Incontri (Storie di cause celebri) Mostra fotografica di Giovanna Borgese

Università di Messina, 19 giugno 2003

MOSTRA FOTOGRAFICA DI GIOVANNA BORGESE

Nel 1931 il grande scrittore Giuseppe Antonio Borgese emigrava, per ragioni di antifascismo, negli USA. Da lì inviava al Corriere della sera corrispondenze che, raccolte poi in un volume, presero il titolo di Atlante americano.  Dice, in quei suoi articoli-saggi, di Manhattan, la “città assoluta”, dell’Empire State Building, il grattacielo dello Stato dell’Impero (inaugurato proprio nel 1931), della trasformazione della lingua inglese nell’americano, in quella lingua ch’egli dice monosillabica, della Provincia, della Frontiera americana…  Diceva insomma, Borgese, in quell’Atlante americano, della “prigione”, dell’Incubo ad aria condizionata, come l’ha chiamata Henry Miller, che era, che è oggi più che mai, l’America.
Nel 1936, Borgese in America, in inglese, Golia, marcia del fascismo, pubblicato poi in Italia nel 1946.
Golia era una delle più profonde e severe requisitorie contro il fascismo, l’arringa dottissima di un pubblico ministero nel tribunale della storia contro le colpe di un Paese consegnatosi all’orrore della dittatura, contro il Paese dei tribunali speciali, della pena di morte, della denunzia e della condanna degli oppositori, del loro imprigionamento, del loro confino di polizia, e del loro assassinio.
“Golia”, scrisse Renato Poggioli “è da collocare nella linea italiana del Principe e della Storia di De Sanctis.
Oggi qui ho il privilegio di parlare, se pure inadeguatamente, della Mostra fotografica di una lucida storica, attraverso le immagini, di questo nostro Paese; di parlare delle fotografie di Giovanna Borgese. Il grande scrittore era suo nonno. Giovanna ci restituisce immagini della storia italiana appena passata, l’atroce storia che parte dagli anni Settanta e si fa evidente, si rappresenta sul palcoscenico del teatro giudiziario a cavallo degli anni Ottanta.  Dal ’69, e via via dopo, erano state compiute stragi, in questa Italia che sembra immobile, sempre uguale a se stessa, erano stati compiuti omicidi politici, fra cui quello più tremendo nella sua spettacolarità, più oscuramente emblematico di Aldo Moro; dilagava la corruzione politica, il malaffare, il terrorismo, assassinio di segno nero e rosso, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la devianza dei servizi segreti, dei poteri dello Stato; prendeva potere la finanza criminale, come quella di Sindona, Calvi o di Marcinkus, e la balzachiana setta dei Devorants con il suo Ferragus, che erano la Loggia Massonica P2 e Licio Gelli.
Il potere politico democristiano intanto, legato alla o sostenuto dalla criminalità, era tetragono, indifferente a ogni nefandezza, continuava a dominare il Paese.  E quindi i responsabili, una minima parte dei responsabili dei crimini, delle nefandezze, arrivava in Tribunale, davanti ai giudici.  E Giovanna Borgese fotografa questa umanità approdata nei Palazzi di Giustizia.  Palazzi che sono quelli di Milano, Torino, Padova, Roma, Cremona, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Bergamo, ecc.
Si legge, in queste immagini, l’angoscia e insieme la pietà della fotografa nei confronti dell’umanità.  Ma si legge anche, nelle immagini, repulsione, ironia, acutezza e trepidazione in un luogo come il Tribunale, dove culmina la tumultuante tragedia, si placa, per prendere astratta e definitiva forma giuridica.  Ed è per questo che le foto, trascendono la cronaca, diventano  prezioso documento umani, libro di storia.
La storia di quegli anni nostri in cui sembrava – sembrava allora, come sembra più che mai oggi, in questa felice tarda primavera del 2003, in un Paese governato da un signore che si chiama Berlusconi – sembrava, dicevo, che una sorta di malattia morale, di peste fosse dilagata: la peste dell’irrazionalità, della disgregazione delle coscienze, della sopraffazione e della violenza.
E come in tutte le epidemie, le pesti, si riempivano le fosse di cadaveri, si affollavano i cameroni dei lazzaretti di contagiati. Così, la malattia di quegli anni sovraffollava le carceri di imputati in attesa di giudizio, stipava i gabbioni di vaste palestre adattate ad aule giudiziarie, per celebrare processi di massa. È qui dunque, e non forzatamente, che cogliamo la rispondenza fra Golia e queste foto. Nel fatto che G.A. Borgese, il nonno, individui le cause della nascita del fascismo, della Grande Involuzione, più che in oggettivi fatti storici, nel soggettivo disordine etico, nella malattia spirituale che di tempo in tempo riaffiora nel carattere italiano.  Riaffiora quello che Carlo Levi ha chiamato “l’eterno fascismo italiano”. E nel fatto che Giovanna Borgese, la nipote, abbia colto nei lazzaretti, nelle aule dei tribunali, sui corpi e sui volti delle persone i segni della malattia riemersa in quegli anni nel nostro Paese, prefigurazione di quella malattia a contatto della quale oggi noi viviamo.
Dicevamo che nei tribunali culmina e si placa la tragedia.  Ma da lì non si può fare a meno di uscire e ripercorrere le fasi del suo svolgersi, di riandare per le strade delle nostre città e rivedere i morti ammazzati dai camorristi, dai mafiosi, dai terroristi; i morti per droga; di leggere nelle facce porcine, da faine o da volpi di politici, generali, finanzieri, le ruberie, le corruzioni, le speculazioni, le esportazioni di capitali all’estero: di tutto lo scialo insomma dei potenti che hanno prostato l’economia del nostro paese.

