologico della narrativa italiana, Consolo tenta un’analisi condotta su tempi e luoghi. Lo scrittore svolge un complesso gioco di corrispondenze che simbolizzano soprattutto la crisi di valori. Il sorriso dell’ignoto marinaio diventa il simbolo di un atteggiamento di distacco dalle dolorose esperienze passate. Analogamente, la scelta della struttura narrativa risulta altrettanto simbolica. Consolo rompe la tradizione della stesura del romanzo storico, sperimentando una narrazione disarticolata, dove nel testo vengono inseriti documenti autentici o inventati o verosimili. Adamo, analizzando le strategie narrative impiegate da Consolo (Adamo, G., 2006: 72), definisce questo testo “antiromanzo storico” invece Cesare Segre suggerisce piuttosto la seguente perifrasi: “negazione del romanzo storico” (Segre, C., 1991: 77). Consolo tenta di rendere il testo verosimile mediante un ampio arazzo narrativo degli inserti documentari. Una simile operazione non meraviglia se la si considera come la volontà di intensificare il messaggio storicizzante e, al tempo stesso, l’espressione dell’impossibilità di accettare la realtà contemporanea. Anche per la chiarezza morale e la volontà d’impegno civile Consolo rinuncia al narratore onnisciente per dare la voce ai diversi soggetti che rappresentano punti di vista diversi. Il caso così anomalo della narrativa che induce il lettore a rivelare i segreti servendosi più dell’intenzione che della logica, risveglia l’interesse della critica e della ricerca. L’originalità della scrittura si manifesta, tra l’altro, nella sua poetica. Le didascalie delle acqueforti di Goya, indicate nel testo dal corsivo servono a descrivere gli effetti devastanti invece del racconto vero e proprio della stessa strage dei contadini. Non è tanto difficile rievocare, seguendo anche le suggestioni di Sandra Mereu, l’evidente associazione all’episodio manzoniano del Lazzaretto, quando si legge Carrettate per il cimitero e il nesso tra i monatti in divisa rosa e i garibaldini (Mereu, S., 2011: 11/08). Non solo in questo confronto delle immagini rievocate è leggibile la polemica di Consolo. Un fattore altrettanto suggestivo è la scelta del linguaggio poetico. Consolo decisamente rifiuta la lingua nazionale, identificandola con la lingua del potere, e ricorre all’impiego della lingua parlata da una variante minoritaria per dare omaggio e, soprattutto, per salvare dall’oblio la sorte dei più umili, “traditi da Garibaldi”. La contrapposizione: lingua nazionale — una parlata minoritaria oltre che il valore simbolico della metafora del presente assume il valore della polemica sull’integrazione nord — sud. Sandra Mereu si pone la domanda sull’universalità di questa strategia: “[…] se Consolo avesse scritto oggi quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale — dialetti come simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale?” (Mereu, S., 2011: 11/08). Dal punto di vista del lettore sembra rischioso introdurre un personaggio come Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, intellettuale nell’ambito dove predomina la forza ingenua e incontrollata. Come spiega Vincenzo Consolo in una delle interviste, l’intellettuale dovrebbe caratterizzarsi per una certa responsabilità che consiste nell’esigenza e prontezza di esprimere un giudizio sulla storia e intervenire. Il barone Mandralisca, il protagonista, a causa dei fatti tragici avvenuti nella campagna siciliana nel 1860, lascia la malacologia per rivolgersi alla realtà drammatica. In questo significato il Mandralisca entra in polemica con il Gattopardo e Consolo si oppone a Lampedusa, il quale vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo (Bonina, G., IV: 92). Il clima de Il sorriso dell’ignoto marinaio, in realtà, non è lontano dai fervori della contemporaneità. L’autore stesso ribadisce la contingenza dei tempi evocati nel romanzo e gli anni settanta. È troppo forte il legame con la Sicilia e nello stesso tempo con la sua cultura per cercare di trascurare i fatti della storia, anche quelli scomodi. Consolo riconosce il primato della letteratura e il ruolo dell’intellettuale, il ruolo principale dunque è quello di rivendicare una propria identità. Il romanzo, effetto di un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico, diventa soprattutto un riflesso cosciente del contesto storico, sociale e stilistico. In questa sua scelta Consolo si ispira piuttosto a Sciascia che a Vittorini, perchè i temi presi in considerazione dallo scrittore appartengono al campo storico-sociale. In una sola cosa però Consolo si è distaccato da Sciascia e cioè nella scelta dello stile. Non vedendo una società armonica con la quale comunicare, ha adottato il registro espressivo e sperimentale. La scelta illuministica e razionale sciasciana ammetteva il senso della speranza, invece, la generazione successiva quella del Consolo non la nutriva più. (Sciascia su Risorgimento in Sicilia — Le parrocchie di Regalpetra). In risposta, Sciascia ha nominato Il sorriso dell’ignoto marinaio un parricidio sottintendendo, sicuramente, la frase di Skolvskij, secondo quale, la letteratura è una storia di parricidi e adozioni di zii (Bonina, G., IV: 92). La mimesi del romanzo, espressa tra l’altro, nella figura dell’erudito settecentesco, ha avvicinato il capolavoro di Consolo piuttosto a Verga, Gadda o Pasolini. L’evidente, non attenuata violenza del linguaggio non risente solo la restituzione di una realtà immediata, ma anche la dichiarata volontà consoliana di prendere una posizione nei confronti della storia. Tutto il rapporto che lega Consolo agli scrittori siciliani è posto su un duplice segno. Da una parte l’autore ammette di aver attinto ai suoi predecessori, e non nasconde il debito nei confronti della narrativa isolana, dall’altra invece, indica la scelta della propria, originale strada, la nomina nello stesso tempo parricida definendo così la propria vocazione. Per esempio, da Vittorini, che come saggista è stato ignorato, è stata presa un’altra caratteristica: la precisione della descrizione topografica quasi uguale a quella de Le città del mondo, la troviamo proprio ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Consolo chiama questo atteggiamento “più siciliano possibile […] più acribitico” (Bonina, G., IV: 92). Per dare un quadro trasparente della sua concezione della letteratura Consolo rievoca il parere di Moravia, secondo il quale “scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo” (Bonina, G., IV: 92). Importante che il movimento sia dal libro verso il lettore e che la scrittura abbia più peso e più influsso. Consolo sceglie invece l’aspetto espressivo della prosa, quasi orale, ritmica, basata sulla memoria. Il narratore sembra infatti, l’unico ad aver scelto questa strada della prosa artistica. Basilio Reale, per esempio, anche lui messinese ed esule a Milano nello stesso tempo si dedica però alla poesia. Anche se quasi in ogni libro è possibile rintracciare una trasposizione autobiografica, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio del Consolo ce n’è poco. La Milano contemporanea costituisce per Consolo uno strumento per capire meglio la Sicilia. Grazie al soggiorno e alla vita milanese lo scrittore ammette di essere in grado di scoprire un’altra Sicilia più vera e infelice, toccata dall’ingiustizia e perdita di identità. In questo senso Consolo segue Pasolini, che parlava dello “scandalo della storia”, cioè la necessità della consapevolezza storica per fondare la consapevolezza del presente, della propria identità, della propria dignità (Puglisi, S., 2008: 116). Consolo fa un passo avanti rispetto ai suoi maestri siciliani: tramite i suoi libri varca la soglia della ragione segnata, tra l’altro, da Sciascia, verso l’ingiustizia e lo smarrimento. In una certa misura Consolo consolida l’atteggiamento di Vittorini che voleva che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione rivolgendosi verso un mondo di progresso. Solo che Vittorini credeva in un’utopia, Consolo invece, rappresenta un comportamento pieno di amarezza per un mondo che scende verso i valori più bassi. Il romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato nel 1976 viene definito “il rovescio progressista del Gattopardo” e perciò entra in polemica con l’immobilismo di Tomasi di Lampedusa. L’intento dell’autore, legato indissolubilmente alla storia della propria terra natia, è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, e più dettagliatamente, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. parla addirittura della “convulsa realtà di quegli agiatissimi anni […]. Gli anni delle stragi nere e rosse, dell’esperienza folle delle Brigate Rosse, degli omicidi politici, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro” Consolo ammette più volte di ricorrere volontariamente al genere del romanzo storico e in particolare risorgimentale. Secondo lui, è l’unica forma narrativa possibile per rappresentare in modo metaforico il presente e le sue istanze, la cultura, la scrittura e la letteratura incluse. Consolo stesso scrisse il suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, in omaggio a Sciascia, e in particolare al suo romanzo Morte dell’inquisitore. Però non va dimenticato che alla base della stesura del romanzo vi si trovano almeno tre elementi principali: un’inchiesta sui cavatori di pomice svolta da Consolo per un settimanale, il fascino del quadro di Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto e infine la rivolta di Alcàra Li Fusi avvenuta nel 1860. Quest’ultimo fattore è accompagnato da un dibattito sul Risorgimento così detto “tradito” chiamato altrimenti la Resistenza. Questa plurivocità del romanzo viene sottolineata per di più dalla presenza di documenti variamente manipolati. Un procedimento che rende una narrazione verosimile dal punto di vista della sua storicizzazione, ma che, nello stesso tempo, la nega perchè si prefigge di spiegare i fatti (Traina, G., 2001: 58). I due protagonisti del romanzo devono affrontare, ognuno dalla propria prospettiva, la resistenza del mondo contadino siciliano. Il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, cercherà di comprendere le esigenze popolari, invece l’avvocato Giovanni Interdonato, il deuteragonista, rivoluzionario giacobino, svolgerà la funzione di staffetta tra i vari esuli e i patrioti dell’isola. I due protagonisti si incontreranno a causa della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo e occuperanno due parti opposte: il barone difenderà i contadini insorti e chiederà di aver clemenza all’Interdonato che avrà assunto l’incarico di giudice. Il barone Pirajno di Mandralisca è un aristocratico intellettuale che per certi aspetti può assomigliare alla figura del principe Salina che giudica tutto con un certo distacco, ma qui le analogie si esauriscono. I protagonisti del Lampedusa si instaurano su un forte contrasto, tra l’altro generazionale, invece nel romanzo consoliano la relazione tra i protagonisti è piuttosto di carattere polemico. Con il ritorno al tema del mito risorgimentale Consolo vuole intraprendere una polemica contro chi intende il Risorgimento come movimento omogeneo ed ispirato da una sola frazione. Il Consolo volge l’attenzione del lettore verso le sollevazioni contadine che lottavano contro i balzelli e l’usura. I risvolti vengono imprigionati nel castello di sant’Agata di Militello il quale nel romanzo viene rappresentato come “immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel buio e putridume” (Consolo, V., 2006: 136). Secondo Segre, la metafora della chiocciola attraversa tutto il romanzo rappresentando l’ingiustizia e i privilegi della cultura. Non a caso, il protagonista principale del romanzo di Mandralisca nelle sue ricerche si occupa di lumache. Per non ripetere quello che è già stato raccontato, Consolo rifiuta una narrazione classica e ricorre ai documenti e ai ricordi inventati dei personaggi realmente esistiti con lo scopo di concentrarsi sugli episodi. Grazie a questo procedimento il romanzo storico sfugge alla sua definizione tradizionale per acquisire delle sfumature e dei significati modificati. Negli anni Sessanta è stato ripreso il dibattito sui rapporti tra classi sociali e sulle possibilità di esprimersi da parte di esse. Siccome è stato costatato che le classi oppresse non erano in grado di farsi notare, Vincenzo Consolo, con questo romanzo, tenta di restituire loro, agli esclusi della storia, la propria voce. Secondo Consolo la Storia, l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. Per rendere ancora più trasparente questa divisione delle stesse classi Consolo fornisce praticamente ogni personaggio di un idioma: un brigante recluso parla il sanfratellano, il poco noto idioma gallo – romanzo, le guardie parlano il napoletano, Mandralisca usa un siciliano regolarizzato sul latino. L’italiano viene qui mescolato al dialetto siciliano il che vuole riflettere non solo l’impasto linguistico ma anche quello sociale, culturale, antropologico. In un’intervista Consolo ha affermato: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati” il suo quindi è “un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nella profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano (Falco, A., 2009/02). Beniamino Mirisola nomina addirittura l’opera consoliana il Bildungsroman, indicando nello stesso tempo come il protagonista principale Enrico Pirajno barone di Mandralisca e proponendo la sua prospettiva interpretativa (Mirisola, B., 2012). Pirajno viene rappresentato come un aristocratico, intellettuale, che vive dedicandosi alla sua ricerca da erudito, finché le violente circostanze non lo costringono al confronto con la cruda realtà. Il barone dovrà sacrificare in nome della giustizia e della ragione il proprio patrimonio culturale e spirituale. Il Consolo non si astiene dalla parabola che rende privilegiata la tendenza di interpretare le vicende del protagonista in quanto riflesso delle sue letture ed idee politiche. Il percorso formativo del protagonista, a differenza dei personaggi tradizionali del genere, non è stato rappresentato come il nucleo del romanzo, ma piuttosto lasciato in disparte, in favore della già menzionata dimensione intertestuale ed ideologica. Il suo cambiamento è graduale, avviene a passi lenti. Del suo divenire possono testimoniare i momenti narrativi come quello dell’iniziazione, per esempio: il protagonista si trova su una nave, in viaggio, dunque in movimento, il che riflette la sua condizione: in discesa o ascesa perpetua, come nella scena seguente: “una strada dura, tutta il salita, piena di giravolte e di tornanti” (Consolo, V., 2006: 87). Privo di questo schema dell’evoluzione interiore, sembra che il protagonista, sfugga alla classifica intenzionale che viene subito in mente. E invece, anche se non del tutto fedeli al canone e alle esigenze del genere, il romanzo e i suoi protagonisti risultano assai trasparenti. Il barone Mandralisca si associa al principe Salina. Ne troviamo prove in una serie di interventi di vario tipo che hanno azzardato un’interpretazione sul messaggio contenuto nel romanzo. I teorici, fra cui Corrado Stajano, Antonio Debenedetti, Paolo Milano e Geno Pampaloni non vogliono solo leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma gli attribuiscono le peculiarità seguenti: “antigattopardo” oppure “Gattopardo di sinistra”. Tutti però sono d’accordo che, ambedue gli autori: Consolo e Lampedusa, anche se hanno in comune certi aspetti, non coincidono per quanto riguarda la storia e il suo divenire (Mirisola, B., 2012). Lo definisce bene Cesare Segre, sempre in riferimento alla questione delle analogie tra le due opere: Consolo riprende dal Gattopardo solo lo spunto di un romanzo sulla Sicilia ai tempi dello sbarco di Garibaldi, con al centro un aristocratico che, essendo pure un intellettuale, è particolarmente portato a riflettere sui cambiamenti e a giudicare con qualche distacco, senza venire meno allo stile e alla sprezzatura della sua casta. Consolo, V., 1987: IX—X Il Consolo stesso rimane scettico per quanto riguarda le comparazioni tra i contenuti dei romanzi menzionati e ribadisce la loro futilità nel campo dell’analisi vera e propria del profilo del protagonista. Secondo lo scrittore sarebbe anche troppo rischioso identificarlo con il protagonista. Ammette invece, che le loro voci si accostano, ma solo nella seconda parte del romanzo. Un rapporto che pare ancora più stravagante se riusciremo a rievocare le origini letterarie del protagonista. Va sottolineato che lo scrittore si è ispirato a un personaggio realmente esistito di un nobile cefalutano e in questo modo ha garantito al suo protagonista uno statuto quasi autonomo. L’evoluzione del protagonista rappresentata in modo poco schematico, simbolico e significativo potrebbe essere un’altra caratteristica distintiva che avrebbe contribuito all’atteggiamento polemico verso la tradizione e la rappresentazione fino a quel momento adottata. Il barone di Mandralisca non ha paura di assumere le responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. Probabilmente si tratta di una sfida oppure di un invito a un’ulteriore presa di distanza dai suoi privilegi, dalla sua formazione e persino dalla sua cultura. Bibliografia Adamo, Giuliana, 2006: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. San Cesario di Lecce, Manni. Barbagallo, Gaetano, 2009: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”: i Nebrodi nel risorgimento siciliano, Persone, http://nebrodinetwork.it/wp/?p=125 [l’ultimo accesso: il 12 novembre 2011]. 224 Études Bonina, Gianni, Anno IV, nº 92: Vincenzo Consolo. Padri e parricidi. Vincenzo Consolo: la sua scrittura, le sue opere e il suo rapporto con il lavoro di Sciascia e Vittorini. Tra debiti e superamenti dei modelli letterari. L’intervista, http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=187 [l’ultimo accesso: il 14 dicembre 2011]. : Vincenzo Consolo. Consolo, Vincenzo, 1987: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Consolo, Vincenzo, 2006: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Falco, Annunziata, 2009: I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana, http:// dugi-doc.udg.edu/bitstream/handle/10256/1503/Falco_Annunziata.pdf [l’ultimo accesso: il 15 ottobre 2011]. Mereu, Sandra, 2011: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Libri, recensioni, http://94.32.64.110/www.equilibrielmas.it/website/Menu.php?menu=5244 [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Mirisola, Beniamino: Ragione e identità nel “Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Gli Scrittori d’Italia — XI Congresso Nazionale dell’ADI, http://www.italianisti.it/ FileServices/133%20Mirisola%20Beniamino.pdf [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Puglisi, Sandro, 2008: Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo. Acireale — Roma, Bonanno Editore. Segre, Cesare, 1991: Intrecci e voci. La polifonia nella letteratura del Novecento. Torino, Einaudi. Segre, Cesare, 2005: Tempo di bilanci. La fine del Novecento. Torino, Einaudi. Traina, Giuseppe, 2001: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo. Nota bio-bibliografica Aneta Chmiel è docente di Glottodidattica presso il Dipartimento di Italianistica dell’Universìtà della Slesia a Sosnowiec. Ha conseguito la laurea in lettere nel 1998 e nel 2002 ha ottenuto il dottorato. È autrice di vari articoli sulla letteratura italiana rinascimentale e contemporanea. Ultimamente le sue ricerche si concentrano sulla narrativa di Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello: vicinanze e lontananze di due scrittori del secondo Novecento

