Della felicità del leggere

della-felicitaVincenzo Consolo
” Della felicità del leggere “.
con una nota di
Antonio Franchini
Edizioni Henry Beyle
Illustrazione di Lucio Passerini

 

*

In una casa senza libri, in un paese senza biblioteca e librerie mi sono trovato nella remota infanzia, nell’adolescenza, trovato in un deserto con brama e miraggi di letture che intuivo necessarie ad aprirmi varchi, sentieri di conoscenza e salvezza, letture diverse da quelle velenose della scuola nel fascismo o dalle altre tristi e mortificanti dispensate dai preti dell’oratorio.

  Scoprii per prima una polla d’acqua fresca nella casa d’un cugino di mio padre, un piccolo proprietario terriero che viveva d’una magra rendita, solo e scapolo, a cui la fantesca aveva regalato un figlio.  Nei momenti d’odio, di furia verso il mondo, verso il podestà e il regime, don Peppino s’affacciava al balcone e declamava versi dell’Inferno, brani di “Vittor Ugo”, dei Miserabili.  Scoprii nella sua casa nove o dieci libri (“I libri giusti per capire chi sono questi tiranni! “ diceva), che non mi dava in prestito, ma mi faceva leggere là, seduto a un tavolo di marmo, sotto il suo sguardo vigile.

  E quindi fu la volta della malaria e di Silvio Pellico.

  Prima dell’arrivo degli americani e della disinfestazione di paesi e di campagne con il DDT, nel mezzo dei giochi e dello studio, venivamo assaliti all’improvviso, noi ragazzi, da brividi di freddo, da tremori.  Dovevamo allora correre subito a casa, metterci a letto, seppellirci sotto montagne di coperte fino a che non arrivava la violenta febbre a riscaldarci, a buttarci nel delirio.  Fu durante uno di questi attacchi di febbre malarica, per la suggestione forse del racconto del maestro che riemergeva dall’inconscio, che chiesi piagnucolando Le mie prigioni.

E i miei, costernati (non seppi mai in quale modo e dove) riuscirono a trovare un esemplare squinternato delle memorie dell’eroe piemontese.  Tornato alla coscienza, divorai il libro, ma ne rimasi inappagato, per la mestizia che dentro vi stagnava, la rassegnazione.

  Un’oasi poi scoprii, ricca di zampilli, di ruscelli, d’alberi dai frutti prelibati, in casa del mio compagno delle scuole medie Beniamino, figlio d’un avvocato.  Andavo da lui a fare i compiti, a fargli i compiti, i temi, le versioni, ché Beniamino, grasso e pigro, non aveva amore per la scuola, per lo studio, e in cambio ottenevo in prestito i libri in mostra per arredo negli scaffali neri dello studio di suo padre, bei volumi intonsi in finissima carta d’India, rilegati in marocchino.  Fu grazie a quella biblioteca che potei leggere Shakespeare e Molière.

  Boccaccio e Goethe, Stevenson e Defoe, Manzoni e Nievo, Melville e Poe, Tolstoj e Dostoevskij, D’Annunzio e Deledda…  Leggere con furia, con disordine, come se dentro quei boschi fitti di parole, fra quegli immensi alberi, di cui non sospettavo la profondità delle radici, non sapevo vedere la prodigiosa altezza, il rigoglio delle chiome, andassi alla ricerca d’un tesoro.  E non capivo che il tesoro consisteva nell’ossigeno che respiravo di quel bosco, nelle erbe, nei muschi, nelle bacche di cui camminando mi nutrivo.

   Calmatasi la furia adolescenziale, il cieco bisogno di impostare muscoli e ossa ( se non avremo letto in quella tumultuosa stagione, forse mai più conosceremo il piacere, la felicità del leggere, mai scopriremo i tesori nascosti in isole lontane, mai la vera ricchezza di questo nostro mondo), comincia a sistemare, a mettere ordine nella mia biblioteca ideale, nella biblioteca anche materiale che man mano poi cominciai a formare, a possedere.

  L’incontro che non diceva più di mondi bellissimi e lontani, di isole e avventure, di folli cavalieri erranti, di re e di battaglie, di amori e di contrasti, l’incontro che per la prima volta mi fece poggiar lo sguardo sul mondo in cui ero nato e mi trovavo a vivere, sugli uomini e le cose del paese, sui pescatori e i contadini, sui baroni proprietari, su me e i miei parenti, fu con Verga.  Verga mi fece decifrare il mondo complesso, intricato della mia Sicilia, quel mondo mi fece vedere, duro e pietroso, riflesso come in uno specchio, mi fece sentire la musica sommessa, il mormorio doloroso e risentito del suo dire.  E capii che da quell’incontro, da quel mondo, e dall’altro parallelo e più moderno di Pirandello, sarei dovuto ripartire per percorrere e capire, per decifrare ogni altro mondo.  Ripartire da Acitrezza, da Vizzini e da Girgenti.

*

È difficile trovare così tanto di un autore in una singola pagina, ma forse questo Della felicità del leggere, più che essere un prodigioso emblema dell’arte di Consolo, ne è soprattutto l’ennesima riconferma. Sempre Consolo è così: ogni passaggio è stato talmente pensato, introiettato, elaborato da porsi come micro-cosmo, come goccia di mercurio, condensato di un universo.

Così in queste parole c’è il profumo di tutto Consolo e la tensione del suo intero arco creativo. C’è quel senso di asfittico e di chiuso dell’educazione religiosa contro cui si leva La ferita dell’aprile, c’è l’odore del dopoguerra, del DDT, dei boschi dei Nebrodi che si respira in Le pietre di Pantalica, c’è il senso dello scavo storico, il bisogno di retrocedere negli anni per comprendere i fatti, secondo il metodo inaugurato da Il sorriso dell’ignoto marinaio. E c’è una dichiarazione di fede letteraria che si ritrova, pressoché identica, in più luoghi di Nottetempo casa per casa: «Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskii Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l’Italia da Manzoni e Verga… Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà come i numeri e le figure della geometria, verso l’astrazione, il generale. Come l’allontanavano gli scrittori privi di verità e rispetto per la vita d’ognuno…».

C’è, infine, dovunque, una tensione duplice e contraria : un senso di malattia, un male ancestrale, incistato nella terra ma prodotto dall’incuria della storia, e un rimedio fragile eppure tenace, quello offerto dalla letteratura, che quando è vera e sofferta e rimuginata, è più autentica e salvifica della politica.

La lettura, per Consolo come per molti altri scrittori, conosce due tempi: quello dell’adolescenza e quello della maturità. Nel primo è fame, furia e disordine. Nel secondo diventa strumentale, si fa appoggio, fondamenta per costruire il proprio edificio di parole.

Non a caso parla di carne, di muscoli. Il primo tempo della lettura serve a costruire il corpo dello scrittore.

Nel secondo tempo, che coincide con il secondo tempo della vita, con la maturità e il regime inflessibile della scrittura, la lettura è ordine, è materiale da utilizzare in tempi stretti, ancella della creazione in proprio. Prima, attraverso la lettura, l’aspirante scrittore si prende il mondo. Poi, attraverso la scrittura, lo scrittore diventato tale lo restituisce. Distillato con fatica, con una poesia grave, che talvolta è capace di distendersi e di aprirsi in canto. Ma ormai, rispetto all’impegno dello scrivere, la felicità del leggere è solo un lontano ricordo.

Antonio Franchini

Un remoto e un recente presepe

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UN REMOTO E UN RECENTE PRESEPE
 