Gli imputati, da una parte – da Liggio, a Cutolo, a Curcio, a Moretti, a Peci, a Negri, a Fioravanti, a Rizzoli, a Tassan Din, a Sindona, a Calvi ( La sua testa chiusa nel cerchio dei berretti dei carabinieri!) … Gli imputati, da una parte, dall’altra, i giudici – dal procuratore generale di Milano Corrias, al consigliere di Cassazione Scopelliti (che sarà ucciso dalla ?ndrangheta), ai magistrati della Suprema Corte di Cassazione (che sembrano creati dalla fantasia di Daumier), agli allora giovanissimi giudici istruttori Turone e Colombo. Tutti insomma, i grandi e piccoli sacerdoti della giustizia. Fenomeno metafisico, la Giustizia, come la religione, come l’arte. Partecipano, tutti e tre, del mistero della creazione.  Nella Giustizia, il momento creativo è quello della sentenza.  Quando il giudice legge la frase di rito: “In nome del popolo italiano…”, è allora che crea la verità giuridica.  L’altra verità, quella storica, da quel momento non esiste più, non ha più valore. Così i giudici, investiti di questo terribile potere, tendono a formare un corpo separato dal resto della società, a far parte di una casta che sembra procedere su un altro piano, parallelo a quello storico.  Com’è di certi ecclesiastici, di certi artisti.  Sta alla volontà di ognuno di loro di non perdere il contatto con l’altro piano, di fare continue incursioni nella storia.  Si pensi alla vicenda umana di uno scrittore come Kafka, ridottosi in un deserto di vita, nel labirinto dei cunicoli d’una tana per dedicarsi unicamente alla trasformazione della vita in scrittura.
E proprio lui, Kafka, ha avvertito come nessuno la metafisicità della giustizia, ha sentito come la vita umana non è che un intervallo tra un’oscura imputazione e l’attesa di una sentenza. Nei giudici fotografati dalla Borgese si legge la metafisica e la storia.  La prima, negli alti magistrati acconciati nei loro paramenti rituali, “oggettivamente ritratti”, come avrebbe fatto il pittore Titorelli del Processo di Kafka, o come soggettivamente li avrebbe visti, al pari dei cardinali, Francis Bacon.  La seconda, la storia vale a dire, Giovanna Borgese la legge nei giovani pretori e nei giudici istruttori, disarmati e disarmanti, ancora “sporchi” di vita, solitari e dibattuti nella difficoltà d’essere “ “insieme umani e fuori dall’umano”. Abbiamo detto degli imputati e dei giudici.  Dimenticavamo le terze persone del dramma: i parenti delle vittime, il pubblico, i testimoni.  E, fra questi non si possono dimenticare le facce dei grandi del potere politico e di quello finanziario: Agnelli, Bonomi, Mandelli, Spada, Andreotti, Donat Cattin, Emilio Colombo…  Colpevoli e innocenti, puniti e impuniti.  Nella storia giudiziaria di questo paese, si sa, molto spesso le colonne dell’infamia sono state issate solo per i deboli, solo per gli innocenti. E le leggi che oggi si votano nel nostro Parlamento sono solo a favore di un grande imputato e dei suoi coimputati, dei cittadini più uguali davanti alla legge, vale a dire cittadini che nessun tribunale di questo paese può giudicare.

