Consolo, disperazione in Sicilia

L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.

E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato.  Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso la dialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 3 settembre 1994
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Consolo (Mondadori, pagine 149,)
Gibellina: un sudario di calce
di Vincenzo Consolo

Da «L’olivo e l’olivastro»

Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza, nella memoria dissolta, nell’estraneità, nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro di marmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfalto il fiore stridente, la stella texana, la porta per la fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghe strade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge, vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliati dall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardini di pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli, cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillini alfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata del frammento, l’arco il portale il timpano infranto. L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre, fra le astratte sculture imponenti, le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne (…). Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori da una casa del nuovo paese, cammini sulla strada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo. «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré… », rispondi. «Che dico?… Mi chiamo Nicola, sono nato a Gibellina, ho lavorato nelle cave di Meirengen. vicino Basilea. Ho là moglie, figli che non vogliono più tornare in questo paese». «Ti riconosco, Nicola, e son passati tanti anni, sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione di Milano…». «Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una faccia diversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamo per quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce, di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, ai ruderi spianati e coperti da un’immensa colata di cemento, da una coltre bianca, da un sudario di calce. Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello, la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola.
L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggio la violenza, la corruzione delle coscienze: «La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»


Vincenzo Consolo: «Falcone, il furore di un siciliano giusto»