Voci bianche di fanciulli e voci scure d’adolescenti, sopra le note dell’organo, là dalla cantoria come dall’alto del cielo, precipitavano tra le navate, cadevano sopra i fedeli. I cherichetti, in tunica rossa e cotta bianca, si muovevano sul presbiterio a passo di danza, facevano oscillare il turibolo, spandevano fumi azzurri d’incenso. Tuonava con voce grave l’officiante là all’altare, sotto il drappo che nascondeva il presepe, sotto la faccia di saraceno del santo eremita che troneggiava dentro il catino dell’abside: “Praecursor pro nobis ingreditur … Ipse est Rex iustitiae, cuius generatio non habet finem … “
Sera dopo sera la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione del gioioso dramma, verso il Natale, l’apertura del sipario, l’apparizione del Bambino, il fulgore d’ogni luce, il dispiegamento d’ogni canto, il concerto delle campane.
Diciamo d’un remoto Natale in un paese ai piedi dei Nebrodi, nella piana fitta d’ulivi e d’aranci, il mare di fronte con le Eolie fantasmatiche all’orizzonte e le boscose colline alle spalle, l’immenso Etna in fondo di nevi e caligini.
C’era stata, già prima, tutta l’ansia, c’era stato il travaglio per preparare in casa il presepe. La ricerca di sugheri, legni, pietre, vetri, stagnola, cartoni, tutta l’ossatura del favoloso teatro, l’apparato di monti, valli, anfratti, fiumare, gole, grotte, la primigenia, la nuda creazione di un ritaglio del mondo
E quindi, sopra il deserto, i segni dell’uomo, recinti d’ovili, casupole sparse, villaggi, masseria, casali, mulini, e la città sullo sfondo, alta incombente, la fortezza con mura merlate di un potere nefasto, di un re spietato che avrebbe introdotto nel quadro serafico la lama del male, la tragedia d’una Strage. La pelle poi sullo scabro apparato, il tenero muschio, smeraldo, raccolto lungo gli argini dei torrenti, sopra gli orli di gèbbie e lo spino pungente che diveniva nimbo sopra la Grotta, su cui si sarebbe adagiata, a fiocchi, la neve, avrebbero volteggiato in Gloria gli angeli.
E prati, siepi, alberi – ginestre, fichidindia, corbezzoli, ulivi, palme -, cascate d’acqua, laghi d’argento. Nel notturno cielo di carta, stelle infinite, vie lattee, tenebrosi sprofondi e vividi sprazzi, l’arco della cometa che sovrasta e attraversa tutto il teatro. Il mondo animato infine, animali, uomini, divine presenze.
I pastori. Giungevano da santo Stefano di Camastra, il paese vicino dei “cretari”, sortivano dalle fornaci dei Gerbino, dei Frantatonio, in cui si cuocevano giare alte e panciute come badesse (la giara di don Lolò dell’omonima commedia di Pirandello), scifi, brocche, piatti, mafarate, càntari, lucerne … Tutto vasellame d’uso, ma il solo oggetto di “delizia”, d’ornamento che gli “stazzonari” si concedevano era la mastrangela, la madre degli angeli, un’ottocentesca damina bianca con sulle spalle le ali spiegate.
Ed erano di delizia anche i pastori a Natale, per cui erano delegati i “carusi”, gli apprendisti. Che modellavano con mano grande, maldestra, come quella del ragazzo “aspro e vorace” di Saba, ma che spalmavano i pastori con colori soavi, rosa, pistacchio, celeste, giallo, i colori dei “pupi” di zucchero, del marzapane, dei gelati. Si disponevano sul presepe prima i pastori dei margini, delle baide ignare, quiete, non ancora investite e sconvolte dell’improvvisa Novella: la vecchia che fila, il contadino che zappa, il garzone tra le pecore al pascolo, il mugnaio, il maniscalco, il pescatore, il dormiente, l’infreddolito davanti al braciere …
Al centro poi la luce e il moto, la danza degli angeli sospesi, il procedere in terra verso il luogo del prodigio, del richiamo, il convergere alla Grotta del miracolo: gli zampognari, gli offerenti, lo “spaventato”, i Magi e, sulla soglia dell’antro, in piena luce, come sorti dal profondo, dal buio, l’asino, il bue, i due attori supremi, Giuseppe e Maria, chini, adoranti accanto alla mangiatoia ancora vacante. Un tempo lungo, di nove giorni, doveva trascorrere perché si concludesse il trionfo, con l’apparizione del bambino rosato, questo spettacolo.
 
In questo tempo, dopo il rito liturgico, c’era la notte l’attesa di un’altra Novena, quella cantata sotto il balcone dai ciaramiddari, cantata dal cieco:
 
 Quannu Cesari jittavu lu gran
 bannu ‘mpiriusu.
 ’nta la piazza si truvav
a San Giuseppi gluriusu.
 
questo il Natale di un paese ai piedi dei Nebrodi, il favoloso presepe della remota innocenza.
 
Tanti altri presepi poi vedemmo, con occhi ormai di disincanto, dai più preziosi del museo di Trapani ai popolari della Casa di Uccello. Ma ritrovammo per caso l’incanto, già carichi d’anni e malizia, grazie a un presepe di Angela Tripi, questa erede incantata di Giovanni Matera.
Avvenne a Parigi, sulla piazza del Municipio, in un padiglione dove ogni anno s’appronta il presepe d’un paese diverso.
La crèche de Sicile era un fantastico assemblaggio dei monumenti, dei luoghi più suggestivi dell’Isola. C’erano le chiese e i mercati di Palermo, i mosaici di Monreale, i templi greci di Segesta e di Agrigento, l’Etna fumante e il mare di Aci Trezza … E i pastori, loro d’argilla e di stoffa, in umili panni o sfarzosi, ripetevano fisionomie, gesti, azioni, mobile com’era il presepe sonoro, di quel crogiolo di razze e di voci che è ancora la Sicilia.
“Ma dove siamo, in Oriente o in Occidente, siamo in Arabia o in terra cristiana? Cos’è questa confusione di monumenti, questa babele di epoche, lingue?” declamava la voce narrante. Eravamo in Sicilia, e la Natività era posta sotto le vele dell’abside, tra le colonne di una chiesa barocca diruta.
Concludeva la voce narrante: “Ecco il prodigio: è il riso del Bambino di Betlemme, dei bambini di Palermo e d’ogni luogo del mondo. E’ l’amore, la pace, il messaggio antico e sempre nuovo del Natale”.
Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo. Modernismo e meridionalismo

da Mario De Laurentiis 

Le strategie linguistiche e strutturali mediante le quali Consolo costruisce la densità della propria parola letteraria, torcendola e caricandola nella sfida impossibile alla consistenza della realtà, e la stessa idea consoliana della parola, mettono capo a tensioni e aspirazioni solitamente rubricate sotto il segno della «poesia», nella costellazione, per intenderci, che si muove tra simbolismo e modernismo. La stessa ricorrente tentazione dell’afasia come esito della volontà di troppo dire è del resto segnale non dubbio di queste ascendenze. Non a caso già dal romanzo d’esordio, e fino alle ultime prove, T.S. Eliot è uno dei numi tutelari di Consolo. Allo stesso modo, per tutta la vita Consolo non ha smesso di sottolineare il proprio rifiuto radicale di appartenere alla tradizione propriamente romanzesca, sospetta perché troppo incline a cedere alle lusinghe di una facile leggibilità, ad usum commercii. Prove narrative le sue, quindi, ma protese verso la poesia. D’altro canto, non ci sono dubbi sulla necessità di accostare il suo progetto, letterario ma anche politico-culturale, alla tradizione meridionalistica, nel cui solco si forma, e che non ha mai smesso di operare, anche quando Consolo è andato prendendo strade assai diverse: come già negli anni Ottanta, con libri decisamente atipici come Lunaria e lo stesso Retablo, e sempre più negli anni Novanta. Stiamo così toccando l’altra questione di fondo: quella dell’ossessione della Sicilia. «Scrivo sempre di Sicilia perché non ci si può allontanare dagli anni della propria memoria» ha dichiarato lo scrittore: il che vuol dire, ed è un altro punto decisivo, che l’invenzione letteraria deve nascere dall’esperienza, con la quale entrerà in tensione, sforzandosi di esorcizzare i propri fatali limiti con l’accumulo e la pluralizzazione della forma.

Certo, Consolo parla di tutto sub specie Siciliae, tenendo insieme, in modo decisamente peculiare, la proiezione verso una dimensione di esemplarità e la messa a fuoco dettagliata di tratti storicamente identificati, ricostruiti con precisione maniacale. La sua sicilianità concede in questo senso abbastanza poco alla fuga per la tangente di una a-storica condizione universale, così caratteristica invece di altri autori siciliani, da Pirandello a Vittorini. In innumerevoli occasioni Consolo ha ricordato la sua ferma volontà di approdare alla metafora per via di storia, secondo il sempre attuale, magistrale modello manzoniano: «La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile». L’esemplarità della Sicilia fa tutt’uno in Consolo con la sua peculiarità: che ci fa capire com’è l’Italia proprio perché è un caso estremo. Si potrebbe persino ipotizzare che, mutatis mutandis, a quello che egli scrive della Sicilia possa accadere in futuro qualcosa di simile a quanto già accaduto con la Lucania di Carlo Levi: ridiventata fruibile e attuale perché ricontestualizzata in «un quadro afroasiatico e latinoamericano». La Sicilia di Consolo vale come un’Italia estrema, e però anche come campione fin troppo vero di innumerevoli Sud del mondo. Per altri versi, la Sicilia di Consolo esibisce un cortocircuito di opposti, oscillando fra il vagheggiamento memoriale di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, e la constatazione, sempre più addolorata e indignata, dell’orrore reale, dell’ingiustizia perpetuata, della collusione eterna fra violenza criminale e violenza istituzionale. La Sicilia è un inferno, insomma, tanto quanto avrebbe potuto essere un paradiso. E la Sicilia è sempre solo la Sicilia: anzi no, è dappertutto.