Vincenzo Consolo
Milano 18 giugno 2003

Giovanna Borgese, Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga Consolo. Foto di Corrado Stajano

Foto Giovanna Borgese testi di Corrado Stajano
Giudici di Cassazione

A un uovo


A un uovo, a una pera o meglio a un limone assomiglia il mio volto.
Ma del limone sembra abbia solo il lunare pallore, e le rughe e i pori,
non l’acre o l’acidulo dentro.
D’un limone, sì, ch’abbia perso l’umore, sia ormai avvizzito.
Che dalle due fessure o ferite della sua buccia mostri occhi penosi
che guardano ma sembra non vedano. Se si chiudono quelle fessure,
se s’imbiancano gli occhi potrebbe anche assomigliare il mio volto
a una maschera, di quelle che si cavano una volta col gesso dai volti distesi,
resi ormai fermi dal rigore assoluto.
Ha ragione quel tale che disse che la foto è la morte?

Vincenzo Consolo
per Vanitas Ediz. Alsaba 1999



” Incontri ” Matteo Reale intervista Vincenzo Consolo

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Incontro con Vincenzo Consolo


di Matteo Reale

“Noi siciliani siamo fortemente segnati da questa nascita. Non so bene spiegare il perché’ di questi segni così profondi che ci portiamo appresso: probabilmente è la storia siciliana che è molto forte, molto ricca, molto stratificata per cui il modo d’essere siciliano è molto più inquietante, credo, rispetto a qualsiasi regione italiana. E’ un’inquietudine ma anche una ricchezza culturale. Questo Pirandello l’ha capito e l’ha espresso nella sua opera: noi siciliani siamo uno, nessuno e centomila. Siamo in costante ricerca della nostra identità`, perché’ la Sicilia è fatta di tante culture, di tante anime, è passata attraverso tante dominazioni. E’ un’isola di un’infelicità sociale molto forte, che non ha mai conosciuto, nel corso della storia, armonia e pace. Perciò nasce il bisogno di fuggire da questa condizione, ma nel momento stesso in cui si fugge questi segni sembrano diventare più forti fino ad impedire un distacco definitivo.”

Così Vincenzo Consolo, scrittore messinese, descrive il particolare e indissolubile legame che si stabilisce tra il siciliano e la Sicilia. Legame che emerge come tratto caratterizzante dell’opera di ogni artista di quest’isola, nella letteratura come nelle arti figurative.

Il mio incontro con l’autore avviene nella sua abitazione durante un periodo di riposo tra un viaggio e un altro, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “L’olivo e l’olivastro” (Mondadori). Questa conversazione mi permette di appagare un’esigenza profonda, quella di rispondere al richiamo di sirena della Sicilia, al suo stesso bisogno di essere capita e accettata, anche attraverso la letteratura.

“Una letteratura connotata come la nostra, seppure su altri versanti, è la triestina: i triestini sentono come noi una condizione di marginalità`, in bilico come sono tra il mondo italiano e quello mitteleuropeo (si veda per esempio Svevo, Saba, Slataper, Magris). Quella siciliana, pero`, è molto più realistica, si rivolge ai problemi storico-sociali, da Verga al Pirandello de “I vecchi e i giovani”, a Lampedusa, a Sciascia.”

L’olivo e l’olivastro, racconto-romanzo sulla Sicilia di ieri e di oggi, è frutto di un approccio poetico e al contempo di una riflessione intorno al trapasso dalla millenaria civiltà contadina alla civiltà della Europa odierna, figlie di una cultura greca della quale, spiega Consolo, oggi non rimangono che necropoli, pietre inaridite.

“Il compito dello scrittore è quello di recuperare la coscienza del passato e del presente. Il segno più importante della nostra epoca, infatti, è quello della perdita della memoria. Si vive in un presente assoluto privo di passato e senza prospettive per il futuro. E non soltanto nella civiltà occidentale, ma anche nel mondo orientale, che fu dominato dal cosiddetto socialismo reale. C’è un tentativo da parte del potere economico e di quello politico di cancellazione di quelle che sono le piccole identità culturali: un processo di uniformazione, di omologazione. Si rischia di cadere in una sorta di distacco dalla realtà`, in una condizione di alienazione. Noi dobbiamo cercare di ricordare anche attraverso il linguaggio, perché anche il linguaggio viene cancellato: oggi siamo privati di un nostro linguaggio e siamo sottoposti ad un altro a noi estraneo.”