Giuliana Adamo

L’attenzione critica che qui si vuol dare a un confronto tra Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello trae spunto, a ritroso, dall’evento unico ed ultimo che li ha visti insieme il 20 giugno del 2007, a Palazzo Steri, a Palermo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna conferita ad entrambi, in curiosa conclusione del viaggio parallelo dei due scrittori, iniziato proprio nel 1963, anno del loro rispettivo esordio letterario.1 Escono, infatti, nel 1963 La ferita dell’aprile di Consolo – storia di un adolescente che dopo un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e dolori, arriva alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza; misto sapientemente dosato di autobiografia e di storia, di quotidiano e di mito – e Libera nos a malo di Meneghello, testo autobiografico che ‘offre un ritratto della vita a Malo, di una incomparabile ricchezza e incisività. È l’Italia […] della prima metà del secolo, nei decenni successivi alla Prima guerra mondiale’ che suscita anche nei lettori che veneti non sono ‘la “scossa del riconoscimento” (lo shock of recognition, come si dice in inglese) – un senso di partecipazione, di familiarità, nonostante le grandi differenze di contesto culturale’.2 Importante richiamare – anche se rapidamente – le superficiali analogie tra le rispettive scelte biografiche che rendono conto, in parte, delle ragioni della posizione peculiare che i due scrittori hanno avuto nel panorama culturale coevo: essendo tra i pochi ad essersi espatriati o dispatriati, con tutte le differenze dei singoli casi (Consolo a Milano, Meneghello a Reading in Inghilterra), dal proprio Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 39 luogo natìo e ad avere vissuto in un costante confronto tra le diverse culture con cui sono venuti a contatto. Entrambi, e ciascuno a suo modo, ulissici nel nóstos continuo con la propria Itaca: la Sicilia per Consolo, Malo per Meneghello. Prima di proseguire è importante ricordare, in sintesi, che il contesto letterario in cui prendono l’avvio i due scrittori è quello a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, momento in cui, in un’Italia che faceva ancora i conti con gli strascichi della già conclusa esperienza del Neorealismo postbellico, imperversavano dibattiti e polemiche riguardanti soprattutto le nuove forme di espressione letteraria da ricercarsi, in ambito linguistico, nei territori che si estendevano tra il ricorso alla lingua italiana e la necessità dell’uso letterario dei dialetti. Per intendere la lezione stilistica di Meneghello sono preziose le parole di Cesare Segre, secondo cui lo scrittore di Malo si muove in uno spazio indipendente di outsider, di dispatriato e apprendista in Inghilterra, da Meneghello chiamata il ‘paese degli angeli’. Lo scrittore di Malo, quindi, ‘ha ben poco a che fare’ – sostiene Segre – con i precedenti più rappresentativi quali Fenoglio, Testori, Pasolini, Mastronardi perché la loro scelta dialettale è connotata da un ‘marchio sociologico’ di eredità neorealistica estraneo alla scrittura di Meneghello. E ha anche poco a che spartire sia con la diversa matrice della dialettalità espressionistica di Gadda; sia con l’uso mimetico del dialetto di Fogazzaro; sia con la dialettalità contenutistica di Verga, e poi di Pavese, in cui il ricorso alla dimensione dialettale esula dalle caratteristiche lessicali e morfosintattiche del dialetto. A queste differenze, si aggiunga, infine, il tratto peculiare della scrittura di Meneghello in cui, benché la funzione del dialetto sia in lui fondativa, il discorso narrativo avviene ‘prevalentemente in lingua’.3 Per Consolo il discorso è differente in quanto lo scrittore siciliano – pur con tutta la sua peculiare originalità espressiva che vede fondere l’eredità barocca di Lucio Piccolo con la ratio illuminista di Sciascia – si inscrive pienamente nella tradizione del romanzo storico siciliano che si estende, notoriamente, dal Verga della novella ‘Libertà’, al De Roberto de I viceré, al Pirandello de I vecchi e i giovani e allo Sciascia de Il consiglio d’Egitto. Tutti i romanzi e le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Per quel che riguarda, invece, la sua ricerca linguistica, come da lui stesso ampiamente ribadito nei suoi scritti, essa rimanda alla linea della sperimentazione di Pasolini e di Gadda (in opposizione alla soluzione razionalista e illuminata della lingua di Calvino e Sciascia), risultando in una scrittura che, come coglie la poetessa e scrittrice Maria Attanasio, ‘non è mai rotonda fertilità espressiva, 40 Giuliana Adamo levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; al di là della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita’.4 Fatta questa necessaria premessa, torno all’argomento su cui mi soffermo in questa sede. Per il confronto che mi appresto ad abbozzare e a proporre – nulla di esaustivo ovviamente, ma ugualmente passibile, spero, di critiche costruttive, approfondimenti, analisi di differente approccio – il punto di partenza mi è sembrato giusto che fosse dato dalle rispettive lectiones magistrales – in apparenza così diverse – indirizzate, dai due laureandi, al Senato accademico e al pubblico presenti nella sala palermitana. Quella di Consolo, il primo a parlare, dal titolo ‘Due poeti prigionieri in Algeri. Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’; quella di Meneghello intitolata ‘L’apprendistato’. 5 Le due lectiones mi pare si prestino ad essere usate come specimen delle rispettive opere, permettendo di tracciare linee di contatto e/o distacco, di analogie e/o differenze tra i due autori. Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano La lectio di Consolo, fin dalla dedica alla memoria di Leonardo Sciascia, segnala l’instancabile e appassionata militanza, da sempre parallelamente giornalistica e letteraria, dell’autore siciliano e verte sui temi che costituiscono il cuore di tutta la sua scrittura: 1) Il rapporto tra passato e presente (da cui il suo sguardo storico indagatore trae la linfa vitale: il passato come metafora del presente). 2) L’attenzione particolare alla Storia siciliana inquadrata nel contesto più ampio della storia mediterranea, fatta di incontri e scontri di popoli e civiltà e dalle stratificazioni culturali e linguistiche che ne conseguono. A questo, inoltre, si lega l’immancabile tema dell’opera di Consolo: il viaggio. Tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio: viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita alla conoscenza di sé e del mondo. Viaggio alla ricerca della luce-ragione che illumini, pur se in modo intermittente, le tenebre che avvolgono la condizione umana. 3) La necessità ineludibile della poesia (con il ricorso nella sua narrativa ad una lingua poetica, non comunicativa ma espressiva). 4) La citazione e la menzione continue di testi poetici e narrativi, scritti e orali, nelle diverse lingue del mondo consoliano: italiano, siciliano, spagnolo, latino, sabir, nonché il costante intarsio realizzato dalle fedeli Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 41 riprese di cronache e documenti d’epoca ufficiali e non, altro polo costitutivo della poetica e dell’opera di Consolo. Quanto al contenuto della lectio, in parole brevi, che valgono quasi come un sottotitolo, parla della vita terribile nel tardo Rinascimento, vissuto tra le sponde del Mediterraneo, che fa da sfondo alla comune prigionia, nelle carceri di Algeri, di Miguel de Cervantes e del poeta siciliano Antonio Veneziano alludendo, per via di metafora, all’attuale situazione del mare nostrum, crocevia di diverse civiltà e doloroso luogo degli scontri tra di esse. Si pensi, soprattutto, al problema dei migranti, nei confronti del cui trattamento da parte dell’Europa occidentale e, in particolare dell’Italia, la sensibilità dell’intellettuale Consolo ha raggiunto punte estreme di indignazione civile e di profonda pietas. Consolo ricostruisce la oscura biografia di Antonio Veneziano ‘l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI’6 vissuto tra 1543 e 1593. Per fare questo, applica il suo rigoroso metodo di indagine storica e storiografica – eredità manzoniana e fondamento dei suoi romanzi storici, o meglio anti-romanzi storici – risalendo alle fonti scritte ed ufficiali e, quando possibile, a fonti più in ombra (archivi, fondi di parrocchie, testimonianze di oscuri cronisti coevi, lettere dimenticate, atti notarili, scritte murali, graffiti, canzoni popolari, etc.).7 In questo caso, Consolo cita, tra gli altri, le testimonianze di Giuseppe Lodi (bibliotecario ottocentesco della palermitana Società di Storia Patria); del demo-psicologo ed etnologo Giuseppe Pitrè; del canonico Gaetano Millunzi; di Leonardo Sciascia che, nel 1967, a proposito del Veneziano ricorda che era: ‘Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano’.8 Tuttavia, ed è questo che interessa a Consolo sia per il plurilinguismo sia per la militanza polemica dell’intellettuale: malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire affisse sui muri. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 26) La vita del Veneziano si rivela curiosamente speculare a quella di Cervantes (ricca come risulta di accuse malevole, assilli economici, disordini familiari, varie incarcerazioni). Ed è ad una di queste incarcerazioni, presumibilmente, che si deve l’incontro, o il re-incontro (forse, congettura Consolo, si 42 Giuliana Adamo erano incrociati anni prima a Palermo, ma questo resta da dimostrarsi), e la conseguente ammirazione reciproca, quasi amicizia, tra l’autore del Quijote e quello della Celia. Il Veneziano venne preso prigioniero sulla galea Sant’Angelo, al seguito di Don Carlo d’Aragona, dai corsari, al largo di Capri, il 25 aprile 1578. Quindi venne condotto come schiavo ad Algeri nel cui bagno penale incontrò Cervantes, a sua volta schiavo in quella città da più di tre anni. Anche la biografia di Cervantes, soprattutto in relazione alla sua prigionia algerina e ai suoi ben quattro tentativi di evasione, è ricostruita storicamente da Consolo sulla scia di scritti, documenti, testimonianze di autori vari, incluse quelle dello stesso Cervantes. Ecco, dunque, che è importante rilevare (e la lectio ce ne dà prova) come Consolo lavori col materiale che ha cercato, documentato, elaborato. Da un lato, quindi, vediamo emergere, l’importanza che ha per lo scrittore la Storia e il metodo usato nella sua ricerca di ricostruzione e ricomposizione del passato; dall’altro – e in maniera costitutivamente intrecciata – il lavoro creativo dello scrittore che intaglia una storia ricca di dettagli documentati in modo meno ufficiale dentro alla grande Storia, che lui avvertiva sempre come immobile e immutevole nelle sue prevaricazioni, nei suoi inganni, nelle sue menzogne, nelle sue ingiustizie, nei suoi silenzi, nelle sue esclusioni. Ed ecco – analogamente a quanto avviene nei suoi lavori storici, memori della lezione manzoniana ma prodotti nella sua lingua ‘rigogliosamente espressivistica’,9 plurivocale,10 pluridiscorsiva e pluristilistica – che Consolo si spinge a ricreare che cosa possano avere detto, fatto, provato insieme, ad Algeri, i due scrittori secenteschi: I due in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni: Non rescatar, non fugir Don Juan no venir morir… cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutte e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda ‘il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 43 stesso colore.’In quel carcere, con chissà che emozioni e sensazioni, scrivono l’uno la Celia (preso d’amore non si sa bene per chi fra i due possibili oggetti del suo amore: quello incestuoso per la nipote Eufemia o quello impossibile per la viceregina Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, comandante della flotta veneziana nella battaglia di Lepanto, nel 1571, allora viceré di Sicilia); l’altro presumibilmente Vita ad Algeri, le Ottave per Antonio Veneziano e comincia la stesura della Galatea. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, pp. 30-31)11 I due protagonisti della lectio lasceranno Algeri, finalmente riscattati: il Veneziano nel 1579 (morirà nel 1593 nel carcere di Castellamare per lo scoppio doloso della polveriera), mentre Cervantes nel 1580 (per poi finire nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio dove nel 1592 concepisce il Quijote). In seguito, ricorda significativamente Consolo, Cervantes ritornerà sulla passata dolorosa esperienza: ‘[d]ice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 33). A questo punto, da quel che emerge da una lectio così costituita possiamo cogliere un insieme di elementi che offrono una misura valida per farsi un’idea dei tratti essenziali che permeano tutta l’opera di Consolo: 1) L’ ineludibile necessità etica che lo spinse, da sempre, a studiare, indagare, scavare, scrivere – cercando di capire e di aiutare a fare capire – la complessità della vita, nel Cinquecento come nel 2000, che si svolgeva e svolge nell’area mediterranea, dove sono nate incontrandosi e/o scontrandosi le grandi civiltà della storia occidentale. 2) La necessità di mostrare che la Storia – se distaccata dalla storiografia ufficiale, sempre soggettiva e parziale, scritta dai vincitori e mai dai vinti – può emergere più contraddittoria, ma più completa, grazie al corale contributo delle voci di ‘più picciol affare’. In tal modo, la scrittura della storia diventa (con certa utopia) incrocio di punti di vista diversi: Storia, insomma, come una messa a fuoco plurima e dialettica della realtà. In Consolo il rapporto Storia-invenzione del romanzo storico classico è rovesciato: ‘ciò che lì era documento qui è racconto, universo opinabile, discorso retorico. Ciò che lì è veramente accaduto, qui è come realmente accaduto’, evidenzia finemente Nisticò a proposito, in particolare, de Il sorriso dell’ignoto marinaio. La critica operata da Consolo è volta alla Storia in quanto scrittura, nella sua ‘demistificazione permanente del mito 44 Giuliana Adamo dell’oggettività e della verità dei documenti e della tradizione storica’.12 Ed è su questo assunto che si è basata la sua intera attività di scrittore. 3) Il valore della scrittura qui esemplato dall’esperienza di due intellettuali che si trovano in mezzo a indicibili difficoltà oggettive e, di conseguenza, il ruolo salvifico della poesia che – nonostante tutto e tutti e nonostante i suoi stessi autori – è eternamente valida e, a differenza della Storia, super partes. 13 4) La metafora del presente che quell’antica, tormentata, feconda esperienza cinquecentesca è chiamata simbolicamente a rappresentare, in quanto per Consolo: ‘un testo è vivo quando è metafora, quando non parla solo di sé’.14 5) La fondante tensione metaforica resa attraverso uno stile che rende ragione del coro di voci e di lingue che scintillano in questo testo (come in tutti i suoi testi) intrecciandosi per ricordarci che quel che è successo succede ancora e che, e qui Consolo usa le parole, tragicamente attuali, che Fernand Braudel riferiva all’età di Filippo II: ‘In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 34). Rappresentativa della poetica di Consolo è questa lectio che ho voluto usare come microtesto per individuare le linee portanti del macrotesto consoliano: non autobiografica, se non per pulsioni spesso inconsce; storico-filologica; testimonianza del suo impegno di scrittore e di intellettuale contro soprusi e ingiustizie. Le attestazioni dell’inesausto agire civile di Consolo, oltre che in tutti i suoi libri e nei suoi saggi, anche sulle pagine dei quotidiani italiani storicamente più schierati a sinistra, come l’Unità e Il manifesto, che hanno accolto i suoi veementi articoli sui temi dell’immigrazione, dei migranti, delle angherie e degli abusi perpetrati ai loro danni, della micidiale miopia italica e dell’assenza di memoria di quel popolo di migranti che sono sempre stati gli italiani. Per Consolo etica e scrittura sono una cosa sola,15 la memoria individuale e la memoria storica consentono lo scavo nel passato per riflettere sul presente; la lingua del suo scrivere – con le lingue sottostanti che la nutrono storicamente e culturalmente – è una lingua storica e filologica e non la si capirebbe se la si alienasse dal fondamento del determinarsi storico e sociale dei linguaggi. La esibita letterarietà di Consolo, tanto sottolineata dai critici, per essere correttamente intesa va ricompresa in un progetto artistico che utilizza l’opacità e il peso della tradizione letteraria come strumenti di una più acuta e complessa lettura della realtà. Se, infatti, Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 45 pur nell’ambito di una insistita critica sociale mossa dalla prospettiva di una solidarietà coi ‘vinti’ e coi subalterni non possiamo sottrarci alla constatazione (è questa la critica mossa a Consolo) della preziosità erudita del suo linguaggio, delle sue notevoli densità e perspicuità letterarie, lo si deve soprattutto al suo tentativo di drammatizzare una contraddizione che da sociale diventa, performativamente, stilistica e retorica. Quello che in realtà è lo scontro tra isole di ricchezza e oceani di indigenza diventa, nelle strutture narrative di Consolo, lotta tra l’abbandono lirico di un linguaggio (spesso anche in veste parodica) che è esso stesso ‘cosa’ (strumento di gioco e di piacere) e il dover essere etico e razionale per garantire la narrazione. Prosa e poesia si fronteggiano, esibendo ciascuna le proprie ragioni. La sua narrativa usa a piene mani una lingua e dei moduli poetici non strettamente narrativi (ma lontanissimi dalla prosa d’arte da lui aborrita): il retablo, il cunto, l’opera teatrale, la metrica versificatoria, espedienti stilistico-retorici quali l’enumerazione e l’iperbato, il repentino mutamento dei registri, che con il loro andamento ipotattico frangono la paratassi del più generale impianto narrativo. Le apparenti dissimmetrie, che la lectio riflette, tra piano dell’espressione – iper-letteraria, barocca – e quello del contenuto – materialistico, progressivo – sono ricomprese ma non ricomposte o pacificate nella sua scrittura, a causa di una contradditorietà mai risolta: il conflitto (sociale e retorico) rimane la cifra estetica più propria nell’opera di Consolo.16 L’apprendistato E veniamo alla lectio di Meneghello ‘L’apprendistato’, quintessenzialmente meneghelliana: autobiografica, riflessiva, ironica, giocata sapientemente sui diversi registri retorici che, come sempre nella sua scrittura, sono capaci di suscitare, in chi legge uno spettro variegato di emozioni: dal riso alla commozione alla riflessione al disincanto. Dall’inizio emerge subito l’interesse primario di una vita, il motore di tutti i suoi libri: l’attenzione alle parole e alle cose che esse veicolano inquadrata, da subito, nel suo personale percorso di studente dialettofono italiano e di professore di italiano in Inghilterra. Le sue lingue di cultura (italiano, greco, latino, inglese) affiorano subito, nel primo lungo paragrafo della lectio laddove, in modo colto e ilare, racconta di quel che provoca in lui l’essere in procinto di diventare ‘filologo’ e cerca di definire che cosa sia la filologia. Risale all’origine greca del termine dovuto a Eratostene, nel III secolo a.C., ‘matematico, ma bravo anche come 46 Giuliana Adamo astronomo, geografo, filosofo, storico, e altro ancora’ (‘L’apprendistato’, p. 37), che ‘[d]oveva essere un personaggio straordinario, molto più di Tagliavini’ (ibid., p. 36) – maestro di Glottologia di Meneghello a Padova che aveva scommesso coi propri alunni di ricostruire, partendo da una mezza pagina, nello spazio di un’ora, la grammatica (morfologia e sintassi) di una lingua sconosciuta. Meneghello si sofferma sulla definizione antica di Eratostene che pare fosse chiamato dai colleghi ‘pèntathlos’ come a dire ‘pentatloneta’, per segnalare questa versatilità, e forse per denigrarla. […] In inglese uno che riesce bene in molte cose […] è un all-rounder: dove io non ci sento sottointeso ‘[bravo in tutto] e dunque non supremo in nulla’. Ma ad Alessandria pare proprio che il sottointeso ci sia stato. (‘L’apprendistato’, p. 36) Alle ipotesi sulla filologia come versatilità di conoscenze e applicazione delle stesse, seguono le considerazioni sul lavoro filologico svolto da Eratostene nella sua qualità di direttore, a suo tempo, della Biblioteca di Alessandria ‘editore, recensore e emendatore di testi letterari’ (‘L’apprendistato’, p. 37). Tuttavia permane l’ambiguità del termine con cui si definiva ‘filologo’. Termine ombrello, per Meneghello, che accoglie almeno tre significati: 1) espressione legata al gusto del discorrere; 2) amante del lógos, ovvero più estensivamente ‘dotto’, ‘studioso’; 3) più specificamente e circoscrittamente ‘studioso delle parole […] insomma un linguista’ (ibid.). Le diverse facce della filologia che affascinano Meneghello lo portano ad uno dei suoi tipici scarti logici in conclusione della prima parte del suo testo: Contro le mie tendenze, mi si affaccia l’idea che anche per la filologia ‘it takes all sorts to make a world’, ci vuole gente di ogni risma per fare un mondo, vale a dire il mondo così com’è. Ma nei riposti ventricoli del mio sentimento non ci ho mai creduto del tutto. (‘L’apprendistato’, p. 38) Passa, quindi, ad una riflessione, brillantemente argomentata, sul suo rapporto con la linguistica (‘non mi considero un linguista’, ibid.), soffermandosi sulla sua lingua nativa, non materna (la mamma, friulana, non aveva latte) ma della balia maladense. Il dialetto di Malo è percepito da Meneghello quale ‘lingua del genere umano, gli esseri umani parlavano così, e i loro modi entravano in me, davano forma alle strutture interne (preesistenti, penso) della mia competenza, creavamo circuiti indistruttibili’ (‘L’apprendistato’, p. 38) lingua parlata, pre-logica, del cui apprendimento non aveva coscienza. Accanto, parallelamente, si innesca il processo Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 47 di apprendimento di una sorta di lingua seconda: l’italiano, di origine più artificiosa e innaturale appreso a scuola e sui libri, prevalentemente attraverso la lettura. Una lingua, sia ben chiaro, tutt’altro che nitida e netta a proposito della quale Meneghello si sente in dovere di precisare: veramente c’erano due filoni, quasi due matasse di viscoso tiramolla, schiaffate una sull’altra e annodate in una specie di doppia elica, come si vedeva fare nelle sagre di paese: il filone ufficiale, di stampo aulico e di derivazione letteraria, e il filone reale dell’italiano regionale. Quest’ultimo aleggiava attorno a noi, imparavamo noi stessi a servircene – quando si cercava di parlare in chicchera – e a mano a mano a scriverlo: certamente non ci rendevamo conto che fosse ‘italiano regionale’, la nozione non si era ancora formata o diffusa, e la cosa non sarebbe parsa allora una variante legittima della lingua nazionale. (‘L’apprendistato’, p. 38) La complessità di queste esperienze per lungo tempo non ha dato luogo ad un sistema articolato di idee sulla lingua, questo è potuto avvenire molto più tardi, grazie all’influenza di amici e colleghi incontrati in Inghilterra, parecchi dei quali a Reading, e la menzione silenziosa a Giulio Lepschy in particolare è connotativa del modo in cui Meneghello – si pensi soprattutto ai volumi delle Carte – alluda spesso a persone della sua realtà biografica evitando di farne i nomi, cifra tipica della sua scrittura zibaldonica.17 L’incontro e il confronto con il nuovo mondo culturale inglese, portano Meneghello a riconsiderare la sua precedente visione del proprio rapporto con le lingue: la struttura delle lingue ha subito un rivolgimento radicale, le vecchie impostazioni abolite e cancellate. Questa del nuovo che sopravviene e soppianta l’antico, pare uno schema ricorrente nella mia vita mentale. (‘L’apprendistato’, p. 39) Il punto cruciale della lectio, che lo avvicina pur nella loro diversità a Consolo, è dedicato a sottolineare che il suo vivo interesse per le lingue non riguarda l’analisi teorica delle loro strutture, ma ‘ciò che le lingue che frequentavo recavano con sé, un’immagine intensificata delle cose del mondo’ (ibid.), e questo si verifica soprattutto nella poesia: i poeti lirici in particolare, antichi e moderni, nelle lingue in cui li leggevo, latini, italiani, francesi, e per frammenti anche tedeschi e spagnoli (non inglesi, in principio: quelli sono venuti in seguito, nella mia tarda gioventù, in Inghilterra, ed è stata un po’ una gran 48 Giuliana Adamo mareggiata poetica). In queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel cuore della realtà: e non pareva rilevante, e nemmeno pertinente, che si trattasse davvero di lingue diverse, era come se fosse una lingua sola. (‘L’apprendistato’, p. 39) La lingua ha risorse infinite per sondare la realtà e Meneghello usa, per fare questo, l’unica lingua che conosce davvero: l’Alto Vicentino, o meglio, la lingua di Malo. Alludendo a Libera nos a malo sottolinea: Si formava in me scrivendo, il quadro naturale di queste varianti, ero in grado di distinguere con spontanea precisione tra questi diversi usi, e intravederne a sprazzi le separate capacità di esplorare, trivellando in profondo il reale. (‘L’apprendistato’, p. 39)18 Nell’ultimo scorcio del testo evoca uno dei temi a lui più cari, quello del lungo apprendistato che lo ha reso in grado di portare ‘ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare’ (ibid.). Di grande efficacia retorica, e commovente, è la chiusa della lectio in cui, con un procedimento analogo a quello esperito da Seamus Heaney in ‘Digging’ nella raccolta Death of a Naturalist del 1966, laddove evoca la mano contadina del padre che afferra la vanga per scavare e la propria che impugna la penna per fare altrettanto (vv. 1-5): Between my finger and my thumb The squat pen rests: snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravely ground: My father, digging. I look down per, quindi concludere (vv. 29-31): Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. si istituice un parallelo tra l’apprendistato di Luigi Meneghello scrittore e quello di Cleto Meneghello, suo padre, tornitore: Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano […]. Sui vent’anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. […] Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine, e a Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 49 questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: ‘Basta così’. (‘L’apprendistato’, p. 40) Segue l’explicit, profetico, dell’ultimo discorso pubblico di Meneghello: Vorrei poter fare anche io così, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’. (ibid.) Quanto emerso da questa lectio permette di ravvisarvi, analogamente a quanto visto nel caso di Consolo, le trame costitutive dell’intera opera di Meneghello: 1) La prima lingua innata e l’incontro con le altre lingue apprese che ha determinato la sua attività di vita e di scrittura. 2) Il ricordo di Malo – oggetto del suo continuo nóstos – eternato nelle sue opere. 3) La sua vita di perenne apprendista. Tutti elementi che convivono simultaneamente nella sua ultima lectio e in tutti i suoi libri. Cosa, dunque, hanno in comune Consolo (nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in Sicilia, provincia di Messina e morto a Milano nel Gennaio del 2012) e Meneghello lo scrittore di Malo (nato nel 1922 a Malo, in Veneto, provincia di Vicenza e morto nel 2007 nella vicina Thiene)? Alcune cose più ‘esteriori’ furono indicate dallo stesso Consolo nel ricordo dedicato allo scrittore maladense, suo contributo alla Biografia per immagini su Meneghello, curata da Pietro De Marchi e da chi scrive. Lo riporto qui di seguito: La laurea honoris causa in Filologia moderna, a noi due insieme, a Meneghello e a me, quel giorno di giugno del 2007, là nell’aula magna del Rettorato di Palazzo Steri, in quel trecentesco palazzo che tante ne aveva viste (fu abitato dall’illustre famiglia dei Chiaramonte che l’aveva fatto costruire, fu poi sede vicereale, sede del Santo Uffizio, del tribunale e del carcere della terribile Santa Inquisizione). La laurea, dunque, insieme, a Meneghello e a me. E a me sembrava quel giorno, in quella magnifica aula, davanti al senato accademico e al vasto pubblico, di usurpare il posto di Licisco Magagnato, il Franco di Bausète, che si laureò a Padova nello stesso giorno insieme a Meneghello ed ebbero, i due laureati, insieme un solo ‘papiro’ di laurea ‘a due teste’. Però, quel giorno, mi rassicurava il fatto che Meneghello ed io eravamo gemelli, voglio dire che eravamo nati scrittori nello stesso anno, nel 1963, lui col suo Libera nos a malo ed io con il mio La ferita dell’aprile; e tutti e due ancora con uguale assillo linguistico, 50 Giuliana Adamo l’intrusione, nell’italiano, del vicentino, o meglio della lingua di Malo, ed io del siciliano, vale a dire di tutte le antiche lingue che giacevano nel siciliano. E poi… E poi, eravamo due dispatriati, il Meneghello in Inghilterra, a Reading, ed io nella Milano dei Verri, di Beccaria, di Manzoni, di Verga, di Vittorini… Dispatriati, noi due insomma, in due diverse ‘patrie immaginarie’. Cosa univa ancora, Meneghello e me? A guardare le immagini di quella cerimonia, l’autoironia dipinta sui nostri due volti. Ah, caro Meneghello, che incontro è stato quello con te a Palermo! Primo e ultimo incontro, perché subito, tornato a Thiene, tu sei partito per quel viaggio dal quale non si ritorna più. Ed io ti rimpiango. Tutti ti rimpiangiamo, ma ci confortano però i tuoi libri, tutti i tuoi magnifici libri. Quelli, sì, resteranno sempre con noi.. (Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 172-173) L’ironia, tratto assoluto dell’intelligenza, unisce di certo i due scrittori, ed il distacco anche geografico con il conseguente, lungamente reiterato, rispettivo nóstos. Così come il loro essere sempre stati fuori dal coro, spesso a remare contro le patrie tendenze critiche e letterarie (ricordo, per esempio, l’insofferenza di Meneghello per Quasimodo e Ungaretti e pure per Moravia, nonché quella di Consolo nei confronti del – per lui – letterariamente troppo tradizionalista Tomasi da Lampedusa, per l’avanguardista Gruppo 63, e per la maggior parte della nuova narrativa italiana, tra cui spiccava l’avversione per il dialetto posticcio e folklorico di Camilleri). Entrambi fuori, per loro (e nostra) fortuna, dalla logica aberrante del mercato editoriale. Pur in modi diversi entrambi voci contro nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. E questo vale, ovviamente e ancor di più, per il problema della ricerca e della definizione della propria lingua di espressione letteraria a cui entrambi hanno dedicato il meglio della loro sapienza e della loro perizia, del loro talento e della loro passione. Tratti questi che li accomunano anche nel loro amore totale per la poesia, per la sua funzione e per la sua libertà espressiva. A questo punto, forzandolo in qualche modo ai fini del mio discorso, vorrei citare Wittgenstein che, nel 1929, in una sua lezione a Cambridge sostiene: ‘So far as facts and propositions are concerned there is only relative value and relative good, relative right’ e ancora: I believe the tendency of all men who ever tried to write or talk Ethics or Religion was to run against the boundaries of language. Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 51 This running against the walls of our cage is perfectly absolutely hopeless.19 Meneghello e Consolo si scontrano con lo stesso problema: in che lingua esprimere il mondo ‘possibile’ del proprio narrare? Dal canto suo Meneghello, che si è sempre misurato con la sostanza non univoca dell’esperienza umana cercando di darle una forma espressiva che il più possibile si avvicinasse al vero – anzi che fosse ‘più vera del vero’ – ammette: ‘Con le parole è impossibile essere precisi: non dico difficile, impossibile’ (Le carte III, p. 95). Eppure occorre narrare per capire il mondo, ma come? Risponde: con ‘la lingua nativa che illumina l’andamento delle cose’ (Le carte III, p. 99). Consolo, a sua volta, e analogamente dal suo punto di vista storicofilologico, si confronta con una realtà sfaccettata, plurivoca, composita, contraddittoria – si ricordi la sua visione e il suo tentativo di una resa plurima e dialettica della Storia – e per esprimerla, ritenendo ormai insufficiente e superata la lingua razionale-geometrica-comunicativa di Sciascia e Calvino, crea una lingua espressiva, dove la poesia evoca quello che la lingua italiana ormai ‘massificata’ e fatta scadere dall’abuso dei massmedia non è più in grado di comunicare. Una pulsione analoga muove i due scrittori. I risultati? Sorprendenti in ambo i casi. Sulla lingua di Meneghello critici e linguisti hanno detto tante cose e tra tutte si stagliano le perfette analisi di Giulio Lepschy che in un saggio del 1983,20 a proposito di Libera nos a malo, individua le tre lingue del libro quali: ‘italiano prezioso, italiano popolare, dialetto’, segnalando che ‘il dialetto è usato più per il suo valore espressivo o per la sua crudezza, che per la sua normalità o spontaneità’.21 E alla domanda ‘in che lingua?’ è scritto il libro, Lepschy, in sedi diverse, risponde senza indugi:22 In italiano. Libera nos a malo è un libro ‘italiano’, scritto ‘in italiano’, che appartiene alla cultura italiana (e attraverso ad essa a quella europea e internazionale), e insieme la arricchisce di elementi nuovi e originali.23 Un italiano reso più leggero e antiretorico grazie a quanto imparato nell’apprendistato inglese. Consolo, a cui potrebbero attagliarsi le parole di Lepschy su Meneghello (e a garantirne l’appartenza alla cultura internazionale, basterebbe la lista delle traduzioni delle opere di Consolo in quasi tutte le lingue romanze e in inglese, tedesco, olandese) arriva a forgiarsi una lingua espressiva, barocca (nel senso migliore del termine), 52 Giuliana Adamo ricchissima di citazioni – echi – rimandi che vanno dalla sfera erudita a quella più bassa. Lingua in cui convergono le lingue mediterranee: greco, latino, arabo, spagnolo, le varie parlate siciliane, incluse le lingue delle isole linguistiche (tra cui spicca il dialetto gallo-italico di san Fratello, paesino sui Nebrodi), italiano colto. La ricchezza linguistica consente la realizzazione della scrittura palinsestica di Consolo (per il quale sotto la superficie della propria scrittura ci devono essere i segni più importanti della letteratura di chi ci ha formato. E direi che su questo punto l’analogia con il ricchissimo tessuto narrativo di Meneghello è palese) e la messa a fuoco dell’irriducibile complessità del reale (da qui il suo preferito procedimento stilistico dell’amplificatio: l’accumulatio, soprattutto nominale), nello strenuo tentativo di rendere quello che è stato. La ricerca dei nomi di questo ‘archeologo della lingua’ non è semplice ricordo memoriale, ma attestazione del travaglio e del dolore di quella parola attraverso il male della storia. Rievocazione del tempo e dello spazio della Sicilia perduta attraverso i nomi che non sono segni di un’origine metafisica, ma della materialità del mondo prima della lacerazione, delle ferite, del dolore. Analogamente, Meneghello si è dedicato alla ricerca del recupero ‘archeologico’ di una società e di una cultura conosciute nell’infanzia e nella giovinezza e poi irrimediabilmente perdute. Non si tratta, però, di una rivisitazione della memoria percorsa dalla nostalgia e dalla retorica, ma di una vera e propria ricostruzione di ambienti, frammenti di vita e di cultura che mira a ridisegnare quella realtà attraverso una specie di ricerca antropologica, segnata sempre dal filo dell’ironia. E Consolo, in che lingua scrive? Non usava il dialetto: le espressioni, le parole dialettali sono sempre citazioni. Il suo linguaggio è l’italiano, ma l’italiano di Sicilia. Consolo, insomma, ripercorre la storia di Sicilia, dal Risorgimento all’ascesa del fascismo alla violenza mafiosa contemporanea, servendosi di un italiano costruito su ‘un fasto barocco e un ritmo musicale, con un gusto del dialettismo, del latinismo e dell’ispanismo, che contrastano espressionisticamente con i contenuti spesso tragici e con l’analisi, non sottolineata ma palesata e severa delle ragioni storiche’.24 Dice Consolo: Io non ho cercato di scrivere in siciliano assolutamente, ma vista la superficializzazione della lingua italiana e proprio per un’esigenza di memoria ho cercato la mia lingua che attingeva ai giacimenti linguistici della mia terra che erano affluiti nel dialetto siciliano, che io traducevo in italiano secondo la mia metrica della memoria.25 Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 53 Si potrebbero indicare molte altre aree di tangenza, vicinanza, analogia tra questi due scrittori che, pur diversi e geograficamente lontani, hanno dedicato la loro esistenza a mostrarci l’uno (Meneghello), più ‘antropologicamente’, che nella propria lingua nativa, innata e fondante, ‘le parole sono le cose’; l’altro (Consolo), con più impegno civile e utopia storica, che verrà un tempo in cui con parole nuove e, finalmente vere, perché riscattate dalla parzialità e dalle menzogne a senso univoco della Storia, ‘i nomi saranno riempiti interamente dalle cose.’26 È evidente che per entrambi il binomio etica e scrittura è indissolubile e che per entrambi scrivere sia una funzione del capire per avvicinarsi il più possibile alla realtà, all’unico ‘vero’ e, a questo proposito, grande è il debito nei confronti di Leopardi – di cui entrambi amano il poeta, il prosatore e il filosofo – contratto dai due scrittori. 27 Mi pare che la vicinanza più importante tra Consolo e Meneghello risieda in quella moralità che le parole di Franco Fortini definiscono come una forte e costante ‘tensione a una coerenza di valori e di comportamento’,28 espressa coerentemente e rispettivamente nella loro narrativa originale, coraggiosa, fieramente facente parte per sé stessa contro ogni tipo di omologante dittatura o partigianeria ideologica, letteraria, e del mercato editoriale. Trinity College Dublin Note 1 Ero presente a quella indimenticabile giornata palermitana sia per Consolo (su cui avevo appena finito di curare un volume di saggi), sia per Meneghello sulla cui opera stavo lavorando. Cfr. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, con prefazione di Giulio Ferroni (San Cesario di Lecce: Manni, 2006) e Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi con curatela iconografica di Giovanni Giovannetti (Milano: Effigie, 2008). 2 Giulio Lepschy, ‘Introduzione’, in Luigi Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo (Milano: Arnoldo Mondadori, 2006), pp.xlv-lxxxiv (p.xlvii). 3 Cfr. Cesare Segre, ‘Libera nos a malo. L’ora del dialetto’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del Convegno Internazionale di Studi In un semplice ghiribizzo (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo (Vicenza: Terra Ferma, 2005), pp. 23-27 (pp. 23-24). 4 Maria Attanasio, ‘Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10 (2005), 19-30 (p. 24). Ricordo, inoltre, che Consolo, nel solco di una discussione europea, negli anni del suo esordio letterario, circa il destino e la funzione del romanzo storico, ha ripudiato nella sua opera gli intrecci intrattenitori del romanzo tradizionale, ragione per cui, come non si è stancato di rimarcare nei suoi scritti e nei suoi 54 Giuliana Adamo interventi pubblici, scelse di spostare la scrittura dal ‘romanzo’ alla ‘narrazione’, secondo l’accezione datane da Walter Benjamin. Quanto al ripudio della lingua razionale e illuminista, lingua di una speranza ormai perduta irrimediabilmente, esso è motivato dalla mutazione antropologica avvenuta a seguito del boom industriale italiano nel corso degli anni ’50 del Novecento, su cui il Pasolini del saggio ‘Nuove questioni linguistiche’ (1964) ha scritto pagine fondamentali. La scelta poetico-espressiva della lingua letteraria di Consolo era in polemica con il linguaggio comunicativo, omologante, impoverito, tele-stupefacente determinato dall’avvento inarrestabile dei mass media. 5 Vincenzo Consolo, ‘Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’ in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 23-34 (questo è il mio testo di riferimento): ora in La passion por la lengua: Vincenzo Consolo. Homenajes por sus 75 años, a cura di Irene Romera Pintor (Generalitat Valenciana: Universitat de Valencia, 2008), pp. 29-38. Luigi Meneghello, ‘L’apprendistato’, in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 49-56; ora in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 36-40 (è questa l’edizione a cui faccio riferimento). 6 Consolo alla p. 24 della sua lectio ricorda: ‘Nel 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il terzocentenario della sua morte’ e annota che il bibliotecario della Società era Giuseppe Lodi, a cui si devono le parole riportate nella citazione. 7 I romanzi di Vincenzo Consolo, di cui cito solo le prime edizioni: La ferita dell’aprile (Milano: Mondadori, 1963); Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino: Einaudi, 1976); Lunaria (Torino: Einaudi, 1985); Retablo (Palermo: Sellerio,1987); Nottetempo, casa per casa (Milano: Mondadori, 1992); Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998). 8 Leonardo Sciascia, ‘Introduzione’ in Antonio Veneziano, Ottave (Torino: Einaudi, 1967), p. 7. 9 Enrico Testa, Lo stile semplice (Torino: Einaudi, 1997), p. 348. 10 Sulla plurivocità della lingua consoliana d’obbligo il riferimento al saggio di Cesare Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio’, in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), pp. 71-86 (p. 83). 11 A proposito della descrizione riportata a testo, alludo di volata alla necessità visiva della scrittura di Consolo che – basti solo pensare a qualche suo titolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio (Antonello da Messina), Lo Spasimo di Palermo (Raffaello), Retablo etc. –, contrae un debito sostanziale e fondante con la pittura analogamente a Meneghello che notoriamente rimase folgorato, all’inizio del suo apprendistato inglese, dal metodo didattico del Warburg Institute su cui ha scritto pagine importanti e sui cui ha ampiamente basato il suo insegnamento e quello del dipartimento di Studi Italiani da lui fondato a Reading. Si veda, inoltre, quanto riportano Giuseppe Barbieri e Ernestina Pellegrini, rispettivamente, alle pp. 191 e pp. 197-202 di Luigi Meneghello. Biografia per immagini. 12 Renato Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’, Filologia antica e moderna, 4 (1993), 179-223 (p. 182). 13 Sulla salvezza della scrittura, da varie prospettive, si ricordino le parole di Meneghello: ‘la crisi di tutto il mio sistema di idee pre-inglesi, durata decenni, un lungo, interminabile periodo in cui ho dovuto tener duro, hold tight, come un naufrago su uno scoglio: usando ciò che potevo, aggrappandomi a ciò che avevo, per esempio, la prosa di Leopardi’: Luigi Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, 3 voll. (Milano: Rizzoli, 2001), III, p. 185. E ancora: ‘“Scavi”. Estrarre “salvezza” dallo scrivere […]. È una specie di scavo continuo […]. Vado a scavare in tutto quello che mi è capitato: scavo, butto via e ricomincio, perché sono convinto che in qualche parte là sotto deve esserci quello che cerco, i nuclei del materiale effusivo e il luccichìo delle scorie vetrificate dove si Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 55 vede risplendere, che cosa di preciso? come dirlo?’ (ibid., p. 258). 14 Si confronti con quanto, analogamente, dichiara Meneghello, a proposito dell’autobiografia, nell’intervista concessa a Luca Bernasconi, in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, p. 205: ‘Però tutto questo non è fondato sull’idea che ciò che è accaduto a me ha qualche importanza, anzi sono convinto che non ne ha praticamente nessuna per gli altri, se non per me. Ma dentro contiene qualche cosa che non appartiene solo a me e, scrivendo, qualche volta emerge. Quando emerge, allora va bene, ce l’abbiamo fatta; e l’autobiografia è diventata qualche cosa di più e di diverso.’ 15 A questo argomento nel 2002 è stato dedicato un convegno a Parigi, alla Sorbonne Nouvelle, i cui atti si possono leggere nel seguente volume: Vincenzo Consolo. Étique et Écriture a cura di Dominique Budor (Parigi: Presses Sorbonne Nouvelle, 2007). 16 Su questi aspetti si veda Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’. 17 Cfr. I seguenti volumi: Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta (Milano: Rizzoli, 1999); Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta (Milano, Rizzoli, 2000). Per il volume III delle Carte si rimanda alla nota 13. 18 Si confrontino Meneghello e Consolo: le operazioni fatte sono diverse ma analoghe. Entrambi scavano nella propria lingua. Meneghello in quella parlata e non scritta del paese natale, nell’ambito storicamente ristretto alla propria esperienza biografica infantile e giovanile a Malo, nei due decenni degli anni ’20- ’40 del Novecento. Consolo, dal canto suo, scava storicamente e socialmente in un contesto storico millenario, secolare per: a) restituire la ricchezza linguistica del passato altrimenti destinata all’oblio; b) per rapportarsi sempre, metaforicamente, al presente. Meneghello: lingua della propria memoria biografica; Consolo: lingua della memoria storica collettiva. Ma la spinta etica a cercare di raccogliere nella loro lingua di espressione quanto di essenziale, di universale sia possibile reperire e tale da travalicare le proprie esperienze individuali è quello che li accomuna nel loro essere due ‘classici’ fuori dal coro. 19 Cfr. Ludwig Wittgenstein, ‘Lecture on Ethics: 1929- 1930’, ora in Ludwig Wittgenstein’s Lecture on Ethics. Introduction, Interpretation and Complete Text, a cura di Valentina Di Lascio, David Levy, Edoardo Zamuner (Macerata: Quodlibet, 2007), p. 42. 20 Sulle lingue di Meneghello, si vedano i lavori di Giulio Lepschy: ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy (Milano: Edizioni di Comunità, 1983), pp. 49- 60; ‘Le parole di Mino. Note sul lessico di Libera nos a malo’, in Luigi Meneghello, Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie (Bergamo: Lubrina Editore, 1987), pp. 75- 93. 21 Lepschy, ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, p. 49 e p. 50. 22 Cfr. Giulio Lepschy, ‘In che lingua?’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, pp. 15-22; ‘Introduzione’, pp.xliii-lxxxiv. 23 Lepschy, ‘In che lingua?’, p. 22 24 Cesare Segre, La letteratura italiana del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2004), p. 92. 25 Vincenzo Consolo, ‘I muri d’Europa’, Estudos Italianos em Portugal, Nova Série, numero a cura di Giovanna Schepisi, 3 (2008), 229-236 (p. 233). 26 Il sorriso dell’ignoto marinaio (Milano: Oscar Mondadori, 2004), p. 114. 27 Cfr. quanto Meneghello dice a proposito di Leopardi nella nota 13. 28 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), p. 67

The Italianist (2012)

Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo

italica
Intrecci mediterranei.
La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo

di Massimo Lollini

Cosa in comune quest’isola di culto, questo giardino, i suoi astanti, cosa l’ affabile algerino, tu coi cristiani di Bosnia, Sarajevo, i mercenari d’ogni Africa, i trafficanti d’armamenti, i boia d’ogni scarica e veleno, i Mafiosi del potere? Nel bronzo, si, e la crepa, il varco in ogni sacro testo, ogni decalogo, codice latino o d’altra lingua, dentro te, ognuno in questo tempo feroce e allucinato. (Lo spasimo di Palermo 41-42) Il mare, l’infinito e la guerra Concludendo un’importante riflessione sull’eredita mediterranea nella cultura europealo storico Georges Duby osservava un ventennio fa che “da circa un secolo il Mediterraneo offre a chi lo scruta, agli avamposti della speranza, un volto di violenza” (Duby 282). In realta questo volto violento richiama alla memoria storica la “parte piu tenebrosa” dell’eredita del classicismo greco-romano presente fin nelle origini della civilta mediterranea. Nella ricostruzione dei momenti fondamentali di questa civilta lo stesso Fernand Braudel ha sottolineato il carattere decisivo dei “conflitti tra civilta” da quelli brevi (Maratona, Lepanto) a quelli lunghi, come le tre guerre puniche o le crociate. Secondo Braudel questi conflitti mettono bene in evidenza “quali urti sordi, violenti e reiterati si scambino quegli animali possenti che sono le civilta”; e come le civilta siano “intrise di guerra e di odio, una immensa zona d’ombra che le divora quasi per meta” (Braudel, “La Storia” 110-11). Tuttavia le civilta non sono solo questo odio fabbricato e nutrito per l’altro. Esse rappresentano anche l'”eredita dell’intelligenza” l’accumulo dei beni culturali, sacrificio. Questi due elementi, quello “distruttivo” e quello “costruttivo,” appaiono strettamente intrecciati e appare quanto mai arduo e problematico il tentativo di separarli quasi fossero realta distinte ed autonome, come talora sembra proporre lo storico Braudel. La ricerca sul ruolo del Mediterraneo nella formazione dell’immaginario letterario europeo deve cogliere questo aspetto, se non vuole assecondare la marea montante di parole che puntano a derealizzare l’esistente e a costruire un mondo puramente ideologico che finisce per cancellare ogni consapevolezza della realta in cui si vive. Il saggio prende avvio da una riflessione sul nesso che si stabilisce nella cultura greca da una parte trail mare e l’orientamento verso l’infinito, e dall’altra trail mare e la guerra. Le due nozioni, quella di una ricerca intellettuale infinita e quella della guerra come esito inevitabile dell’attraversamento del mare, trovano un modello esemplare nella figura dell’Ulisse omerico, che i greci hanno lasciato in eredita alle letterature europee dall’antichita fino ai nostri giorni. L’esperienza della guerra di Troia ha segnato Ulisse in maniera profonda, rendendolo capace di un senso di pietas per il dolore proprio e altrui inconcepibile nel contesto dell’Iliade che rimane il “poema della forza” come ha scritto Simone Weil. L’episodio di Odisseo nella reggia feacia che piange sentendo il canto di Demodoco (da lui stesso richiesto) dove si racconta l’inganno del cavallo di Troia, e senza dubbio rivelativo di un profondo mutamento dell’eroe nel passaggio dal primo al secondo poema omerico (Odissea, libro VIII). Ma e la catabasi raccontata nel canto XI che rende manifesto in maniera inequivocabile il cambiamento rispetto al codice dell’eroismo al centro dell’Iliade. L’episodio piu potente rimane l’incontro con l’anima di Achille che preferirebbe essere un servo di una padrone povero piuttosto che essere morto. Emerge qui con forza la novita piu profonda dell’Odissea, il riconoscimento del dolore della propria morte e la scoperta della privazione dell’identita che essa comporta. La discesa di Odisseo nell’Ade rimane centrale nell’economia del racconto omerico cosi come si articola nei due poemi. Odisseo desidera ardentemente incontrare non solo Tiresia per conoscere il proprio destino, ma anche le anime di molti defunti per interrogarle sulle modalith e il senso della morte. In essi Odisseo trova una sapienza che e estranea ai vivi, la consapevolezza profonda del dolore che pervade la vitae il limite invalicabile rappresentato dalla morte. Altri momenti significativi del viaggio di Odisseo nell’Ade sono l’incontro con l’anima del compagno Elpenore e quello con la madre piangente. L’anima di Elpenore e la prima che si fa incontro ad Odisseo e lo implora di seppellire e compiangere il suo corpo rimasto in casa di Circe senza sepoltura. La dimensione del compianto e del lamento funebre per la morte dell’altro e al centro anche dell’incontro con l’ombra della madre. Il figlio vivo si trova qui unito alia madre morta nel comune desiderio di dare espressione al proprio dolore e al proprio pianto. Il viaggio nell’Ade e il lamento funebre sono importanti per Odisseo e la cultura greca e mediterranea almeno nella stessa misura del viaggio in mare. (4) Il viaggio in mare rappresenta cio che si teme piu profondamente, l’esposizione al pericolo infinito e incondizionato, la paura di una morte negli abissi marini senza sepoltura umana. Il viaggio nell’Ade e la sepoltura rappresentano la riconciliazione con gli esseri umani e divini, il conforto rappresentato dal lamento funebre che aiuta a vivere e a dare un senso sia pure straziante alla morte. Ma anche se tu tornassi se le distanze si accorciassero e la guida fiammeggiasse nel tuo sembiante tragico o nel tuo terrore intimo, sempre per me tu saresti la storia della partenza per sempre tu saresti in una terra senza promessa in una terra senza ritorno. Anche se tu tornassi, Ulisse. (Adonis Poesie) Questi versi, letti insieme a quelli di un’altra poesia di Adonis, L’erranza, bastano da soli a far comprendere come la condizione dell’esilio e dell’erranza siano una condizione irreversibile nella cultura mediterranea moderna sia nel mondo cristiano che in quello arabo. I versi di Adonis sono veramente significativi, soprattutto se letti insieme alle sue dichiarazioni di poetica (5): L’erranza, l’erranza L’erranza ci salva e guida i nostri passi L’erranza e chiarezza E il resto e solamente maschera L’erranza ci lega a tutto quello che e altro Ai nostri sogni imprime il volo dei mari E l’erranza e attesa. (Adonis Poesie) Nel verso “L’erranza ci lega a tutto quello che e altro” e contenuto il senso profondo della condizione dell’Odisseo moderno cosi come si manifesta nella tradizione mediterranea araba e cristiana, con molti punti in contatto con analoghe concezioni ebraiche che pure non si riferiscono al mito di Ulisse ma a quello di Abramo. Si tratta di una condizione di continuo esilio che rifiuta ogni certezza in nome di un apprezzamento intrinseco di tutto cio che e altro. Pur comprendendola Dante condanna la ricerca intellettuale di Ulisse dal momento che non e illuminata dalla luce divina. Per questo il viaggio di Ulisse rimane un “folle volo” che mantiene comunque qualcosa in comune con qualunque aspirazione alla conoscenza autentica e creativa, come sapeva bene Dante e come sanno gli scrittori moderni e contemporanei che sono venuti dopo di lui. Vincenzo Consolo dedica un capitolo de L’olivo e l’olivastro (1994) alla riscrittura del viaggio di Odisseo che viene presentato come metafora dell’esperienza del viaggio dello scrittore siciliano attraverso la sua isola e, piu in generale, come figura dell’uomo moderno e dello sradicamento esistenziale e storico provocato dalla civilta tecnologica da lui creata. Dopo la risoluzione del conflitto Ulisse si trova di nuovo immerso nella vastita del mare. Il suo viaggio questa volta procede in verticale e si presenta come “una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo” (19). Il viaggio di Odisseo nasce dall’orrore della guerra e dal senso di colpa per le morti e le distruzioni, e il viaggio di un sopravissuto. (9) E un viaggio dal mare verso la terra, da Oriente ad Occidente, “dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura” (124) un viaggio al termine del quale non c’e la patria agognata, ma la condizione perenne dell’esilio. L’Itaca che trova l’Ulisse moderno non esiste pit perche e sottoposta ad una continua distruzione, del tutto simile a quella che esperimenta durante la guerra. Per questo, scrive Consolo, Ulisse comprende che Itaca coincide con Troia ed e costretto a ripartire, condannato ad una condizione di erranza. Nessun viaggio penitenziale o liberatorio appare possibile allo scrittore siciliano. Itaca la citta del mito non esiste pit; le citth della memoria e della letteratura appaiono sempre piu lontane. Siamo Iontani dal modello rappresentato da Conversazione in Sicilia di Vittorini che pure ha ispirato gli ultimi due romanzi di Consolo. Il romanzo di Vittorini poteva ancora contare sulla “conversazione” come mezzo per una rigenerazione spirituale e morale. Il ritorno di Silvestro in Sicilia serve proprio a questo e si nutre di un potente linguaggio lirico e simbolico che aiuta il protagonista a ritornare ormai deciso e maturo nella Milano del lavoro, dell’industria e della lotta politica per la costruzione di una nuova Itaca. La critica della cultura per Consolo non si nutre piu di alcuna utopia, mentre la posizione privilegiata della coscienza che valuta e giudica l’ordine delle cose appare sempre piu pervasa da domande inquietanti. Il paesaggio che ci descrive Consolo ha perduto la dimensione lirica e simbolica assumendo una sostanza allegorica in cui non si intravede una via di riscatto. E un paesaggio di rovine quello a cui approda l’Odisseo moderno. Un paesaggio in cui l’immagine di Itaca appare sbiadita al punto da scomparire. L’unica alternativa per lui sembra essere quella, gia indicata da Dante, del naufragio definitivo come conseguenza del “folle volo” di Ulisse. Si tratta di un’immagine drammatica, che Primo Levi ha fatto sua a conclusione del capitolo “Il canto di Ulisse” che non a caso ha un ruolo centrale in Se questo e un uomo. Per Consolo, come per Primo Levi (e Italo Calvino), la posizione etica delia scrittura consiste sempre piu in questa volonta di testimonianza che pone questioni fondamentali sul destino della civilta europea, e si esprime in domande radicali che coinvolgono il gesto stesso della scrittura, intesa come strumento fondamentale della cultura, della tecnologia e del sapere occidentale. Occorre allora chiedersi se la nozione di “esilio” su cui Consolo stesso ha insistito, sia la piu adeguata e dar conto dello spessore della sua ricerca intellettuale. Ritorneremo su questa importante questione nell’ultima parte del saggio. Le domande dello scriba menzogna l’intelligibile, la forma, o verita ulteriore? (Nottetempo 164) E questa la situazione in cui si muove anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo (1998), Gioacchino Martinez, scrittore in crisi che si trova sempre piu perplesso e sgomento di fronte al gesto della scrittura: Aveva tentato infinite volte la scrittura, lettere memorie resoconti, ma l’orrore nasceva puntuale per quell’ordine assurdo, quel raggelare la ferita, quella codificazione miserevole dell’assenza prima e poi assoluta, dell’improvviso vuoto, dello sgomento fisso. (53) Questi ragionamenti sulla scrittura, piuttosto che ridursi a puro gesto autoriflessivo e solipsistico, rappresentano la linfa profonda che collega la riflessione di Consolo nella trilogia romanzesca rappresentata dal Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo. Come accade in Primo Levi, Italo Calvino e nei maggiori scrittori del Novecento, Consolo inserisce nell’orizzonte della scrittura letteraria la presenza di un soggetto filosofico che riflette sulla propria attivita, nel tentativo di comprenderne l’orizzonte e il senso. Accade cosi chela domanda sulla possibilita del racconto e della scrittura e la parallela aspirazione a dare una testimonianza vera dei processi storici possono trovare espressione non tanto nella dissoluzione della forma e della soggettivith, ma nel “vuoto della forma” e nella decisione in base alia quale il soggetto filosofico trova nella contingenza della propria vita il proprio modo di abitare la verith (Lollini). Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturi dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava tornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava in moil ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. (I: 226; mia l’enfasi) In maniera significativa la stessa metafora ritorna alia fine, nell’ultima pagina del libro in cui si spiega perche il viaggio di ritorno non e stato ne poteva essere un viaggio liberatorio: … non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. E un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’ angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade o si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone e l’angoscia si fa piu intensa e piu precisa. Tutto e ora volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o l’inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. (I: 395; mia l’enfasi) Alla fine del lungo e avventuroso cammino che, come buona parte della narrativa di viaggio ha come modello appunto l’Odissea di Omero, Levi deve constatare di non essere riuscito ad allontanarsi dal Campo e che anche nella sua Itaca la memoria del Lager ritorna ossessiva e implacabile: Testimonianza e alterita Non riconosci la terra da cui eri partito. Chi sia, domandano, il reduce avvolto nella nebbia, nascosto dietro la vizza maschera del viso, privo di doni, di bottino. (Lo spasimo di Palermo 101) Le vicende storiche piu recenti, dalla guerra nella ex-Jugoslavia agli attuali conflitti in Afghanistan e Iraq, non fanno che confermare le tendenze remote della storia Europea nell’era della globalizzazione. L’attraversamento del mare finisce per dar luogo anche oggi al conflitto armato e alla fondazione di un ordine mondiale fondato sulla forza e sul mancato riconoscimento dei valori positivi insiti nella diversith culturale. E significativo che l’operazione bellica che ha portato all’ulteriore distruzione dell’Afghanistan gia stremato dalla poverta e dalla guerra pluridecennale sia stata chiamata “Giustizia infinita.” In quell’ aggettivo e da riconoscere un orientamento antico della civilta occidentale nata sulle sponde del mare greco. Ancora una volta il mare non appare un luogo di incontro e di comunicazione, ma di conflitto e di conquista che oggi assumono dimensioni planetarie. L’era attuale e stata preparata dalle rivoluzioni scientifiche e spaziali del diciassettesimo secolo. Sul piano scientifico, come ha scritto Koire si e passati dal mondo cosmico e chiuso della scienza antica aristotelica e tomistico-medievale all’universo infinito della scienza moderna, introdotta dal canocchiale di Galileo. La metafora geometrica e spaziale serve a introdurre la grande rivoluzione della concezione della spazio di cui ha parlato Carl Schmitt che vede in questo secolo e nelle scoperte geografiche che lo hanno preparato l’affermarsi di una dimensione “oceanica” della storia universale, con un’enorme dilatazione dello spazio, fattosi infinito e “vuoto.” Schmitt parla del passaggio dal nomos della terra fondato sulla condizione continentale europea e caratterizzato dal carattere locale dei conflitti al nomos del mare, in cui predomina l’infinito, dell’incondizionato, il movimento e la volonta di potenza, la guerra totale e lo spirito della tecnica senza piu limiti. Il mare di cui parla Schmitt non e piu il Mediterraneo, ma l’Oceano che e il vero protagonista della rivoluzione spaziale moderna e serve per comprendere la dimensione mediterranea in un orizzonte piu vasto e attuale. Schmitt vedeva nella condizione insulare dell’Inghilterra (e a suo modo degli Staff Uniti) il simbolo di questa rivoluzione spaziale alle origini della modernita (Schmitt). Sono fenomeni ancora in corso che si manifestano nei conflitti sempre piu numerosi e incontrollati. Consolo-Odisseo moderno continua i suoi viaggi nel Mediterraneo per portare testimonianza di questi processi violenti in toni che a tratti si fanno apocalittici e profetici. In questa prospettiva si collocano gli scritti giornalistici usciti negli ultimi anni sul Corriere della sera o l’Espresso. Tra questi ultimi spiccano “Viaggio a Sarajevo” e “Viaggio in Israele/Palestina del PIE.” Nel primo testo Consolo racconta di un viaggio fatto con altri scrittori italiani per testimoniare la guerra sanguinosa della ex Jugoslavia. (12) Ritroviamo qui il paesaggio di rovine e distruzione che hanno colpito soprattutto Sarajevo, una citta un tempo civile e fiorente nella tolleranza religiosa ed etnica. La testimonianza di Consolo insiste sulle atrocita commesse da uomini ormai privi di ragione e ridotti a natura, tanto che l’immagine di Sarajevo devastata dalla violenza umana a suoi occhi assomiglia alle immagini di Assisi colpita da un terribile terremoto nei giorni in cui egli si trovava a Sarajevo. n questo ambito di scritti tra testimonianza e profezia occorre ricordare anche il “Memoriale di Basilio Archita” (Consolo, Le pietre di Pantalica 183-91), un breve racconto-saggio dove lo scrittore testimonia di un’altra tragedia che insanguina il Mediterraneo nei nostri giorni. Si tratta del racconto della morte violenta di un gruppo di africani che imbarcatisi clandestinamente su una nave greca sono poi gettati in mare e divorati dai pescecani. La tragedia dei clandestini che muoiono nel tentativo disperato di attraversare il mare per sfuggire ad un destino di fame e poverta non aveva ancora assunto le dimensioni attuali quando Consolo scrive questo testo. Le sue parole assumono qui un ruolo veramente profetico nel mostrare il livello di degenerazione raggiunto dalla civilta greca e mediterranea. I versi del poeta greco Kavafis recitati dal vicecomandante della nave greca non fanno che confermare la decadenza di una cultura priva di un senso di responsabilita o di una visione etica e civile della convivenza umana. Si tratta di una cultura ormai incapace di riconoscere se stessa. La voce narrante del racconto, e quella di Basilio Archita un giovane sfruttato a bordo della nave greca che pure esprime un elementare senso di solidarieta con le vittime. Tuttavia egli non e affatto consapevole dell’origine greca del suo nome e trova un senso di identita unicamente nell’abbigliamento offerto dal consumismo di massa. In questa situazione per tanti aspetti distruttiva risulta veramente preoccupante il venir meno di un vigile senso critico nella cultura contemporaneo come si vede nell’accettazione sempre piu passiva dei fenomeni distruttivi in corso, e nel consenso diffuso che hanno incontrato in occidente le parole d’ordine di guerra dopo gli eventi del terribile il settembre 2001. Minoranze sempre piu esigue si oppongono con la forza della ragione a questo stato di cose dove la violenza del terrorismo e quella degli stati belligeranti non sembra aver piu limiti. Questa situazione ci aiuta oggi a capire il senso profondo delle opere di scrittori come Levi e Consolo che hanno denunciato il carattere pervasivo della maledizione tecnologica e del contagio della violenza distruttiva che domina la storia dell’Occidente. Proprio in questa testimonianza consiste l’attualith e la forza del loro messaggio non tanto nell’adesione al pensiero dell’erranza e dell’esilio che pure e presente nei loro scritti. NOTE (1) Della Weil the considera la guerra come “il principale motore della vita sociale” (Quaderni 1: 189), si veda il fondamentale saggio “L’Iliade poema della forza” (Weil 10-41). Cfr. anche la raccolta di saggi Sulla guerra. Hannah Arendt indica l’esistenza di un rapporto strutturale tra polemos e polis. Sostiene the la violenza e la guerra di per se non sono politiche ma fondano tuttavia la politica. Si veda la raccolta di saggi Arendt tradotia in italiano con il titolo Politica e menzogna (Milano: SugarCo, 1985). Su tutta la questione si veda Esposito. (2) Su questo aspetto si veda Boitani che intende Ulisse come “figura” o umbra nel senso di Auerbach. (3) Su questo punio, si veda Gentiloni. Put criticando l’impostazione schematica di Levinas Gentiloni sottolinea le differenze tra Ulisse e Abramo e indica nel cerchio la metafora della cultura greca e nella freccia quella della cultura ebraica, la logica contro il suo superamento (121). (4) Ernesto de Martino ha mostrato l’esistenza di una modalita mediterranea del lamento funebre a partite da uno studio sul pianio rituale delle donne lucane. Cfr. De Martino. La prima edizione del saggio e del 1958. (5) Adonis sostiene the la modernita non e specifica di un paese o di un popolo. Il suo aspetto universale consiste nello sviluppo scientifico che non si puo evitare. Adonis sostiene una visione creativa della modernita e conclude: .” .. the questions ‘What is knowledge?’, ‘What is truth?’, ‘What is poetry?’ remain open, … knowledge is never complete and truth is a continuing search” (Adonis, An Introduction to Arab Poetics 101). Cacciari, Massimo. Geo-Filosofia dell’Europa. Milano: Adelphi, 1994. Consolo, Vincenzo. Le pietre di Pantalica. Milano: Mondadori, 1988. –. Nottetempo, casa per casa. Milano: Mondadori, 1992. –. L’olivo e l’olivastro. Torino: Einaudi, 1994. –. Lo spasimo di Palermo. Milano: Mondadori, 1998. –. Di qua dal faro. Milano: Mondadori, 1999. –. Il sorriso dell’ignoto marinaio. 1976. Torino: Einaudi, 2000. Consolo, Vincenzo, e Franco Cassano. Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo Italiano. Messina: Mesogea, 2000. Consolo, Vincenzo, e Mario Nicolao. Il viaggio di Odisseo. Milano: Bompiani, 1999. De Crescenzo, Assunta. “Paesaggio e mito Mediterraneo Nell’opera di Luigi Pirandello.” Il mare ciclope. Per un’identita Mediterranea. III Concerto Spettacolo. Atti del Convegno di Napoli 24 Aprile 1999. Ed. Assuta De Crescenzo e Aristide La Rocca. Napoli: Liguori, 2003. De Martino, Ernesto. Morte e pianto rituale nel mondo antico. Torino: Einaudi, 1958. Duby, Georges. “L’eredita.'” Il Mediterraneo: lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni. Ed. Fernand Braudel. 1985. Milano: Bompiani, 2003. 267-82. Esposito, Roberto. L’origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil? Roma: Donzelli, 1996. Gentiloni, Filippo. “Il viaggio fra mito e religione: Abramo Contro Ulisse.” Il viaggio. Ed. Di Giovanni Gasparini. 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Odisseo”.

Italica. FindArticles.com. 21 Feb, 2012.

Consolo, la Sicilia come missione.

Cesare Segre “Diario civile”
A cura di Paolo Di Stefano



Mentre il primo romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile (1963) ebbe scarsa risonanza, fu invece una rivelazione Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto verso il 1969). Qualunque discorso sullo scrittore deve necessariamente partire da qui, perché quel libro, uscito a tanta distanza dal primo, rivela già luminosamente i problemi che Consolo continuerà a dibattere e approfondire e ridefinire, nella sua successiva attività.

Quello che subito venne avvertito (Paolo Milano) è che il libro è una specie di anti-Gattopardo: identico il quadro storico (la Sicilia al tempo della spedizione dei Mille), enorme, a prescindere dalla qualità delle due opere, il divario stilistico e la differenza nella prospettiva della narrazione. Perché se Tomasi di Lampedusa si attiene al rapporto tradizionale tra riferimenti storici, invenzione narrativa e scrittura, Consolo mostrò subito la sua diffidenza (che alla lontana risale al Manzoni) riguardo alla storia come razionalizzazione dei fatti. Ben esplicitando le sue riserve, ci offriva dunque, con il suo non-romanzo, materiali storici che sta a noi rimontare e, se possiamo, razionalizzare.

In pratica, Consolo alternava frammenti di testi storici e cronachistici alle parti d’invenzione, istituendo tra gli uni e le altre una dialettica, che poi si ripresenta, a un livello ideologicamente più alto, nel diverso e pur convergente impianto politico dell’azione dei due protagonisti, il barone Enrico di Mandralisca e il magistrato Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta bene i borghesi e gli aristocratici illuminati, quelli insomma dei moti carbonari; il secondo è un democratico di sinistra, che alla fine assolverà i responsabili dell’insurrezione contadina di Alcàra Li Fusi. I discorsi dell’uno e dell’altro espongono nel modo più efficace le due posizioni tra le quali oscillavano, all’epoca, le menti più consapevoli: la sanguinosa rivolta di Alcàra e la successiva spietata repressione saranno il principale oggetto del dibattito.

Ma la storia non ha solo la colpa di offrirci spiegazioni ingannevoli; essa è responsabile di accogliere la prospettiva dei vincitori, sacrificando, ancora una volta, quelli che non hanno nemmeno il diritto alla parola: i vinti, gli sfruttati, i miserabili. È appunto la prospettiva dei vincitori che farà assimilare (impropriamente) i piemontesi ai detronizzati borbonici. Quest’impostazione storiografica, diffusa negli anni in cui Consolo scrive il suo libro, sulla scia dei saggi di Benedetto Radice e di Salvatore Francesco Romano, produce un’altra serie di conseguenze nell’impianto del romanzo. Per «inventare» la voce di coloro che non hanno avuto voce, Consolo crea un plurilinguismo vivacemente espressionistico, che mette a contatto nobili frammenti latini e forme del siciliano o persino del dialetto galloromanzo di San Fratello (a pochi chilometri da Sant’Agata di Militello, patria di Consolo), canti popolari e barocchismi spagnoli. Da «archeologo della lingua», quale si definiva, ci fa attraversare verticalmente i principali strati della storia del siciliano e della Sicilia, magari grazie ai frammenti di una canzone di Federico ii.

Il collante di questo plurilinguismo non è concettuale, ma prosodico. La scrittura di Consolo si caratterizza infatti per il suo sottofondo di armonie verbali. Si può persino sostenere, e qualcuno l’ha sostenuto, che quanto lui scrive è senz’altro una prosa metrica, con i suoi nessi e le sue pause. La musica unifica dunque materiali così eterogenei. Consolo continuerà la serie di «romanzi storici» con Nottetempo, casa per casa (1992), evocazione, anche autobiografica, degli anni in cui le squadracce fasciste portarono la violenza a Cefalù, e con Lo spasimo di Palermo (1998), presa di coscienza del disastro operato dalla mafia, e celebrazione del Judex che dovrà restaurare la giustizia; mentre L’olivo e l’olivastro (1994) racconta un viaggio di ritorno, o di scoperta, in Sicilia, alla ricerca di una natura e di una cultura devastate dalla modernità. E sulla Sicilia della storia e della contemporaneità sono numerosi i saggi, e le raccolte di saggi, di Consolo: per esempio Le pietre di Pantalica (1988) o Di qua dal faro (2001). A parte vanno considerati i divertissements di argomento settecentesco, come Lunaria (1985) e Retablo (1987), che sono anche omaggi da una parte a Leopardi e a Lucio Piccolo, dall’altra all’Illuminismo milanese.

Con Vincenzo Consolo perdiamo uno scrittore eccezionalmente inventivo, capace di immergersi nella storia ma più ancora di giudicare il suo tempo. Sempre attento e acuto, mai in cattedra.

22 gennaio 2012 – Corriere della sera

Gualberto Alvino La lingua di Vincenzo Consolo* Nuova edizione riveduta e corretta