Il progetto, ma forse dovremmo parlare piuttosto di dovere e di esigenza insopprimibile, di scrivere sempre di Sicilia coincide con la ferma convinzione che l’impresa della scrittura letteraria debba farsi portatrice di uno sguardo critico nei confronti della realtà, e implichi una dimensione etica, implicitamente o esplicitamente politica. Consolo ha infatti svolto per quasi cinquant’anni anche un’intensa attività giornalistica, della quale una larga percentuale è espressione di una diretta militanza civile. Restando però nell’ambito della scrittura letteraria, egli ha delineato, con un’originalità e un rigore teorico che hanno pochi termini di paragone in Italia, una possibile coincidenza fra espressività ed eticità, dove il permanente impegno civile deve identificarsi con la specificità della scrittura, cioè con l’impegno formale. Chiusa la stagione dell’engagement, per Consolo lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche. D’altro canto, chi scrive scrive, e dunque non può ignorare che scrivendo rinuncia al diretto impegno politico. Di conseguenza, i paradossi della parola letteraria, della sua pochezza e della sua titanica presunzione si rifrangono e ripetono nella compresenza costante di aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della propria distanza dall’azione reale. Da questo punto di vista, Consolo ha molte cose in comune con Vittorio Sereni, e con lo stesso Franco Fortini, che del resto frequentava.
L’orgoglioso dovere della scrittura comporta così un permanente rimorso, che confina col senso d’inferiorità. Persino la dimensione utopica, pure evocata con tanta forza da Il sorriso dell’ignoto marinaio, non smette in realtà di mescolarsi con la cattiva coscienza, con un irriducibile senso di colpa. Ecco l’utopia del barone Mandralisca:

E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. (SIM, qui alle pp. 216-7)

Questo sogno di un linguaggio che abolisca il divario fra le parole e le cose assomiglia molto alla permanente tensione di Consolo verso una parola portatrice di una densità tanto speciale da farla assomigliare a una cosa vera. Ma persino qui, dove tanto più la voce del personaggio pare confondersi con quella dell’autore, siamo obbligati a diffidare, e a prendere atto della permanente polifonia della scrittura consoliana; quel sogno infatti deve essere percepito come nobile, sì, ma impossibile, e persino mistificatore: «Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni “possano scrivere da sé la storia”. Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica».

“Nottetempo, casa per casa” di Vincenzo Consolo commento di Luca Rachetta

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“Nottetempo, casa per casa” di Vincenzo Consolo
Luca Rachetta

IL “MALE CATUBBO” E LA RISCOPERTA DELLA PAROLA

Muoveva brancolando, mugolando, come ferito, ferito da parte a parte dentro il cuore dalla lama che non sorgeva da causa, che non aveva nome. E si mordeva le mani, si strappava al collo la camicia. Il volto scarno, sotto il nero crespo della barba, era del color della malaria.

    Il racconto di Consolo si apre con la descrizione di un episodio di licantropia che, carico di valore simbolico e intriso di evidenti riferimenti antropologici, ci cala subito nel contesto in cui si svolge la vicenda. La condanna alla licantropia patita dal padre di Petro, vero e proprio protagonista e personaggio connettivo di un’opera con una forte propensione allo svolgimento corale, nasce da causa oscura, “che non aveva nome”; essa presenta i sintomi di una “nostalgia per un diverso lido” difficilmente collocabile nello spazio e nel tempo, forse perché si tratta di un non luogo, di un’utopia di felicità e di senso che è soltanto possibile vagheggiare. La sua presenza nell’animo, quanto meno a livello ideale, è tuttavia sufficiente a indurre il “luponario” a guardare alla luna, inoltrando in tal modo una richiesta al “dio della distanza e dell’assenza”, a “un ignoto dio, impassibile o efferato” che non consola il supplice delle proprie sofferenze e non alimenta in lui alcuna speranza di elevarlo a sé e di liberarlo così dai ceppi che lo avvincono alla materia e alla storia.

Davanti a quella vastità deserta, a quell’ottusa quiete, sentì ancora più la pena, lo sgomento – se è in serbo per noi un altro approdo, se aleggiando va l’anima nostra, la nostra nostalgia per un diverso lido, è certo figura d’esso quest’apparenza notturna e scolorata, questa squallida scena, questo livido limbo, quest’esistenza anemica, è nel fuoco, nel guizzo della fiamma la natura della vita. 

   Il “limbo” in cui licantropo si barcamena penosamente non è dunque compromesso tra due dimensioni, quella umana e quella divina, né designa un rapporto privilegiato con la natura, vale a dire la possibilità di attingere a quella purezza originaria che sgorga soltanto dalla condizione animale, spontanea e immune dal compromesso sociale; nulla di sovrumano e di mitico risiede in una condizione che di inveterato e tristemente ricorrente presenta solo la sofferenza, lo stato di servaggio e la negazione del libero arbitrio inteso come possibilità di essere artefici del proprio destino. Non il privilegio di sentirsi qualcosa in più degli uomini, ma l’atavico senso di persecuzione provato dagli ultimi degli uomini.

Sembrava il supplice, l’orante disperato del dio della distanza e dell’assenza, d’un ignoto dio, impassibile o efferato. Ai suoi singhiozzi, ai suoi strazi non rispondeva che il fiotto morto e lento frangersi sugli scogli e il silenzio torpido, come il respiro sordo e beffardo di quel cielo e di quel mare.

     Il discendere da una stirpe maledetta e l’assurda pretesa di migliorare la propria posizione sociale sono le uniche motivazioni che Petro riesce a ricondurre non solo all’origine della malattia paterna, ma anche a quella costante propensione all’amarezza e alla rassegnazione che cova in lui come nel padre e nelle due sorelle, afflitte da forme di nevrosi che le portano di fatto ad autoescludersi dalla vita.

Da quale offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?” si chiedeva Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. (…) Oppure pagava il prezzo, il padre, del passaggio dalla povertà e soggezione alla condizione di padrone d’una casa, di ettari di terra a Santa Barbara, avuti in lascito, per pura affezione, per l’onestà e cura di mezzadro, dallo stravagante don Michele, avverso alla nobiltà, al nipote don Nené, al paese intero, vissuto in volontario esilio, con i Marano, con i suoi libri, in quel ritiro orgoglioso di campagna (ma il barone Cicio, i pari suoi, saputo il testamento, malvagiamente avevano preso a oltraggiar l’erede col nome di Bastardo).

      Il male oscuro che attanaglia la famiglia di Petro sembra dunque da intendersi come una sorta di pessimismo cosmico di cui il presente è una delle tante sue manifestazioni succedutesi nel corso della storia. Si distingue infatti in modo assai nitido nelle pagine di Consolo un retroterra culturale che rimanda a Verga, Pirandello, Vittorini, Sciascia, cioè a una linea di autori siciliani che riscontrano nella realtà dell’isola, amara metafora di una condizione umana che va ben al di là delle coste di Trinacria, una situazione di immobilità che nega qualsiasi prospettiva di autentico progresso morale e civile, nella quale i più deboli soffrono un inesorabile destino di povertà, dolore e discriminazione sociale.

E il dolore suo sembrò a Petro sorto non solamente dalla madre troppo presto assente, dal padre malinconico, piagato, da Serafina torpida, di pietra, da Lucia che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada, ma da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?

    Petro avverte comunque che l’epoca presente è forse la più infelice di tutte. Sono gli anni del fascismo, in cui dilagano, reclutando un numero sempre crescente di adepti e di scherani, non soltanto ideali politici improntati a una cieca irrazionalità, ma anche nuovi modelli di vita fondati sull’ignoranza e sull’edonismo sfrenato, che trovano nella conventicola di Aleister Crowley, trapiantatasi nella Cefalù degli anni ’20 in cui è ambientata la narrazione, una superstiziosa e perversa sublimazione. Non sarà un caso quindi se proprio i personaggi più corrotti di quel microcosmo siciliano verranno risucchiati nel cono oscuro della setta: tra di essi anche il pastore Janu, simbolo panico di una innocenza primigenia che viene traviata e strumentalizzata non solo dalla scelleratezza del Crowley, ma anche, a ben vedere, da una modernità allo sbando che annichilisce qualunque forma di purezza.

Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stramangiava le parole, il senso loro – il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno… 

   Parimenti all’innocenza e all’onestà anche la cultura è disprezzata in quanto minaccia costante al privilegio e alla prevaricazione nei confronti dei più deboli; allo stesso modo la lingua, veicolo della cultura e alfiere di verità e giustizia, è brutalizzata e stravolta al punto da risultarne impoverita e da vedere neutralizzata la propria carica potenzialmente eversiva.

Petro non aveva trasporto per quei fogli, quei linguaggi, che tante volte gli riuscivano grevi, oscuri, come oscuro era per lui, e pauroso, il presente, il vicino, tutto quanto nel mondo si svolgeva, guerra e pace, penuria e sciali, soprusi e avvilimenti, privilegi e angherie, scontri fra ceti, assassinii dei re, dei tiranni, rivoluzioni popolari, come quella del Diciassette nella Russia… Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskij Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l’Italia da Manzoni e Verga… Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà, come i numeri e le figure della geometria, verso l’astrazione, il generale.

