Genova, Fenicia d’occidente Vincenzo Consolo

Genova per noi CCI13092018

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Chimica industriale! – esclamarono tutti insieme. Tut­ti, vale a dire mio padre e i tre zii, soci della ditta com­merciale fondata da mio nonno: compravano, loro, l’olio che si produceva nella zona, nei frantoi dei proprietari ter­rieri dei paesi dei Nèbrodi, riempivano cisterne e cisterne di vagoni ferroviari e spedivano agli industriali Costa di Genova, i quali imbottigliavano quell’olio insieme ad altro ligure toscano o pugliese, con l’etichetta Olio Dante.

Chimica industriale! – esclamarono in coro durante la riunione per stabilire a quale facoltà universitaria mi sarei dovuto iscrivere, io, figlio e nipote tanto studioso che aveva appena conseguito brillantemente la licenza liceale. La chimica industriale, poiché loro avevano progettato di promuoversi da commercianti ad industriali, costruire là in paese una raffineria e imbottigliare l’olio come i Costa di Genova. E quindi io, divenuto chimico, avrei dovuto di­ri­gere l’impresa. Il più deciso, nell’imporre a me quegli studi, era lo zio Giovanni, il maggiore esperto, tra i suoi fra­telli, di olio. Gli portavano, i venditori, i campioni in bot­tigliette. Stappava, ne versava in bocca un sorso, sug­geva, schioccava la lingua, ingoiava e subito sentenziava: due gradi, tre gradi, quattro gradi… E quindi passava alla prova scientifica, con l’olio dentro l’ampolla mischiato a una soluzione che lo colorava di viola, agitato e riversato in un cilindretto centimetrato che rivelava il grado di aci­dità. L’analisi papillare dello zio e quella tecnica rara­mente discordavano.

Io, al centro di quel consesso nell’ufficio della ditta, messo di fronte a quelle due terribili parole, chimica in­dustriale, dissi timidamente, arrossendo: “Lettere classi­che voglio studiare…” Ci fu un silenzio di meraviglia, d’im­barazzo. Che venne rotto dallo zio Giovanni.

– Ma… Ma quelli sono studi per femmine! – disse.

– Si scivolò quindi verso ingegneria, architettura, medicina, farmacia, economia… Ed io sempre, cocciuto: “No, no, lettere voglio fare!”.

Mio padre allora, impietosito, mi venne incon­tro, avanzò un compromesso.

– Senti, – disse – una via di mezzo è giurispru­den­za… Quella ti apre molte strade, puoi decidere poi, da qui a quattro anni, quello che vuoi fare: avvocato, giudice, no­taio, amministratore d’azienda…

– E si guardarono, i quattro, ammiccando: un chi­mi­co sicuramente pensarono, avrebbero potuto assu­mer­lo, mentre io, da leguleio, avrei amministrato e diretto la loro industria.

– Accettai. Tanto, pensai, avrei continuato a studia­re lettere per conto mio, di nascosto, avrei continuato a leg­gere romanzi e poesia.

– E dove vuoi andare a studiare, a Palermo, a Mes­si­na…. – chiese mio padre.

– No, no, – intervenne uno zio – sempre su quei treni, avanti e indietro… Finisce che si sbanda, che non stu­dia. Al Nord, lo mandiamo al Nord! A te dove piacerebbe andare, a Bologna, a Milano, a Torino?…

– A Milano – risposi deciso. A Milano avevo sem­pre pensato, dov’erano stati Verga e Capuana, dov’erano allora Vittorini e Quasimodo, dov’era Montale.

E fu così che m’installai nella capitale lombarda, in una casa di piazza Sant’Ambrogio attaccata al portico del­la basilica, quella “fuori mano” del Giusti, e divenni pen­sio­nante, l’unico della signorina Colombo, un’anziana (co­sì sembrava a me allora diciottenne) che vestiva sempre di nero, parlava solo in dialetto e lamentava che le sue gio­vani nipoti, due gemelle, erano scappate di casa per an­da­re a Nomadelfia, a lavorare nella città dei ragazzi di don Zeno Saltini. Nella piazza, in un grande edificio, era ubi­ca­to il coi, Centro Orientamento Immigrati. Là giun­gevano i tram provenienti dalla stazione Centrale e scari­cavano mas­se di emigranti meridionali che, dopo le visite medi­che e disbrigo di pratiche burocratiche, sarebbero an­dati a lavorare nelle miniere belghe o nelle fabbriche di Svizzera e Francia. Si determinavano, in quegli anni del Dopo­guer­ra, i destini di molti italiani. Era quella la storia che allora più m’interessava, che cercavo di capire con la lettura di libri sulla questione meridionale, i libri di Gramsci, Dorso, Salvemini o Carlo Levi. Letture appas­sionate fatte insieme al doveroso e penoso studio del dirit­to privato, filosofia del diritto o economia politica.