Così la concezione del tempo e dell’esistenza che fu di Joyce, di Eliot, di Hemingway, la linea del “perpetuo presente” viene rifiutata sul piano storico e letterario da Consolo, che vi oppone la memoria, intesa come strumento linguistico e culturale. Il linguaggio di Consolo, un impasto colto e inclita (l’olivo e l’olivastro!), utilizza le inesauribili risorse del dialetto, delle lingue straniere, del latino, di tutti gli strati linguistici che si sono accumulati nel corso dei secoli e hanno arricchito il patrimonio culturale siciliano. Il suo lavoro lessicale consiste in una sorta di scavo filologico, di ricerca in profondità e nel tempo, per recuperare e vivificare. Si svolge quindi, come lui stesso ebbe occasione di dire, seguendo due movimenti: uno verticale, storico e filologico, l’altro orizzontale, ritmico e sonoro. Stile personalissimo, che è stato definito barocco (Brancati disse che il barocchismo è una costante, un umore della letteratura siciliana), che ha fatto pensare ora a Gadda, ora a D’Arrigo: tuttavia esso diviene struttura portante dell’impianto narrativo, non resta mero esercizio di stile. Così ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), nel quale è riempito il divario tra realtà e finzione e reinventato il romanzo, così in “Retablo” (1987), nel quale la “prosa d’arte” è di per se’ uno schema, un gioco narrativo che crea una Sicilia remota ma viva e ironica.

“La mia matrice culturale è nel solco della tradizione siciliana. Lo schema letterario dei miei primi racconti è di tipo verghiano: non si può prescindere da una figura “sacra” come quella di Verga. Ho pubblicato solo quando ero sicuro di avere una mia identità`. Il mio modo di scrivere non è casuale: d’altronde è stata la sperimentazione linguistica che ha reso grande Verga: egli ha preso l’italiano e lo ha immerso nel dialetto, senza peraltro usare parole in siciliano.”

Quindi quello di Consolo è un linguaggio calato interamente nel mondo siciliano e appartenente forse ad entrambi i filoni in cui lo stesso autore distingue la letteratura della sua isola nella prefazione al saggio “Sirene Siciliane” di Basilio Reale (Sellerio, 1986). Quello occidentale di Pirandello, Sciascia e Lampedusa, storico e razionale, “e giù giù quelli del periodo normanno, svevo, aragonese, etc.”, e quello orientale, esistenziale e poetico, “a partire dal periodo bizantino, e quindi romano, greco, e indietro fino ai punti più profondi e insondati del passato, ai più arcaici e indecifrati come i loculi rupestri di Pantalica.”

Consolo svolge la sua ricerca sia sul versante storico-sociale, sia su quello lirico-poetico, addentrandosi nei crucci e nei dubbi esistenziali di una Sicilia assurta a metafora. Emergono così dai suoi romanzi, dai suoi racconti problemi costanti nella “sicilianità`”: la ricerca della propria identità`, perché’ “i siciliani”, affermava Sciascia riprendendo il Lampedusa del Gattopardo, “sono stati del tutto impermeabili alle dominazioni straniere, e un’autentica identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i secoli”; “il fatalismo individualista”, è ancora Sciascia a parlare, “che ci viene dalla nostra anima araba. La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi”; la dissoluzione del mondo mitizzato del passato e la conseguente alienazione di cui parla il nostro autore.

“In Sicilia questo smarrimento è dovuto ad un’identità molto fragile, proprio perché abbiamo molte identità: per questo è difficile essere siciliani. Fin da piccoli viviamo in quel maremoto che è la realtà siciliana. Si rischia continuamente il naufragio, la perdita della ragione. “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.” Io, questa frase di Sciascia la intendo in senso esistenziale: quando il siciliano non impazzisce diviene un uomo con una disperazione dentro. Pirandello questo lo fa dire a Mattia Pascal. Il tema della disgregazione l’ho sempre affrontato. Ci sono due modi per uscire dalla ragione: si può uscire dall’alto con la fantasia creativa (è il destino dell’artista, che non si muove su piani razionali ma poetici) o con l’impegno politico. Ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio” una ragazza sfregia in un momento di follia il quadro col sorriso (che rappresenta la ragione dell’uomo maturo che si può permettere l’ironia) perché nutre ansie politiche e vuole la realizzazione di istanze sociali. Dalla ragione si può anche uscire dal basso per disgregazione della stessa: la follia del monaco nel capitolo “Morti sacrata”, ancora ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, è la corruzione della ragione.”