    Non è un caso che il racconto sia nutrito di suggestioni metaletterarie che dispongono il lettore a riflettere sulla natura, sulle forme e sugli intenti comunicativi della letteratura: Consolo sembra infatti affidare un ruolo di reazione allo squallore e alla pochezza morale proprio alla scrittura e allo stesso Petro, il quale, attraverso un percorso di crescita da vero e proprio romanzo di formazione, di essa scoprirà gradualmente il valore di testimonianza e la funzione di strumento di denuncia. Una concezione della letteratura come garante di verità contro la lettura adulterata e tendenziosa della realtà imposta dal potere ai suoi sudditi come dogma di fede.    Il cambiamento semantico delle parole e la corruzione del linguaggio sono conseguenza della perdita di senso della vita stessa, che investe anche il lessico comunemente destinato ad indicarne gli aspetti e a spiegarne i meccanismi e le dinamiche: una sorta di impotenza della lingua attuale che mostra la necessità di rifondare la realtà su basi nuove e sincere col contributo di un codice comunicativo rinnovato, che recuperi l’antico significato delle cose. Una palingenesi della parola che l’esilio tunisino di Petro e di altri siciliani, come lui “ribelli”, sembra, se non annunciare, quanto meno auspicare come antidoto al caos e al non senso.

dal blog La setta dei giovani vecchi… pubblicato il martedì, 28 agosto 2012

Porcacchia facean di nome

“Porcacchia facean di nome loro di famiglia…”: con questo o un simile
attacco vorrei scrivere un romanzo. Raccontare d’una famiglia di camionisti (padre e due figli, mettiamo) del Napoletano, del Casertano o Avellinese, ex contadini, proprietari di un camion con rimorchio (costano, questi bisonti, quanto una casa di cento metri quadri entro la prima cerchia dei Navigli di Milano), che vanno, affannosamente e disperatamente (devono pagare il camion, costruire la casa), sulle autostrade su e giù per la stretta penisola nostra italiana. Con loro, della nuova realtà sociale: l’inurbamento, le squallide periferie industriali delle metropoli del Nord e i caotici agglomerati delle città del Sud, la camorra, il traffico di armi e droga, l’industria delle serre, lo sfruttamento della mano d’opera del Terzomondo, il calcio, gli stadi, i grandi mercati, le tangenziali, i raccordi anulari, i massacri sulle autostrade, gli scioperi, i blocchi stradali, i porti, i containers… Vorrei scrivere, ma non posso: bisogna esser giovani per scrivere un libro così, giovani e sciolti d’ogni memoria e legame per poter salire sulla cabina di uno di quei camion e viaggiare almeno per un anno, imparare, se già non la si conosce, la nuova lingua italiana, le koinè delle nuove realtà in cui ci si imbatte, i gerghi dei camionisti, dei trafficanti, dei camorristi, dei tifosi, delle prostitute, dei travestiti… No, non posso proprio: sono vecchio. Peccato. Mi resterà il rimpianto di non aver potuto scrivere un mio Pasticciaccio, il pasticciaccio brutto dei Porcacchia. Cedo dunque l’idea a qualche giovin scrittore italiano (interesserà mai a costui la realtà nostra sociale e saprà scrivere in terza persona?). La cedo a gratis, come dicono a Milano. Dicono a gratis e dicono con pardon i ragionieri di codesta città quando vogliono parlare in punta di forchetta. Oltre a dire una tantum, nel senso del diritto che hanno loro a sniffare di tanto in tanto per riprender quota ed esser efficienti. Ma con lo sniffo siamo forse già a livelli un po’ più alti (di quelli dei ragionieri almeno rimasti fuori da Palazzo Chigi, fuori dal Banco Ambrosiano e fuori dalla Borsa): macellai, ristoratori, amministratori ed evasori d’ogni risma, fabbricanti di mine, di defolianti e di tondini, pubblicitari e pierre, designers, parrucchieri, sarti, fotomodelli, artisti d’ogni ramo, dentro e fuori il Canale Cinque. Parlo della grande Milano in cui dimoro ormai da venti anni, senza contare i quattro in cui vi studiai. Erano allora gli anni Cinquanta e Milano l’era tutta un’altra roba. Era la città della ricostruzione, del grande Progetto, gli anni del “Politecnico” e dei “Gettoni” di Vittorini. Finiti gli studi, me ne tornai in Sicilia con l’idea di fare lo scrittore. Lo scrittore meridionale e meridionalista (era tanto di moda allora). Perché allora la scrittura era subito impegno, testimonianza e denunzia (e c’era pure Scelba che denunziava il culturame). Il grande sole o schema era naturalmente il Cristo d’Eboli con tutto quanto lo aveva preceduto e seguito, Gramsci Dorso Salvemini, con tutte le Uva puttanella, tutti i Pasticciaccio e i Ragazzi di vita, tutti i neorealismi, le sperimentazioni e le digressioni dialettali allora imperanti. Ma quando mi trovai a pubblicare il mio primo libro nel ’63, nella mondadoriana collana del “Tornasole” di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, dal titolo La ferita dell’aprile, dissero i critici, che allora leggevano i libri, che ero fuori, ma proprio fuori dal neorealismo. Ma ero dentro la storia. La storia siciliana del dopoguerra, la caduta del fascismo, la ricostruzione dei partiti, le prime elezioni regionali del ’47 con la vittoria del Blocco del Popolo, la strage di Portella della Ginestra, la vittoria schiacciante dei Democristiani nel ’48… Poi finì il Meridione e finì il mondo contadino. Tutto si industrializzò, pure la mafia e pure la camorra. Avvenne il grande esodo dei braccianti dal Sud al Nord. Anch’io quindi emigrai, e di nuovo su a Milano. Avevo la bell’età di trentacinque anni. Viaggiai il giorno e la notte di San Silvestro e il primo gennaio del 1968 fui a Milano. Contadino inurbato, non sapevo niente di metropoli e di cultura industriale. Mi sentii spaesato, spiazzato anche linguisticamente. Ripercorsi così, per salvarmi, per riconquistare anche l’uso della parola, la mia storia, la storia cioè della mia terra, e scrissi, in una lingua storica e filologica scavata e ritrovata, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Dopo tredici anni dall’esordio. E questo libro, ch’era d’impianto storico (si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…),
voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva,
a Milano e altrove. Poi… Poi sempre più indietro e sempre più lontano
dalla realtà: Lunaria, un racconto favoloso ambientato in un vago Settecento e scritto in forma teatrale. Quindi, uscito proprio nei giorni in cui sto per tracciare questo mio profilo scellerato, Retablo, d’ambientazione ancora settecentesca. Su cui aspetto che i critici dicano qualcosa. I quali forse non diranno niente fino a che il libro non sarà tradotto in italiano, nella lingua cioè dei Porcacchia che oggi si parla e scrive nel paese nostro. Perché Retablo è scritto in una lingua trapassata,
che pochi ormai ricordano e capiscono. “Lei è anacronistico?” mi ha chiesto un giornalista. “Certo” ho risposto. “E pure anacreontico.”

Vincenzo Consolo, in Giuseppe Appella – Paolo Mauri (a cura di), Almanacco della Cometa.
“I contemporanei vedono
se stessi”, Edizioni
della Cometa, Roma 1988, pp. 21-22.

Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello: vicinanze e lontananze di due scrittori del secondo Novecento

