Piazza Vittorio Emanuele *, e come altrimenti?, si chiamava, e si chiama tuttavia, la piazza principale del mio paese. Si svolgeva, la rettangolare piazza, lungo la strada statale che attraversava il paese, la via Medici (garibaldino generale Giacomo Medici del Vascello), partiva dal secentesco castello dei Lanza di Trabia, già degli spagnoli Gallego, e finiva con la quinta della palazzina liberty del circolo Dante Alighieri, altrimenti detto circolo dei civili o nobili. Uno di quei circoli siciliani frequentati dai piccoli proprietari terrieri che non lavoravano, campavano di rendita, “ammazzavano” il tempo e la noia con chiacchiere e gioco delle carte, e l’unico segno che lasciavano del loro passaggio su questa terra era un fosso nella poltrona del circolo, come dice Brancati. Era bordata, la piazza, di alti, possenti platani e corredata di sedili di pietra. Il fondale, lungo il rettangolo della piazza, era formato da bei palazzotti ottocenteschi di uno, due piani, separati, uno dall’altro, da stradine acciottolate che in precipitosa discesa finivano nel quartiere dei pescatori, davanti alla spiaggia, al mare. Al di qua della via Medici, di fronte alla piazza, era l’altra fila di case: il Municipio, i palazzotti degli Zito, dei Bordonaro, dei Cupitò… Fra queste case era anche la mia, con i balconi che s’affacciavano sulla piazza. Al piano terra c’era il tabacchino delle signorine Mòllica – una di esse era la mia maestra – tabacchino ceduto poi al signor Calcaterra, e c’era la bottega del sarto Befumo.
Al piano terra del palazzo che stava di fronte alla mia casa, di là della piazza, era la sede del Fascio. Ho visto allora, da uno dei balconi di casa mia, la testa infilata tra i ferri della ringhiera, adunate e parate che si svolgevano davanti a quella sede, in piazza. Ed erano i civili del circolo, con figli e campieri, tutti in divisa, che formavano il corpo di quelle parate. Ho sentito, dagli altoparlanti appesi sull’arco della porta di quella sede, i discorsi di Mussolini. Ho sentito la dichiarazione di guerra del giugno del ‘40. “Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!” sbraitava il Mascellone “…Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria…”
Il destino, sì, di milioni di morti, di sterminati paesaggi di rovine che la dichiarazione di guerra di quel criminale avrebbe provocato. “Incoscienti, mascalzoni!” diceva mio padre guardando giù la folla che applaudiva, mio padre, che la guerra l’aveva già fatta, la Prima mondiale, in trincea, sul Carso. E questa Seconda toccò poi al mio fratello maggiore, chiamato alle armi e mandato in Lombardia, a Sesto Calende.
Vidi poi le colonne dei tedeschi passare per quella via Medici. E una colonna un giorno si fermò, sostò su quella piazza Vittorio Emanuele per il rancio dei soldati. Mangiavano lardi e cotiche infilate dentro fettoni di pane nero. Arrivò allora sulla piazza, venendo dal suo palazzo di fronte al castello, la baronessa F., seguita da una schiera di servi che reggevano cestoni di mandarini e arance, che depositarono là al centro della piazza. Un ufficiale tedesco allora s’appressò alla baronessa e non finiva più di inchinarsi, le baciò poi la mano nel salutarla. Si disse poi in paese che il maggiore tedesco aveva parlato in un bell’italiano con la baronessa, le aveva detto: “Madonna, il dono vostro sì dolce e sì gentile colma d’allegranza lo core de’ guerrieri .,.”
E poi via, via in campagna da quella casa e da quella piazza per i cannoneggiamenti dal mare, i mitragliamenti e i bombardamenti dal cielo. Poi, arrivati gli americani, tornati in paese, vidi quella via Medici, quella piazza Vittorio Emanuele ammantate di macerie, piene di fili della luce elettrica.
E di mio fratello, soldato in Continente, più nessuna notizia, da mesi, con mia madre che piangeva, smaniava. Vidi poi dal balcone passare per la via schiere e schiere di soldati italiani laceri, sfiniti, che chissà da quali lontananze a piedi tornavano alle loro case. Io scendevo in strada e chiedevo a uno, a un altro: “Avete per caso incontrato un soldato che si chiama Consolo?” E quelli mi guardavano, sorridevano mestamente e tiravano avanti. Ma un giorno, partendo da Roma, dove s’era rifugiato, intruppato in quella schiera di reduci disfatti, arrivò a casa anche mio fratello.
Vidi poi passare per la via Medici colonne e colonne d’inglesi e di americani, vidi per la prima volta su quei camion, blindati e anfibi i primi soldati neri e signorine con l’elmetto da cui veniva giù una cascata di biondissimi capelli.
E sentii quindi, dopo qualche anno, in quella piazza Vittorio Emanuele, i primi comizi per le elezioni regionali. Sentii il comunista del paese Peppino Vasi, ch’era stato sotto il fascismo mandato al confino nelle Eolie (in villeggiatura, dice oggi Berlusconi), denunziare le malefatte dell’ultimo podestà e dei suoi scherani, inveire contro quei fascisti parassiti del circolo Dante Alighieri (il cameriere, a quelle parole, ritirò le poltrone dalla piazza e chiuse porte e finestre del circolo). E sentii ancora Nenni e Girolamo Li Causi, il separatista Finocchiaro Aprile, che ebbe un vigoroso contraddittorio da parte del giovane avvocato Gino Fresina, che era stato tra i partigiani in Piemonte.
Il socialista Achille Befumo, che aveva la sartoria sotto casa mia, litigava con Peppino Vasi e sosteneva che Nenni era più bravo a parlare di Li Causi. “Questo Li Causi che fa comizi in siciliano…” diceva. “Ma non lo sa l’italiano?” E il Vasi ghignava, ghignava.
I democristiani, quelli, gli Aldisio, gli Alessi, e i “microfoni di Dio”, padre Lombardi e frate Alessandrini, comiziavano invece nella piazza della Matrice, dai balconi dell’Istituto Maria Ausiliatrice delle suore salesiane.
Ma dal balcone mio sulla piazza Vittorio Emanuele io vidi altro, vidi scioperi dei braccianti e il corteo di protesta per la strage di Portella della Ginestra…
Vidi e vidi, da quel mio balcone, in quel lontano tempo della mia infanzia
e della mia adolescenza. E dico oggi che la grande storia, la Storia, passa
anche, spesso, dai luoghi più ignoti, può mostrare la sua faccia anche in un
piccolo spazio, quale può essere la piazzetta di uno sperduto paesino, può
essere osservata dagli occhi ancora limpidi di un fanciullo ed imprimersi
indelebilmente nella sua memoria. E può essere, la storia, da quel fanciullo divenuto
adulto, anche narrata. Non nel modo scientifico degli storici di professione,
ma in tutt’altro modo.
- La piazza dal 2015 è intitolata a Vincenzo Consolo
[i] «La Sicilia», 29 dicembre 2003, «Milano, 13 dicembre 2003/ © Consolo· La Sicilia».