In un torrido fine giugno del 1963, a Ciaculli, un’Alfetta carica di tritolo uccideva, dilaniandoli, sette carabinieri: un tenente, tre marescialli, tre semplici guardie. Fu quell’esplosione il primo, tremendo cambio di linguaggio della mafia: dall’antico, rurale linguaggio dei pallettoni della lupara passava al linguaggio moderno e cittadino del tritolo; dalle vendette contro singoli avversari alle cieche, indiscriminate stragi con l’esplosivo o con le sventagliate di mitra. Ora in quella località sopra i colli che circondano Palermo, in mezzo ai fitti giardini di mandarini che in alto lasciano il posto alla scabra nudità della roccia, si erge una stele che ricorda le vittime: «Alla memoria di coloro che la mafia stroncò a Ciaculli e del loro sacrificio che trasformò l’esecrazione in un moto di riscatto civile» vi è sopra inciso. In quell’ estate, ai funerali del tenente Mario Malausa e dei suoi uomini, crediamo abbia assistito, sgomento e addolorato, l’allora ventiquattrenne Giovanni Falcone. Fresco di laurea, crediamo che quei morti, il dolore e il furore per quei servitori dello Stato assassinati in quel modo, abbiano spinto il giovane a compiere la sua scelta di vita, a entrare nella magistratura. Era nato Falcone nel cuore della Palermo storica, nell’ arabo quartiere della Kalsa, nell’ antica piazza della Magione che le bombe della guerra avevano lacerato e ridotto in macerie, in una vaga spianata ancora oggi là sotto il sole. Era figlio di un chimico, un uomo serio, rigoroso, morto prematuramente, e di Luisa Bentivegna, figlia di un ex sindaco di Palermo. Aveva compiuto gli studi medi al liceo Umberto, dove il bravo professore di storia e filosofia Franco Salvo esercitava una grande influenza sugli allievi. E aveva frequentato l’oratorio di San Francesco, presso i frati della chiesa medievale, dove era divenuto amico di un coetaneo nato nello stesso quartiere, nella piazza Vetreria, del futuro collega Paolo Borsellino. Falcone, Borsellino, il nisseno Giuseppe Ayala, l’abruzzese Giuseppe Di Lello, altri coetanei, sono i giovani di una nuova storia della magistratura palermitana: giudici che per una diversa coscienza civile, per profonda indignazione di fronte alla crescente violenza, alla barbarie vergognosa della mafia, a causa dei grandi delitti degli anni Settanta, degli assassinii di giudici sagaci e onesti, Costa, Terranova, Chinnici, assassinii di carabinieri e poliziotti, si riunivano attorno al giudice Caponnetto a formare il pool antimafia che porterà all’ incriminazione dei capi di Cosa Nostra, al grande processo del febbraio 1986. In quella mattina di vento, di pioggia, di grandine, ero anch’ io a Palermo all’ apertura del processo, entrai in quell’ aula verde, in quel bunker a forma di grande ventaglio, salii sulla tribuna della stampa, fui spettatore e cronista di quella storica liturgia giudiziaria. Vidi, dietro le sbarre delle gabbie, i volti di famigerati mafiosi, di Luciano Liggio, sprezzantemente vestito con tuta da ginnastica e scarpe di gomma, di Giuseppe Bono, di Pippo Calò. Ma vidi soprattutto, oltre al presidente della corte Giordano, la figura smilza, il viso scavato di antico cavaliere spagnolo, del pubblico ministero Ayala, il volto olivastro, con la folta barba brizzolata, di Falcone. Mi raccontava un fotografo di Palermo, uno di quelli costretti a fotografare morti ammazzati coperti da giornali, da lenzuola per le strade di Palermo, che l’aveva impressionato in due mesi, mettendo accanto due foto del giudice Falcone, scattate a poca distanza una dall’ altra, il rapido invecchiamento di quell’ uomo. Incontrai poi Falcone, insieme ad Ayala, qualche anno fa a un ricevimento in casa di comuni amici. Ci presentarono, mi fecero sedere accanto a lui. Non scambiammo che qualche parola. Mi colpì di quell’ uomo, oltre alla sua ritrazione, al suo rifugio nel silenzio, l’immobilità, del viso e della figura, la rigidità quasi, in contrasto con quegli occhi neri, mobili e attenti. Capii che a quell’atteggiamento, a quella incapacità di sciogliersi anche in un ambiente sicuro, in un contesto conviviale, l’aveva ridotto la vita disumana, da segregato, in continuo allarme per ogni rischio, per ogni pericolo che improvvisamente poteva presentarglisi, per l’enorme peso di lavoro, di responsabilità che era costretto a sostenere. Ayala invece reagiva a quella vita in modo del tutto opposto: con vivace, calorosa colloquialità, con allegria. Falcone non aveva più la barba brizzolata, gli erano rimasti solo i baffi sopra quelle labbra dalla parola avara, in quel viso da arabo con quell’espressione pensosa, triste, di uomo «con toda su muerte a cuestas», come dice il poeta. Aveva tanto lavorato e lottato per arrestare quel linguaggio fragoroso e mortifero della mafia, quel linguaggio del tritolo dall’ accento ormai da terrorismo basco, da guerriglia libanese.Ѐ stato fermato sulla strada che da Punta Raisi lo portava a Palermo, tra l’alta roccia e il mare. Ѐ morto insieme alla povera moglie, Francesca Morvillo, ai fedeli uomini della scorta. La tonnellata di tritolo è esplosa nella vacanza della suprema autorità, nel vuoto del governo dello Stato, mentre le forze politiche si staccano sempre più dalla realtà di questo Paese, si avvitano in loro stesse nella lotta per il potere. C’è un famoso romanzo popolare palermitano, I Beati Paoli, scritto all’ inizio del secolo da Luigi Natoli, in cui si racconta di una settecentesca setta segreta che nella carenza del «braccio della Giustizia» statale, compiva vendette, faceva eseguire omicidi. La strage di oggi ci fa sospettare che una setta di Diabolici Paoli, massonerie, logge segrete, servizi deviati dello Stato o quant’ altro, in questo momento delicato, come in altri simili momenti, servendosi della mafia, o al di là o al di sopra della mafia, compia simili stragi perché i misfatti restino impuniti, per gettare il Paese nella confusione, nel terrore. Eliminando questa volta un uomo giusto ed eroico, uno dei siciliani migliori che non finiremo di rimpiangere; eliminando con lui altri quattro innocenti, nobili servitori dello Stato.

Vincenzo Consolo (Corriere della Sera, pag. 9, 26 maggio 1992)