Esattamente tre lustri or sono pubblicai prima su «Italianistica»,1 poi in una raccolta di studî di materia siciliana,2 una ricognizione linguistico-stilistica ad ampio raggio dell’opera consoliana maggiore giovandomi, quanto al lessico, dei repertorî allora disponibili. La successiva uscita degli ultimi volumi del Grande Dizionario della Lingua Italiana3 e del Vocabolario Siciliano, 4 le infinite risorse offerte in séguito dalla rete e l’avanzamento degli studî, all’epoca poco più che germinali, mi consentono oggi, oltreché di emendare refusi e imprecisioni, di perfezionare alcune proposte interpretative fondandole su solide basi scientifiche. Ringrazio Alfredo Stussi dei preziosi consigli e Salvatore C. Trovato per la sua cordiale e competente disponibilità. A Ghino Ghinassi e Giovanni Nencioni, che vollero generosamente e affettuosamente assistermi durante la prima stesura del lavoro, un pensiero commosso e riconoscente di qua dalla soglia. Roma, 15 gennaio 2012 * * * verticalizzarlo [il romanzo], caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da “felici pochi”. VINCENZO CONSOLO 1. Meraviglia che la critica più avvertita sia sempre stata perfettamente unanime nell’assegnare alla prosa narrativa di Vincenzo Consolo un luogo mediano tra le turbinosità espressive delle scritture macaroniche e il lucido razionalismo nutrito di passione storico-politica avente in Leonardo Sciascia l’interprete egregio. In verità, se l’oltranza dei procedimenti e la speciosità dell’ammasso verbale non possono non richiamare alla tradizione composita che dall’eclettismo comico-caricaturale del Dossi, attraverso gl’impasti di Giovanni Faldella, mena direttamente all’officina gaddiana,5 * Da G. Alvino, La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino, pref. di Pietro Trifone, in corso di stampa per l’Editore Loffredo di Napoli nella collana «Studi di italianistica», diretta da Claudio Giovanardi. 1 «Italianistica», XXVI, 2, 1997, pp. 321-33. 2 G. Alvino, Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’Arrigo, Consolo, Bufalino, introd. di Rosalba Galvagno, «Quaderni Pizzutiani IV-V», Roma-Palermo, Fondazione Pizzuto, 1998, pp. 61-101. 3 Grande Dizionario della Lingua Italiana, fondato da Salvatore Battaglia, poi diretto da Giorgio Bàrberi Squarotti, 21 voll., Torino, UTET, 1961-2002. 4 Vocabolario Siciliano, fondato da Giorgio Piccitto, a cura di Giovanni Tropea (il V vol. a cura di Salvatore C. Trovato), 5 voll., Catania-Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani-Opera del Vocabolario siciliano, 1977-2002. 5 Operando le debite distinzioni, come avvisa Cesare Segre: «Consolo va certo avvicinato […] a un altro grande romanziere plurivoco e pasticheur, al massimo anzi del nostro Novecento, Gadda. Essi hanno in comune la voracità linguistica, la capacità di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico. Tuttavia […] c’è una differenza sostanziale: la plurivocità di Gadda ha sempre una carica polemica. Gadda irride ai rappresentanti della società di cui parla citando o deformando i suoi ideologemi […]. Consolo realizza soprattutto un , 5 nulla parrebbe confermare la reale consistenza della seconda ipostasi, salvo l’insistita, a tratti viscerale accentuazione tematica di alcuni passaggi nelle opere più lodate e le numerose dichiarazioni programmatiche dello stesso autore (circa le quali dovrà quantomeno invocarsi il più ampio beneficio di inventario): E fare lo scrittore allora, per quelli della mia generazione, significava una cosa sola: indagare e testimoniare la realtà, fare lo scrittore sociale. […] Io credo nel significato non solo letterario ma storico, morale, politico di questa ricerca. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.6 Un tratto indubbiamente significativo, che tuttavia, alla luce d’una ricognizione esauriente, non tarda a confessare la propria indole strumentale, quando non esattamente pleonastica. Il molto celebrato engagement del Nostro meriterebbe, infatti, finalmente studio. Alcuni specimini della sua modestia sociologica: E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. […] Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta (SIM 96-97) Ma che siamo noi, che siamo? […] Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura (Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1990, pp. 73-74) Lingua della cultura come mezzo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo; fugacità e insensatezza del vivere subalterno; esecrazione del privilegio sociale; glorificazione degli umili e degli oppressi, catafratti nella santità della loro negletta tribolazione: articolare l’esegesi sopra un così dimesso regesto di tòpoi equivale a snaturare la cifra autentica, e finora esclusiva, dell’arte consoliana, tutta inscritta nel radicale, sdegnoso rifiuto d’una convenzione linguistica giudicata insieme sintomo e causa dell’attuale decadenza morale, civile e culturale. Se, poi, a tal rifiuto corrisponda un sempre risorgente rigoglio inventivo anziché una innocua iterazione di forme e stilemi è questione vitale e centralissima che sarebbe urgente dirimere. Fin dalla prima comparsa7 la portata dell’operazione fu d’altronde sùbito patente: rara perizia nell’amministrazione della cosa linguistica; ripudio dei modelli narrativi convenzionali – segnatamente del genere romanzo –, con la conseguente attivazione d’uno sperimentalismo convulso, non immune da tentazioni eversive; esuberanza dell’elemento retorico con annessa eterogeneità degli ingredienti cromatici; intrepida accostamento vivacissimo, materico di materiali fonici, lessicali, sintattici […]. Si colgono spesso movenze ironiche o parodiche, ma sono equamente indirizzate al mondo ritratto» (La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, pp. 71-86, alle pp. 85-86). 6 V. Consolo, «Leggere», II, 1988, pp. 8-15. 7 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963, poi Torino, Einaudi, 1977, edizione cui si fa riferimento con la sigla FA. Questo l’elenco delle altre opere narrative maggiori qui sottoposte ad esame, con le relative abbreviazioni: Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. (SIM); Retablo, Milano, Mondadori, 1992 (R); Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1994 (NCC); L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994 (OO).  mescolanza di codici; esaltazione del livello fonosimbolico, esibito come pura virtualità, crudo istituto, citazione culturale; preponderanza dell’interesse formale congiunta al più sfrenato edonismo pluristilistico. Un’olla podrida ribollente di tensioni difformi, talora esorbitanti da una schietta urgenza poetica, su cui incombe costantemente il pericolo del feticismo lessicale, del funambolismo sintattico e, se si potesse dire, della glottolatria. Di questo converrà qui discutere (in prospettiva diacronica – se s’indulge all’inevitabile ricorsività delle notazioni analitiche –, così da ripercorrere passo passo un itinerario discontinuo e talora eclatantemente contraddittorio), tenendo fermo che scrittori come Consolo – pur tutt’altro che inappuntabili, come vedremo, da ogni rispetto – costituiscono una risorsa preziosa e vitale per la prosa letteraria italiana, oggi più che mai in profondissima crisi. 2. Nell’intento di levare a dignità storica e letteraria l’oralità mutevolissima e transeunte d’un popolo, il siciliano, in odore di mitico emblema tradizionale (l’impianto apparentemente naturalistico tradisce un ruolo in fatto sovrastrutturale), la compagine linguistica di FA – conformemente alle estetiche della verisimiglianza espressiva in voga negli anni Sessanta – è orientata in direzione decisamente demotica anzitutto sul piano dello stile. Oltre alla sistematica, seppur tenuemente indicativa, predilezione di parere e pigliare contro sembrare e prendere, colpisce la disseminazione capillare d’un indiretto libero debordante nel monologo interiore, finalizzato non solo a una mimesi del parlato di forte suggestione, ma alla disgregazione della voce narrante in una coralità impersonale e acremente lirica: S’era inventato l’arte delle lame: rubava chiodi di mulo ai maniscalchi e il resto lo faceva la rotaia col treno che passava; brillavano al sole che parevano d’argento, con cinque lire pretendi pure il manico? allatta qua, gioia di mamma (54) E poi: quella scritta andava in alto, sopra la corona, o ai piedi dell’altare? Tra loro, se la sbrigassero tra loro, Squillace Costa il sorvegliante Seminara, io l’altarino lo vedrò bell’e conciato: dimoro, dimoro qua, alla marina (113) Diffusissime le tematizzazioni, sia nel discorso diretto che in quello autoriale, intese a riprodurre la corposa immediatezza del milieu sociale rappresentato: «Mùstica i temi li faceva buoni» 16, «Aveva due valige e la leggera gliela portavo io» 27, «tutto lo spirito se l’era messo nella tasca dietro» 41. (Si noti che ai nostri fini il rapporto fra stratificazione delle voci e resa verbale è del tutto ininfluente, non solo in quanto «l’orchestra che il narratore dirige è composta di una sola voce infinite volte rifratta: la sua»,8 ma soprattutto perché in Consolo l’incursione del diegetico nel dialogico e il conseguente assoggettamento linguistico del personaggio da parte del narratore sono legge). Di egual segno le duplicazioni di moto rasente luogo, di matrice dialettale9 8 Cesare Segre, Polifonia e punto di vista nella comunicazione letteraria, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 5. 9 Nell’accezione proposta da Bruno Migliorini, Lingua d’oggi e di ieri, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1973,  («Sbucarono dalla testa del faro le barche riva riva» 61, «e, muro muro, me n’andai fuori» 130) o adibite a mansioni elative, non solo a livello avverbiale e aggettivale ma perfino di verbo e sostantivo, con esiti cromatici notevoli: «Soffrigge presto presto la cipolla» 89, «E si mise teso teso, quasi sull’attenti» 14, «Con la funzione che dura dura, sempre fermi» 5, «Solo una tralignò, a que’ morti morti dove si trova» 110 (sic. a ddi morti morti unni si ṭṛova). Non meno rilevante l’articolato complesso delle opzioni sintattiche. Spicca su tutte l’uso dell’indicativo in luogo del congiuntivo («C’era bisogno che s’angustiava tanto?» 19, «c’era sempre quella palma nana nana che pareva si seccava» 27), ancorché non manchino casi in avverso, a testimoniare la stridente compresenza di livelli incompatibili (nel secondo esempio ulteriormente marcata dall’omissione del che completivo, estranea al registro popolare): «Si mise a raschiare e a tossire, poveretto, che pareva avesse i gatti dentro il petto» 10, «Filippo non volle lo aiutassi» 28. Se caratteristico del siciliano è il perfetto con valore di passato prossimo («Non sei cangiato. Quando tornasti?» 44, «[…] queste cose si tengono in panza, capisti?» 45), panmeridionale è l’uso di come a ‘come’ («pareva un caruso come a noi» 27) e la sostituzione di da con di nelle espressioni del tipo «vestito di maggiore» 81. Ampiamente profusa la ridondanza pronominale («A Tano Squillace gli morì il papà» 21, «Seminara pareva gli era morto a lui» 21) e l’uso del ci attualizzante, talora con agglutinazioni grafiche proprie della scrittura popolare («gli alza la maglia e che cià per la vita?» 94), nonché l’impiego affettivo-intensivo del pronome: «mi do la licenza magistrale e me ne vado» 38, «mi leggevo un manifesto» 117. Tra i provvedimenti topologici la collocazione postnominale del possessivo («scancellò Sara e ci mise la firma sua» 21) e il più fragrante dei sicilianismi: l’ubicazione clausolare del verbo: «lo stesso odore avete, tutta la casa lo stesso odore ha» 19-20, «tutti cristiani siamo, tutti uniti dobbiamo stare» 57, «La prima volta era?» 63. In àmbito morfosintattico si evidenziano una serie di locuzioni d’area siciliana, quali a cangio ‘invece’ («la poteva accontentare a cangio di smaniare ogni sera» 65), a uso ‘come’ e a uso che ‘come se’ con l’indicativo: «combinata a uso signorina» 92, «inginocchiato, a uso che pregavo» 11. Largamente rappresentati alcuni popolarismi di natura morfologica. Oltre al ci dativo polivalente («O guardaci la roba che ci portarono i mericani a tua sorella!» 15), forme comico-analogiche di coniugazione («protestava che da solo la puoteva» 28, «Se qualche signore vuol toccare […], s’accomodisca» 50) e un tratto tipico dell’oralità siciliana: la preposizione articolata scissa: «Cercai Filì […] a la marina» 130-31. Assai più variegato il bottino fonetico: dall’elisione caricaturale della lingua aulica («culo grosso com’un avvocato» 74, «lo scruta con ansia mentr’egli odora» 89) all’aferesi vocalica – con oscillazioni nell’uso dell’apostrofo – e sillabica nel dimostrativo («na cavallina in caldo» 18, «– Qua, alla bocca dell’anima, ciò sempre ’na vampa» 99, «non capivano ste cose» 15) alla preferenza accordata a forme tipo que’, de’ ecc., in posizione non solo avantonica: «que’ stronzi» 26, «que’ bastardi» 47, «la p. 314. 9  connivenza de’ pezzi da novanta» 71, «[…] se’ tutto bagnato» 137. Ma la tastiera di Consolo è inesauribile: non una nota, non una sfumatura tonale tace all’appello. Ed ecco, all’opposto versante del preziosismo e della suggestione letteraria, l’imponente investimento della convenzione metrica: un connotato originalissimo che riscontreremo in tutte le opere successive.10 Il primato spetta all’endecasillabo, isolato o in gruppi, ma non è raro imbattersi in catene variamente misurate, sempre al governo d’una intenzionalità calcolatissima e sapiente: sia attraverso inversioni funzionali («[…] il baffo me lo taglio, e le basette» 32, «Accanto le sedeva suo nipote» 47) sia mediante apocopi sillabiche o forme sintetiche desuete della preposizione articolata: «All’istituto i preti han già le cotte» 90, «Il padre di Merì ha la dentiera, / le scarpe troppo lunghe pel suo piede, / la donna con i serpi e la coccarda / all’occhiello della giacca / che gli cade sotto il culo» 71.11 Come s’è visto, il secondo campione è nettamente scandito in una sequenza di tre endecasillabi e due ottonarî, anche col sussidio della punteggiatura ritmica. Esempî del genere sono regolarmente distribuiti: sfinita per il pianto e per le grida: / pareva il pavimento l’inghiottiva, / molle com’era^e abbandonata / senza respiro, senza movimento (64) gambe invischiate lente a trascinarsi, / schiene ricurve sotto il cielo basso, / la mano gonfia con le dita aperte; / il gallo sul pollaio / che grida per il nibbio / e il cane che risponde petulante. / Il cane e un altro cane e tutti i cani (69) si portano nel sole a scatarrarsi, / a togliersi l’inverno dalle ossa, / disegnano il terreno col bastone, / spaventano l’uccello e la lucertola. / Le donne sui balconi, alle finestre (73) Lo scampanio entrò dalla finestra, / era la chiesa vecchia e la Matrice, / lontane quelle sorde all’istituto, / fiaccate dalle schegge. / Il mezzogiorno a festa / dura quanto di notte / l’allarme per il fuoco / o per le barche a mare (100) Le mine son le nespole mature / ed i baccelli gonfi delle fave [si noti come l’apocope sillabica nel primo “verso” e la dentale eufonica nel secondo obbediscano a precise necessità mensurali] (115) Il tessuto fonico si presenta oltremodo ricco e composito. Rime e quasi-rime («Ci vuole poco ormai per la sera, il sole se ne calò a Puntalena e l’aria da grigia comincia a farsi nera» 93, «si sbottonò il cappotto ed era nudo SOTTO»12 133, «e allora si scosse, s’accorse» 65), assillabazioni, giochi allitterativi e parallelismi ingegnosi («buio fitto, fino al paese a filo» 31, «coi piatti i timpani i triangoli i tamburi, le trombe a tutto fiato» 78, «– Mia madre mi morì, – mi disse piano» 114, «una luna e l’altre allato due stelle» 134) appesantiscono la scrittura fin quasi a vanificare la tensione narrativa in un’adorazione estenuata del significante. Ma è in campo sintattico che letterarietà e preziosismo vengono perseguiti col più massiccio spiegamento di forze. Le enumerazioni asindetiche con eliminazione della punteggiatura («L’avanzata i cannoni i guastatori i lanciafiamme; la ritirata la steppa il 10 I primi a rilevarlo, in un prezioso studio mirato a SIM, furono Alessandro e Mughetto Finzi, Strutture metriche nella prosa di Vincenzo Consolo, «Linguistica e letteratura», III, 2, 1978, pp. 121-35. 11 Scansione nostra, come nei successivi lacerti. 12 Maiuscolo nel testo. 10 OBLIO II, 5 freddo la fame» 12, «Getsemani la cena le cadute la croce lo spasimo il tabuto» 90-91); il costrutto impersonale preceduto dal pronome di 4ª persona («e noi tutti s’andava al catechismo» 48); la costruzione assoluta del complemento di qualità: «guardava oltre, gli occhi alti e fissi» 29, «Gesù, cuore infiammato su tunica bianca» 55. Due gli aspetti morfologici eminenti: la riduzione dell’imperfetto di 3a persona («e il Costa ch’avea portato il braccio avanti» 6, «la bussìca che gli crescea davanti» 87) e la preposizione articolata sintetica: «mormorava pei trasferimenti» 27, «se ne partiva pel bosco a far carbone» 37-38. Tra i fatti fonetici, se s’ignora l’unico caso di prostesi («per isbaglio» 108), impiegatissima l’apocope vocalica facoltativa, sempre rigorosamente preconsonantica («mi mandò al salone a far le saponate, poi il sarto, ad infilar le aguglie e levar l’imbastiture» 34-35, «per me l’avevan fatto» 74), e l’osservanza d’un tratto toscoletterario quale la regola del dittongo mobile: «moveva le dita tra i ceci» 29, «e il mulo non moveva un piede» 97. È però nel reparto lessicale che l’espressivismo cruento ed estremistico di Consolo si libera nella più ampia e fastosa gamma d’articolazioni: recupero di parole antiche o disusate,13 neologismi d’autore, e soprattutto adattamenti di vocaboli dialettali, in netta prevalenza siciliani.14 3. «Come sono raffigurati i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio? V’è una inarrestabile discesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni […] all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcàra Li Fusi […]; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcàra […] e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli […]. Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi […] le scritte compendiarie dei prigionieri […]. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale».15 Siamo, è evidente, agli antipodi della prova esordiale: una lingua in costume d’epoca stratificata di multiformi varianti stilistiche ma ruotante sul cardine della soggezione fonoprosodica e d’un cultismo latineggiante lussuosamente drappeggiato. Si legga un dialogo come il seguente, frazionato in limpide unità melodico-semantiche da coro greco: — È aceto, malicarni, aceto! — Aceto? — Aceto? — Miracolo! 13 Accanire, p. 124 rigo 1; chiocco 9726; fragoso 1054 ; lontanarsi 589 ; sgravo 5618; spantarsi 1154 ; sprovare 3418, ecc. 14 Cfr., infra, Coniazioni originali e Dialettalismi. 15 Cesare Segre, La costruzione a chiocciola, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 81.  Il romito è santo! — Ha stracangiato l’acqua nell’aceto! — Frate Nunzio beato! — Sulla trazzèra ebbe la visione. — E urlò di piacere e meraviglia. — E perse i sentimenti. — E il controllo di sfintere. (62) o si soppesi l’esibita maestria di certe manipolazioni soprasegmentali («dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e banchina» 27, «una greca creta cotta di fattura liparitana» 95) e la segnalata subordinazione dei contenuti-significati al conglomerato formale risalterà perentoria, come lo stesso Segre dové rilevare (pur con la titubanza dovuta al fondamentale apprezzamento d’un valore inconcutibile) nelle conclusioni del saggio citato, là dove si afferma che «è difficile respingere l’impressione di un certo manierismo o barocchismo nei risultati formali. Questo manierismo (o barocchismo) è probabilmente inteso a far esplodere il linguaggio medio, spingendolo contemporaneamente verso i livelli più alti e quelli più bassi dello spazio linguistico. Ciò non toglie che il fascino della pagina di Consolo stia proprio (o anche) nella sua ardua giunzione con i principi enunciati».16 Assoluzione con riserva che non si esiterebbe un istante a controfirmare se solo fosse dato sottrarsi alla oggettiva constatazione che «C’è sempre un di più d’indugio, un edonismo fonico-lessicologico in questa, come in ogni scrittura così densa».17 Densa e opulenta fino al parossismo. A partire dalla strabordante congerie delle manovre topologiche, prevalentemente fomentate da una vocazione musicale altrettanto esteriore quanto incontenibile. Sia la dislocazione degli epiteti («urlanti parimenti e agitati» 27) e l’inversione del soggetto («Sembrava, quella, una tovaglia stramba» 45, «S’abbracciarono i due amici sulla scala» 71); l’iperbato – talora violentato fino alla sinchisi – e il collocamento del verbo in clausola («E gli occhi aveva piccoli e puntuti» 5, «– Chi è, in nome di Dio? – di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde nelle celle» 8, «niente da invidiare aveva» 83, «castello a carcere adoprato che il principe Galvano visitare mi fece» 114); la posposizione latineggiante del possessivo («covava un amore suo» 3, «il padre suo tornato d’oltretomba» 114) e il legato aggettivo etnico/relazionale-sostantivo («sveva discendenza» 99, «solare luce» 119) o la tmesi servile-infinito e ausiliare-participio («E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi» 96); sia, infine, l’enclisi pronominale, con risultati parodistici in tutto gratuiti nella loro inaudita amplificazione: «scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi» 4, «e giù per funi calaronla» 82, «e il territorio popolossi» 116, «faceala, a mio giudizio, ingrandire» 116. L’ordito sintattico è tendenzialmente scabro, nervoso, fratto in blocchi asindetici nominali o in membri paratattici modulati da filze d’infiniti con funzione vivacizzante: Luccichìo, al vacillare de’ moccoli, dei manici di rame del tabuto, piedi a zampe di grifo, impugnatore d’oro a raggera sul manto di velluto nero di sette spade nel cuore di Maria, spalancati occhi d’argento, occhio fisso, 16 Ivi, p. 86. 17 Ivi, p. 85. 12  occhi, cuori fiammanti, canne a salire e scendere d’ottone sopra l’organo. Oltre i lumi, nell’ombra del soffitto e delle mura, precipitare di teschi digrignanti, voli di tibie in croce, guizzare di scheletri da sotto lastre, sorgere da arche, avelli, scivolare da loculi, angeli in diagonale con ali di membrana che soffiano le trombe (65) Frequentissime le enumerazioni caotiche, in cui l’eliminazione della punteggiatura – o il suo esasperato impiego – produce esiti poco meno che ossessivi: dritti soprusi abusi angherie e perangherie … (testatico sopra ogni animale da soma che carico di cereali arriva a Cefalù, dritto del macello cioè sopra ogni bove porco e altro animale che si macella, decima sulla calce, decima sopra tutte le terre cotte, decima sulle produzioni ortilizie e sulle trecce d’agli, decima sulla manifatturazione e immissione delle scope, grana sopra legno e carbone, duodecima sopra vini mostali, dritto di dogane di mare e di terra cioè d’ancoraggio falangaggio e plateatico, decima sopra il pesce cioè sarde acciughe e pesce squamale, dritto di terragiolo (15) Anche presente la sillessi tosco-letteraria e del tipo «Ce n’è tanti» (61) e consistente nel costrutto impersonale introdotto dal pronome di 4ª persona: «La cosa più sensata che noi si possa fare» 98. Ma due i maggiori fatti sintattici conferenti all’impaginazione testuale una togata patina classicheggiante: il participio presente con valore verbale («alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate» 6, «verdi chiocciole segnanti sulla pietra strie d’argento» 6) e la costruzione assoluta del complemento di qualità: «Schiuma l’eremita, voce raggelata nella gola, sudore e tremito tremendo nelle ossa» 61. A livello morfosintattico, oltre al violento arcaismo rappresentato dal gerundio retto da in («ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio» 5), l’articolo determinativo in forma debole dinanzi a z e a s complicata, sovente d’intenzione prosodica: «proteggevano il zappatore» 15 (novenario), «ne’ sfilacciati albagi» 105 (settenario), «col passo ferragliante dei speroni» 111 (endecasillabo). Più ampio e variegato il ventaglio degli accorgimenti morfologici. Dalla rinunzia, metricamente mirata, alla labiodentale sonora nella 3a persona dell’imperfetto («festeggiare soleano nei quartieri» 80, «Ma giugnea fraditanto una carretta» 109) al condizionale siciliano in -rìa («Il genio mi ci vorrìa dell’Alighieri» 105, «sennò sarìa stato eretico per paganità» 116); dalla preposizione articolata desuetamente scissa («a le vicende loro» 6, «pronti a vergar su le carte» 100) e sintetica («Dieci salme le scassai pel vigneto» 17, in cui, si noti, la forma analitica romperebbe la misura versale) alle varianti analogiche o arcaiche di coniugazione («uno vivuto sempre sulla terra» 5, «noi, che que’ valori abbiamo già conquisi» 97). Foltissimo il fascio delle variazioni fonetiche. Elisioni a facile effetto sonoro: «sicuro […] ch’occhi indiscreti non scoprissero la sua debolezza» 70; apocopi d’ogni tipo: «Torrazzi […] ch’estollon i lor merli» 4, «l’umìl saluto» 86, «passion di casta» 97, «diè ordine» 78; dittonghi discendenti ridotti: «E son peggio de’ corvi e de’ sciacalli» 98 (endecasillabo di 3a e 6a ), «Alle grida s’affacciò da’ cunicoli» 77 (endecasillabo sdrucciolo). Tratto grafico-fonico peculiare delle scritture macaroniche, qui spinto a conseguenze 13 OBLIO II, 5 estreme, l’indiscriminata solerzia nell’apposizione dei segnaccenti18 (càpperi 31, bàsola 33, làstime 42, trazzèra 87, codardìa 88, viòlo 92, ecc.), manifestamente adibita a distrarre l’attenzione dalla sfera semantica per concentrarla sull’architettura formale. Alla maggiore complessità del quadro linguistico non può non corrispondere un più acceso dinamismo lessicale. Mentre s’affinano, moltiplicandosi, le modalità delle procedure onomaturgiche (non più d’esclusiva natura compositivo-dialettale, bensì, coerentemente con la materia trattata, arcaico-letteraria) e s’intensifica il ricorso al tesoro dialettale, lo scenario ottocentesco determina un cospicuo arricchimento del vocabolario arcaico.19 4. Pubblicato dopo un decennio di silenzio rotto solo dall’ispido pastiche favolisticoteatrale Lunaria20 (del quale condivide ambientazione siculo-settecentesca e inappagato oltranzismo barocco), il terzo romanzo di Consolo si colloca all’àpice d’una sperimentazione votata al globale assorbimento della materia e alla pietrificazione dell’impulso narrativo in formula rigidamente preconfezionata. Assoluta mancanza di selettività; abbattimento del confine tra prosa e poesia con l’ineluttabile, perniciosa perequazione di suono e senso; ostentazione di convenzioni e istituti espressionistici squadernati allo stato puro in un cerimoniale orgiastico sostanzialmente inoffensivo: tali i limiti più inquietanti d’una scrittura che, quale quella di R, aspira innanzitutto a significare sé stessa, offrendosi come spettacoloso intrattenimento: Rosalia. Rosa e Lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione (9-10) È l’incipit, ma si dica pure l’ouverture di questa sinfonia governata da una vis compositiva eminentemente ritmica, affatto scevra da preoccupazioni comunicative, soggiogata dal demone della tecnica e della libera associazione sonora, «con 18 Con oscillazioni e discordanze notevoli: un dato che il Nostro condivide in toto col suo conterraneo e per certi versi omologo Stefano D’Arrigo. 19 Aere 8615; ascoso 8721; binoculo 11118; dappoiché 1014 ; jiumenta 10433; mercatante 2812; poscia 11112; prope 10826; ricolta 10019; ricoverto 11837; tòrre 6324; tuttavolta 10525; unisonanza 177 , ecc. 20 Torino, Einaudi, 1985, su cui Segre ha steso pagine superbe, agevolando l’accesso all’intero universo espressivo consoliano: «La prima [conclusione] è che la scelta delle componenti linguistiche non è fatta corrispondere rigidamente al tipo e livello dei personaggi; la seconda è che la differenza tra prosa e poesia non corrisponde all’opposizione diegetico/dialogico. La prima conclusione significa che Consolo, pur differenziando in linea di massima la lingua dei personaggi, lascia che entro questa, nei momenti della concitazione o dell’emozione o della partecipazione, traspaia la propria, con tutta la gamma dei suoi registri. Il sicilianismo o il termine letterario o latino non fungono da “ideologemi”, ma rientrano nel complesso delle funzioni evocative organizzato dallo scrittore. La seconda conclusione conferma l’osmosi caratteristica di Consolo tra prosa e poesia, con predominio di quest’ultima» (Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id., Intrecci di voci, cit., p. 100). profusione vocabolaristica da vecchia scuola accademica».21 Un nome, nulla più che un flatus vocis sezionato nei suoi componenti – Rosa/Lia – s’incarica d’imprimere il movimento iniziale alla sfarzosa, caotica malia melica polifilesca riboccante d’anafore, corrispondenze, marinismi, retoriche agudezas, liturgie mensurali, virulente ibridazioni. Caoticità litanica non ridotta d’un ette dall’ordinamento alfabetico del nome (Lia), del verbo seminventato liato da esso tratto22 e della filza d’apposizioni inizianti per l- come Lia (liana libame licore lilio lima limaccia lingua lioparda lippo liquame: unica eccezione letale, retto in compenso da un altro tipo d’ordine: il chiasmo licore affatturato | letale pozione). Sta in fatto che l’effetto più abbagliante resta quello d’un’arida compulsazione vocabolaristica. Che sarebbe, s’intende, non solo lecito, ma godibilissimo in un autore che non s’impuntasse, come il Nostro, a professar fedi di natura storica e sociopolitica ponendole alle basi del proprio lavoro. Ma torniamo al ritmo. Un compendio del dirompente genio metrico di Consolo: E gli occhi tenea bassi per vergogna (12) La visïon di quegli ordegni bruti (26) fuga notturna in circolo e infinita (28) e qua e là son poggi di riposo (31) privato vale a dire del cervello (42) Ma Mele dico ei doversi dire (68) I’ mi trovai disteso, e non so come, / fra le dune di sabbia sulla riva, / con gente intorno a me che parlottava (104) Si veda come, nel primo caso, la misura sia garantita dall’iperbato e dall’imperfetto arcaico; nel secondo da una caricata apocope vocalica compensata dalla dieresi; nel terzo dalla dislocazione degli epiteti; nel quarto, oltreché dall’apocope, da un enfatizzato polisindeto di profumo ariostesco; nel quinto da un’aspra inversione; nel sesto da un latinismo sintattico (accusativo + infinito) arricchito da insistite allitterazioni23 e dal poliptoto giocato sulle due voci del verbo dire. Il settimo brano, marcato da un arguto avvio stilnovistico,24 valga ad esemplificare la disseminazione nel testo di veri e proprî microcomponimenti poetici non di rado variamente assonanzati (ma qui il secondo e il terzo endecasillabo sono apparentati persino da una quasi-rima: riVA / parlottaVA). Emerge, fin da questa rapida rassegna, l’oceanico profluvio degli ingredienti mescolati 21 Vittorio Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993, p. 381. 22 Cfr., infra, Dialettalismi. 23 Il libro ne è letteralmente infarcito: «carriole, carretti carichi di sacchi» 15; «Fra merda e fango e fumi di fritture» 15; «un gran gracchiar di nacchere, rimbombi di timballi» 42; «mele o melle, o meliàca, che ammolla e ammalia ogni malo male» 68, ecc. 24 Non mancano citazioni poetiche: «in sul calar del sole» 34, «E sedendo e mirando» 73, quest’ultima presente anche in SIM 98 insieme al manzoniano «scendea per uno di quei vicoli» 107.  e messi a macerare nel capientissimo (e inimitabile) calderone gaddiano. Un tessuto stilistico irto d’incisi richiami rinvii sincopature miranti a riprodurre la libertà costruttiva della sintassi classica: Una più alta onda, a un certo punto, sferzando fortemente la fiancata, fece rotolare ancora, e trasbordare, tranciando salmi, inabissar nell’acqua, salvandoci sicuramente da naufragio, la mia statua (125) o a bruciare nel più parossistico manierismo formale e nell’invasata possessione litanica nevrastenia e risentimento: Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmotte, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffico, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, quindi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favognana, Scopello e Bonagìa, e asciuttàme, vino, cenere di soda, pasta di regolìzia, sommacco, pelli, solfo, tufi marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscìna, orbàci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, bajettone d’Inghilterra, velluto, flanella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca (127) col solo esito di raschiare la massa verbale devitalizzandone la polpa in un trionfale quanto edulcorato inno alla musica. A comprovare il sostanziale eleatismo, sotto mentite spoglie eraclitee, del mondo linguistico consoliano, la sconcertante iterazione dei procedimenti: i medesimi, salvo numeratissime eccezioni, già prodigalmente investiti nei romanzi precedenti (pur tanto dissimili, si badi, sia per ambientazione storica sia quanto all’organizzazione del materiale inventivo) e che ritroveremo rotondamente identici nelle opere posteriori. Valga uno schematicissimo excursus. In àmbito sintattico: costruzione assoluta del complemento di qualità («Ansava come mantice d’organo […], grave il respiro fora dalle labbra» 68) e participio presente con valore verbale: «sommessamente mormorante paternostri» 141. Dal rispetto topologico: inversioni («Amenissima, polita e levigata corre la strada» 31, «E più beato ancor si fece e deliziato» 54); tmesi d’ausiliare e participio nonché di fattitivo e infinito («quello loro l’avea Isidoro miracolosamente trasformato» 95, «sparir li faceva in una sacca» 44); ubicazione clausolare del verbo alla latina («sorge dal mare e tutt’il cielo indora» 23, «altr’òmini, che in ozio parevano» 35); dislocazione degli epiteti («a netti cuori e ardenti vi scaldate» 23, «una catena d’alti colli e scabri» 25, «vostro divoto amico e ammirante» 26, «grecanica fattura nobilissima» 38); posposizione del possessivo («nel breve peregrinare mio per il mondo» 134, «che la bellezza tua stava nascosta» 150); enclisi pronominale («E sfigurossi poscia in viso» 55, «lasciavansi crescere la chioma» 59, «lacerossi gli abiti» 143); chiasmi: «siamo fermi, fermi sprofondiamo» 110. In area morfosintattica: infinito sostantivato e gerundio preposizionali («in latteggiar purissimo de’ marmi […], in rosseggiar d’antemurali» 24, «certo, in leggendolo […] vi donerà gran tedio» 136) e articolo in forma debole davanti a z, non di rado a scopi ritmici: «nella ripresa del zufolo e del sistro» 55. Nella morfologia: preposizione articolata sintetica («l’inferno pel rimorso del peccato» 13, «sacconi di bombarde pei legni che vi salpano» 25) e scissa («ne la luce di giugno» 25, «follia dolce de l’ingegnoso hidalgo» 49); coniugazioni arcaiche: «Io mi chiedei allor» 49, «giùnsimo al punto più alto» 52, «vìdimo che si svolgea […] una processione» 140); accumuli preposizionali («con la sua spina velenosa in su nel core» 9, «e disparì in dentro d’una porta» 36); eliminazione prosodicamente funzionale – nell’imperfetto di 1a , 3a e 6a persona – della labiodentale sonora: «venia ad investirmi sulla faccia» 18, «facea sinistramente cigolare» 26, «la sospingeano da una vasca all’altra» 120. Sempre amplissimo, in territorio fonetico, lo spettro delle fattispecie citabili. Dittonghi discendenti ridotti nei monosillabi («preso da’ Turchi, da’ corsari» 17, «que’ bagni celebrati dagli antichi» 55); preferenza per le forme monottongate (ova 12, òmini 15, scotersi 138, foco 149, core 151, ecc.); elisioni con se, da, su e coi plurali («mi chiese s’ero pratico di strade» 16, «mi preservi e salvi d’ogni dolore» 29, «stava immobile s’uno sgabello» 120, «col linguaggio ascoso dell’allusioni» 132); apocopi vocaliche e sillabiche («nell’umile mestier del facchinaggio» 27, «nell’aer lieve dell’ora antelucana» 53, «m’abbracciaro e baciaro a uno a uno» 37); aferesi d’ogni tipo: state ‘estate’ 56, Stambùl 74, sendo 95, straneo 122, ecc. Quanto al registro demotico, da segnalare i numerosi intarsî dialogici pluridialettali (nei quali eccelle la collocazione siciliana del verbo in clausola); l’impiego di tenere per ‘avere’; l’aferesi vocalica dell’articolo indeterminativo («E ’na volta eran l’ova, ’n’altra la cassatella, ’n’altra la cedrata» 12) e sillabica nel dimostrativo: «’sto cavalèr foresto, ’sto galantomo, ’sta perla di cristiano» 59. Pur dominato dall’interesse arcaico,25 il settore lessicale si presenta naturalmente rigogliosissimo tanto in sede onomaturgica che dialettale.26 5. «Eppure, romanzo storico Nottetempo, casa per casa senza dubbio è. […] Lo è per la fitta trama di allusioni che, come è nella tradizione più pura del romanzo storico, rimandano al presente. Lo è per l’acume con cui lo scrittore ha scelto, anche qui secondo il modello più prezioso del genere, un avvenimento particolarmente inedito e intrigante nel mare degli eventi possibili».27 Questo, press’a poco, il tenore degli interventi critici sull’opera consoliana fin dall’epoca dell’entrata in arte: un approccio sostanzialmente contenutistico che oltre a non rendere competente giustizia alla complessità del dettato, ne suggerisce una lettura parzialissima e fallace, proprio in quanto bloccata all’aspetto meno strutturante dell’atto creativo: la stratificazione dell’elemento concettuale. Si legga un qualsiasi avvio di capitolo: Gravava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio, il silenzio al meriggio dove piombano sui picchi, le 25 Un catalogo puramente indicativo: alma 920; amistà 10613; antichitate 5120; architettore 2724; bontate 13611; civiltate 5720; dua 282 ; frale 4527; imperocché 2811; littra 4020; marmore 1192 ; mercatore 988 ; nullitate 2611; pintore 5316; sustanza 2819, ecc. 26 «Non c’è motivazione tematica che tenga di fronte a tanta esibizione di sapienza lessicografica» (Vittorio Coletti, op. cit., p. 381). 27 Antonio Franchini, Introduzione a NCC, pp. V-VI.  mura della Rocca corvi, gazze, brulicano sui canali, i limi delle gébbie nugoli d’insetti, la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze (13) o si prelevi a caso una delle tante caotiche enumerazioni che stipano il “romanzo”: Pensò a Monreale, a San Martino delle Scale, all’Arcivescovado, allo Steri, all’Archivio Comunale, ad ogni luogo con cameroni, studi, corridoi, anditi tappezzati di stipi traballanti, scaffali di pergamene scure, raggrinzite, di rìsime disciolte, di carte stanche, fiorite di cancri funghi muffe, vergate di lettere sillabe parole decadute, dissolte in nerofumo cenere pulviscolo, agli ipogei, alle cripte, alle gallerie sotterranee, ai dammusi murati, alle catacombe di libri imbalsamati, agli ossari, allo scuro regno róso, all’imperio ascoso dei sorci delle càmole dei tarli degli argentei pesci nel mar delle pagine dei dorsi dei frontespizi dei risguardi. E ancora alle epoche remote, ai luoghi più profondi e obliati, ai libri sepolti, ai ritoli persi sotto macerie, frane, cretti di fango lave sale, aggrumati, pietrificati sotto dune, interminate sabbie di deserti. (31-32) e si dica se una così torrenziale, rapinosa ossessione lirica possa ragionevolmente legittimare l’evocazione d’una categoria quale quella di narrazione storica (dove non solo l’epiteto, ma perfino il sostantivo dovrebbe indurre la più disarmante perplessità) o il ricorso al tòpos – non si saprebbe se vieto o semplicemente inadeguato – dell’allusorio rimando al contemporaneo mercé investigazione di compagini d’epoca. Non che, beninteso, passione teoretica e tensione morale siano estranee a un’operazione che, come NCC, si coagula tematicamente intorno alla furia irrazionalistica originata dall’avvento del fascismo e sue conseguenze. Certo si è che, ancora una volta, la scrittura par muovere non da giudizio, riflessione o progetto, ma da un tripudio calligrafico supercilioso e innaturale che solo la fermentazione erosiva e autoironica d’un Gadda o d’un Pizzuto, qui fatalmente assente, riuscirebbe a riscattare. Vi è un limite varcato il quale il vortice plurilinguistico e registruale, se non fortemente necessitato, si cristallizza in grammatica, smarrendo ragione e valore. Se infatti in SIM, e più in R, l’elaborazione d’un linguaggio sfarzoso e prestigiosissimo traeva motivo e alimento dall’esigenza mimetica suggerita dall’ambientazione rispettivamente otto- e settecentesca, si stenta a credere che in NCC essa sia semanticamente funzionalizzata, e soprattutto poeticamente restituita. Non si dice della sempre invasiva laboriosità fonoprosodica con forti connotati di autoriflessività (numerose le scansioni versali – le più strutturate in endecasillabi e settenarî –, incalcolabili le serie allitterative e le corrispondenze dei tipi più svariati),28 né degli stratagemmi topologici sovente radicalizzati oltre i limiti del leggibile;29 ma di forzature incongrue quali gl’imperfetti arcaici di 3a e 6a persona («il giovine ch’avea chiesto la sua mano» 46, «già l’avean punita» 87); la preposizione articolata arcaicamente sintetica («sale pel cielo il turbine di lucciole» 5, «ritiro pei padroni alla 28 Qualche esempio: «col traffico di merci, passeggeri / speravan d’accansare qualche cosa» 44; «Partiva in compagnia di tre paesani, / ch’erano accanto con i lor parenti» 45; «del balenar di lini, / trascorrere di lumi» 18; «allo scuro regno róso, all’imperio ascoso» 32; «la condizione al presente della gente» 109; «uose pelose di vacca becco porco» 121; «Batte con la pala mazza alza polverazzo» 156; «oltre l’intrico dei vichi » 166. 29 Inversione del soggetto, posposizione latineggiante del possessivo, dislocazione degli epiteti, enclisi pronominale. Ma soprattutto sinchisi: «Finsero, facendo galoppar scrosciando il cavallino giù per la discesa, d’esser partiti» 20; «dalle polle celesti della Rocca cascando, per inferi canali, per alvei di granito trascorrendo, sotto piani strade bagli case chiese conventi gorgogliando» 104, ecc. ricolta dell’uva» 17) o vezzosamente scissa («danzando su la musica segreta d’ascosi pifferi» 16, «– O casa mia, – gemeva – casa de la dolora, patimento, casa de l’innocenza» 37); i voraci accumuli preposizionali («mesceva svelta ai clienti, quattro o cinque fedeli in su quell’ora» 13); le apocopi sillabiche e vocaliche frequentemente indotte da pervicacia metrico-ritmica: «con il fior l’amore, la passion tremenda» 26 (coppia di senarî), «tirandogli le dita dolcemente, gli fe’ capire di tornare giù» 76 (endecasillabi), «Fu quello l’inizio d’una industria, d’un commercio che gli diè guadagno» 131 (decasillabi). Il comparto lessicale gronda di neoformazioni ardite, dialettalismi, e soprattutto arcaismi brutali, spesso incastrati a forza in contesti prossimi al rigetto.30 6. Salmodiante poème en prose in bilico tra inchiesta antropologica e impetuosa esecrazione della civiltà contemporanea rappresentata al culmine del suo decadimento, OO segna un punto di svolta cruciale nella poetica del prosatore siciliano. Già variamente debilitato nei lavori precedenti, il genere romanzo subisce qui una recisa sconfessione31 a pro d’una corrente elegiaca seducente e poderosa (benché non priva delle escandescenze enfatiche e degli eccessi oratorî resi inevitabili dall’impianto moralistico-sentenzioso), che da un lato dissolve la diegesi in illuminazioni schierate sull’asse unificante dell’invettiva e dell’evocazione nostalgica, dall’altro reprime ogni pulsione sperimentale e ambizione alla differenza. Infiammata da una sincera quanto estrema disperazione politica, la scrittura si svincola dalle strette del virtuosismo ludico che rischiava d’ingolfare, se non impietrire, un modo di formare innegabilmente potente e costruttivo; tuttavia (questo il nodo che l’ultimo Consolo sembra deciso a sciogliere definitivamente), l’ipoteca del manierismo e della faticosità inventiva, seppure in via d’esaurimento, non cessa di gravare su una configurazione espressiva riluttante ad armonizzarsi fuori dalle coordinate formali. Declina ma non s’estingue del tutto il vitalismo fonoprosodico,32 sempre meno assistito da ordigni topologici e machiavellismi dell’ordine retorico, mentre all’esondante concertazione di toni e voci sottentra un flusso monolingue liricizz volute sintattiche amplissime, cantilenanti, quasi ipnotiche nel loro incatenarsi ato da oordinativo: e c Va dentro il frastuono, la ressa, l’anidride, il piombo, lo stridore, le trombe, gli insulti, la teppaglia che caracolla, s’accosta, frantuma il vetro, preme alla tempia la canna agghiacciante, scippa, strappa anelli collane, scappa ridendo nella faccia di ceffo fanciullo, scavalca, s’impenna, zigzaga fra spazi invisibili, vola rombando, dispare. Va lungo la nera scogliera, il cobalto del mare, la palma che s’alza dai muri, la buganvillea, l’agave ch sboccia tra i massi, va sopra l’asfalto in cui sfociano tutti gli asfalti che ripidi scendono dalle falde in cemento del monte, da Cìbali Barriera Canalicchio Novalucello, oltrepassa Ognina, la chiesa, il porto d’Ulisse, coperti 30 Abissitade 6418; covrire 616; màrmore 619 ; murifabbro 16713; omai 267 ; spiro 1481 ; vocare 2723, ecc. 31 Sull’argomento ha riflessioni istruttive Giuliano Gramigna, «Il Giorno», 7 luglio 1976. 32 «scioglie il lamento, il pianto. / Solo può dire intanto» 9; «la statua della Madonna, / alta sopra la colonna» 10; «Fuggono quindi da quella violenza, / da quella^incivile convivenza» 18; «ignara del segno, del presagio, / ignara d’ogni evento, / è ferma a quell’oltraggio» 32; «innocente e sapiente, / la sirena silente» 33; «chiusa fra il mare e la sciara, / assoggettata a una natura avara» 47; «Acitrezza. La Trezza. ’A Trizza, la treccia, l’intreccio» 48, ecc. 19 OBLIO II, 5 da cavalcavie rondò svincoli raccordi motel palazzi – urlano ai margini venditori di pesci, di molluschi di nafta , oltrepassa la rupe e il castello di lava a picco sul mare, giunge al luogo dello stupro (46-47) nte lente i à nte e di parola : spia clamante d’un llarme non ancora completamente scongiurato. * * * CONIAZIONI ORIGINALI o, per un totale sizione occupano un ruolo più che consistente. Si a dalle mere giustapposizioni e grafie sintetiche: ni in brache» e, NCC 14623: «vorticare degli occhi, delle penneluce, dei colori iridati delle ali». ‘Piuma ecchiapregna, FA 3 : «la corriera, la v.». ‘(A forma di) vecchia gravida’ gli incroci più o meno trasparentemente congegnati: monia per fare, infilando o incastronando con l’oro e – All’intensità del nucleo tematico ispiratore («Un viaggio del ritorno in Sicilia, Itaca perduta che diventa metafora dell’Italia»)33 si deve invece l’ancor nutrito continge di arcaismi e poeticismi nell’ordine delle parole, per la prima volta necessitati da cogenti istanze sentimentali. Inversione del soggetto («Stese la regina il drappo rosso» 9, «Va lo smarrito marinaio» 50); iperbato («Il tono scarno e grave, ermetico e do vorrebbe avere d’Ungaretti» 84, «All’angelo ripensò del suo Riposo» 88); legato sostantivo-possessivo-aggettivo («nel corpo suo sereno» 86); dislocazione degli epitet («secco paese povero e obliato» 78, «solitaria villa decaduta» 107); chiasmi: «la citt s’allontana, s’allontana l’isola» 10, «il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato» 31. Cala vertiginosamente, sin quasi ad annullarsi, l’attenzione rivolta al livello fonetico.34 Sintomatica, quanto al lessico, la contrazione dell’attività onomaturgica non disgiunta da un’altrettanto drastica rarefazione del quoziente dialettale, mentre permane inge il sempre più innaturale ricorso a varianti arcaich 35 a Lo scrutinio ha rilevato 57 neologismi presumibilmente attribuibili all’estro consolian di 67 occorrenze così distribuite: 12 in FA, 14 in SIM, 30 in R, 8 in NCC e 3 in OO. Gli accenti, qui e nella sezione dedicata ai Dialettalismi, sono quelli apposti dall’Autore. Una prima classificazione tipologica consente di rilevare l’estrema elementarità delle procedure onomaturgiche, tra cui l’univerbazione e la compo v capochino, SIM 8630: «uomini capochi chivalà, NCC 1626 : «urla comandi c.» gastrosegato, SIM 11327: «la stimma del tuo g., la tacca per la fuga della bile». Gastro (non come primo elemento di composti, ma direttamente dal gr. gastḗr-trós ‘stomaco’) + part. pass. di segare pennaluc lucente’ 7 v a agrimogno, FA 734 : «nespole agrimogne». Agro + asprigno sul modello di acri gargarella, FA 994 : «il rumore dello sguazzo, la g.». Garganella + gargarozzo incastronare, R 1321 : «sciortinavano gli acini o cocci 33 Quarta di copertina. 34 Si registra qualche rarissima apocope vocalica, esclusivamente in posizione preconsonantica: «Seguivan le bambine» 24; «ulular di cani, strider d’uccelli» 115; «all’apparir delle persone» 148. 35 Màcula 8627; murifabbro 692 ; murmure 5017; ordegno 13015; scerpato 8513; umidore 11029; vanella 8822, ecc. 20 OBLIO II, 5 con l’argento, paternostri». Incastonare + incastrare liconario, SIM 1052 : «frate l.». Licantropo + lupunariu o lupunaru (sic.) di egual significato riballo, R 388 : «anfore oriballi». Oro + ariballo ‘vaso greco arcaico’ lle combinazioni di verbo e sostantivo: parginchiostro, FA 10523: «– […] lo s. non è di quella razza». ‘Scrittorucolo’, ‘imbrattacarte’ uanto alla formazione delle parole, mentre ricorrono due soli casi di verbi deaggettivali: fervorare, R 97 : «l’aere sfervora». Dal raro sfervorato ‘che ha perso il fervore’ i registra un folto gruppo di denominali, deverbali – la più parte a suffisso zero – e parasintetici: Lipari il segretario con l’a. di suo padre». Deverbale a suff. zero IM 676 : «s. d’occhi verso l’alto». Deverbale da stralunare ‘strabuzzare’ + suff. -ìo di ramischie». Deverbale a suff. zero dall’arc. tramischiare omboneggiando». Denominale da trombone ‘antica arma da oco a canna corta dalla bocca svasata’ logico tradizionalmente più roduttivo nell’italiano letterario: quello delle forme pre- e suffissali: ontrofascista, FA 1531: «– […] fetente, ch’era c.». Sul modello di controrivoluzionario battuto, R 9614: «– […] strade scognite, imbattute». Da battuto ‘percorso’. ‘Inesplorato’ ntinuativo: tralunìo, cit. opranatura, R 652 : «non d’elementi di natura ma di s.». Sul modello di soprannaturale ltrapassato, R 114 : «statue di cittate ultrapassate» o a spargeveleno, FA 1303 : «– Porco, vipera schifosa, s.!». ‘Seminatore di zizzania’ s Q sciortinare, R 13129 (cfr. incastronare). Dal sic. sciurtiatu ‘assortito’ s s affoco, FA 5513: «faccia d’a.». Deverbale a suff. zero dal sic. affucari ‘uccidere togliendo il respiro’ attizzo, FA 1532: «– […] lo mandò a dal sic. attizzari ‘istigare’, ‘aizzare’ frastuonare, R 5113: «il chiasso che frastuona». Denominale da frastuono ingozzo, FA 10310: «i. di zuccheri e di grassi». Deverbale a suff. zero da ingozzare spiego, SIM 9316: «ali e coda a s. di ventaglio». Deverbale a suff. zero da spiegare ‘distendere’ stralunìo, S continuità tramischio, R 4120: «pietre mischie e t ‘frammischiare’, intensivo di mischio tromboneggiare, R 1053 : «verso il ciel tr fu Ma non è certo un caso che il primato numerico spetti al comparto neo p contro-: c in- negativo: im -ìo intensivo-co s sopra-: s ultra- (= tra-): u -ame collettivo: asciuttame, R 1277 : «a., vino, cenere di soda». ‘Pesce essiccato’ uddano, FA 547 : «– […] punto debole del popolo s.». Da sud. ‘Meridionale’ ista a gia’ avagliante, R 11824: «bravi travaglianti». Dal sic. ṭṛavagghïari ‘lavorare’ enisolare, R 13111: «città p.». Variante di peninsulare tefanaro, NCC 15716: «la giara stefanara […] suona a ogni tocco». ‘Di S. Stefano di Camastra’ asato, R 6811: «un n. fischio». Lo stesso che nasale torture, angeliche muffoliche cuffiesche». Da cuffia del silenzio ‘antico trumento di tortura’ uffolico, SIM 1610 (cfr. cuffiesco). Dal reg. muffole ‘manette’ Isaac Newton ettorino, R 13214: «degli orecchi, del canale p.». Lo stesso che pettorale isfattivo, R 7813: «dolcemente d.». Da disfatto secondo il rapporto di distrutto a distruttivo nicola, R 10919: «anatre, fenicole, calandre». Da fenice o fenic(ottero) , dalle i per tenerezza’. ‘Sdolcinato’, ‘lezioso’ ermoso, SIM 613 : «occhio tondo v.». Da verme era non tollera nel suo seno il r.» . Da stroppio ‘storpio’ midume, SIM 7536: «un tondo nero d’u.» -ano d’appartenenza: s -ante di mestiere e condizione: chitarrante, OO 332 : «avanza […] in mezzo ai chitarranti». Lo stesso che chitarr paonante, R 4311: «spavaldo e p.». Dal sic. paùni ‘p vone’. ‘Che si pavoneg tr -are di relazione: p -aro d’appartenenza: s -ato (=-ale): n -esco derivativo: cuffiesco, SIM 1610: « s -ico d’appartenenza: m -ino alterativo e derivativo: newtoncino, R 14527: «promettente, il n.». Dal cognome del fisico inglese p -ivo di capacità, disposizione: d -olo alterativo: fe -oso di caratterizzazione e abbondanza: gilepposo, FA 10223: «vino g.». Dal sic. ggilippusu. Lo stesso che giulebboso ‘dolciastro’ sdillinchioso, R 1524 : «signore sdillinchiose»; NCC 4927: «– Vai, vai dalle troie di marmo sdillinchiose». Dal sic. sdillinchiari ‘commuovers v -ume collettivo-spregiativo: ribaldume, SIM 11114: «L’Italia Una e Lib sbirrume, NCC 16927: «– […] tutto lo s.» stroppiume, OO 8627: «s., màcule, lordure» u  Se la compagine prevalentemente mimetica del parlato popolare non può non limitare il ricorso alle ngue classiche e moderne: , OO 3323: «la curòtrofa, la madre possente». Dal gr. kourotróphos ‘che nutre, alleva figli, a cui ERI, 1991, pp. 51-52) arfumo, NCC 2516: «il p. suadente». Adatt. del fr. parfum ‘profumo’ onché l’utilizzo di basi arcaiche: a stelle di j.»; R 1359 : «con buchè di rose e di j. in mano». Dall’ant. ginia e pifània di Palermo». Dall’ant. (e dial.) pifanìa ‘epifania’, on accentazione greca (epipháneia) per nui»; NCC 2512: «La pomelia s.». Comp. dell’ant. sur ‘sopra’ e tutto rattutto’ amischio, cit. ltre ai itati affoco, attizzo, gilepposo, liconario, nascare, sciortinare, sdillinchioso e travagliante: o che trafficavano alla macina al rchio alla lumera al fosso». Dal cal. scudillari ‘rompere la schiena’ onclude la rassegna un drappello di neologismi consistenti in minime variazioni morfologiche: ’intestardo a scrivere»; SIM 7614: «– […] m’intestardo a dimorare qua». 1275 : «in magna q.». O da quantità sul modello di cittate e sim. o direttamente dal lat. pallido o s. in cui si presentava questa pietra». Da squallido (ad evitare irginio, R 2420: occhio tondo v.». ‘Virgineo’