Giuliana Adamo

L’attenzione critica che qui si vuol dare a un confronto tra Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello trae spunto, a ritroso, dall’evento unico ed ultimo che li ha visti insieme il 20 giugno del 2007, a Palazzo Steri, a Palermo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna conferita ad entrambi, in curiosa conclusione del viaggio parallelo dei due scrittori, iniziato proprio nel 1963, anno del loro rispettivo esordio letterario.1 Escono, infatti, nel 1963 La ferita dell’aprile di Consolo – storia di un adolescente che dopo un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e dolori, arriva alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza; misto sapientemente dosato di autobiografia e di storia, di quotidiano e di mito – e Libera nos a malo di Meneghello, testo autobiografico che ‘offre un ritratto della vita a Malo, di una incomparabile ricchezza e incisività. È l’Italia […] della prima metà del secolo, nei decenni successivi alla Prima guerra mondiale’ che suscita anche nei lettori che veneti non sono ‘la “scossa del riconoscimento” (lo shock of recognition, come si dice in inglese) – un senso di partecipazione, di familiarità, nonostante le grandi differenze di contesto culturale’.2 Importante richiamare – anche se rapidamente – le superficiali analogie tra le rispettive scelte biografiche che rendono conto, in parte, delle ragioni della posizione peculiare che i due scrittori hanno avuto nel panorama culturale coevo: essendo tra i pochi ad essersi espatriati o dispatriati, con tutte le differenze dei singoli casi (Consolo a Milano, Meneghello a Reading in Inghilterra), dal proprio Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 39 luogo natìo e ad avere vissuto in un costante confronto tra le diverse culture con cui sono venuti a contatto. Entrambi, e ciascuno a suo modo, ulissici nel nóstos continuo con la propria Itaca: la Sicilia per Consolo, Malo per Meneghello. Prima di proseguire è importante ricordare, in sintesi, che il contesto letterario in cui prendono l’avvio i due scrittori è quello a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, momento in cui, in un’Italia che faceva ancora i conti con gli strascichi della già conclusa esperienza del Neorealismo postbellico, imperversavano dibattiti e polemiche riguardanti soprattutto le nuove forme di espressione letteraria da ricercarsi, in ambito linguistico, nei territori che si estendevano tra il ricorso alla lingua italiana e la necessità dell’uso letterario dei dialetti. Per intendere la lezione stilistica di Meneghello sono preziose le parole di Cesare Segre, secondo cui lo scrittore di Malo si muove in uno spazio indipendente di outsider, di dispatriato e apprendista in Inghilterra, da Meneghello chiamata il ‘paese degli angeli’. Lo scrittore di Malo, quindi, ‘ha ben poco a che fare’ – sostiene Segre – con i precedenti più rappresentativi quali Fenoglio, Testori, Pasolini, Mastronardi perché la loro scelta dialettale è connotata da un ‘marchio sociologico’ di eredità neorealistica estraneo alla scrittura di Meneghello. E ha anche poco a che spartire sia con la diversa matrice della dialettalità espressionistica di Gadda; sia con l’uso mimetico del dialetto di Fogazzaro; sia con la dialettalità contenutistica di Verga, e poi di Pavese, in cui il ricorso alla dimensione dialettale esula dalle caratteristiche lessicali e morfosintattiche del dialetto. A queste differenze, si aggiunga, infine, il tratto peculiare della scrittura di Meneghello in cui, benché la funzione del dialetto sia in lui fondativa, il discorso narrativo avviene ‘prevalentemente in lingua’.3 Per Consolo il discorso è differente in quanto lo scrittore siciliano – pur con tutta la sua peculiare originalità espressiva che vede fondere l’eredità barocca di Lucio Piccolo con la ratio illuminista di Sciascia – si inscrive pienamente nella tradizione del romanzo storico siciliano che si estende, notoriamente, dal Verga della novella ‘Libertà’, al De Roberto de I viceré, al Pirandello de I vecchi e i giovani e allo Sciascia de Il consiglio d’Egitto. Tutti i romanzi e le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Per quel che riguarda, invece, la sua ricerca linguistica, come da lui stesso ampiamente ribadito nei suoi scritti, essa rimanda alla linea della sperimentazione di Pasolini e di Gadda (in opposizione alla soluzione razionalista e illuminata della lingua di Calvino e Sciascia), risultando in una scrittura che, come coglie la poetessa e scrittrice Maria Attanasio, ‘non è mai rotonda fertilità espressiva, 40 Giuliana Adamo levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; al di là della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita’.4 Fatta questa necessaria premessa, torno all’argomento su cui mi soffermo in questa sede. Per il confronto che mi appresto ad abbozzare e a proporre – nulla di esaustivo ovviamente, ma ugualmente passibile, spero, di critiche costruttive, approfondimenti, analisi di differente approccio – il punto di partenza mi è sembrato giusto che fosse dato dalle rispettive lectiones magistrales – in apparenza così diverse – indirizzate, dai due laureandi, al Senato accademico e al pubblico presenti nella sala palermitana. Quella di Consolo, il primo a parlare, dal titolo ‘Due poeti prigionieri in Algeri. Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’; quella di Meneghello intitolata ‘L’apprendistato’. 5 Le due lectiones mi pare si prestino ad essere usate come specimen delle rispettive opere, permettendo di tracciare linee di contatto e/o distacco, di analogie e/o differenze tra i due autori. Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano La lectio di Consolo, fin dalla dedica alla memoria di Leonardo Sciascia, segnala l’instancabile e appassionata militanza, da sempre parallelamente giornalistica e letteraria, dell’autore siciliano e verte sui temi che costituiscono il cuore di tutta la sua scrittura: 1) Il rapporto tra passato e presente (da cui il suo sguardo storico indagatore trae la linfa vitale: il passato come metafora del presente). 2) L’attenzione particolare alla Storia siciliana inquadrata nel contesto più ampio della storia mediterranea, fatta di incontri e scontri di popoli e civiltà e dalle stratificazioni culturali e linguistiche che ne conseguono. A questo, inoltre, si lega l’immancabile tema dell’opera di Consolo: il viaggio. Tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio: viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita alla conoscenza di sé e del mondo. Viaggio alla ricerca della luce-ragione che illumini, pur se in modo intermittente, le tenebre che avvolgono la condizione umana. 3) La necessità ineludibile della poesia (con il ricorso nella sua narrativa ad una lingua poetica, non comunicativa ma espressiva). 4) La citazione e la menzione continue di testi poetici e narrativi, scritti e orali, nelle diverse lingue del mondo consoliano: italiano, siciliano, spagnolo, latino, sabir, nonché il costante intarsio realizzato dalle fedeli Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 41 riprese di cronache e documenti d’epoca ufficiali e non, altro polo costitutivo della poetica e dell’opera di Consolo. Quanto al contenuto della lectio, in parole brevi, che valgono quasi come un sottotitolo, parla della vita terribile nel tardo Rinascimento, vissuto tra le sponde del Mediterraneo, che fa da sfondo alla comune prigionia, nelle carceri di Algeri, di Miguel de Cervantes e del poeta siciliano Antonio Veneziano alludendo, per via di metafora, all’attuale situazione del mare nostrum, crocevia di diverse civiltà e doloroso luogo degli scontri tra di esse. Si pensi, soprattutto, al problema dei migranti, nei confronti del cui trattamento da parte dell’Europa occidentale e, in particolare dell’Italia, la sensibilità dell’intellettuale Consolo ha raggiunto punte estreme di indignazione civile e di profonda pietas. Consolo ricostruisce la oscura biografia di Antonio Veneziano ‘l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI’6 vissuto tra 1543 e 1593. Per fare questo, applica il suo rigoroso metodo di indagine storica e storiografica – eredità manzoniana e fondamento dei suoi romanzi storici, o meglio anti-romanzi storici – risalendo alle fonti scritte ed ufficiali e, quando possibile, a fonti più in ombra (archivi, fondi di parrocchie, testimonianze di oscuri cronisti coevi, lettere dimenticate, atti notarili, scritte murali, graffiti, canzoni popolari, etc.).7 In questo caso, Consolo cita, tra gli altri, le testimonianze di Giuseppe Lodi (bibliotecario ottocentesco della palermitana Società di Storia Patria); del demo-psicologo ed etnologo Giuseppe Pitrè; del canonico Gaetano Millunzi; di Leonardo Sciascia che, nel 1967, a proposito del Veneziano ricorda che era: ‘Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano’.8 Tuttavia, ed è questo che interessa a Consolo sia per il plurilinguismo sia per la militanza polemica dell’intellettuale: malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire affisse sui muri. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 26) La vita del Veneziano si rivela curiosamente speculare a quella di Cervantes (ricca come risulta di accuse malevole, assilli economici, disordini familiari, varie incarcerazioni). Ed è ad una di queste incarcerazioni, presumibilmente, che si deve l’incontro, o il re-incontro (forse, congettura Consolo, si 42 Giuliana Adamo erano incrociati anni prima a Palermo, ma questo resta da dimostrarsi), e la conseguente ammirazione reciproca, quasi amicizia, tra l’autore del Quijote e quello della Celia. Il Veneziano venne preso prigioniero sulla galea Sant’Angelo, al seguito di Don Carlo d’Aragona, dai corsari, al largo di Capri, il 25 aprile 1578. Quindi venne condotto come schiavo ad Algeri nel cui bagno penale incontrò Cervantes, a sua volta schiavo in quella città da più di tre anni. Anche la biografia di Cervantes, soprattutto in relazione alla sua prigionia algerina e ai suoi ben quattro tentativi di evasione, è ricostruita storicamente da Consolo sulla scia di scritti, documenti, testimonianze di autori vari, incluse quelle dello stesso Cervantes. Ecco, dunque, che è importante rilevare (e la lectio ce ne dà prova) come Consolo lavori col materiale che ha cercato, documentato, elaborato. Da un lato, quindi, vediamo emergere, l’importanza che ha per lo scrittore la Storia e il metodo usato nella sua ricerca di ricostruzione e ricomposizione del passato; dall’altro – e in maniera costitutivamente intrecciata – il lavoro creativo dello scrittore che intaglia una storia ricca di dettagli documentati in modo meno ufficiale dentro alla grande Storia, che lui avvertiva sempre come immobile e immutevole nelle sue prevaricazioni, nei suoi inganni, nelle sue menzogne, nelle sue ingiustizie, nei suoi silenzi, nelle sue esclusioni. Ed ecco – analogamente a quanto avviene nei suoi lavori storici, memori della lezione manzoniana ma prodotti nella sua lingua ‘rigogliosamente espressivistica’,9 plurivocale,10 pluridiscorsiva e pluristilistica – che Consolo si spinge a ricreare che cosa possano avere detto, fatto, provato insieme, ad Algeri, i due scrittori secenteschi: I due in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni: Non rescatar, non fugir Don Juan no venir morir… cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutte e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda ‘il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 43 stesso colore.’In quel carcere, con chissà che emozioni e sensazioni, scrivono l’uno la Celia (preso d’amore non si sa bene per chi fra i due possibili oggetti del suo amore: quello incestuoso per la nipote Eufemia o quello impossibile per la viceregina Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, comandante della flotta veneziana nella battaglia di Lepanto, nel 1571, allora viceré di Sicilia); l’altro presumibilmente Vita ad Algeri, le Ottave per Antonio Veneziano e comincia la stesura della Galatea. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, pp. 30-31)11 I due protagonisti della lectio lasceranno Algeri, finalmente riscattati: il Veneziano nel 1579 (morirà nel 1593 nel carcere di Castellamare per lo scoppio doloso della polveriera), mentre Cervantes nel 1580 (per poi finire nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio dove nel 1592 concepisce il Quijote). In seguito, ricorda significativamente Consolo, Cervantes ritornerà sulla passata dolorosa esperienza: ‘[d]ice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 33). A questo punto, da quel che emerge da una lectio così costituita possiamo cogliere un insieme di elementi che offrono una misura valida per farsi un’idea dei tratti essenziali che permeano tutta l’opera di Consolo: 1) L’ ineludibile necessità etica che lo spinse, da sempre, a studiare, indagare, scavare, scrivere – cercando di capire e di aiutare a fare capire – la complessità della vita, nel Cinquecento come nel 2000, che si svolgeva e svolge nell’area mediterranea, dove sono nate incontrandosi e/o scontrandosi le grandi civiltà della storia occidentale. 2) La necessità di mostrare che la Storia – se distaccata dalla storiografia ufficiale, sempre soggettiva e parziale, scritta dai vincitori e mai dai vinti – può emergere più contraddittoria, ma più completa, grazie al corale contributo delle voci di ‘più picciol affare’. In tal modo, la scrittura della storia diventa (con certa utopia) incrocio di punti di vista diversi: Storia, insomma, come una messa a fuoco plurima e dialettica della realtà. In Consolo il rapporto Storia-invenzione del romanzo storico classico è rovesciato: ‘ciò che lì era documento qui è racconto, universo opinabile, discorso retorico. Ciò che lì è veramente accaduto, qui è come realmente accaduto’, evidenzia finemente Nisticò a proposito, in particolare, de Il sorriso dell’ignoto marinaio. La critica operata da Consolo è volta alla Storia in quanto scrittura, nella sua ‘demistificazione permanente del mito 44 Giuliana Adamo dell’oggettività e della verità dei documenti e della tradizione storica’.12 Ed è su questo assunto che si è basata la sua intera attività di scrittore. 3) Il valore della scrittura qui esemplato dall’esperienza di due intellettuali che si trovano in mezzo a indicibili difficoltà oggettive e, di conseguenza, il ruolo salvifico della poesia che – nonostante tutto e tutti e nonostante i suoi stessi autori – è eternamente valida e, a differenza della Storia, super partes. 13 4) La metafora del presente che quell’antica, tormentata, feconda esperienza cinquecentesca è chiamata simbolicamente a rappresentare, in quanto per Consolo: ‘un testo è vivo quando è metafora, quando non parla solo di sé’.14 5) La fondante tensione metaforica resa attraverso uno stile che rende ragione del coro di voci e di lingue che scintillano in questo testo (come in tutti i suoi testi) intrecciandosi per ricordarci che quel che è successo succede ancora e che, e qui Consolo usa le parole, tragicamente attuali, che Fernand Braudel riferiva all’età di Filippo II: ‘In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 34). Rappresentativa della poetica di Consolo è questa lectio che ho voluto usare come microtesto per individuare le linee portanti del macrotesto consoliano: non autobiografica, se non per pulsioni spesso inconsce; storico-filologica; testimonianza del suo impegno di scrittore e di intellettuale contro soprusi e ingiustizie. Le attestazioni dell’inesausto agire civile di Consolo, oltre che in tutti i suoi libri e nei suoi saggi, anche sulle pagine dei quotidiani italiani storicamente più schierati a sinistra, come l’Unità e Il manifesto, che hanno accolto i suoi veementi articoli sui temi dell’immigrazione, dei migranti, delle angherie e degli abusi perpetrati ai loro danni, della micidiale miopia italica e dell’assenza di memoria di quel popolo di migranti che sono sempre stati gli italiani. Per Consolo etica e scrittura sono una cosa sola,15 la memoria individuale e la memoria storica consentono lo scavo nel passato per riflettere sul presente; la lingua del suo scrivere – con le lingue sottostanti che la nutrono storicamente e culturalmente – è una lingua storica e filologica e non la si capirebbe se la si alienasse dal fondamento del determinarsi storico e sociale dei linguaggi. La esibita letterarietà di Consolo, tanto sottolineata dai critici, per essere correttamente intesa va ricompresa in un progetto artistico che utilizza l’opacità e il peso della tradizione letteraria come strumenti di una più acuta e complessa lettura della realtà. Se, infatti, Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 45 pur nell’ambito di una insistita critica sociale mossa dalla prospettiva di una solidarietà coi ‘vinti’ e coi subalterni non possiamo sottrarci alla constatazione (è questa la critica mossa a Consolo) della preziosità erudita del suo linguaggio, delle sue notevoli densità e perspicuità letterarie, lo si deve soprattutto al suo tentativo di drammatizzare una contraddizione che da sociale diventa, performativamente, stilistica e retorica. Quello che in realtà è lo scontro tra isole di ricchezza e oceani di indigenza diventa, nelle strutture narrative di Consolo, lotta tra l’abbandono lirico di un linguaggio (spesso anche in veste parodica) che è esso stesso ‘cosa’ (strumento di gioco e di piacere) e il dover essere etico e razionale per garantire la narrazione. Prosa e poesia si fronteggiano, esibendo ciascuna le proprie ragioni. La sua narrativa usa a piene mani una lingua e dei moduli poetici non strettamente narrativi (ma lontanissimi dalla prosa d’arte da lui aborrita): il retablo, il cunto, l’opera teatrale, la metrica versificatoria, espedienti stilistico-retorici quali l’enumerazione e l’iperbato, il repentino mutamento dei registri, che con il loro andamento ipotattico frangono la paratassi del più generale impianto narrativo. Le apparenti dissimmetrie, che la lectio riflette, tra piano dell’espressione – iper-letteraria, barocca – e quello del contenuto – materialistico, progressivo – sono ricomprese ma non ricomposte o pacificate nella sua scrittura, a causa di una contradditorietà mai risolta: il conflitto (sociale e retorico) rimane la cifra estetica più propria nell’opera di Consolo.16 L’apprendistato E veniamo alla lectio di Meneghello ‘L’apprendistato’, quintessenzialmente meneghelliana: autobiografica, riflessiva, ironica, giocata sapientemente sui diversi registri retorici che, come sempre nella sua scrittura, sono capaci di suscitare, in chi legge uno spettro variegato di emozioni: dal riso alla commozione alla riflessione al disincanto. Dall’inizio emerge subito l’interesse primario di una vita, il motore di tutti i suoi libri: l’attenzione alle parole e alle cose che esse veicolano inquadrata, da subito, nel suo personale percorso di studente dialettofono italiano e di professore di italiano in Inghilterra. Le sue lingue di cultura (italiano, greco, latino, inglese) affiorano subito, nel primo lungo paragrafo della lectio laddove, in modo colto e ilare, racconta di quel che provoca in lui l’essere in procinto di diventare ‘filologo’ e cerca di definire che cosa sia la filologia. Risale all’origine greca del termine dovuto a Eratostene, nel III secolo a.C., ‘matematico, ma bravo anche come 46 Giuliana Adamo astronomo, geografo, filosofo, storico, e altro ancora’ (‘L’apprendistato’, p. 37), che ‘[d]oveva essere un personaggio straordinario, molto più di Tagliavini’ (ibid., p. 36) – maestro di Glottologia di Meneghello a Padova che aveva scommesso coi propri alunni di ricostruire, partendo da una mezza pagina, nello spazio di un’ora, la grammatica (morfologia e sintassi) di una lingua sconosciuta. Meneghello si sofferma sulla definizione antica di Eratostene che pare fosse chiamato dai colleghi ‘pèntathlos’ come a dire ‘pentatloneta’, per segnalare questa versatilità, e forse per denigrarla. […] In inglese uno che riesce bene in molte cose […] è un all-rounder: dove io non ci sento sottointeso ‘[bravo in tutto] e dunque non supremo in nulla’. Ma ad Alessandria pare proprio che il sottointeso ci sia stato. (‘L’apprendistato’, p. 36) Alle ipotesi sulla filologia come versatilità di conoscenze e applicazione delle stesse, seguono le considerazioni sul lavoro filologico svolto da Eratostene nella sua qualità di direttore, a suo tempo, della Biblioteca di Alessandria ‘editore, recensore e emendatore di testi letterari’ (‘L’apprendistato’, p. 37). Tuttavia permane l’ambiguità del termine con cui si definiva ‘filologo’. Termine ombrello, per Meneghello, che