Figlio dello zolfo

Vincenzo Consolo – Far risalire l’uomo dal sottosuolo

Racalmuto, Regalpetra: la sua Yoknatapawpha, la sua Orano. La sua, di Leonardo Sciascia. Credo che non si possa capire questo straordinario uomo e questo grande scrittore, al di là o al di qua del più vasto teatro della Sicilia, dell’Italia o della civiltà mediterranea, senza questo piccolo mondo, questo suo piccolo paese di nascita e di formazione, sperduto nella profonda Sicilia. Un paese “diverso”, singolare.
Un paese del mondo dello zolfo. Qui, in questa zona del Girgentano, era avvenuta alla fine dell’800, una profonda, radicale rivoluzione culturale: al mondo della rassegnazione, dell’abbandono al fato immutabile, al mondo della passiva ripetizione di sentenze sapienziali, della inutile lotta di piccoli uomini come i Malavoglia e di disperati titani come Gesualdo Motta, votati comunque a una uguale sconfitta, questo mondo orizzontale ed eternamente circolare, scandito dalle chiuse, dai tumuli e dalle salme di terra che servono solo a seppellirvi chi accumula e possiede, era subentrato un mondo verticale, profondo e orrifico, dentro cui il contadino, già da una estrema condizione di insicurezza, di povertà, era precipitato: laggiù, dentro la miniera, spogliato d’ogni illusione, fantasia, spogliato nel corpo d’ogni riparo, avrebbe lottato contro la paura e la disperazione, contro la degradazione, l’annientamento. In quella condizione estrema d’una zona estrema, dalla spirale di quell’inferno sotterraneo, l’uomo poteva precipitare in basso o risalire verso la superficie. Ritrovando tutta la sua ragione, la sua volontà, la sua dignità. Regalpetra è formato da questa umanità: da zolfatari usciti dalla disperazione e dalla disgregazione della ragione, dalla stupefazione anche di fronte al paesaggio arso e pietroso attorno alla miniera, un paesaggio da Tebaide, da eliotiana “Terra desolata”: un mondo aspro, di ceneri e detriti, un’aria inacidita dai fiati dei “calcaroni”, incolore, sbiadito finanche nei vestiti delle donne, ma che tuttavia, la “peregrina della notte”, la luna può addolcire con la sua argentea luce e commuovere come in Ciáula che risorge dalle viscere della miniera.
E, fra le case del paese, nelle vie di Racalmuto, nei circoli, lo zolfataro racalmutese, deposta ogni rassegnazione al fato, ogni soggezione al padrone, ha imparato a ragionare, a parlare: un linguaggio nuovo, non più di proverbi, ma di sottile analisi, di conoscenza e comprensione della realtà; ha imparato a ragionare della realtà, della propria condizione umana e sociale, del suo stare e lavorare dentro un consorzio sociale. Di questa Racalmuto Sciascia è figlio, è uomo prima ancora che scrittore.
Dal cuore di questo pane giallo di zolfo è venuto fuori il cristallo limpido e tagliente della sua intelligenza, il calore della sua umanità; la pietà e il furore, la volontà e la tenacia. Da qui la sua lotta accanita, dura, disperata, contro le violenze della storia, del potere, contro la menzogna, l’impostura, l’ignoranza, la malafede, il fanatismo, la stupidità.
Da questo cuore profondo della miniera racalmutese è sgorgata la splendida metafora del mondo contenuta in ogni suo libro. “Tutti amiamo il luogo in cui siamo nati, e siamo portati ad esaltarlo. Ma Racalmuto è davvero un paese straordinario…di Racalmuto amo la vita quotidiana, che ha una dimensione un po’ folle. La gente è molto intelligente, tutti sono come personaggi in cerca d’autore” scrisse.
Il teatro di Racalmuto era dichiarato ed evidente nel suo primo passo letterario, che, ricordiamocelo, fu lirico, sentimentale, un libro di versi : La Sicilia, il suo cuore; e quindi, nella prosa più secca, lucida e denunciatoria, quel libro che conterrà tutti i suoi libri futuri: Le parrocchie di Regalpetra.
Solamente due volte infine Sciascia, nella sua inimitabile misura e pudore dei sentimenti privati, ha apposto una dedica ai suoi numerosi libri: a Morte dell’inquisitore, dedicato agli “uomini di tenace concetto” di Racalmuto; e a Occhio di capra, dedicato “Ai miei nipoti Fabrizio, Angela, Michele e Vito perché ricordino”. Occhio di capra è la raccolta estrema, di salvataggio, in questo nostro mondo di cancellazioni e di perdite, dei modi di dire, di proverbi racalmutesi.
Recita così uno di essi: “E il cucco disse ai suoi piccoli / al chiarchiàro ci rivedremo tutti. Per dire dell’appuntamento che tutti abbiamo con la morte”.
Ma questo luogo aspro e aguzzo che è oggi il mondo, questa Tauride disumana, questo chiarchiàro la scomparsa di Sciascia rende ora per noi più triste, più desolato.

(dal Corriere della Sera, 21 novembre 1989)
confluito in Nuove Effemeridi
Editori Guida anno III, n.9, 1990