DIALETTALISMI
lie , e li curòtrofo giovani’ eurialo, SIM 1033: «Siracusa bianca, euriala e petrosa». Così l’Autore: «Eu, rao, als: luogo d si vede bene il mare» (V. Consolo, La Sicilia passeggiata, Torino, Nuova lecana, R 389 : «coppe pissidi lecane». Dal gr. lēkánē ‘vassoio’, ‘catino’ p n jasmino, SIM 11910: «le spalle iàsemin o iasmin ‘gelsomino’ pifànio, R 2420: «la visione prima, vir c surtutto, R 401 : «– […] s. (fr. surtout). ‘Sop tr il contingente delle invenzioni lessicali riconducibili al dialetto è proporzionalmente notevole. O c scudilliere, NCC 10416: «gli scudillieri bisunti e incappucciati di sacc to C ammenciare, R 2616: «ricordo […] che in un istante s’ammencia». Lo stesso che ammencire intestardarsi, FA 10519: «m Lo stesso che intestardirsi quantitate, R quantitatem realitate, R 497 : «dalla finzione del teatro nella r. della vita». Cfr. quantitate squallo, R 1324 : «nel rosso omoteleuto con «pallido») v Prescindendo dalle voci contenute negli inserti dialogici interamente dialettali, il glossario accog 184 lemmi per un totale di 254 frequenze (54 in FA, 78 in SIM, 48 in R, 59 in NCC, 15 in OO) precisamente: 1 calabresismo e 183 sicilianismi, di cui 59 non sottoposti ad alcuna modifica (segnalati dalla dicitura «sic.») e 124 («dal sic.») foneticamente italianizzati secondo criterî glottotecnici non sempre coerenti e persuasivi, gravando sul dettato l’ipoteca d’un impetuoso 23 OBLIO II, 5 estremismo barocco. Cui saranno da attribuire sia le oscillazioni nel regime dei segnaccenti (càs cascia, cianciàna / cianciana, gèbbia / gébbia / gebbia, nutrìco / nutrico, sipàla / sipala, traz trazzera, viòlo / violo) sia, soprattutto, le flagranti discordanze procedurali in materia di adattamento: si noterà, ad esempio, come l’assimilazione progressiva tipica delle parlate centromeridionali sia sottoposta a normalizzazione in blundo (sic. bblunnu) e smandare (sic. smannari), ma non in abbanniare, banneggiare (rispettivamente dal sic. bbannïari e abbannïari, di identico significato), ciònnolo (sic. ciùnnuli); e come il suffisso meridionale intensivo-continuati -ïari sia regolarmente vòlto in -eggiare nel caso di banneggiare, ma resti pressoché invariato in cia / zèra / vo bbanniare, fanghiare, lampiare, ecc., a testimoniare la vocazione mimetica della lingua consoliana. ri, speravan d’a. qualche cosa». Dal sic. estare’, ‘mollare’. ratu ‘stantio’. ‘Putrefatto’. a. e la buffetta»; armuarro, NCC 12025: «letto comò a.». Dal sic. armuaru o ato’. u ‘lontano’. va ferma per lungo tempo provvisa’. co’. occiola’. nelle, bagli e piani»; OO 13412: «i bagli, le torri merlate». Dal sic. bagghiu somino, b. e viola»; NCC 1267 : «rose bàlichi giaggioli». nneggiava un uomo con la carrettella». Dal sic. bbannïari ‘gettare il aresco’, detto di pecora o montone. ‘abbeveratoio’. za visiera’. a abbanniare, SIM 11412: «il banditore abbanniò». Dal sic. abbannïari ‘gettare il bando’. accalarsi, FA 1326 : «– Chi sta in faccia al mare, prima o poi si deve a., anche col pesce più meschino»; NCC 1429: «La regina col re solo s’accala». Dal sic. accalàrisi ‘piegarsi’. accansare, NCC 447 : «col traffico di merci, passegge accanzari ‘acquistare’, ‘ottenere’, ‘mettere da parte’. acceppare, FA 5316: «Il sorvegliante glien’acceppò una». Dal sic. accippari ‘ass accianza, R 1517: «quell’a. d’oro»; NCC 7423: «una mala a.». Sic. ‘Occasione’. addimorato, SIM 10630: «morti addimorati». Dal sic. addimu anciova, SIM 2723: «sàuri sgombri anciove». Sic. ‘Acciuga’. angarioso, OO 9121: «la soldataglia prepotente e angariosa». Dal sic. angariusu ‘soverchiatore’. armuaro, FA 568 : «l’ armuarru ‘armadio’. arraggiato, SIM 10620: «corvi […] arraggiati in cielo a volteggiare». Dal sic. arraggiatu ‘arrabbi arrasso, FA 1101 : «– […] a. di qua»; R 988 : «a. dalla Milano attiva». Dal sic. arrass arrere, R 6419: «– […] l’ereditò dal padre suo, e così a.». Dal sic. arreri ‘indietro’. attassare, FA 3633: «Il muro era gelato, mi attassava»; NCC 6021: «resta come attassata». Dal sic. attassari ‘gelare’ ‘far agghiacciare il sangue’. attasso, NCC 428 : «nell’a. del cuore». Dal cal. attassu ‘forte paura im babbalèo, SIM 946 : «b., mammolino». Dal sic. bbabbalèu ‘scioc babbaluci, SIM 2913: «asparagi finocchi b.». Sic. ‘Chi babbìa, FA 378 : «pazzia, se non b.». Sic. ‘Stupidità’. baccaglio, NCC 1426: «frasi a parabola, a b.». Dal sic. bbaccagghiu ‘gergo furbesco’. baglio, SIM 3231: «va ‘cortile di una casa’. bajettone, R 12714: «saja di Bologna, b. d’Inghilterra». Dal sic. baiettuni ‘panno da lutto’. bàlico, SIM 6017: «leandro e b.»; R 94 : «gel Dal sic. bbàlicu (o bbarcu) ‘violacciocca’. banneggiare, FA 1147 : «ba bando’ (cfr. abbanniare). barbarisco, R 12712: «lana barbarisca». Dal sic. bbarbariscu ‘barb baviolo, FA 472 : «b. di merletto». Dal sic. bbaviuòlu ‘bavaglino’. beveratura, NCC 10621: «Oltre la b. di porta di Terra». Dal sic. bbiviratura birritta, SIM 894 : «la b. calcata». Sic. ‘Copricapo di stoffa sen blundo, SIM 7036: «testa blunda». Dal sic. bblunnu ‘biondo’. brogna, FA 3315: «suonavano le brogne a tutto fiato»; R 1421 : «suonò la b.». Sic. ‘Buccina’. buatta, FA 5429: «concerto di buatte e di gavette». Sic. ‘Scatola di latta per conserve alimentari’. buffetta, FA 4134: «preparava la b.»; SIM 1315: «appoggiò le braccia sopra la b.»; R 6326: «sopra ’na b. dispose del formaggio»; NCC 1313: «i litri e le gazzose alle buffette». Sic. ‘Tavola da pranzo’, lia) ‘la carne del tonno vicina all’addome o alla lisca centrale, di colore scuro …] e ordinò agli altri di farsi di lato». Dal sic. botti barilotti»; NCC 1047 : «i cafìsi di vergine». Dal sic. cafìsu etteratura, traduzione. 9). sic. a cangiu ‘in luogo di’. 282 : «l’altri dua di fora, uno a cavallo come c.». Dal sic. capurrètina ‘guida’, ino’. ‘Panno cremisi’. acellaio’. ti, a scossoni della c.». Sic. dio a muro’. re’. io di tessere che invadeva il c. dentro la fortezza del suo Duomo». Sic. (e ‘tavolo rustico da cucina’. burnìa, SIM 318: «unguentarî alberelli scatole burnìe». Sic. ‘Vaso di terracotta’. buzzonaglia, SIM 316 : «– […] ficazza, lattume e b.». Dal sic. bbuzzunagghia (bbuzzinagghja, bbusunagghja, bbusunàg e qualità poco pregiata’. cacocciola, FA 4414: «fece uno che pareva c. [ cacòcciula ‘carciofo’; qui ‘capobanda’ (fig.). cafìso, SIM 10532: «coffe cafìsi ‘misura da olio’, ‘brocchetta’. calacàusi, SIM 385 : «– […] un imbecille o c.». Sic. ‘Calabrache’. calasìa, SIM 948 : «– […] presciutto tesoro c.». Sic. ‘Bellezza’. «Un giorno mi ha telefonato un dialettologo dell’Università di Catania e mi ha chiesto dove avessi preso la parola calasìa che nei vocabolari siciliani non esiste. Gli ho risposto: è semplice, viene dal greco kalòs che vuol dire bello. Calasìa significa bellezza, come si dice nella mia zona che è greco-bizantina» (V. Consolo, intervista con Sergio Buonadonna, «Repubblica», 12 giugno 2011). Il dialettologo era S. C. Trovato, che così nota: «Si tratta sicuramente di una parola del lessico familiare dello scrittore, che non ha riscontri lessicografici nel siciliano, né, in quanto non improbabile grecismo (> kalós + suff., probabilmente sul modello di gherousía), nelle parlate della vicina Calabria» (Italiano regionale, l Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Enna, Euno Edizioni, 2011, p. 31 càlia, NCC 12717: «andando per la c., per i gelati». Sic. ‘Ceci abbrustoliti’. cangio (a), FA 2215: «– […] la maestra a c. dell’avvocato». Dal caniglia, SIM 5912: «cenere e c.». Dal sic. canigghia ‘crusca’. caporedina, R ‘mulattiere’. carbàno, SIM 421 : «– Carbàni e montanari!». Dal sic. carbànu ‘zotico’. carcarazza, SIM 1073 : «corvi e carcarazze». Sic. ‘Gazza’, ‘cornacchia’. carmiscìna, R 12712: «raso di Firenze, c., orbàci». Dal sic. carmuscinu ‘chermis carnezziere, SIM 2910: «lo c., il pescivendolo». Dal sic. carnizzèri ‘m carruggio, OO 7214: «carruggi, cortili». Dal sic. carruggiu ‘vicolo’. càscia, SIM 10530: «ossa càscie crozze»; cascia, R 1014: «piansi a singul ‘Cassa da morto’ nel primo caso, ‘petto’ (‘cassa toracica’) nel secondo. casèna, R 6415: «– Qua, per intanto, nella mia c.». Sic. ‘Piccolo arma cassariota, R 1023: «magàra, cassariota». Sic. ‘Donna di malaffa catanonno, NCC 4228: «Saliba la catanonna». Sic. ‘Bisnonno’. catarratto, R 1205 : «vino d’inzòlia e c.». Dal sic. catarrattu ‘uva da mosto’. cato, FA 325: «correvo col c. alla fontana»; SIM 11012: «cati e lemmi»; R 321 : «nel concavo del c.»; NCC 383 : «l’immenso d panmerid.). ‘Secchio’. catoio, FA 6823: «la fila di catoi e magazzeni»; SIM 1064 : «pozzo, sarcofago o c.»; NCC 519: «spenti 25 OBLIO II, 5 catoi melanconici»; OO 918: «dammusi, catoi murati». Dal sic. catuju o catoju ‘stanza sotterranea o grottesco, logorò le lettere». 127: «si mutavano in carbone, c.». Dal sic. cinisa . ciràulu ‘imbroglione’. r di : «col suono sordo delle lor cianciàne»; NCC 1711: «tintinnar di a pesca’. ‘rana’. arùni ‘tazzone’. ie sotterranee, ai dammusi ell’impasto. Fanghìa principiando a caso». Dal racotta’. fardali ‘grembiale’. Dal sic. fezzaru a e ssa ad asciugare in ambiente arieggiato» (http://www.divinocibo.it/cibo/301/ficazza-dito!»; NCC 12918: «– Che culo, ’sto g., ’sto CC »; gèbbia, OO 2421: «Tra sènie e gèbbie». Sic. ‘Cisterna per conservare terrena’, ‘stambugio’. catùso, SIM 11811: «pioggia di secoli che, cadendo a perpendicolo da c. Dal sic. catùsu ‘grondaia’, ‘canaletta per lo sfogo delle acque piovane’. cenisa, R 7229: «il crine sciolto o di c. sparso»; OO 4 ‘carbonella’ (cfr. il nap. cenisa ‘cenere’). ‘Cenere’. ceraolo, R 1024: «quella ceraola, quella vecchia bagascia». Dal sic chianca, NCC 10722: «forni, chianche, saloni». Sic. ‘Macelleria’. cianciana, FA 982 : «parte con un balzo tra lo scroscio di cianciane»; SIM 8621: «allegro tintinna ciancianelle»; cianciàna, R 168 ciancianelle». Sic. ‘Sonaglio’. cianciòlo, SIM 7913: «stendevano il c. sulla ghiaia». Dal sic. cianciuòlu ‘rete d ciarana, FA 11432: «i granchi e le ciarane». Dal sic. ciranna o cirana cicarone, SIM 11918: «scifi e cicaroni». Dal sic. cic cinìsa, SIM 10532: «c., bragia e tizzi». Cfr. cenisa. cinisia, FA 13133: «la brace accesa sotto la c.». Cfr. cenisa. ciònnolo, FA 13130: «– Ciònnoli e muletti». Dal sic. ciùnnuli ‘ornamenti’. cisca, R 6325: «le cische con il latte». Dal sic. çisca ‘secchia da mungere’. criato, SIM 826: «il c. era appena giunto». Dal sic. criatu ‘domestico’, ‘inserviente’. crozza, FA 11514: «la c. bianca e gli ossi in croce»; SIM 10531: cfr. càscia. Sic. ‘Teschio’. dammuso, FA 732 : «La conca s’appende nel d.»; NCC 321 : «alle galler murati»; OO 918: cfr. catoio. Dal sic. dammùsu ‘stanza a pianterreno’. fanghiare, NCC 1568 : «È il momento dell’acqua e d sic. fanghïari ‘vangare’. ‘Mescolare con una pala’. fangotto, NCC 15523: «Dal fango nasce ogni f.». Dal sic. fangottu ‘piatto di ter fanniente (don), NCC 1676 : «– sti don f.». Dal sic. don fannenti ‘fannullone’. fardale, FA 9226: «le mani […] nascoste nel f.». Dal sic. fezza, SIM 10633: «fezze, sughi, chiazze». Sic. ‘Feccia’. fezzaro, NCC 1049 : «l’olio d’inferno che prendevano i fezzari pel sapone». ‘raccoglitore di feccia d’olio per farne sapone o combustibile da lampada’. ficazza, SIM 315 : cfr. buzzonaglia. Sic. «Insaccato di carne di tonno tritata, salata e fortemente pepata’ (S. C. Trovato, Lessico settoriale, regionale e traduzione. A proposito del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo, Atti del Convegno su L’Italia dei dialetti, a cura di Gianna Marcato, Sappada\Plodn, 27 giugno-1 luglio 2007, Padova, Unipress, 2008, pp. 403-411). «La ficazza viene preparata con la parte del tonno che, dopo la sfilettatura, resta attaccata alla lisca. Separata con cura, l carne del tonno viene poi macinata e condita con sale e pepe, ed insaccata nel budello, proprio com un classico salame di carne. Dopo una pressatura che dura circa tre settimane, la ficazza di tonno viene me tonno/). frascarolo, NCC 1576 : «Giunge il f. dai boschi». Dal sic. frascarolu ‘chi raccoglie legna’. garruso, SIM 9412: «– Garrusello e figlio di g. allettera fascista!». Dal sic. garrùsu ‘pederasta’, ‘mascalzone’. gebbia, FA 2819: «Andammo fino alla g.»; R 8819: «la grande g. ove natavano pesci»; gébbia, N 134 : «i limi delle gébbie 26  l’acqua d’irrigazione’. gerbo, SIM 9314: «fiori gialli del ficodindia g.». Dal sic. gerbu ‘acerbo’, ‘non maturo’. 127: «le giummare dello Zingaro, gli eucalipti». Sic. ‘Foglia di cerfreglione’, ‘palma tipatico’. «la g. tonda smozzicata»; NCC 604: «guastelle di pane». Dal sic. guastedda uscolò per tutto il corpo». Dal sic. ammusculari o mmusculari Peppe, ostia, mi pare che qua l’i. ci pigliammo!». Dal sic. mprusatura a Piluchera con cui s’era intrezzato fortemente». ‘tribolare’. rtara». Dal sic. lemmu ‘catino’, ‘secchio’, ‘vaso di are’, ‘allegare’, ‘passare dallo stato di o, a il l.». Dal sic. lupunariu ‘licantropo’. cotta smaltata’. . ana ‘dolce di «mascarata di fuoco e di oro». Dal sic. mascaratu ‘persona vestita in maschera tasi corre impazzita»; R 1229: «la m. poi in quel budello». Dal gilecco, NCC 5818: «il g. di fustagno». Dal sic. ggileccu ‘panciotto’. giummara, R 10116: «il seccume di spighe e di giummare»; NCC 722 : «verde di ficodindia g. euforbia»; OO 4 nana’, ‘agave’. grevio, R 4111: «il prete g., untuoso». Dal sic. greviu ‘grave’, ‘pesante’, ‘an guaiana, SIM 9215: «cogliere la g. della fava». Dal sic. vaiana ‘baccello’. guastella, SIM 2826: ‘specie di focaccia’. guglielma, FA 1431: «tirò fuori il pettinino e si rifece la g.». Sic. ‘Ciuffo’. immuscolarsi, NCC 776 : «s’imm ‘aggrovigliarsi’, ‘attorcigliarsi’. improsatura, FA 4019: «– Don ‘bidone’, ‘inganno’, ‘raggiro’. intinagliare, R 13129: «perciavano, intinagliavano». Dal sic. ntinagghiari ‘attanagliare’. intrezzarsi, NCC 13513: «Petro fumava nel letto dell Dal sic. ntrizzari ‘intrecciare’, ‘legare strettamente’. jisso, SIM 11836: «le pareti […] levigate a malta, j.». Dal sic. jissu ‘gesso’. lampiare, FA 7927: «lampiò un orologio d’oro». Dal sic. lampïari ‘lampeggiare’, ‘scintillare’. làstima, SIM 4234: «– Scrive in particolare delle làstime e delle sofferenze». Sic. ‘Lamento’. lastimare, SIM 884 : «– Animo, Sirna, finimmo il l.!». Dal sic. lastimari ‘lamentarsi’, lattume, SIM 316 : cfr. buzzonaglia. Dal sic. lattumi ‘ghiandola seminale del tonno’. lemmo, FA 639 : «i piatti dentro il l.»; SIM 932: «piatti lemmi e mafaràte»; R 778 : «– […] un l. pieno d’acqua»; NCC 15524: «mafàra l. bòmbolo qua terracotta smaltata a forma di tronco di cono’. liare, R 913: «Lia che m’ha liato la vita». Dal sic. lïari ‘matur fiore a quello di frutto’; ma anche denominale da (Rosa)lia. lippo, R 919: «l. dell’alma mia»; OO 9222: «grommi, lippi». Dal sic. lippu ‘sporcizia’, ‘untume’. luponario, FA 6413: «irruppe nella stanza come un l.»; R 1915: «balzai all’impiedi come un ossess un l.»; NCC 71 : «Di là della tonnara muoveva or mafàra, NCC 15524: cfr. lemmo. Sic. ‘Tappo’. mafaràta, SIM 932: cfr. lemmo. Sic. ‘Grande piatto concavo di terra magàra, R 1023: cfr. cassarioto. Sic. ‘Megera’, ‘donna immorale’. malannata, FA 3227: «scampati a sette malannate». Sic. ‘Anno di carestia, di cattivo raccolto’. male catubbo, NCC 1011: «– […] ti salvi dal male mio c.». Dal sic. mali catubbu ‘mal caduco’. marranzano, SIM 8621: «basso mormorar di marranzani». Dal sic. marranzanu ‘scacciapensieri’ martorana (pasta), R 1012: «pasta m. fatta carne». Dal sic. pasta (o frutta) martur mandorla in forma di frutta varia, confezionato specialmente nel mese d’ottobre’. mascarato, FA 907 : con colori vistosi’. mascata, FA 112 : «pacche e mascate». Sic. ‘Schiaffo’. massacanaglia, FA 432: «La m. dei bas 27  sic. mazzacanàgghia ‘orda’, ‘branco’. matre, FA 798 : «patre e m.»; R 1421: «e la matrazza a dire». Dal sic. maṭṛi ‘madre’. Mammella’. llo mozzo’. e dei nipoti’. pet ; nutrico, NCC 8723: «come un n. che non si oglitori correvano col p.»; NCC 10316: «mettere nel p. le giarraffe». Sic. (e era’. al sic. pasturìa ‘pane di Pasqua con uova sode’. perciato dalle stelle»; OO 8821: «La Mastra Rua era perciata da CC 1414: «la vera p., da sempre di casa in casa a fare crocchie». Sic. ‘Parrucchiera a ] una saccoccia di rena asciutta dalla p.»; SIM 795 : «E s’udivano i rumori sulla a a la p.»; SIM 1311: «fermarsi a la p.»; NCC 1364 : «davanti alla p.». Dal sic. FA 731 : «Primavera prescialora che non lascia di dire è cominciata». Dal sic. prescialòru che’. ola brocca’. 1722: «– […] marmi policromi, a mischio, r. e tramischio». Dal sic. rrabbiscu fiore a r. sopra l’albero». Dal sic. a rringu ‘a occhio’. ‘Senza l’aiuto ddi rrizza menna, FA 531: «gonfiano le menne». Sic. (e panmerid.). ‘ mèusa, R 1511: «mèuse, arrosti di stigliole». Sic. ‘Milza’. mozzone, SIM 10736: «quartarella o m.». Dal sic. muzzuni ‘brocca di terracotta dal co nipotanza, SIM 728 : «figlioli e nipotanze». Dal sic. niputanza ‘l’insiem nascare, SIM 9321: «nascando in aria». Dal sic. naschïari ‘annusare’. nucàtolo, SIM 197 : «biscotti […], nucàtoli». Dal sic. nucàtulu ‘dolce natalizio’. nutrìco, SIM 831: «– […] attaccato al to come un n.?» stacca dal latte nella poppa». Dal sic. nuṭṛìcu ‘lattante’. ortilizio, SIM 1526: «produzioni ortilizie». Dal sic. ortilìzziu o ortalìzziu ‘coltura ortiva’. panaro, FA 13630: «i c panmerid.). ‘Paniere’. panzéra, FA 9434: «una larga cintura di cuoio come una p.». Sic. (e panmerid.). ‘Panc paràngolo, SIM 7913: «dipanavano il p.». Dal sic. paràngulu ‘attrezzo per la pesca’. paranzo, R 12417: «il carraio ci procurò un p.». Dal sic. paranzu ‘tipo di imbarcazione’. pastorìa, FA 1063 : «un mostacciolo, poi na p.». D patre, FA 798 : cfr. matre. Dal sic. paṭṛi ‘padre’. perciare, SIM 8011: «l’orecchino di metallo che gli perciava il lobo»; R 13129: «polivano, perciavano»; NCC 13922: «il cielo rocchi». Dal sic. pirciari ‘forare’. piluchera, N domicilio’. pirrera, NCC 1564 : «Va nella p., nei cunicoli». Sic. ‘Cava’, ‘pietraia’. plaia, FA 2934: «– [… p.». Sic. ‘Spiaggia’. portiniere, FA 10719: «suora portiniera». Dal sic. purtinèri ‘portiere’, ‘guardiano’. potìa, FA 1335 : «la bevut putìa ‘osteria’. prescialoro, ‘frettoloso’. puranco, R 2921: «p. la famiglia di Fauno […] si è pietrificata». Dal sic. puranchi ‘an quartara, SIM 10736: cfr. mozzone; NCC 15524: cfr. lemmo. Sic. ‘Picc ràbato, OO 1294 : «di mercati, di ràbati». Dal sic. ràbbatu ‘sobborgo’. rabisco, SIM ‘arabesco’. ràiso, SIM 1034: «Palermo rossa, ràisa, palmosa». Dal sic. rràisi ‘capo, chi comanda, dirige o guida’. ringo (a), FA 7512: «si compra il di strumenti di misura appositi’. rizza, SIM 3234: «riparare rizzelle e nasse». Sic. ‘Rete da pesca’. rizzo, FA 727: «fanno la pelle rizza»; SIM 3627: «Nel porto fatto r. per il vento». Dal sic. pe ‘pelle d’oca’ nel primo caso; ‘increspato’ nel secondo (in riferimento all’acqua del porto). 28 ròtola, R 693 : «rompendo la cagliata con la r.»; NCC 7111: «tra cazza r. fiscelle». Dal sic. rròtula cagliata durante la 0510: «e tiravano innanti a santioni». : «Nell tro l’altro». Sic. (e panmerid.). ‘Piccone’, cutulari . S.»; OO 2421: cfr. gèbbia. 2 e sipale». Sic. e’, solitudine’. av . tabbùtu ‘cassa un barbecue’. ‘bastone con all’estremità inferiore un dischetto di legno, usato per frantumare la lavorazione del formaggio’. 29 rua, R 133 : «passeggiare nella r.». Sic. rua ‘vicolo nel paese, rione, vicinato’. santiare, SIM 8726: «sputi, lazzi, turco s.». Dal sic. santïari ‘bestemmiare’. santione, FA 348 : «Ma era un’abitudine, come i santioni»; SIM 1 Dal sic. santiuni ‘bestemmia’. 35 sardisco, SIM 66 : «ragli di s.». Dal sic. sardiscu ‘asino sardo’. 9 scapozzatore, OO 138 : «scapozzatori di gamberi». Dal sic. scapuzzaturi ‘chi leva la testa ai pesci’. scattìo, FA 12429 o s. del caldo delle due». Dal sic. scattìu ‘l’ora più assolata’. scecco, SIM 10433: «scecchi in groppa»; R 1319: «– […] carico come uno s. di Pantelleria». Dal sic. sceccu ‘asino’. sciamarra, SIM 854 : «dava forte con la sua s., un colpo die ‘vanga’. 17 sciarmère, R 53 : «sciarmèri e questuanti». Sic. ‘Mago’. sciume, R 472 : «sciumi trasparenti». Dal sic. çiumi ‘fiume’. scognito, R 9614: «– […] strade scognite, imbattute»; NCC 15514: «Altra gente scognita». Dal sic. scògnitu ‘sconosciuto’. scotolare, NCC 571 : «un colpo secco di mortaro che scotolò la terra». Dal sic. (e panmerid.) s ‘scuotere’. scrèpia, R 13717: «roselline della s.»; NCC 1205 : «la s. e la menta». Sic. ‘Fior di cera (pianta rampicante delle Asclepiadacee)’. sènia, SIM 8528: «cigolar di secchia della s.»; NCC 3825: «Terra. Pietra Sic. ‘Specie di noria’. sgrigna, FA 56 0 : «tirava sgrigne soffocate». Sic. ‘Ghigno’, ‘ringhio’. sipàla, SIM 9314: «faceva capolino una s.»; sipala, NCC 4624: «il muro la torre l ‘Siepe’. smandare, FA 617: «smandò quei due a casa». Dal sic. smannari ‘allontanare’. smorfiarsi, FA 10421: «Smorfiandosi tutta sulle scarpe alte». Dal sic. smurfïàrisi ‘fare smorfi ‘gongolare’, ‘fare lo smorfioso’. 24 solità, SIM 67 : «– S. e privazioni gli hanno fottuto la ragione». Dal sic. sulità ‘ 1 sosizza, R 95 : «sosizze, fellata, soppressata». Sic. ‘Salsiccia’. 7 spanto, FA 98 : «non c’era s. poi che s’affacciava». Dal sic. spantu ‘spavento’. 27 spetittato, SIM 43 : «s., non ha voglia di niente». Dal sic. spitittàtu ‘inappetente’. sticchio, SIM 5910: «per paura di s. romito e santo». Dal sic. stìcchiu ‘vulva’. stracangiare, FA 222 : «tutto stracangiato»; SIM 6219: «– Ha stracangiato l’acqua nell’aceto!»; NCC 7822: «si ritrov a stracangiato». Dal sic. ṣṭṛacangiari (ṣṭṛacanciari) ‘trasformare’. tabuto, FA 2127: «Tano era vicino al t.»; SIM 6434: «un t. di tavole bianche». Dal sic da morto’. 31 tallarida, SIM 64 : «volo di tallaride tra colonne». Dal sic. taddarìta ‘pipistrello’. 4 tangeloso, NCC 135 : «tempo t. dell’infanzia». Dal sic. tangilùsu ‘fragile’, ‘delicato’. 17 tannura, NCC 106 : «sventagliava nel buco della t.». Sic. ‘Fornello simile a taratuffolo, NCC 603 : «funghi taratuffoli». Dal sic. taratùffulu ‘tartufo’. 29  30 rida. 857 : «pane t. e acqua»; NCC 7117: «un pane duro e un pezzo di t.». Dal sic. tumazzu , NCC 16417: «discese alla t.»; OO 514 : tre’. 13: «il v. che saliva serpeggiando»; OO in cima agli spuntoni del recinto dello z.». Dal sic. zàccanu ‘luogo dove si a palma nana’. zotta, SIM 8118: «con schiocchi in aria di z.»; R 166 : «schioccò pigro la z.». Sic. ‘Sferza’. tarderita, NCC 474 : «volo avvolgente delle tarderite». Variante di talla timpa, SIM 9213: «deviavano ogni tanto s’una t.». Sic. ‘Erta scoscesa’. tinchitè (a), R 15113: «cibarie sopraffine a t.». Sic. ‘A profusione’, ‘senza limite’. tomazzo, SIM ‘formaggio’. travagliare, FA 1292 : «– […] se ne vanno a t.». Dal sic. ṭṛavagghïari ‘lavorare’. trazzèra, SIM 6231: «– Sulla t. ebbe la visione»; trazzera «vanno per viottole, trazzere». Sic. ‘Sentiero campes trìscia, R 10914: «poseidonie e trìscie». Sic. ‘Alga’. truscia, SIM 877 : «raccolse la t.». Sic. ‘Fagotto’, ‘pacco con la colazione’. tuma, R 6327: «una forma di t. o fresco pecorino». Sic. ‘Cacio fresco non salato’. vèrtola, NCC 5821: «mise nelle vèrtole […] i caciocavalli». Sic. (e panmerid.). ‘Bisaccia’. viòlo, SIM 878 : «a precipizio giù per il v.»; violo, NCC 10 9216: «Scese la brigata per il v.». Dal sic. viòlu ‘viottolo’. vròccolo, NCC 1197 : «cardi vròccoli finocchi». Dal sic. vruòcculu ‘broccolo’, ‘cavolfiore’. zàccano, NCC 5718: « ricoverano le bestie’. zafarano, R 956 : «odor di z.». Dal sic. zafaranu ‘zafferano’. zammara, FA 5934: «buttarsi dietro un piede di z.». Dal sic. zzammàra ‘foglia dell zammù, SIM 1313: «una spruzzatina di z.»; NCC 1319: «acqua e z.». Sic. ‘Anice’
zotta, SIM 8118: «con schiocchi in aria di z.»; R 166 : «schioccò pigro la z.». Sic. ‘Sferza’.
Oblio Roma 15 gennaio 2012