Fu uno dei primi mesi del mio soggiorno milanese, che un giorno, di primo mattino, spuntò alla pensione del­la signorina Colombo lo zio Giovanni, l’esperto di olio, il più grande e più autorevole dei quattro fratelli.

Mi disse: – Io vado a Genova dai Costa. Tu vieni con me.

Giunti alla stazione Principe, c’incamminammo ver­so piazza Dante, dov’era il grattacielo con gli uffici dei Co­sta. Lo zio andava con passo veloce, malgrado il peso del valigione, io rallentavo per guardare la gente, mi fer­ma­vo per ammirare le facciate dei magnifici palazzi di quel­la fitta città verticale, delle chiese, mi beavo nel ritro­vare la mia luce marina, lasciati i grigiori e le nebbie di Mi­lano.

– Svelto, svelto, cammina. Ho l’appuntamento alle quattro precise. Salimmo, dentro il veloce ascensore, fino al diciassettesimo piano del grattacielo. E fummo intro­dotti nell’ufficio di uno dei Costa, Giacomo credo si chia­masse. Un signore dall’aria severa, ma dal tratto gentile, ascoltava con attenzione il parlare impacciato e affannoso dello zio Giovanni; io guardavo, al di là di una grande ve­trata, il mare in fondo solcato da navi, guardavo la conca del por­to con i denti dei suoi ponti, delle sue banchine, sognavo di salire su una di quelle navi e di andare, an­dare…

Lo zio mi scosse dall’ineducata distrazione, dal­l’in­canto, stringendomi forte a un braccio. Io volsi subito lo sguardo verso quel benevolo signore dietro la scri­vania.

– Questo mio nipote studia a Milano. Giu­rispru­denza – disse con un sospiro – Ma noi speriamo che dopo la laurea verrà giù a lavorare nell’azienda.

E quel signore sorrise, dubbioso sicuramente, nel ve­dere la mia aria svagata, sognante, di un mio avvenire di azienda, di praticità, di affari.

Dormimmo a Genova, lo zio ed io, e l’indomani, se­pa­randoci, egli sarebbe tornato in Sicilia ed io a Milano. Ma dopo che il treno si mosse e lo zio scomparve alla vi­sta, decisi di restare a Genova, solo, libero, ancora per qual­che giorno, di conoscere quella città. E la percorsi nei suoi carruggi, via Prè, via del Campo, piazza Banchi, la Ri­pa, strade strette e affollate, piene di vita, movimento. Mi riportavano, quelle strade, a Palermo, alla Vucciria, al Ca­po, ai Lattarini, a Ballarò.

Fu quella per me una giornata di gioia, di scoperte. E una giornata infine anche di tristezza, in cui vidi, verso sera, partire una grande nave piena di emigranti, di gente che avrebbe raggiunto gli Stati Uniti o l’Argentina. I pa­renti, sul molo, salutavano e piangevano.

Comprai in un negozio sotto i portici di Ripa, un sou­venir, una sfera di vetro con dentro una nave, una nave che spariva dietro la neve, se appena la sfera si scuoteva. Rimase da allora e ancora oggi quella sfera come ricordo della nave di emigranti che partiva. Ricordo anche di Ge­nova e del suo destino marinaro, di Colombo e Andrea Doria, di tutti i naviganti del Mediterraneo ed oltre le Colonne d’Ercole. Di questa città forte e tenace, di piccola terra e di infinito spazio marino, di ogni inimmaginabile avventura e di conquista prodigiosa. Da quella piccola con­ca del suo porto nacque la storia della grande Genova, della repubblica della fantasia e del coraggio. Marina, Ge­nova, come Marsiglia Napoli o Istanbul. Ummelumà, la ma­dre del mondo, chiamarono i Turchi Costantinopoli. È madre Istanbul, è madre Napoli “de Italia gloria y aun del mundo lustre”, come la elogia Cervantes; madre Istanbul e così Barcellona e Algeri. Ma Genova è padre, padri sono i suoi navigatori avventurosi, i suoi sagaci imprenditori, si­mili a quelli che partivano dagli angusti porti fenici, Biblo o Sidone, e scoprivano l’ignoto occidente medi­terraneo.

[i] In Genova per noi, Testimonianze di scrittori contemporanei raccolte da Massimo Bacigalupo, Alberto Beniscelli, Giorgio Cavallini e Ste­fano Verdino, Genova: Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 2004, pp. 36-40. Stesso testo, col titolo: Ho fatto l’emigrante per cagioni di cuore, «Stilos», supplemento di «La Sicilia», 20 luglio 2004.
Pubblicato anche su  “La mia isola è Las Vegas”
Arnoldo Mondadori Editore, aprile 2012