“E cosa non è forzatura, cosa non è violentazione in quest’Isola? Che cosa non arriva al limite della vita, della follia? Tutto quello che non precipita, che non si disgrega, che non muore, è verdello, è cedro lunare, è frutto aspro, innaturale, ricco d’umore e di profumo, è dolorosa saggezza, disperata intelligenza” (Le pietre di Pantalica).

La stessa attività dell’artista, pur nutrita dalla fantasia poetica, rimane sempre sospesa tra l’afasia di chi trattiene un grido di fronte alla corruzione del presente e l’affabulazione continua, logorroica, accumulativa di chi butta fuori tutto, come un folle, in un impeto liberatorio. “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto. Solo può dire intanto che un giorno se ne partì con un bagaglio di rimorsi e pene. Partì da una valle d’assenza e di silenzio, mute di randagi, nugoli di corvi su tufi e calcinacci.” (Da “L’olivo e l’olivastro”)

I personaggi religiosi come quello di “Morti sacrata”, sono centrali e ricorrenti anche nell’ultima opera: ad essi Consolo associa dolori, ribellioni, pazzie. “I preti, i frati, le monache sono frequenti nel panorama della letteratura italiana (in Boccaccio e in Manzoni). Nella mia opera c’è una frequenza maggiore per via dei miei primi anni di studio all’Istituto religioso. Mi hanno sempre incuriosito: per me è impensabile come un uomo possa lasciare la vita quotidiana per accettare un ordine costituito: è tale poi la soggezione a queste regole che si ribellano, impazziscono o si innamorano (come frate Isidoro in Retablo).”

Il cattolicesimo ha dunque segnato la formazione dell’autore, come uomo e come artista. Egli, attratto dal mito di Verga e Vittorini, si trasferì a Milano per iniziare gli studi universitari proprio all’Università Cattolica.

“Mi si offri`, presa la licenza superiore, l’opportunità di fare gli studi fuori. La mia scelta di Milano fu motivata dal fatto che segretamente avevo fin da allora aspirazioni letterarie. Ma mi iscrissi a giurisprudenza perché non osai chiedere a mio padre di iscrivermi a lettere. Andai all’Università Cattolica perché c’era la possibilità di vivere in un pensionato (ricordo che costava ventimila lire al mese). Arrivai a Milano nel novembre del 1952, era seconda volta che uscivo dalla Sicilia: questa città mi colpì molto. Mi impressionò il fatto che potevo guardare il sole a occhio nudo di giorno: mi sembrava la luna siciliana.

Io frequentavo, oltre a Giurisprudenza, anche i corsi di letteratura italiana del professor Apollonio, su Pirandello per esempio. In quegli anni alla Cattolica c’erano i fratelli Prodi, i fratelli De Mita, e anche Emilio Isgrò, Raffaele Crovi, Basilio Reale, che ancora frequento.”

Consolo finì gli studi a Messina e si laureò. Risalì a Milano anni dopo, nel 1968, per restarvi. Ma senza abbandonare la Sicilia, dove è sempre ritornato per godersela e visitarla.

“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.

Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.” (da “Le pietre di Pantalica”).

Intervista di Matteo Reale pubblicata nel 1995 su “Fabula Review”, in quella che è stata la prima rivista letteraria on line

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Nella fotografia, Vincenzo Consolo (a sinistra) presenta, insieme a Vittorio Fagone, il volume di poesie I ricambi di Basilio Reale (a destra), nel 1969 a Palermo.

Una passeggiata a Palermo con le foto di Salvo Fundarotto

Salvo Fundarotto
Si forma nel laboratorio fotografico di Letizia Battaglia. Negli anni ’80 collabora come fotoreporter con il quotidiano palermitano L’Ora. Con la chiusura del giornale inizia a collaborare alla rivista dell’ Assemblea regionale siciliana Cronache Parlamentari Siciliane. Poi si dedica solo alla fotografia d’autore. Suoi lavori per Young & Rubicam, e poi per l’agenzia Grazia Neri . Le sue opere sono quasi esclusivamente in bianco e nero. Scompare a 56 anni nel 2011. 

Premio Zafferana Etnea 1968


Da sinistra: Dacia Maraini, Pier Paolo Pasolini, Vincenzo Consolo
foto Giovanna Borgese
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La prima edizione del Premio, viene assegnato ad Elsa Morante per il libro “Il mondo salvato dai ragazzini”, ed. Einaudi ed ha luogo nel 1968.  Negli anni seguenti al 1968, il Premio, destinato ad autori italiani, assume la denominazione e le caratteristiche di un “Convegno – Premio Brancati -Zafferana” inteso anche a promuovere annualmente un dibattito critico su problemi di attualità socio-culturale.