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana

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Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009

1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto

Estratto.

Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo”  da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo  e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini  La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .

Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano

VINCENZO CONSOLO

“Al Señor Antonio Veneziani. Señor mio: dichiaro alla Signoria Vostra, come cristiano, che sono tante le fantasticherie che mi affaticano, che non mi hanno permesso di portare a compimento come volevo questi versi che Le invio, in segno del desiderio che ho di servirla, già che questo mi ha indotto a far vedere così presto i difetti del mio ingegno, fiducioso che l’alto ingegno della Signoria vostra accoglierà le mie scuse e mi animerà affinché in tempi più tranquilli non tralasci di celebrare come potrò il cielo che così tristemente la trattiene su questa terra, dalla quale ci liberi Dio, e la porti in quella dove vive la vostra Celia.
Ad Algeri, il 6 Novembre del 1579 Della Signoria Vostra vero amico e servitore. Miguel de Cervantes”. Questa lettera e le ottave a Antonio Veneziano, che essa accompagna, furono scoperte nel 1914, nella Biblioteca Nazionale di Palermo, dal professore Eugenio Mele. Lettera e versi entrarono quindi nelle Obras completas di Cervantes, a cura di Rodolfo Schevill e Adolfo Bonilla (Madrid, 1914-31). Questi alcuni versi delle Ottave a Antonio Veneziano: “Il cielo, che contempla il vostro ingegno, ha voluto impiegarvi in queste cose, e segue i vostri passi perché aspira a innalzarvi, per Celia, sino al cielo: (…)
Mi sorprende veder che quel divino ciel di Celia nasconde un vero inferno, e che la forza della sua potenza vi abbia costretto a piangere e a pensare”. Chi era Antonio Veneziano a cui Cervantes indirizza quella lettera, piena di formale deferenza ma venata d’ironia, e le Ottave? el 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il 3º centenario della sua morte. Scrive il bibliotecario della Società Giuseppe Lodi: “Di Antonio Veneziano, l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI, ricorreva nell’Agosto del 1893 il terzo centenario della morte, avvenuta per lo scoppio di una polveriera, mentr’egli era detenuto entro il forte di Castellamare. La ricorrenza di questo avvenimento non potea lasciarsi passare inosservata da una Società, come la nostra, la quale (…) non trascura, all’occorrenza di tener desti con solenni commemorazioni l’amore e la riverenza per quanti hanno onorato con il loro ingegno e le loro opere questa non infima parte d’Italia, questa nostra prediletta Sicilia”. C’era spesso nei membri di quelle Società o Accademie un po’ di ampollosità, un po’ di retorica. Retorica non vi è invece in uno scienziato, un demopsicologo o etnologo: Giuseppe Pitré. Scrive nel fascicolo: “io imposi a me stesso l’assoluto silenzio sulla sua vita. Me lo imposi, non per manco di ammirazione per l’illustre poeta, ma per la ferma convinzione ch’ebbi sempre, ed ora più che mai ho, delle inesattezze e, lo dico senza reticenze, dei grossi errori che sono stati scritti su di lui”. Grossi errori, come afferma il Pitré, nati dalla leggenda popolare in cui il Veneziano era stato avvolto, a cui venivano attribuite vicende, spesso fantastiche o surreali, e rime che erano spesso di malaccorti epigoni. Un altro scritto del fascicolo è del monrealese canonico Gaetano Millunzi. Che stende la prima documentata biografi a del Veneziano. Il poeta nasce nel 1543 da una ricca famiglia di origine veneziana, come denuncia il cognome, ma che è ben assestata, già dal Quattrocento, in quel di Monreale, all’ombra della gran cattedrale dei re normanni. Il padre, Antonio, mastro notaro della Curia e pretore, ebbe ben tre mogli, un figlio dalla prima moglie, uno dalla seconda, e ben sette dalla terza, di nome Allegranza Azolina. Antonello, detto Antonio dopo la morte del padre, era il terzo di quest’ultima nidiata. Ancora nella prima adolescenza fu mandato a Palermo per studiare nel collegio dei Gesuiti, quindi a Messina e infine a Roma. È un periodo, questo del Veneziano, di severi studi: di filosofia e teologia, di lingua e letteratura italiana, latina, greca, ebraica. Nel Collegio Romano ha come professore Francesco Toleto, il quale, oltre a insegnare la filosofi a tomista, inizia gli allievi agli studi di giurisprudenza. Studi che saranno utili al Veneziano quando, lasciata la Compagnia di Gesù, ritorna a Monreale e inizia tutta una serie di cause civili contro fratelli e parenti per la divisione della roba, dell’eredità paterna; e cause penali perché accusato non solo dell’omicidio di un tal Polizzi, ma anche del rapimento di Franceschella Porretta, serva della terziaria domenicana suor Eufrigenia Diana. Per questo rapimento la madre lo disereda perché “figlio disubbidiente”, come scrive nel testamento. “Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano”. Scrive del Veneziano Leonardo Sciascia1. E pensa Sciascia, che questo carattere, questo maledettismo del poeta siano stati una reazione alle costrizioni dell’educazione gesuitica. E, malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive, il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire anonime
affisse sui muri. Sospettato quale autore di una di queste satire, un cartello, “appizzato alla cantonera di don Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni”, contro il viceré conte di Albadeliste, definito uomo “fatale”, vale a dire jettatore, fi nisce nel carcere di Castellamare. Nell’educazione presso i Gesuiti, nell’accusa di omicidio, nella cultura e nelle composizioni poetiche per gli archi di trionfo, nel 1 Sciascia, L. (1967): “Introduzione a Antonio Veneziano”, Ottave, Einaudi: Milano. continuo assillo per le difficoltà economiche, nei disordini della famiglia paterna, nella varie incarcerazioni infine, non possiamo non vedere una curiosa specularità tra la vita di Cervantes e quella di Antonio Veneziano. Specularità che poi diviene immedesimazione nella comune condizione di schiavi nei bagni di Algeri. Il 1574 è l’anno in cui il Veneziano fa donazione di tutti i suoi beni ad Eufemia de Calogero, figlia di sua sorella Vincenza, la quale Eufemia è obbligata per contratto e rimanere nubile e a non farsi monaca. Questa donazione ha fatto sorgere il sospetto che ad Eufemia, la nipote, fossero indirizzate canzoni d’amore della Celia, che fosse insomma, quella di Veneziano, una passione disdicevole, vergognosa. Canta:

“Donna d’auti biddizzi fatta ‘n Celu,

mandata pri ricchezza e gloria in terra,

cu l’occhi toi lu diu di l’aureu telu

fa quasi all’universu ingiuria e guerra;

si sa quanta npi tia m’ardu e querelu,

tempra, si poi, st’arduri chi m’atterra,

ch’in tanta estrema dogghia, affannu e jelu

non dura lungamente omo di terra”.

Il 25 aprile 1578, Veneziano s’imbarca a Palermo sulla galea Sant’Angelo, al seguito di don Carlo d’Aragona, imbarcato a sua volta sulla galea detta Capitana. Al largo di Capri, vengono assalite, le due navi, da galee corsare. La Capitana riesce a fuggire, la Sant’Angelo viene bloccata dai corsari. “Gagliardamente si combatte con mortalità d’entrambe le parti, ma arrivate dopo l’altre da fianchi, dandoli un terribile assalto di saette, e d’archibugiate, furono astretti li difensori a buttare l’armi, a rendersi vivi”. Scrive il monaco cassinese Giovanni Tornamira. Antonio Veneziano viene dunque preso, insieme ad altri, chierici e frati soprattutto, e portato schiavo in Algeri. “Cervantes si trovava schiavo in Algeri da tre anni. Può darsi avesse già conosciuto il Veneziano durante il suo soggiorno a Palermo, nel 1574; certo è che ad Algeri si trovarono (o si ritrovarono) e che tra loro nacque una qualche dimestichezza e un rapporto di reciproca estimazione letteraria, se non di amicizia”. Scrive ancora Sciascia. Ne La nenia così lamenta il Veneziano: “…

l’alma in Sicilia,
già temp’è cattiva,
in manu de la diva,
cinta di forti amurusa catina,
… e lu corpu in Algeri,
fattu di genti barbara suggettu
chì, di lu gran rispettu
di stà partenza e di gran pinseri
acerbamente offi su
era lu cori esanimatu estisu”.

“Ai primi di settembre (1575) Cervantes, soldato aventajado (scelto), s’imbarca a Napoli sulla galera El Sol. Comandata da don Gaspar Pedro de Villena, questa era una delle quattro navi costituenti la piccola fl otta agli ordini di don Sancho de Leiva, che si disponevano a fare rotta per Barcellona (…) Assieme a Miguel, salgono a bordo, oltre al fratello Rodrigo e a qualche loro amico, diverse personalità di rilievo. (…) In capo a qualche giorno la tempesta disperde le galere. Tre di esse riusciranno infi ne ad arrivare in porto; ma l’ultima, El Sol, sarà sorpresa dai corsari barbareschi, e i suoi passeggeri condotti come prigionieri ad Algeri”. Così racconta Jean Canavaggio2 in Cervantes. In questo assalto dei corsari avrà provato, il futuro autore del Don Chisciotte, le stesse ansie, le stesse paure dell’archibugiere Miguel de Cervantes imbarcato sulla Marquesa in quel 7 ottobre del 1571; ma avrà dimostrato lo stesso coraggio, coraggio che allora, nella battaglia di Lepanto, gli costò la perdita della mano sinistra. Sulla mano perduta, così risponderà al falso Avellaneda, l’autore della seconda parte apocrifa del Don Chisciotte, il quale l’accusa d’essere vecchio e monco e quindi incapace di scrivere la seconda parte del suo romanzo: “Ciò di cui non ho potuto fare a meno di dolermi è che mi si accusi d’esser vecchio e monco, come se fosse stato in mio po-
2 CANAVAGGIO, J. (1986): Cervantes, biographie, Mazarine: Paris.

tere fermare il tempo perché non passasse per me, o come se l’esser monco, mi fosse stato cagionato in qualche bettola e non nella più illustre battaglia che abbiano visto i secoli passati e i presenti…”. È il rinnegato albanese Arnaut Mami che porta schiavo in Algeri Cervantes e i suoi compagni. Miguel ha solo ventotto anni quando è portato in catene ai bagni. Ci dice, Cervantes, di questa sua cattività durata cinque anni, nel racconto del Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte, nelle commedie La vita ad Algeri e I bagni di Algeri. Ma una notizia della prigionia di Cervantes ce la dà l’inquisitore di Sicilia, e quindi arcivescovo di Palermo e presidente del Regno di Sicilia, Diego de Haedo, autore della Topographia e Historia general de Argel (Valladolid, 1612). L’Haedo, raccogliendo notizie dagli schiavi cristiani riscattati, ci racconta tutto su Algeri, sui corsari, sui cristiani là prigionieri. Nel Dialogo secundo, il prigioniero capitan Geronimo Ramirez racconta al dottor Sosa del fallito tentativo di fuga da Algeri di Cervantes per il tradimento di un rinnegato di Melilla soprannominato El Dorador, dice che i turchi presero tutti i cristiani che stavano per fuggire, “y particolarmente a Miguel Cervantes, un hidalgo principal de Halcalà Henares, que fuera el autor deste negozio y era portanto mas culpado…”. Avrebbe dovuto essere punito, il nostro don Miguel, ma, ci racconta ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Hassan Agà (il Saavedra) non lo bastonò mai, e neanche gli rivolse mai parole offensive; noi temevamo che sarebbe stato impalato ad ognuno dei suoi tentativi di fuga, cosa di cui lui stesso ebbe paura più di una volta”. E ci racconta ancora Diego de Haedo di Cervantes schiavo di Dali Mami, detto El Cojo, lo zoppo, quindi di Ramadan Pascià e infine del terribile Hassan Agà, un rinnegato veneziano che divenne re di Algeri. Nell’aprile del 1578, quando Antonio Veneziano finisce nel bagno di Algeri, Cervantes è appena uscito dal quarto fallimento di evasione dalla prigione per la delazione del prete rinnegato Juan Blasco. Si conoscono là i due, Cervantes e Veneziano, o si riconoscono dopo il loro primo incontro a Palermo? I due, in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni.

“Non rescatar, non fugir

Don Juan no venir

acà morir…”.

Cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutti e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda, “… il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello stesso colore”. Antonio Veneziano giunge in Algeri infiammato d’amore, pazzo d’amore: per la nipote Eufemia o per una bella e irraggiungibile signora? Signora che sarebbe stata, secondo gli studiosi Caterina e Giuseppe Sulli (Antonio Veneziano, Palermo, 1982), Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, il comandante della fl otta veneziana nella battaglia di Lepanto, allora viceré di Sicilia, al cui figlio, Ascanio, Cervantes, dedica La Galatea. Ad avanzare l’ipotesi della passione del Veneziano verso la viceregina c’è una ottava del poeta che così termina:

“Pirchi’ mi tratti comu li ‘nnimici?

Rimedia cu lu meghiu modu c’hai,

Filici, fi licissima, Filici”.

Là, nel bagno di Algeri, il Veneziano avrebbe scritto La Celia. E là, nel bagno, sembra che Cervantes abbia scritto Vita ad Algeri e incominciato la stesura de La Galatea. Inimmaginabili sono gli incroci della storia, nonché della poesia. Nel 1650, un gruppo di nobili siciliani congiurava contro il viceré don Giovanni d’Austria, vagheggiando di porre sul trono di un regno indipendente di Sicilia don Giuseppe Branciforti, conte di Mazarino e principe di Butera. La congiura falliva per la delazione del prete Simone Rao e per la confessione dello stesso Branciforti. Sei dei congiurati furono giustiziati. Il Branciforti lasciava quindi Palermo e si ritirava a Bagheria, tra la fenicia Sòlunto e la greca Imera, si faceva là costruire una villa e si chiudeva in quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso. Sull’arco d’ingresso della villa faceva incidere un emistichio del Tasso, O corte a Dio, e oltre, sopra un altro arco, questi versi in spagnolo:

“Ya la esperanza es perdida

Y un solo bien me consuela

Que el tiempo que pasa y buela

Lleverà presto la vida”.

E sono i versi questi che recita Teolinda nel Libro primo de La Galatea di Cervantes. Ma ritorniamo al bagno di Algeri, ai due poeti là rinchiusi, Cervantes e Veneziano. Il monrealese, preso com’è dal “vendaval erótico”, come lo defi nisce Américo Castro, dalla bufera d’amore per la nipote Eufemia o per Felice Orsini, scrive là La Celia, e Cervantes (anche lui forse in quel momento nella bufera d’amore, se nel personaggio di Lauso de La Galatea dobbiamo riconoscere lo stesso autore), e Cervantes scrive là le Ottave per Antonio Veneziano. Veneziano viene riscattato nel 1579, e il cronista Ortolani così scrive:

“Fu fatta festa in Palermu pillu ricattu e ritornu di lu celebri

poeta Veneziano”.

Morirà poi, il povero poeta, il 19 agosto 1593, come sappiamo, per l’incendio (doloso, sembra) e lo scoppio della polveriera nel carcere di Castellamare. E morirà, in quello scoppio, anche Egisto Giuffredi, l’autore di Avvertimenti cristiani. Cervantes, riscattato, lasciava Algeri il 24 ottobre 1580. Dice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”. E sarà, quella di Cervantes, una vita libera, ma, come quella di prima della prigionia in Algeri, una vita molto tribolata. Nulla però gli impedirà di concepire (nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio -1592) e di scrivere quindi le avventure dell’ingegnoso hidalgo, di don Alonso Quijana, ribattezzatosi Don Chisciotte della Mancia, e del suo fi do scudiero Sancio Panza. Don Chisciotte, il primo grande romanzo della storia letteraria, uno dei grandi capolavori dell’umanità. Nel 2005 ricorreva il quarto centenario della prima pubblicazione del romanzo. E, nell’aprile di quell’anno, ad Alcalà de Henares, nella casa natale-museo di Cervantes, si inaugurava la mostra delle prime edizioni del Quijote, in cui compariva l’edizione del 1610, stampata a Milano “por el Heredero de Pedromartir Locarni y Juan Bautista Bidello”, e dedicata dal Cervantes, questa edizione, non più al conte di Bejar, ma “All’Ill.mo Señor el Sig. Conde Vitaliano Vizconde”. Abbiamo voluto sin qui raccontare della prigionia in Algeri di due poeti, Cervantes e Veneziano. Ma abbiamo anche voluto signifi care, soprattutto attraverso Cervantes, la terribile vita che si svolgeva allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo, in questo spazio dove si svolge il grande poema omerico e dove sono nate le prime grandi civiltà della storia umana. Terribile vita allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo. E terribile di nuovo oggi, dopo cinque secoli, per le tragedie quasi quotidiane che tra queste sponde si consumano. Tragedie di poveri infelici che fuggono da luoghi di guerra, di malattia e di fame e che cercano salvezza in questo nostro mondo di opulenza e di alienazione. Infelici che spesso trovano la morte per acqua, come l’eliotiano Phlebas il Fenicio, naufragano presso le sponde di Sicilia e di Spagna. E con dolore dunque possiamo ripetere le parole di Fernand Braudel, riferite all’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari

03/11/2005 – La prigione dei destini incrociati: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano nei bagni di Algeri
Instituto Cervantes Napoli

14/04/2008 Universitat de Valencia. Spagna.La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO



Antonio Veneziano e Miguel de Cervantes



Consolo narratore e scrittore palincestuoso*

Daragh O’Connell

University College Cork, Ireland

Coláiste na hOllscoile Corcaigh, Éire

 

Il contributo tenta di delineare la poetica di Vincenzo Consolo attraverso i suoi interventi giornalistici e saggistici e attraverso momenti «testuali» della sua trilogia narrativa: Il sorriso dell’ignoto marinaio; Nottetempo, casa per casa; Lo Spasimo di Palermo. Introduzione Non c’è pagina in Consolo in cui egli non decida di entrare nel merito del maneggio delle parole e non si confermi ricercatore verbale e poeta di primaria destrezza. Per cominciare, è d’obbligo dire qualcosa sul titolo scelto per queste pagine, un titolo abbastanza ambiguo e forse troppo ambizioso: «Consolo narratore e scrittore», oppure avrei forse dovuto proporre «Consolo narratore o scrittore»? I due termini hanno, infatti, una funzione alquanto importante per il modo in cui il nostro autore cerca di delineare la sua poetica. In un racconto-chiave pubblicato per la prima volta nel 1981 e intitolato Un giorno come gli altri, Consolo fa una netta distinzione fra il narrare e lo scrivere. Vi si legge: * Un ringraziamento particolare a Caterina Pilenga Consolo per l’aiuto prestatomi e i materiali fornitimi, non certo di facile reperibilità. È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, a quella lenta  edimentazione su cui germina la memoria, è sempre un’operazione vecchia, arretrata, regressiva. Diverso è lo scrivere […] mera operazione di scrittura, impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta. […] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora.1 Qui Consolo trae spunto dalle idee di Walter Benjamin raccolte in Angelus Novus e, in particolare, dal saggio su Nicolaj Semënovicˇ Leskov.2 L’immagine del narratore «dalla testa stravolta» ci rimanda non soltanto alla famosa icona di Paul Klee, cara a Benjamin, ma anche al Tiresia dantesco condannato a camminare con la testa rivolta indietro proprio perché ha guardato troppo in avanti.3 Consolo si identifica nel ruolo di narratore, quindi di artefice non più di romanzi ma di narrazioni; laddove narrazione è da intendere nel senso più arcaico del termine, quello dei poemi narrativi, per cui dai suoi libri vengono bandite tutte quelle forme di intreccio, di plot, tutte quelle forme intrattenitorie vive nel romanzo, e si ha invece la restituzione di un’esperienza. Molto spesso quest’esperienza è un’esperienza di viaggio, il viaggio nella memoria, o il viaggio reale nello spazio o nel tempo.4 Tuttavia, sebbene Consolo si autodefinisca narratore prima che scrittore, è pure necessario entrare nel suo scriptorium, cioè mettere prima a fuoco il Consolo scrittore, se vogliamo intendere le procedure sottese alla gestazione dei suoi testi, al loro divenire «narrazioni». Adesso, è il caso di chiarire il terzo elemento del titolo: palincestuoso. Con la divulgazione dei lavori di Michail Bachtin sulla  lurivocità e la polifonia abbiamo tutti appreso che nel genere romanzesco s’intrecciano molte voci e molti linguaggi. Ci sono anzitutto, nella parte non dialogica, i vari linguaggi sociali, espressione di ideologie, classi, mestieri, ambienti: l’uso dei termini che vi afferiscono costituisce una concentrata allusione alla vicinanza e alle eventuali tensioni fra i vari strati. Cesare Segre nel suo famoso saggio sul Sorriso afferma che il plurilinguismo di Consolo è anche nettamente plurivocità e che l’autore siciliano va avvicinato all’altro grande del Novecento, Carlo Emilio Gadda.5 Ma nel caso di Consolo la definizione ha un ulteriore senso, se si considera che tra le «voci» della sua grande polifonia una, spesso dimenticata nel suo funzionamento, è proprio la voce «letteraria»: i rimandi alla tradizione che precede le sue opere. È questa la voce che mi interessa di piú nella complessiva polifonia di Consolo, perché porta alla sua poetica della ri-scrittura o, meglio, della soprascrittura, cioè al carattere palinsestico della sua scrittura. Nel saggio Lo spazio in letteratura scrive Consolo: «Omeros in Greco antico significa ostaggio: il poeta vale a dire è ostaggio della tradizione, della memoria, e della memoria letteraria soprattutto», ed è proprio su questa «memoria letteraria» che vorrei soffermarmi in questo articolo.6 Questa duplicità d’oggetto può venir rappresentata, nel campo delle relazioni testuali, dall’antica immagine del palinsesto. Un palinsesto —si sa— è una pergamena che contiene due testi sovrapposti, e in cui l’originale non è del tutto cancellato ma rimane visibile in trasparenza.7 La loro relazione, volendo ricorrere a Gérard Genette, è ipertestuale: ipertesti derivati da ipotesti. Per Genette, nel campo della transtestualità, l’ipertesto è un testo B messo in relazione con un testo anteriore, testo A, da lui chiamato ipotesto. Perciò, ipertestuale è ogni relazione che unisca l’ipertesto all’ipotesto, ma nella quale il primo s’innesti sul secondo in una 5. Cesare Segre, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci: La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86. 6. Vincenzo CONSOLO, «Lo spazio in letteratura», in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 266. 7. Esiste un lunga tradizione sulla nozione di palinsesto (παλµψηστ ς) nel campo della letteratura e del pensiero occidentale. Il termine veniva usato da Plutarco nei Moralia (504D, 779C) per denotare metaforicamente il manifestarsi di un aspetto del carattere. Nelle speculazioni storiche dell’Ottocento il termine aveva un ruolo trascrittivo. Nel saggio «On History» [1830] Thomas Carlyle postula un’investigazione del passato, che sia capace d’illuminare sia il presente sia il futuro, e continua: «For though the whole meaning lies beyond our ken; yet in that complex Manuscript, covered over with formless inextricably-entangled unknown characters, —nay which is a Palimpsest, and had once prophetic writing, still dimly legible there, —some letters, some words, may be deciphered» (Thomas CARLYLE, Works, V, London: Chapman and Hall, 1906, p. 500). Da Thomas De Quincey il termine viene abbinato al cervello umano. Nel suo Suspira de Profundis [1845] scrive: «What else than a natural and mighty palimpsest is the human brain?… Everlasting layers of ideas, images, feelings, have fallen upon your brain softly as light. Each succession has seemed to bury all that went before. And yet, in reality, not one has been extinguished». De Quincey nota anche che nella vecchiaia in modo particolare gli «endless strata» della mente umana sono presenti, ma non come una successione «but as parts of coexistence». Cfr. T. DE QUINCEY, «The Palimpsest of the Human Brain», The Collected Writings of Thomas De Quincey, ed. David MASSON, Edinburgh: Adam & Charles Black, 1890, p. 346 e 348. Non dimentichiamo poi l’uso del termine adoperato da Niccolò Tommaseo per stigmatizzare lo Zibaldone di Giacomo Leopardi, come peraltro ci ricorda Consolo: «Leopardi stesso, pur adottando il codice toscano, ha una «infinita» espressività interna, rimanda ai classici; c’è, nelle sue liriche, una continua citazione dei classici italiani, latini, greci, al punto che Tommaseo dice, e lo dice in senso critico, che la scrittura di Leopardi è un palinsesto mal cancellato» (Vincenzo CONSOLO, «Per una metrica della memoria», Cuadernos de Filologia Italiana, 3, 1996, p. 252). maniera che non sia quella del commento.8 Questa è la base della scrittura palinsestica. Pastiche e parodia, è stato giustamente affermato, «designano la letteratura come palinsesto»; e ciò vale per qualunque ipertesto ed è quanto Borges già diceva del rapporto fra il testo e i suoi avantesti.9 Quindi, l’ipertesto ci invita a una lettura relazionale. Ed è pure interessante che in uno dei suoi ultimi interventi in Spagna Consolo così sintetizzava: La vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto.10 Consolo è certamente uno scrittore palinsestico, ma per ragioni che spero queste pagine chiariranno, possiamo anche andare oltre ed applicare un termine molto felice, e forse un po’ perverso, coniato da Philippe Lejeune nel suo Moi aussi: in un deliberato gioco di parole e di grafie, si potrebbe dire che, anzichè palinsestico, Consolo è invece uno scrittore palincestuoso, «palimpsestueuse», giacché il suo rapporto con i testi anteriori ci sembra molto più intenso e più stretto rispetto ad altri scrittori, ed è un rapporto quasi famigliare.11 Consolo ci pone costantemente di fronte a una poetica intensamente iperletteraria, un ricco mosaico di intertestualità, le cui tessere sono fatte di testi sia antichi sia moderni. Tale interesse per nozioni puramente letterarie, quali la tradizione e la ricerca di materializzazione di espressioni letterarie, può far pensare a un atteggiamento reazionario o fuori dal tempo da parte dell’autore e rischia di distoglierci dalla questione centrale: l’intera produzione narrativa di Consolo tende alla realizzazione della sintesi tra poetica ed etica e, nonostante le sue difficoltà, offre al lettore esempi letterari unici ben lontani dalle mode e dalle correnti culturali a lui contemporanee. Le procedure poetiche di Consolo, presenti all’interno di tutta la sua produzione narrativa, lo costringono a un innesto di intertesti, l’autore inoltre seleziona e pone gomito a gomito linguaggi e dialetti diversi e spesso stridenti tra di loro, oscilla tra registro alto e basso e fonde forme metriche all’interno della sua prosa narrativa. 8. Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, trad. Raffaella Novità, Torino: Einaudi, 1997, p. 7-8. 9. Ruth Amossy e Elisheva Rosen, «La dame aux catleyas: fonction du pastiche et de la parodie dans A la Recherche du Temps Perdu», in Littérature, 14: maggio 1974, p. 55-64. Nel racconto «Pierre Menard, autor del Quijote» (El jardín de los senderos que se bifurcan, 1941) Borges scrive: «He reflexionado que es lícito ver en el Quijote «final» una especie de palimpsesto, en el que deben traslucirse los rastros —tenues pero no indescifrables— de la «previa» escritura de nuestro amigo [si tratta del Menard del titolo]». Cfr. Jorge L. Borges, Ficciones, in ID., Obras Completas I. 1923-1949, Buenos Aires: Emecé, 1996, p. 450. 10. Vincenzo Consolo, «Ma la luna, la luna…», in Irene Romera Pintor (ed.), «Lunaria» vent’anni dopo, València: Generalitat Valenciana, Conselleria de Cultura, Educació i Esport, 2006, p. 71-72. 11. Philippe Lejeune, Moi aussi, Paris: Editions du Seuil, 1986, p. 115. Il termine originale è quello tra virgolette. Cfr. inoltre Gérard Genette, Palinsesti, cit., p. 469. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 165 2. Il sorriso dell’ignoto marinaio. Tra letterarietà ed erudizione Per ovvie ragioni di spazio non mi dilungherò su Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma vorrei sottoporre all’attenzione critica almeno due esempi di intertestualità che nel libro mi sembrano rilevanti, non solo per quel che richiamano a livello testuale, ma anche perché costituiscono, diciamo, i due poli estremi dell’approccio intertestuale di Consolo. Gli esempi sono ambedue desumibili dal capitolo I del capolavoro consoliano. Il primo si può leggere nel paragrafo 3 del capitolo e costituisce una sorta di rottura narrativa, un movimento all’interno di un reame storico/immaginario. L’aver nominato, nel paragrafo precedente, la città di Brolo genera questa rottura o movimento: in effetti, fu proprio al castello di Brolo che, secondo la leggenda, Bianca Lancia fu l’amante dell’Imperatore Federico II di Svevia. Scrive Consolo: Al castello de’ Lancia, sul verone, Madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce.12 L’evidente rimando è a Dante, in cui il riferimento a Federico II è cosí contestualizzato: «Quest’è la luce de la gran Costanza/ che del secondo vento di Soave/ generò‘l terzo e l’ultima possanza» (Paradiso, III 118-120). Inoltre, l’uso della forma verbale «guata» rinvia direttamente alla prima similitudine della Commedia: «E come quei che con lena affannata,/ uscito fuor del pelago a la riva,/ si volge a l’acqua perigliosa e guata,/ così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,/ si volse a retro a rimirar lo passo/ che non lasciò già mai persona viva» (Inferno, I 22-27).13 Ma il «vento di Soave» consoliano è una forma doppia di intertestualità, perché allude anche a Lucio Piccolo e al suo modo di figurarsi poeticamente la costa tirrenica siciliana. Ne Le pietre di Pantalica, infatti, Consolo racconta la storia di Piccolo e riferisce il suo modo di parlare di questa zona: O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto»). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?».14 Questa forma di intertestualità suggerisce una sorta di tecnica di trapianto, per mezzo della quale elementi del testo precedente vengono innestati sul 12. Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio [1976], Milano: Mondadori, 1997, p. 12. Tutte le successive citazioni da quest’opera rimandano a questa edizione e saranno seguite dall’abbreviazione Sim. 13. Per una lettura del Sorriso in chiave dantesca cfr. Daragh O’Connell, «Consolo’s “trista conca”: Dantean anagnorisis and echo in Il sorriso dell’ignoto marinaio», in Echi danteschi / Dantean Echoes, ed. R. Bertoni, Torino: Trauben, 2003, p. 85-105. Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 145. Il corsivo è dell’originale. Insomma, Consolo e Piccolo «si incontrano sul sintagma dantesco», come glossa Nicolò MESSINA, «Lunaria dietro le quinte», in I. Romera Pintor (ed.), «Lunaria» vent’anni dopo, cit., p. 188.166 nuovo, nel quale sono presenti sotto veste sia di aperta citazione, sia di dissimulata figurazione. In questo stadio iniziale del capitolo è chiaro che Consolo sta facendo uso di una struttura narrativa altamente stilizzata e complessa. Da un lato, ci sono testi all’interno dei testi, prestiti allusivi o citazioni dirette; dall’altro, viene utilizzata una tecnica del rinvio che non usa procedure narrative formali o stratagemmi d’intreccio, bensì opta per un sovraccarico semantico ed uno stile di prosa poeticizzata che gode del nominare le cose stesse. Il secondo esempio è riscontrabile nel paragrafo 19 dello stesso capitolo I ed spicca specialmente proprio per quel che rivela delle procedure narrative impiegate da Consolo nei suoi testi multiformi. Il paragrafo, presentato per la sua maggior parte in corsivo, suggerisce una citazione o, almeno, una situazione narrante alternativa, una voce o un punto di vista diversi. Nel romanzo, l’unico altro luogo in cui una vasta porzione di testo è riportata in corsivo è nel capitolo V, «Il Vespero», in cui il testo incastonato non in tondo è mutuato direttamente da I promessi Sposi di Alessandro Manzoni: è la descrizione del momento della conversione dell’Innominato piegata da Consolo a tratteggiare il «tempo» e le sensazioni del personaggio Peppe Sirna.15 Nessuna indicazione, né note a pie’ di pagina né richiami all’autore, soccorre il lettore, il quale non può far altro che accettare la stranezza del passo ed andare avanti con la narrazione. Il brano è interrotto dall’improvviso cambiamento di registro impresso da Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che dice: «Uh, ah, cazzo, le bellezze!» (Sim, p. 20), poichè la sua immaginazione prende il sopravvento sul resto del paragrafo. Ciò che precedeva in corsivo, però, non è un parto dei rimuginii del protagonista del Sorriso, ma un qualcosa di abbastanza strano ed estraneo, è il frutto del pensare altrui, benchè sia la mente del barone Mandralisca a rievocarlo. Si dà un indizio nella frase finale del paragrafo: Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il Cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina (Sim, p. 20). Questo «forse il Landolina» è l’unica allusione, nel testo, ad una possibile fonte, anche se il lettore medio non ha modo né è in grado di saperlo. La parte in corsivo del brano, cioè i tre quinti del paragrafo, è, in effetti, una citazione diretta da una fonte che non sarebbe stata familiare per il Mandralisca, sebbene Consolo la abbia consultata come campione di stile di prosa degli intellettuali siciliani del tardo Settecento e del primo Ottocento del secolo scorso. La fonte è proprio il Cavalier Saverio Landolina (1753-1814), figura dominante dell’archeologia siciliana all’inizio del XIX secolo. La sua fama e la sua posizione di rilievo si dovevano alla scoperta della famosa Venere Anadiomene, che egli 15. Cfr. Alessandro Manzoni, I promessi sposi (1840), ed. Salvatore Silvano Nigro, Milano: Mondadori, 2002, p. 409; e Vincenzo CONSOLO, Sim, p. 106. Tranne il corsivo non c’è nel testo nessuna indicazione che si tratti di una citazione manzoniana. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 167 fece nel 1803.16 Il testo in questione è da ricercare in una lettera datata 29 gennaio 1807 e indirizzata all’allora «Sopraintendente generale alle antichità», un certo Soratti: Passando a visitare li monumenti del Tindaro ebbi il dispiacere di non ritrovare il più bel pezzo, che l’altra volta vi avevo ammirato. Erano due piedi con le gambe fino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Osservai ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vede la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distinguano una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita come si osserva in molte nostre medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedono tagliate. Le bulle erano tutte figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro mi fa sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti sempre dai poeti in abito militare.17 Nel Sorriso leggiamo invece: Gli altri marmi dietro le statue erano due piedi con le gambe sino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vedeva la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distingueva una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita che si osserva in molte medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedevano tagliate. Le bulle erano figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro faceva sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti dai poeti in abito militare. Uh, ah, cazzo, le bellezze! […] Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina .18 Il brano di Landolina è citato pressoché alla lettera e le sole inter/estrapolazioni eseguite da Consolo vanno individuate nei tempi verbali ed in quei 16. Dizionario dei Siciliani illustri, ristampa anastatica, Palermo: F. Ciuni Libraio Editore, 1939. 17. Giuseppe Agnello (ed.), Le antichità di Tindari nel carteggio inedito di Saverio e Mario Landolina, in Estratto dall’Archivio Storico Siciliano Serie III – Vol. XX, Palermo: Presso la Società Siciliana per la Storia Patria, 1972, p. 218-219. 18. Sim, p. 19-20. Il grassetto in entrambi i brani indica le varianti. segmenti del brano che si riferiscono al Landolina stesso. Questo tipo di intertestualità è abbastanza sconcertante per il lettore e, una volta rivelato, mostra il modo in cui si forgia lo stile di Consolo: testi dentro i testi, siano essi citazioni poetiche di scrittori canonici o citazioni dirette da oscuri testi archeologici del XIX secolo. La citazione letteraria diretta può essere considerata ammissibile, se accettiamo che il punto di vista narrativo sia qui quello del Mandralisca, com’è peraltro accertabile nel resto di questo capitolo iniziale, ma la citazione diretta da lettere di argomento archeologico è più problematica. Al riguardo i commenti di Bachtin sull’enciclopedismo nel genere del romanzo sono rilevanti, specialmente in quelli da lui definiti «romanzi della seconda linea». Questo tipo di romanzo dimostra la tendenza all’enciclopedicità dei generi, ed anche l’uso dei generi inseriti. Il fine principale è introdurre nel romanzo la pluridiscorsività, la varietà delle lingue di un’epoca. Scrive Bachtin che i «generi extraletterari sono introdotti non per «nobilitarli» e «letteraturizzarli» ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria (persino un dialetto). La molteplicità delle lingue dell’epoca deve essere rappresentata nel romanzo».19 Ed è proprio ciò che avviene nel secondo passo del Sorriso preso in esame. Nottetempo, casa per casa. Genesi e avantesti Spostiamo ora l’attenzione dal Sorriso a Nottetempo, casa per casa. Pubblicato nel 1992, questo romanzo è la seconda parte della trilogia consoliana: il libro ha sfondo storico ed è ambientato nei primi anni Venti, ossia il periodo dell’insorgere del fascismo, tra Cefalù e Palermo; il tutto è visto attraverso le vicende di una famiglia, i Marano. In realtà, Nottetempo parla dell’Italia degli anni Novanta, della caduta di tutte le tensioni sociali, dell’avvento della destra, della prima volta che in Italia i fascisti sono arrivati al governo dopo la loro condanna storica. Inoltre, Consolo collegava il mondo culturale di quegli anni Venti con il mondo culturale dei tempi recenti, e presenti: l’insorgere di nuove metafisiche, di misticismi, delle forme aberranti dei satanismi e delle sette misteriche. Messe da parte queste considerazioni generali, vorrei adesso incentrarmi sulla genesi testuale di Nottetempo e fare qualche riflessione sulla critica-genetica e su come questo tipo d’approccio può essere utile per meglio intendere il tormentato divenire del testo. L’opera letteraria non è un dato, ma un processo, non un’entità stabile, fissata una volta e per tutte, ma invece una variabile, o meglio un complesso dinamico di variabili in perpetuo divenire.20 19. Michail BACHTIN, «La parola nel romanzo», in ID., Estetica e romanzo, trad. Clara STRADA JANOVICˇ, Torino: Einaudi, 2001, p. 218. Esiste una vasta bibliografia sulla critica-genetica i cui i testi canonici sono: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: p. U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3, 1996, p. 63-90; Michel CONTAT e Daniel FERRER (ed.), Pourquoi la critique L’opera letteraria è, per dirla con il Contini della critica delle varianti, «un lavoro perennemente mobile e non finibile».21 Qui vorrei basarmi su quattro avantesti che vanno situati in quella zona grigia dell’ecdotica che è a metà fra l’emerso (edizioni a stampa) e il sommerso (manoscritti, dattiloscritti, abbozzi, appunti, ecc.).22 Questi quattro avantesti mi sembrano molto interessanti e dovrebbero rivelare qualcosa della gestazione di Nottetempo. Sedici anni separano Nottetempo dal Sorriso, ma la genesi di Nottetempo può essere collocata negli anni Settanta, ovvero proprio in quel periodo in cui Consolo andava scrivendo Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il primo presagio del romanzo che sarebbe venuto può rintracciarsi in un testo che Consolo scrisse per il catalogo della mostra di Luciano Gussoni alla Villa Reale di Monza nel 1971. Il testo non è lungo, la prosa è fortemente poeticizzata, e sembra a prima vista una specie di abbozzo. Tuttavia, due elementi del testo sono decisivi per intendere i metodi di Consolo. Il primo è che successivamente esso viene ritoccato e in qualche modo rimodellato e infine incorporato nel Sorriso proprio in quella sequenza da incubo quasi alla fine del capitolo VII, «La memoria».23 Il secondo elemento è il titolo dato al testo del catalogo: Nottetempo, casa per casa. In qualche modo si può quindi affermare che Nottetempo, nel suo stato embrionale, faceva inizialmente parte del Sorriso. Sempre nel 1971, Consolo scrisse un articolo per Tempo Illustrato intitolato «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù».24 L’articolo tratta del soggiorno in Sicilia del mago-satanista inglese Aleister Crowley con i suoi seguaci negli anni Venti. Di solito la critica spiega Nottetempo, casa per casa nei termini di un libro che traeva spunto dal racconto «Apocrifi sul caso Crowley» pubblicato nel 1973 da Leonardo Sciascia nella raccolta Il mare colore del vino. 25 Ma la data del 1971 dimostra chiaramente che è stato Consolo con questo articolo a suggerire a Sciascia l’idea di Crowley. Nel romanzo consoliano Crowley funge da phármakon, una figura inquietante ed emblematica della decadenza perversa. Inoltre, l’articolo prova che Consolo aveva già iniziato la sue ricerche storiche sulle vicende cefaludesi degli anni Venti.26 génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. Inoltre, nel campo della critica-genetica applicata specificamente a Consolo, cfr. Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo: «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Madrid: Universidad Complutense, 2006. 21. Gianfranco Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino: Einaudi, 1970, p. 5. 22. La distinzione «emerso» e «sommerso» è stata adoperata da Messina nel suo saggio «Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio»,  23. Vincenzo CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., Sim, p. 136-138. 24. Vincenzo CONSOLO, «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 25. Leonardo SCIASCIA, Il mare colore del vino, Torino: Einaudi, 1973. Cfr., inoltre Giuseppe QUATRIGLIO, «Il diavolo a Cefalù», in ID., L’uomo-orologio e altre storie, Palermo: Sellerio, 1995. 26. Appunti autografi, con dati raccolti dalla viva voce di cefaludesi che avevano conosciuto Crowley e la sua setta, addirittura una piantina della dimora da essi occupata a Cefalú e  Il terzo avantesto è ancora una volta un articolo giornalistico. Intitolato «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», è apparso nel Corriere della Sera nell’ottobre del 1977.27 Di spiccato interesse è il fatto che l’incipit del articolo anticipa, o almeno cosí sembra, la forma  imbrionale dell’incipit di Nottetempo, casa per casa. Entrambi descrivono una notte di luna piena e l’ululare dolente della figura simbolica e metaforica del lupo mannaro, ossia il licantropo. L’intertesto è la novella pirandelliana Male di luna. 28 In Consolo, tuttavia, a questa malattia viene dato il suo nome siciliano: male catubbo, derivato dall’arabo catrab o cutubu, che significano canino o lupino.29 Il quarto e più importante avantesto è la presentazione redatta da Consolo per il catalogo della mostra di Ruggero Savinio (Ex Convento di San Francesco, Sciacca 8 luglio-15 agosto 1989) e intitolata L’ora sospesa. Lo stesso testo viene fatto poi confluire in Nottetempo, casa per casa con alcune varianti.30 Riporto qui il testo di L’ora sospesa: Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura d’ogni altro; dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete: al confine bevemmo il nostro lete). Ora, in questa luce nuova —privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade , in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi neliamo verso dimore perse, la fonte ove si bagna il passero, la quaglia, l’antica età sepolta, immemorabile. […] E in questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichìo di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto? È possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole inadeguate, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un nunzio lampante, una lama bianca, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quali paradisi? O risale prepotente da quali abissi? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai miracoli; si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. l’esergo del Cap. I di Nottetempo, si ritrovano nel quaderno Ms 2 che tramanda excerpta del Cap. I del Sorriso insieme ad altri materiali «allotri» risalenti agli anni 1968, 1969, 1970. Cfr. Nicolò Messina, Per un’edizione critico-genetica, cit., p. 60-65. 27. Vincenzo Consolo, «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», Corriere della Sera, 19 ottobre 1977. 28. Pubblicato la prima volta con il titolo Quintadecima in Corriere della Sera, 22 settembre 1913, poi con il nuovo titolo nel 1925. Luigi Pirandello, «Male di luna», Novelle per un anno, ed. Mario Costanzo, vol. II, tomo I, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495. 29. Cfr. Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, rist., vol. IV, Catania: Clio, 1993, p. 237-243. 30. «L’ora sospesa» corrisponde a Vincenzo CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 64-67. «E un mattino d’aprile lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba città che s’alza sopra il fiume…» così racconta l’allievo del filosofo, del mago, dell’uomo venerato, così racconta il giovane «… Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti, giunsimo, dopo giorni e giorni, all’oriente estremo, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, alla scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia. E più che andavamo su per l’aspro suolo, per le impietrate lave, risonanti, oltre ogni verde, ogni ginestra lenta, su per le nere lande, le gelide tormente, più egli s’ammutiva, si staccava da me, da tutto il mondo. O profferiva entusiasta, come preso dal Dio e dalle Furie, frammenti dei poemi. —… Ánthropoi therés te kai ichthúes…— diceva —… Tutto alterna così, e così dura eternamente… Per la virtù d’amore si unisce, ed ora per la frattura dell’odio si separa…—». E infine lacrimando disse del nero delle sabbie, dei lapilli in cui lo scorse infine, disse dell’indicibile terrore, dei boati e dell’incandescenza, dell’immenso rosso che l’avvolse, bruciò e che dissolse. Ma da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da perenti scialbature, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, Johannes s’affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte e come il Libro poggiato sui ginocchi: rimemora e trascrive, con parole chiare e d’oro, una storia, la Storia unica, terribile e sublime. «—Tutto è compiuto!— disse». […] E oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri, delle vuote dimore dei vespertili, delle civette. Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. Che non consumi tu. Che non consu… […] Tentiamo intanto esili passaggi sopra gli abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri piedi. Tentiamo nella sera —ora calmi, arresi, stesi nel grembo tenero di Cuma, del Palatino— d’accendere il dialogo, la conversazione, sacra per il calore, raro, per i semi di luce, il polline, le lucciole che sparge sopra arbusti, foglie, il cielo che s’imbruna sopra noi. «Oh se per tutti un legame / un eros vago lontano…». Oh in questo silenzio assorto, in questo fresco di sera abbrividente vorrei sentire i vostri toni, accenti. «Che non consumi tu…». […] E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, agonici spettri, palpiti, aneliti, graffi indecifrati. Sussurro, parola fioca nel mare del silenzio.31 Tutto questo brano può essere letto in versi. Prevalgono endecasillabi e settenari. Ma non mancano versi brevi o medi (quinari, senari) o più lunghi (ottonari, novenari). Bisogna lasciarsi guidare dal ritmo accentuale, ma anche dalla scansione sintagmatica e semantica. Se prendiamo come esempio l’attacco, vi 31. Vincenzo CONSOLO, «L’ora sospesa», in Ruggero Savinio. Con uno scritto di Vincenzo Consolo e un testo dell’artista, Palermo: Sellerio, 1989, p. 9-10. Le frasi sottolineate indicano le parti del testo espunte da Nottetempo e le parole in corsivo delle leggere varianti. leggiamo la seguente sequenza metrica: 11+11+7+7+5+7+11+7+11, più l’explicit con rima – «ete»: Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati (dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza la figura d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al confine bevemmo il nostro lete).32 Inoltre, il brano è anche uno squisito esempio di ekphrasis nella sua descrizione del «nunzio lampante», ovvero un rinvio alla Melancholia I (1514) di Albrecht Dürer.33 L’icona di Dürer ci rimanda di nuovo a Walter Benjamin e alle sue teorie sulla malinconia in Ursprung des deutschen Trauerspiel (1925).34 Intervistato sull’uso dell’arte figurativa e dell’ekphrasis come modalità narrativa che dimostra un’intensa immaginazione pittorica, Consolo ha affermato che c’è «un bisogno di bilanciare il suono, la parola con una concretezza di tipo visivo, di bilanciare l’orecchio con l’occhio. C’è sempre un riferimento ad un’icona, ad un’icona pittorica». E ha proseguito così: «Sempre ho avvertito l’esigenza di equilibrare la seduzione del suono, della musica, della parola con la visualità, con la visione di una concretezza visiva; di rendere meno sfuggente e dissolvente la parola nel silenzio, perché il suono fatalmente si dissolve nel silenzio».35 Questo modus componendi di Consolo, il suo pubblicare testi poetici in cataloghi d’arte prima della loro apparizione «integrata» nelle sue narrazioni, è un fatto interessante dal punto di vista della critica-genetica. Consolo stesso ci spiega anche le ragioni di questi fenomeni testuali e ci fornisce un termine alquanto peculiare per definirli: […] io non ho mai scritto una recensione di tipo logico critico dei pittori. I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli «a parte», la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano «cantica».36 32. Ringrazio il collega Nicolò Messina per l’aiuto prestatomi per questa «traduzione» in versi. 33. Non possiamo neanche dimenticare I cipressi, la pialla, il compasso di Fabrizio Clerici (1980 – olio su tela, collezione privata) che riprende e raffigura l’icona dell’angelo della malinconia di Dürer. 34. Walter Bemjamin, Il dramma barocco Tedesco, Torino: Einaudi, 1971. Daragh O’Connell, «Il dovere del racconto: Interview with Vincenzo Consolo», cit., p. 251. Vincenzo Consolo, «Clausura de las jornadas», in Irene Romera Pintor (ed.), Lunaria vent’anni dopo, cit., p. 235. Come abbiamo visto con il testo «Nottetempo, casa per casa» del 1971, e vedremo con un altro esempio tratto da Lo Spasimo di Palermo, questi «a parte» rientrano cosí in una singolare categoria testuale. Nel testo del catalogo «L’ora sospesa» non mancano peraltro allusioni letterarie. Per esempio, «Oh se per tutti un legame/ un eros vago lontano…» è una citazione diretta da Fosfeni di Andrea Zanzotto: Oh se per tutti un legame Un eros vago lontano Come una stretta di mano Perenta in un’alba grigia… (Silicio, carbonio)37 Inoltre, «Che non consumi tu Tempo vorace. Che non consumi tu… Che non consu…» suggerisce icasticamente il consumarsi delle parole stesse per effetto del passare del tempo. A detta dello scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi Paulatim lenta consumitis omnia morte! 4. Lo Spasimo di Palermo. Urlo e silenzio Lo Spasimo di Palermo, pannello finale del trittico siciliano di Vincenzo Consolo, è un’opera complessa, non facilmente categorizzabile: non è un romanzo nel senso tradizionale del termine, ma con la sua articolazione tratta criticamente questioni e interventi relativi al 174 Quaderns d’Italià 13, 2008 Daragh O’Connell All’interno del romanzo, il protagonista consoliano, Gioacchino Martinez, scrittore di romanzi difficili che sta invecchiando ed è, in ultima analisi, uno sconfitto, riflette sul suo lavoro e su dove esso l’ha condotto: Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.39 Il racconto dello Spasimo rappresenta al contempo la mediazione verso questa impasse e la risposta ad essa. Paradossalmente, le strategie adottate da Consolo sfiorano appena le forme popolari di espressione culturale, interrogandole criticamente e mettendo a nudo la loro natura «complice», poiché esse supportano e partecipano di quella che Consolo considera una situazione intollerabile per la società italiana contemporanea e per la funzione dell’arte. La scelta del linguaggio è per Consolo un tentativo di dare nuova sacralità alla parola, la sua narrativa è un esempio singolare di movimento verso la poesia, il suo messaggio etico è un messaggio di disperazione ma non di disfatta —non come il silenzio che affligge Gioacchino Martinez. Per Consolo, l’unico modo di contrapporsi a una crescente perdita di fiducia nelle possibilità comunicative del romanzo, è quello di poeticizzarne la forma.Nonostante i quattro anni che separano lo Spasimo da L’olivo e l’olivastro, Consolo era chiaramente impegnato a scriverlo già da molti anni. Com’era ormai suo modus componendi, momenti testuali dal futuro romanzo erano apparsi per la prima volta in altri testi brevi, in guise diverse. Come già per gli esempi estrapolati dal Sorriso e da Nottetempo, sono stati cataloghi e mostre d’arte a dare a Consolo l’occasione di dispiegare e meditare su queste digressioni liriche, quei passi da lui definiti «a parte». Riferendosi a questi testi scritti da Consolo per cataloghi o per libri di fotografie, Joseph Francese li considera come delle «investigazioni collaborative ed ecfrastiche delle vestigia civiche e naturali del passato siciliano».40 Sono d’accordo con lo studioso riguardo alla loro funzione, ma quel che ci interessa maggiormente è che tanti di questi testi —e Francese non lo nota— confluiscono successivamente nei romanzi come digressioni corali-poetiche, e quindi il loro status testuale è più problematico. Non si tratta di una forma di semplice autocitazione o auto-plagio, ma di uno spostamento radicale dei materiali testuali pieno di notevoli potenzialità poetiche. La poetica di Consolo implica anche l’accumulazione e l’espunzione di testi di provenienze diverse, siano essi scritti giornalistici, creativi o saggistici, generando uno spazio polifonico-palinsestico singolare. Ne abbiamo un impressionante esempio, sul versante giornalistico ed ecfrastico, in un testo intitolato I barboni scritto da Consolo nel 1995 per il catalogo dell’artista Ottavio Sgubin. Il dato significativo è che esso viene incorporato nello Spasimo in un 39. Vincenzo CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano: Mondadori, 1998, p. 105. Tutte le successive citazioni dal romanzo saranno seguite dall’abbreviazione SP. 40. Joseph FRANCESE, «Vincenzo Consolo’s Poetics of Memory», Italica, 82: 1, 2005, p. 44: «[…] collaborative ekphrastic investigations of the civic and natural vestiges of the Island’s past». punto cruciale.41 Di questo testo poi —altro dato da sottolineare— esistono, oltre a quella valorizzata nello Spasimo, altre sei versioni in vari articoli di giornali ed ulteriori mostre dell’opera di Sgubin fra il 1995 e il 2003.42 Stanno nel tempo loro, ell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, negli antri delle sibille, nelle celle dei vati, stanno come vessilli gravi sui confini, nel varco breve tra il conato e la stasi, la somma e infinita quiete metafisica. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, scale, piedistalli, sagome che in volute di drappi, spiegamento d’ali, torsioni, slanci, gonfiori e incavi, fantasie barocche, fingono o figurano il moto, l’estro della vita, sono masse ironiche contro le nostre illusioni, i nostri inganni, cumuli beffardi, monito fermo del destino umano, dell’esito fatale in fissità pietrosa, lento sfaldamento, dispersione in granuli, pulviscolo. E la luna, la tenera sorella delle statue, degli angeli, imbianca groppe, balze, intenebra pieghe, anfratti, scanalature, vortici, il tellurico gioco di vesti, manti. Da dove giungono questi pellegrini affranti, quale giorno li vide camminare, quale luce scoprì le crepe, le frane, il velo sopra l’occhio, la patina sul volto, segni bassi, sgradevoli del sembiante? Sono proiezioni, ombre, creature delle nostre paure, delle nostre angosce? Sono gli abitatori dei margini, le sentinelle dell’abisso, i testimoni del cedimento, gli assertori del rifiuto, del distacco. Sono, lontani muti assoluti, il richiamo costante della precarietà, dell’equilibrio instabile, dell’assurdo spasmo dell’esistere, del vivere cieco e affannoso, formicoloso moto, ottuso vagolare per cunicoli e tane, dimore grasse, labirinti d’isteria, d’oltraggio, nostro d’illusi dominanti su questa crosta procellosa, su questa landa del mondo, «su l’arida schiena/ del formidabil monte», su questo Vesuvio o Etna che in ogni istante, all’istante, per volere del Caso, stermina e pietrifica, vanifica ogni vita, cancella ogni memoria. Sono, questi profeti mesti, queste argillose statue, questa teoria antropomorfa di sarcofagi sepolti nella notte, il canto malioso o, ancor più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo. Ora affiora dal groviglio delle pieghe, dalla piramide brumosa dell’orbace il lampo chiaro d’una mano, l’accenno d’una fronte, sboccia il gesto di rifiuto o di difesa. II mucchio penoso del distacco e dell’oblio ha ora bave di colore, vermiglie striature, violacee, è bagnato dalla luce mercuriale, dalla livida lampa nell’immenso vano dell’assenza e del silenzio. Si disegna d’intorno la fredda geografia della storia, la quinta, il fondale inesorabile del teatro sociale, cantone di palazzo, incrocio di vie senza nome, griglia di vetrata, rampa di scala mobile, acciaio, plastica di deserte stazioni, anditi dei transiti sospesi. 41. Il passo in questione corrisponde a «Stanno nel tempo loro […] il tritume delle ossa», per cui cfr. SP. , p. 70-71. 42. Vincenzo CONSOLO, «Barboni, simbolo inquietante del nuovo medioevo», Il Messaggero, 3 marzo 1996; ID., «Barboni e Natura morte», in Sgubin: Opere 1988-1997, ed. Marco Goldin, Venezia: Marsilio, 1997. Il testo viene riproposto dalla copertina del catalogo Ottavio Sgubin Mario Jerone, Centro Espositivo S. Agostino, 28 agosto – 30 ottobre 1999; ed è successivamente apparso col titolo «Barboni, segno dei nostri fallimenti», L’Unità, 29 Ottobre 2003, per segnalare un’altra mostra di Sgubin e ripubblicato infine come «I barboni di Ottavio Sgubin», in Ottavio Sgubin pittore, Museo Civico del Patriarcato, Aquileia Via Popone, 6-27 aprile 2003, p. 5. Vengono questi ribelli, questi dimissionari della convivenza, questi emarginati dalla ipocrita decenza, questi esiliati dal potere mercantile —la banale civiltà, l’angustia sociale che nomina barboni o in altri modi uguali questi che hanno abbandonato il campo, violato la dura legge dell’avere— vengono da lontano nella storia, da oscuri medioevi di carestie e pesti, d’empietà e di violenza, vengono dalle piazze di Londra o di Parigi, da sotto arcate di ponti, da corti dei miracoli, breugheliane quaresime, cortei di cenci, di cecità e di piaghe, da Alberghi di Carità, ghetti di decenza. Sono i barboni, nella trionfante storia nostra d’oggi, incongrue presenze, segno dei nostri ritardi, dei nostri fallimenti. Sono simbolo, nelle interne fratture, della più vasta, crudele frattura nel mondo, profezia inquietante d’un medioevo incombente.43 Il testo I barboni ha tutte le caratteristiche degli altri «a parte»: la prevalenza di endecasillabi, un registro alto, o meglio altamente poetico, ricercato, e inoltre la mancanza di una voce narrante identificabile. Esso sembra svolgere la funzione di quello che Norma Bouchard, in un altro contesto, chiama il «monologo lirico drammatico», specialmente nella sua condizione di unica voce possibile per il narratore, a un passo dal grido di disperazione e dagli abissi del silenzio.44 Inoltre, si scorgono nel testo diverse allusioni letterarie che ne fanno un testo ibrido. In primo luogo, la citazione diretta da La ginestra leopardiana (vv. 1-2): «[…] su l’arida schiena/ Del formidabil monte».45 Nel paragrafo successivo, un’allusione a Franz Kafka: il «canto malioso» è, infatti, il canto delle sirene, ma, come il narratore precisa, è il silenzio delle sirene ad attrarre di piú e a distruggere infine il moderno Ulisse, di cui la voce narrante è una delle ipostasi («noi»): «o ancora più forte, il silenzio che attrae noi vaganti, ulissi senza bussola, privati d’ogni approdo». Il silenzio enfatizzato di queste figure mitiche rimanda al racconto Il silenzio delle sirene di Kafka pubblicato per la prima volta nel 1934.46 Nella traduzione italiana si legge: Ma le sirene hanno un’arma ancora più terribile del loro canto, ed è il loro silenzio. Non è mai accaduto, ma forse non è del tutto inconcepibile che qualcuno si possa salvare dal loro canto, ma dal loro silenzio certo no. Alla sensazione di averle vinte con la propria forza, all’orgoglio che ne consegue e che tutto travolge, nessun mortale può resistere. 43. Vincenzo CONSOLO, I barboni, in Sgubin: Opere 1988-1995, Milano: Electa, 1995, p. 15-16. 44. Norma BOUCHARD, «Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy», Italica, 82: 1, 2005, p. 5. 45. Giacomo LEOPARDI, Poesie e prose, ed. Mario Andrea RIGONI, Milano: Mondadori, 1987, p. 124. 46. Il racconto apparve postumo in Beim Bau der Chinesischen Mauer. Ungedruckte Erzählungen und Prosa aus dem Nachlass, hrsg. Max BROD und Hans Joachim SCHOEPS, Berlin: Schocken Verlag, 1934. Consolo certamente conosceva il racconto kafkiano e, infatti, questo stesso brano serviva da epigrafe allo studio junghiano di Basilio Reale su Lighea di Tomasi di lampedusa, per il quale Consolo aveva scritto una prefazione assai rilevante, perché vi appare definita per la prima volta la sua concezione della tradizione letteraria siciliana.47 Nella sua trasposizione in forma narrativa nel capitolo VI dello Spasimo, il brano subisce dei ritocchi: viene abbreviato e odificato radicalmente. Espunge per esempio i riferimenti a Leopardi e Kafka, e invece, nel suo nuovo stato rientra in una lunga digressione poetica che finirà con una citazione aperta dall’Odissea: l’unica citazione diretta da Omero di tutta l’opera. Il passo omerico è riprodotto in italiano senza alcuna indicazione del numero del libro né dei versi,48 ma corrisponde al Libro 1, versi 577-578: ε

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L’importanza di questa citazione va misurata sulla base del contesto dell’Odissea da cui è stata mutuata e della funzione che essa svolge nello Spasimo. Nell’Odissea verso la fine del Libro VIII, al banchetto efferto in suo onore, Odisseo ascolta il racconto di Demodoco che canta il sacco di Troia. Il re Alcinoo si accorge del dolore del suo ospite ancora senza nome e gli chiede come si chiami e la ragione della sua sofferenza (VIII, 550 ss.). All’inizio del Libro IX Odisseo cede alle pressioni del re e si rivela a tutti i presenti con le parole: ε’µ’ ’)δυσε*ς Λαερτι,δης. (IX, 19: «Io sono Odisseo, figlio di Laerte»), e così comincia a raccontare le alterne vicissitudini che l’hanno sospinto fino alla terra dei Feaci, nell’isola di Scheria. In altre parole, questo momento segna, con tale anagnorisis, l’inizio della narrazione vera e propria. Infatti, ne L’olivo e l’olivastro Consolo cita questi stessi versi (Od. IX, 19-21; 34-35) e ne sottolinea l’importanza per lui in termini della narrazione pura, una forma, o meglio un genere a cui egli aspira: Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 177 47. Cfr. Vincenzo Consolo, «Prefazione» a Basilio Reale, Sirene siciliane. L’anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Palermo: Sellerio, 1986, p. 9-14. Il saggio di Reale e la prefazione di Consolo sono stati ripubblicati nel 2001 per i tipi della casa editrice Moretti & Vitali di Bergamo. Il brano riportato di Kafka è ripreso proprio da questa riedizione (p. 25). In una fase intermedia, il testo, con il titolo cambiato in «Sirene siciliane», era stato incluso in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 175-181. 48. Cfr. «Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi/ quando odi la sorte» (SP, p. 72). Come dichiara nella postfazione, Consolo cita dalla versione di G. Aurelio Privitera («Fondazione Lorenzo Valla», Milano: Mondadori, 1986). Sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini per tutte le astuzie, la mia fama va fino al cielo. Abito ad Itaca chiara nel sole… Non so vedere altra cosa piú dolce, per uno, della sua terra. Narra, narra fluente la sua odissea, come avesse varcato la soglia magica, la bocca dell’ipogeo dell’anima. E diventa Ulisse, ahi!, l’aedo e il poema, il cantore e il canto, il narrante e il narrato, l’artefice e il giudice, diventa l’inventore di ogni fola, menzogna, l’espositore impudico e coatto d’ogni suo terrore, delitto, rimorso.49 Consolo ha spiegato in varie occasioni la sua concezione della «narrazione poematica», una forma letteraria in opposizione al genere del romanzo, e non di rado l’ha fatta trapelare da diversi incisi delle sue opere.50 In questo, come ricordato all’inizio, Consolo trae spunto dal saggio del 1936 di Walter Benjamin, nel quale il filosofo si riferisce alla restituzione di un’esperienza come uno dei componenti fondamentali del raccontare —ovvero quella che egli definisce «la capacità di scambiare esperienze»: «L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori».51 Allora, per Benjamin, e Consolo lo segue, il raccontare va inteso in diretta opposizione al genere borghese del romanzo. Per Benjamin, alla «rimembranza» [Eingedenken] —il principio formale del romanzo— va aggiunta la memoria [Gedächtnis], «elemento musale» del racconto.52 La narrazione benjaminiana è per Consolo soprattutto la restituzione dell’esperienza di un viaggio, come si evince inequivocabilmente da questo passo del quasi leopardiano Dialogo di Consolo e Nicolao, prefato da Maria Corti: È, la narrazione, canto e incanto, rivelazione e occultamento, verità e menzogna, musa e sirena, memoria e oblio: ricreazione vale a dire di una verità altra, la verità della poesia. E la poesia —ricordiamolo—, nella forma più alta è anche entusiasmo, è en theò, vaticinio, perveggenza di una realtà a venire. Odisseo, con il suo racconto, melodioso come quello di un aedo, incanta gli ascoltatori.53 Adesso, tornando al citato Di’ perché piangi e nel tuo animo gemi/ quando odi la sorte dello Spasimo, ciò che segue nella narrazione non è costituito dalle famose parole di auto-rivelazione di Odisseo che inaugurano il suo racconto, bensí da quelle pessimistiche di Consolo: «Io sono… no, no, l’aridità, la lingua 49. Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 19. I versi sono sempre nella versione cit. di G. Aaurelia Privitera. 50. La forte vocazione metaletteraria di alcuni passi del corpus consoliano è studiata da Miguel Ángel Cuevas, «La constante metaficcional en la obra de Vincenzo Consolo», in Hans Felten & David Nelting (edd.), Una veritade ascosa sotto bella menzogna… Zur italienischen Erzählliteratur der Gegenwart, Frankfurt a. M.: Peter Lang, 2000, p. 129-35. 51. Walter. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 248. 52. Ibid., p. 262-263. 53. Vincenzo Consolo & Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, intr. Maria CORTI, Milano: Bompiani, 1999, p. 38. spessa, l’oblio d’ogni nesso… illuso ancora dell’ascolto, tu procedi» (SP,p. 72): ossia l’impossibilità della narrazione; l’esito estremo della poetica di Consolo. Ricorrendo alle riflessioni dello stesso Consolo, la simbologia è questa: il narratore, l’anghelos, il messaggero, non appare più nella narrazione. È rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.54 Per Massimo Onofri Lo Spasimo di Palermo è un’opera senza precedenti in Consolo. Il critico afferma che la narrazione contiene gli abbozzi di parecchi altri romanzi e di fatto ne conta ben cinque: un romanzo sul rapporto Italia-Sicilia; un romanzo sul rapporto padre e figlio (il padre di Gioacchino/Chino e Chino); un secondo romanzo padre-figlio (Chino e Mauro); inoltre un romanzo d’amore (Chino e Lucia); e infine, un romanzo di «oblìo e dimenticanza».55 A questi cinque pseudo-romanzi se ne potrebbero aggiungere anche altri, se non romanzi, almeno fili di possibili romanzi: per esempio, il romanzo sulla mafia; un giallo (ma qui giallo va inteso nel senso della critica severa fatta da Consolo alla letteratura di consumo, giallo incluso); e infine, un romanzo-nostos alla Vittorini. Una delle difficoltà della narrazione di Consolo risiede esattamente in questa molteplicità di fili romanzeschi, nessuno dei quali è predominante, ma che accoppiati producono una narrazione che ci sembra unica nell’attuale panorama letterario italiano. Tuttavia, quest’idea di Onofri dei tanti romanzi all’interno della narrazione è interessante anche per vari altri aspetti: innanzittutto, nessuno dei romanzi che elenca è completo; in secondo luogo, è altrettanto vero che lo Spasimo contiene in sé i momenti testuali di tutta l’opera consoliana. Quindi ci sembra che lo Spasimo costituisca quello che potremmo chiamare l’autobiografia estetica di Consolo, ovvero una sorta di autoritratto artistico di Consolo-autore: non nel senso che Consolo abbia scritto un’autobiografia tout court, ne siamo ben lontani, ma in quanto ha invece immaginato una narrativa che è fondata sui propri testi. La grandezza e l’importanza dello Spasimo si basano in parte sulla presenza delle altre narrazioni consoliane all’interno dell’opera, che proprio per il loro coabitarci offrono una specie di critica della poetica dell’autore e ne danno anche qualche spiegazione. Non è soltanto una forma ludica di autoplagio, né un riesame della sua poetica, ma una specie di summa, in cui le scelte ideologiche ed estetiche sono portate alla loro naturale conclusione. Quel che intendo dire è che la narrazione rivela tracce dei romanzi precedenti; il che ci suggerisce che lo Spasimo è sovra-scritto, un doveroso palinsesto che ci porta indietro nel tempo fino a La ferita dell’aprile del 1963. Quindi, se accettiamo che lo Spasimo è l’ultimo episodio della trilogia consoliana, dovremo ammettere che l’autore vi implica e problematizza anche tutta l’opera pubblicata fino a quella data. In breve, oltre alla solita presenza di altri poeti e autori, sia antichi che moderni, la presenza letteraria più forte nello Spasimo è Consolo stesso. Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 179 54. Cfr. Vincenzo CONSOLO, «Per una metrica della memoria» cit., p. 258. 55. Massimo ONOFRI, Il sospetto della realtà, cit., p. 183. Non mi soffermerò sui legami formali e tematici fra lo Spasimo e gli altri due romanzi storico-metaforici della trilogia: Il sorriso e Nottetempo. Vorrei qui segnalare, invece, come gli altri testi consoliani influiscano sulla poetica dello Spasimo e ne partecipino. Un interessante esempio ci è fornito dal primo romanzo consoliano: La ferita dell’aprile. In entrambe le opere, la prima e l’ultima, si evoca lo stesso mondo del secondo dopoguerra. Le nuove scelte per l’Italia appena liberata costituiscono una tematica importante nei due romanzi. Inoltre, in entrambi, questi eventi vengono visti attraverso gli occhi di due ragazzi irriverenti: nello Spasimo da Chino e nella Ferita dallo sparginchiostro», il giovane Scavone. Infine, i due ragazzi sono allevati dai loro zii, da zio Beppe nel caso di Scavone e nel caso di Chino, dopo la morte del padre per mano dei soldati tedeschi, da quella figura derobertiana e pirandelliana che è suo zio Mauro. Un altro importante avantesto è un racconto del 1981. Quel che importa è che in ben due occasioni nello Spasimo Consolo ci rimanda a questo racconto, ma adoperando un titolo diverso: La perquisizione. Il racconto va infatti identificato, per ragioni sia testuali che tematiche, con «Un giorno come gli altri» che, come dimostrato sopra, è uno dei testi chiave di Consolo, specialmente in quel suo distinguere fra lo «scrivere» e il «narrare». Ma nel racconto c’è inoltre un livello tematico che spazia tra gli «anni di piombo», le incursioni poliziesche nelle case, e anche i dibattiti ideologici più ampi del periodo e gli effetti reali della guerra fredda. Alla fine la casa dello scrittore è violata dalla polizia: Irrompono, mitra spianati, modi feroci; si dirigono subito nel mio studio. Mi appiattisco, mani in alto, contro la parete, sotto il disegno di San Gerolamo. Mentre uno mi sta a guardia, con l’arma contro il petto, gli altri si mettono a buttare giù i libri, loro vi passano sopra con gli scarponi. Nuvolette di polvere vengono su dai mucchi come da piccoli vulcani. Finita la perquisizione, sulla porta, il capo, ghignando, mi consegna il foglio. Lo afferro, leggo: «Procura della Repubblica in Milano. Il PM letto il rapporto … in data… della Tigos…». «Lo conosco, quest’ordine, lo conosco …» dico balbettando. «Lo sappiamo» risponde quello. «E sappiamo che tu scrivi, che narri di Milano … Mannaggia, ci mancano le prove!» e con la mano, scendendo le scale, mi fa capire di non dubitare, che prima o dopo le troveranno, le prove. Sul pianerottolo, affacciandomi, grido giù nella tromba delle scale: «Non è vero, io non so scrivere di Milano, non ho memoria …».56 Nello Spasimo il protagonista ricorda un racconto che aveva scritto su un glottologo che leggeva la storia di un re che narrava e governava: solo il Re che narra è un narratore perfetto perché lui non ha bisogno della metafora, lui governa, comanda e nello stesso momento scrive. Ma poi questo sogno letterario -archeologico si scioglie per via dell’«incubo dei colpi fragorosi dei poliziotti sulla porta, mitra spianati, che irrompono, sconvolgono la casa. […] Termi56. «Un giorno come gli altri», cit., p. 1441-1442.  nato il racconto La perquisizione, aveva lasciato i fogli sopra il tavolo» (SP, p. 83-84). Un po’ prima Consolo aveva scritto: Ricordò il racconto La perquisizione che appena scritto aveva lasciato sopra il tavolo. Mentre i militi, venuti per il figlio, buttavano giù libri, rovistavano cassetti, armadi, il poliziotto lo leggeva. «Mi sembra di sognare» disse. A lui, privo di metafore, correlativi obbiettivi, puntelli di rovine. Il boemo dimesso, cupo, guardava intorno, dietro, traversava le rotaie, saltava il tram che dal Sempione portava verso l’Arco, il Parco, si credeva pedinato. «Lo Scherzo» disse, «la sua traduzione in Francia, in Italia…» Si sedette contro il muro, bevve il vino, assalì maldestro gli spaghetti, spiò l’uscio, la finestra. Signore in seriche casacche orientali andavano e venivano, il branzino sul piatto, rivolgevano domande a Saul Bellow, chiedevano di Singer, Malamud. L’ospite parlava solo di Cuba, della Bolivia, dell’amico Gabo, fra gli intellettuali la discussione s’era accesa sopra Praga, cosa pretendevano infine, e noi, le basi aree, le corazzate dentro i porti? «Merde, merde!» fece il boemo paonazzo, sbatté il piatto, uscì furioso dal salotto, da quella ricca casa. (SP, p. 66) La fonte di questo brano è ancora una volta «Un giorno come gli altri», in cui si racconta la storia di un’esperienza fatta da Consolo ad una festa organizzata nel 1969 a casa di un editore in onore di Saul Bellow. Nel passo si può inoltre ravvisare un’allusione a T.S. Eliot e in particolare a The Love Song of J. Alfred Prufrock. L’immagine delle «Signore in seriche casacche orientali» che «andavano e venivano» ricorda i versi: «In the room the women come and go/ Talking of Michelangelo». Anche il riferimento ai «correlativi obbiettivi» rimanda decisamente a Eliot, che è senz’altro uno dei poeti preferiti di Consolo e tra quelli da lui piú spesso citati. Per esempio nell’incipit dello Spasimo Consolo rimaneggia i versi ormai canonici di Prufrock: «Let us go then you and I». Vi si legge difatti: Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, ndiamo» (SP, p. 9).57 Ma torniamo a «Un giorno come gli altri», al passo in cui si racconta: M’ero portato appresso un mite e dimesso poeta cecoslovacco, anche lui di passaggio in quei giorni a Milano. Si chiamava Vladimir … (il cognome lo taccio, non si sa mai… Anzi, si sa). […] Ci passavano davanti bellissime donne, eleganti, vestite alla russa, alla cinese. Ci scorse poi la padrona di casa, la moglie dell’editore […]. Poi fa, rivolta a me: «Lei è sudamericano?» «No» dico, e lei si allontana, delusa. Fu verso la mezzanotte che successe il fattaccio. Vladimir, 57. In corsivo nell’originale. 182 Quaderns d’Italià 13, 2008 Daragh O’Connell oltre ad avere mangiato, aveva anche molto bevuto. Ma egli era mite e mite rimaneva, triste anzi, anche con tutto l’alcool che aveva in corpo. Non fosse stato per quello scultore. Si siede vicino a noi e, quando scopre che Vladimir è cecoslovacco, si mette a dire che bene avevano fatto i russi ad arrivare a Praga coi carri armati: cosa voleva questo Svoboda, questo traditore di Dubcek? Vladimir diveniva una furia. Afferrò lo scultore per il petto, cominciò a scuoterlo, a picchiarlo, urlando nella sua lingua insultandolo. Tutti accorsero, si ammassarono attorno a quei due che si picchiavano e a me che cercavo di separarli. Poi, rosso di ergogna come fossi stato io la causa di tutto, riuscii a trascinare per la giacca il poeta praghese, a passare in mezzo a tutti nel grande salone (scorsi un attimo Bellow, roseo, bianco, le mani in tasca, che ci guardava e sorrideva divertito), a guadagnare la porta.58 Quindi, La perquisizione è una specie di doppio testo per lo Spasimo e rafforza sempre di più il binomio Consolo – Martinez. Retablo del 1987 è un altro romanzo consoliano che ha un ruolo notevole nello Spasimo, anche se ambientato nel Settecento. Il suo protagonista milanese, Fabrizio Clerici (l’ennesimo doppio nell’opera di Consolo), è in realtà una figura molto moderna e il suo presente va visto attraverso le lenti del passato. Ad un certo punto del romanzo Clerici scrive a Maria Teresa Blasco (la nonna di Alessandro Manzoni) implorandola di lasciare Milano tra un’imprecazione e l’altra contro la città: O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O Secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impara e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan!59 Questa è la stessa Milano che il narratore evoca all’inizio del capitolo VIII dello Spasimo. Una volta luogo di speranza, «approdo della fuga» in cui si concentravano le qualità della società civile —«orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore e tolleranza»— questa Milano è per il narratore un sogno diventato incubo: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino 58. «Un giorno come gli altri», cit., p. 1438-1439. Il nome del poeta ceco è Vladimir Mikesch. Nello Spasimo viene trasformato in Milan Kundera. 59. Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 103-104. Al riguardo, cfr. inoltre ID., Fuga dall’Etna, Roma: Donzelli, 1993, p. 61-62. «Arrasso» significa «lontano». È un sicilianismo utilizzato da Consolo per la prima volta ne La ferita dell’aprile ([1963] Torino: Einaudi, 1977, p. 110): «arrasso di qua». Consolo narratore e scrittore Palincestuoso Quaderns d’Italià 13, 2008 183 e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità. Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tennologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio. (SP, p. 91)60 Se in Retablo Milano era in realtà la Milano craxiana degli anni Ottanta, la Milano dello Spasimo è la Milano berlusconiana, la Milano della Lega Nord. Un’altra opera che al di fuori della trilogia è molto visibile nello Spasimo è la silloge Le pietre di Pantalica e in particolare il racconto eponimo. Nello Spasimo Gioacchino incontra un giudice dopo il suo ritorno in Sicilia: l’opera costituisce per certi versi un punto di rottura entro la tradizione siciliana, è uno dei primi esempi nella letteratura siciliana in cui un magistrato rappresenta valori positivi e diviene simbolo di una condizione eroica. Nella figura del «Giudice» di Consolo il personaggio rimane anonimo, ma risulta tratteggiata la persona di Paolo Borsellino, il cui assassinio alla fine del romanzo rappresenta la morte dello Stato italiano e segna il rifiuto stesso del genere romanzo. Questo giudice riconosce lo scrittore Martinez e l’accompagna a casa con la scorta. In macchina, il giudice sciolse un poco l’espressione rigida, sorrise appena sotto i baffi brizzolati. «Ho letto i suoi libri… difficili, dicono. Di uno mi sono rimaste impresse frasi su Palermo» socchiuse gli occhi, recitò: «Palermo è fetida, infetta. In questo  luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino …» «Sono passati da allora un po’ di anni …» disse Gioacchino. «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale … o forse peggio.» (SP, p. 115) In realtà la personificazione di Borsellino sta citando da Le pietre di Pantalica e quindi l’intertestualità del brano è resa più  problematica, diviene una forma curiosa di auto-plagio: Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. […] Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capret60. «tennologico» è un milanesismo che serviva a Consolo come ammiccamento al linguaggio berlusconiano. Secondo chi lo traduce in francese con «tennologique», è un termine «que renvoie aux logiques du tennis et, plus largement, à la banalisation inhérent aux choses: aussi tous les nom propres (Sesto, Cinisello, etc.) deviennent des noms communs, transcripts en caractères minuscules». Cfr. Vincenzo CONSOLO, La Palmier du Palerme, trad. Jean-Paul Manganaro, Paris: Éditions du Seuil, 2000, p. 108. 184 ti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta.61 Nello Spasimo il brano serve inoltre ad identificare sia Borsellino che Consolo come protagonisti di questa tragedia narrativa. Quindi, è proprio vero che l’opera costituisce una sorta di autobiografia intellettuale ed estetica dell’autore: in queste pagine confluiscono frammenti, stralci o estratti, temi, scelte ed esperienze delle precedenti narrazioni di Consolo, come attrattivi da una forza centripeta. Lo Spasimo è anzi un ipertesto, forse il lavoro più ipertestuale di Consolo, nel senso che si viene formando sui suoi tanti ipotesti autoriali. Di conseguenza, ci sembra un testo intensamente palinsestico, realizzato attraverso un meditato processo di riscrittura, o sovrascrittura, e autocitazioni d’autore. La narrazione che ne risulta è un’opera narrativa ibrida in cui le tante forme delle opere precedenti trovano spazio e per certi versi sono riviste, riscritte e re-iscritte. In breve, ribadendo la definizione già data, Lo Spasimo di Palermo è la summa della poetica consoliana. In ultima analisi, questi sono alcuni dei motivi per cui penso che sia giusto parlare di Consolo come di un narratore palincestuoso. 61. Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 170. Il corsivo è dell’autore
Quaderns d’Italià 13, 2008 161-184