accoglie almeno tre significati: 1) espressione legata al gusto del discorrere; 2) amante del lógos, ovvero più estensivamente ‘dotto’, ‘studioso’; 3) più specificamente e circoscrittamente ‘studioso delle parole […] insomma un linguista’ (ibid.). Le diverse facce della filologia che affascinano Meneghello lo portano ad uno dei suoi tipici scarti logici in conclusione della prima parte del suo testo: Contro le mie tendenze, mi si affaccia l’idea che anche per la filologia ‘it takes all sorts to make a world’, ci vuole gente di ogni risma per fare un mondo, vale a dire il mondo così com’è. Ma nei riposti ventricoli del mio sentimento non ci ho mai creduto del tutto. (‘L’apprendistato’, p. 38) Passa, quindi, ad una riflessione, brillantemente argomentata, sul suo rapporto con la linguistica (‘non mi considero un linguista’, ibid.), soffermandosi sulla sua lingua nativa, non materna (la mamma, friulana, non aveva latte) ma della balia maladense. Il dialetto di Malo è percepito da Meneghello quale ‘lingua del genere umano, gli esseri umani parlavano così, e i loro modi entravano in me, davano forma alle strutture interne (preesistenti, penso) della mia competenza, creavamo circuiti indistruttibili’ (‘L’apprendistato’, p. 38) lingua parlata, pre-logica, del cui apprendimento non aveva coscienza. Accanto, parallelamente, si innesca il processo Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 47 di apprendimento di una sorta di lingua seconda: l’italiano, di origine più artificiosa e innaturale appreso a scuola e sui libri, prevalentemente attraverso la lettura. Una lingua, sia ben chiaro, tutt’altro che nitida e netta a proposito della quale Meneghello si sente in dovere di precisare: veramente c’erano due filoni, quasi due matasse di viscoso tiramolla, schiaffate una sull’altra e annodate in una specie di doppia elica, come si vedeva fare nelle sagre di paese: il filone ufficiale, di stampo aulico e di derivazione letteraria, e il filone reale dell’italiano regionale. Quest’ultimo aleggiava attorno a noi, imparavamo noi stessi a servircene – quando si cercava di parlare in chicchera – e a mano a mano a scriverlo: certamente non ci rendevamo conto che fosse ‘italiano regionale’, la nozione non si era ancora formata o diffusa, e la cosa non sarebbe parsa allora una variante legittima della lingua nazionale. (‘L’apprendistato’, p. 38) La complessità di queste esperienze per lungo tempo non ha dato luogo ad un sistema articolato di idee sulla lingua, questo è potuto avvenire molto più tardi, grazie all’influenza di amici e colleghi incontrati in Inghilterra, parecchi dei quali a Reading, e la menzione silenziosa a Giulio Lepschy in particolare è connotativa del modo in cui Meneghello – si pensi soprattutto ai volumi delle Carte – alluda spesso a persone della sua realtà biografica evitando di farne i nomi, cifra tipica della sua scrittura zibaldonica.17 L’incontro e il confronto con il nuovo mondo culturale inglese, portano Meneghello a riconsiderare la sua precedente visione del proprio rapporto con le lingue: la struttura delle lingue ha subito un rivolgimento radicale, le vecchie impostazioni abolite e cancellate. Questa del nuovo che sopravviene e soppianta l’antico, pare uno schema ricorrente nella mia vita mentale. (‘L’apprendistato’, p. 39) Il punto cruciale della lectio, che lo avvicina pur nella loro diversità a Consolo, è dedicato a sottolineare che il suo vivo interesse per le lingue non riguarda l’analisi teorica delle loro strutture, ma ‘ciò che le lingue che frequentavo recavano con sé, un’immagine intensificata delle cose del mondo’ (ibid.), e questo si verifica soprattutto nella poesia: i poeti lirici in particolare, antichi e moderni, nelle lingue in cui li leggevo, latini, italiani, francesi, e per frammenti anche tedeschi e spagnoli (non inglesi, in principio: quelli sono venuti in seguito, nella mia tarda gioventù, in Inghilterra, ed è stata un po’ una gran 48 Giuliana Adamo mareggiata poetica). In queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel cuore della realtà: e non pareva rilevante, e nemmeno pertinente, che si trattasse davvero di lingue diverse, era come se fosse una lingua sola. (‘L’apprendistato’, p. 39) La lingua ha risorse infinite per sondare la realtà e Meneghello usa, per fare questo, l’unica lingua che conosce davvero: l’Alto Vicentino, o meglio, la lingua di Malo. Alludendo a Libera nos a malo sottolinea: Si formava in me scrivendo, il quadro naturale di queste varianti, ero in grado di distinguere con spontanea precisione tra questi diversi usi, e intravederne a sprazzi le separate capacità di esplorare, trivellando in profondo il reale. (‘L’apprendistato’, p. 39)18 Nell’ultimo scorcio del testo evoca uno dei temi a lui più cari, quello del lungo apprendistato che lo ha reso in grado di portare ‘ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare’ (ibid.). Di grande efficacia retorica, e commovente, è la chiusa della lectio in cui, con un procedimento analogo a quello esperito da Seamus Heaney in ‘Digging’ nella raccolta Death of a Naturalist del 1966, laddove evoca la mano contadina del padre che afferra la vanga per scavare e la propria che impugna la penna per fare altrettanto (vv. 1-5): Between my finger and my thumb The squat pen rests: snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravely ground: My father, digging. I look down per, quindi concludere (vv. 29-31): Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. si istituice un parallelo tra l’apprendistato di Luigi Meneghello scrittore e quello di Cleto Meneghello, suo padre, tornitore: Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano […]. Sui vent’anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. […] Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine, e a Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 49 questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: ‘Basta così’. (‘L’apprendistato’, p. 40) Segue l’explicit, profetico, dell’ultimo discorso pubblico di Meneghello: Vorrei poter fare anche io così, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’. (ibid.) Quanto emerso da questa lectio permette di ravvisarvi, analogamente a quanto visto nel caso di Consolo, le trame costitutive dell’intera opera di Meneghello: 1) La prima lingua innata e l’incontro con le altre lingue apprese che ha determinato la sua attività di vita e di scrittura. 2) Il ricordo di Malo – oggetto del suo continuo nóstos – eternato nelle sue opere. 3) La sua vita di perenne apprendista. Tutti elementi che convivono simultaneamente nella sua ultima lectio e in tutti i suoi libri. Cosa, dunque, hanno in comune Consolo (nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in Sicilia, provincia di Messina e morto a Milano nel Gennaio del 2012) e Meneghello lo scrittore di Malo (nato nel 1922 a Malo, in Veneto, provincia di Vicenza e morto nel 2007 nella vicina Thiene)? Alcune cose più ‘esteriori’ furono indicate dallo stesso Consolo nel ricordo dedicato allo scrittore maladense, suo contributo alla Biografia per immagini su Meneghello, curata da Pietro De Marchi e da chi scrive. Lo riporto qui di seguito: La laurea honoris causa in Filologia moderna, a noi due insieme, a Meneghello e a me, quel giorno di giugno del 2007, là nell’aula magna del Rettorato di Palazzo Steri, in quel trecentesco palazzo che tante ne aveva viste (fu abitato dall’illustre famiglia dei Chiaramonte che l’aveva fatto costruire, fu poi sede vicereale, sede del Santo Uffizio, del tribunale e del carcere della terribile Santa Inquisizione). La laurea, dunque, insieme, a Meneghello e a me. E a me sembrava quel giorno, in quella magnifica aula, davanti al senato accademico e al vasto pubblico, di usurpare il posto di Licisco Magagnato, il Franco di Bausète, che si laureò a Padova nello stesso giorno insieme a Meneghello ed ebbero, i due laureati, insieme un solo ‘papiro’ di laurea ‘a due teste’. Però, quel giorno, mi rassicurava il fatto che Meneghello ed io eravamo gemelli, voglio dire che eravamo nati scrittori nello stesso anno, nel 1963, lui col suo Libera nos a malo ed io con il mio La ferita dell’aprile; e tutti e due ancora con uguale assillo linguistico, 50 Giuliana Adamo l’intrusione, nell’italiano, del vicentino, o meglio della lingua di Malo, ed io del siciliano, vale a dire di tutte le antiche lingue che giacevano nel siciliano. E poi… E poi, eravamo due dispatriati, il Meneghello in Inghilterra, a Reading, ed io nella Milano dei Verri, di Beccaria, di Manzoni, di Verga, di Vittorini… Dispatriati, noi due insomma, in due diverse ‘patrie immaginarie’. Cosa univa ancora, Meneghello e me? A guardare le immagini di quella cerimonia, l’autoironia dipinta sui nostri due volti. Ah, caro Meneghello, che incontro è stato quello con te a Palermo! Primo e ultimo incontro, perché subito, tornato a Thiene, tu sei partito per quel viaggio dal quale non si ritorna più. Ed io ti rimpiango. Tutti ti rimpiangiamo, ma ci confortano però i tuoi libri, tutti i tuoi magnifici libri. Quelli, sì, resteranno sempre con noi.. (Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 172-173) L’ironia, tratto assoluto dell’intelligenza, unisce di certo i due scrittori, ed il distacco anche geografico con il conseguente, lungamente reiterato, rispettivo nóstos. Così come il loro essere sempre stati fuori dal coro, spesso a remare contro le patrie tendenze critiche e letterarie (ricordo, per esempio, l’insofferenza di Meneghello per Quasimodo e Ungaretti e pure per Moravia, nonché quella di Consolo nei confronti del – per lui – letterariamente troppo tradizionalista Tomasi da Lampedusa, per l’avanguardista Gruppo 63, e per la maggior parte della nuova narrativa italiana, tra cui spiccava l’avversione per il dialetto posticcio e folklorico di Camilleri). Entrambi fuori, per loro (e nostra) fortuna, dalla logica aberrante del mercato editoriale. Pur in modi diversi entrambi voci contro nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. E questo vale, ovviamente e ancor di più, per il problema della ricerca e della definizione della propria lingua di espressione letteraria a cui entrambi hanno dedicato il meglio della loro sapienza e della loro perizia, del loro talento e della loro passione. Tratti questi che li accomunano anche nel loro amore totale per la poesia, per la sua funzione e per la sua libertà espressiva. A questo punto, forzandolo in qualche modo ai fini del mio discorso, vorrei citare Wittgenstein che, nel 1929, in una sua lezione a Cambridge sostiene: ‘So far as facts and propositions are concerned there is only relative value and relative good, relative right’ e ancora: I believe the tendency of all men who ever tried to write or talk Ethics or Religion was to run against the boundaries of language. Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 51 This running against the walls of our cage is perfectly absolutely hopeless.19 Meneghello e Consolo si scontrano con lo stesso problema: in che lingua esprimere il mondo ‘possibile’ del proprio narrare? Dal canto suo Meneghello, che si è sempre misurato con la sostanza non univoca dell’esperienza umana cercando di darle una forma espressiva che il più possibile si avvicinasse al vero – anzi che fosse ‘più vera del vero’ – ammette: ‘Con le parole è impossibile essere precisi: non dico difficile, impossibile’ (Le carte III, p. 95). Eppure occorre narrare per capire il mondo, ma come? Risponde: con ‘la lingua nativa che illumina l’andamento delle cose’ (Le carte III, p. 99). Consolo, a sua volta, e analogamente dal suo punto di vista storicofilologico, si confronta con una realtà sfaccettata, plurivoca, composita, contraddittoria – si ricordi la sua visione e il suo tentativo di una resa plurima e dialettica della Storia – e per esprimerla, ritenendo ormai insufficiente e superata la lingua razionale-geometrica-comunicativa di Sciascia e Calvino, crea una lingua espressiva, dove la poesia evoca quello che la lingua italiana ormai ‘massificata’ e fatta scadere dall’abuso dei massmedia non è più in grado di comunicare. Una pulsione analoga muove i due scrittori. I risultati? Sorprendenti in ambo i casi. Sulla lingua di Meneghello critici e linguisti hanno detto tante cose e tra tutte si stagliano le perfette analisi di Giulio Lepschy che in un saggio del 1983,20 a proposito di Libera nos a malo, individua le tre lingue del libro quali: ‘italiano prezioso, italiano popolare, dialetto’, segnalando che ‘il dialetto è usato più per il suo valore espressivo o per la sua crudezza, che per la sua normalità o spontaneità’.21 E alla domanda ‘in che lingua?’ è scritto il libro, Lepschy, in sedi diverse, risponde senza indugi:22 In italiano. Libera nos a malo è un libro ‘italiano’, scritto ‘in italiano’, che appartiene alla cultura italiana (e attraverso ad essa a quella europea e internazionale), e insieme la arricchisce di elementi nuovi e originali.23 Un italiano reso più leggero e antiretorico grazie a quanto imparato nell’apprendistato inglese. Consolo, a cui potrebbero attagliarsi le parole di Lepschy su Meneghello (e a garantirne l’appartenza alla cultura internazionale, basterebbe la lista delle traduzioni delle opere di Consolo in quasi tutte le lingue romanze e in inglese, tedesco, olandese) arriva a forgiarsi una lingua espressiva, barocca (nel senso migliore del termine), 52 Giuliana Adamo ricchissima di citazioni – echi – rimandi che vanno dalla sfera erudita a quella più bassa. Lingua in cui convergono le lingue mediterranee: greco, latino, arabo, spagnolo, le varie parlate siciliane, incluse le lingue delle isole linguistiche (tra cui spicca il dialetto gallo-italico di san Fratello, paesino sui Nebrodi), italiano colto. La ricchezza linguistica consente la realizzazione della scrittura palinsestica di Consolo (per il quale sotto la superficie della propria scrittura ci devono essere i segni più importanti della letteratura di chi ci ha formato. E direi che su questo punto l’analogia con il ricchissimo tessuto narrativo di Meneghello è palese) e la messa a fuoco dell’irriducibile complessità del reale (da qui il suo preferito procedimento stilistico dell’amplificatio: l’accumulatio, soprattutto nominale), nello strenuo tentativo di rendere quello che è stato. La ricerca dei nomi di questo ‘archeologo della lingua’ non è semplice ricordo memoriale, ma attestazione del travaglio e del dolore di quella parola attraverso il male della storia. Rievocazione del tempo e dello spazio della Sicilia perduta attraverso i nomi che non sono segni di un’origine metafisica, ma della materialità del mondo prima della lacerazione, delle ferite, del dolore. Analogamente, Meneghello si è dedicato alla ricerca del recupero ‘archeologico’ di una società e di una cultura conosciute nell’infanzia e nella giovinezza e poi irrimediabilmente perdute. Non si tratta, però, di una rivisitazione della memoria percorsa dalla nostalgia e dalla retorica, ma di una vera e propria ricostruzione di ambienti, frammenti di vita e di cultura che mira a ridisegnare quella realtà attraverso una specie di ricerca antropologica, segnata sempre dal filo dell’ironia. E Consolo, in che lingua scrive? Non usava il dialetto: le espressioni, le parole dialettali sono sempre citazioni. Il suo linguaggio è l’italiano, ma l’italiano di Sicilia. Consolo, insomma, ripercorre la storia di Sicilia, dal Risorgimento all’ascesa del fascismo alla violenza mafiosa contemporanea, servendosi di un italiano costruito su ‘un fasto barocco e un ritmo musicale, con un gusto del dialettismo, del latinismo e dell’ispanismo, che contrastano espressionisticamente con i contenuti spesso tragici e con l’analisi, non sottolineata ma palesata e severa delle ragioni storiche’.24 Dice Consolo: Io non ho cercato di scrivere in siciliano assolutamente, ma vista la superficializzazione della lingua italiana e proprio per un’esigenza di memoria ho cercato la mia lingua che attingeva ai giacimenti linguistici della mia terra che erano affluiti nel dialetto siciliano, che io traducevo in italiano secondo la mia metrica della memoria.25 Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 53 Si potrebbero indicare molte altre aree di tangenza, vicinanza, analogia tra questi due scrittori che, pur diversi e geograficamente lontani, hanno dedicato la loro esistenza a mostrarci l’uno (Meneghello), più ‘antropologicamente’, che nella propria lingua nativa, innata e fondante, ‘le parole sono le cose’; l’altro (Consolo), con più impegno civile e utopia storica, che verrà un tempo in cui con parole nuove e, finalmente vere, perché riscattate dalla parzialità e dalle menzogne a senso univoco della Storia, ‘i nomi saranno riempiti interamente dalle cose.’26 È evidente che per entrambi il binomio etica e scrittura è indissolubile e che per entrambi scrivere sia una funzione del capire per avvicinarsi il più possibile alla realtà, all’unico ‘vero’ e, a questo proposito, grande è il debito nei confronti di Leopardi – di cui entrambi amano il poeta, il prosatore e il filosofo – contratto dai due scrittori. 27 Mi pare che la vicinanza più importante tra Consolo e Meneghello risieda in quella moralità che le parole di Franco Fortini definiscono come una forte e costante ‘tensione a una coerenza di valori e di comportamento’,28 espressa coerentemente e rispettivamente nella loro narrativa originale, coraggiosa, fieramente facente parte per sé stessa contro ogni tipo di omologante dittatura o partigianeria ideologica, letteraria, e del mercato editoriale. Trinity College Dublin Note 1 Ero presente a quella indimenticabile giornata palermitana sia per Consolo (su cui avevo appena finito di curare un volume di saggi), sia per Meneghello sulla cui opera stavo lavorando. Cfr. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, con prefazione di Giulio Ferroni (San Cesario di Lecce: Manni, 2006) e Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi con curatela iconografica di Giovanni Giovannetti (Milano: Effigie, 2008). 2 Giulio Lepschy, ‘Introduzione’, in Luigi Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo (Milano: Arnoldo Mondadori, 2006), pp.xlv-lxxxiv (p.xlvii). 3 Cfr. Cesare Segre, ‘Libera nos a malo. L’ora del dialetto’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del Convegno Internazionale di Studi In un semplice ghiribizzo (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo (Vicenza: Terra Ferma, 2005), pp. 23-27 (pp. 23-24). 4 Maria Attanasio, ‘Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10 (2005), 19-30 (p. 24). Ricordo, inoltre, che Consolo, nel solco di una discussione europea, negli anni del suo esordio letterario, circa il destino e la funzione del romanzo storico, ha ripudiato nella sua opera gli intrecci intrattenitori del romanzo tradizionale, ragione per cui, come non si è stancato di rimarcare nei suoi scritti e nei suoi 54 Giuliana Adamo interventi pubblici, scelse di spostare la scrittura dal ‘romanzo’ alla ‘narrazione’, secondo l’accezione datane da Walter Benjamin. Quanto al ripudio della lingua razionale e illuminista, lingua di una speranza ormai perduta irrimediabilmente, esso è motivato dalla mutazione antropologica avvenuta a seguito del boom industriale italiano nel corso degli anni ’50 del Novecento, su cui il Pasolini del saggio ‘Nuove questioni linguistiche’ (1964) ha scritto pagine fondamentali. La scelta poetico-espressiva della lingua letteraria di Consolo era in polemica con il linguaggio comunicativo, omologante, impoverito, tele-stupefacente determinato dall’avvento inarrestabile dei mass media. 5 Vincenzo Consolo, ‘Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’ in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 23-34 (questo è il mio testo di riferimento): ora in La passion por la lengua: Vincenzo Consolo. Homenajes por sus 75 años, a cura di Irene Romera Pintor (Generalitat Valenciana: Universitat de Valencia, 2008), pp. 29-38. Luigi Meneghello, ‘L’apprendistato’, in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 49-56; ora in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 36-40 (è questa l’edizione a cui faccio riferimento). 6 Consolo alla p. 24 della sua lectio ricorda: ‘Nel 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il terzocentenario della sua morte’ e annota che il bibliotecario della Società era Giuseppe Lodi, a cui si devono le parole riportate nella citazione. 7 I romanzi di Vincenzo Consolo, di cui cito solo le prime edizioni: La ferita dell’aprile (Milano: Mondadori, 1963); Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino: Einaudi, 1976); Lunaria (Torino: Einaudi, 1985); Retablo (Palermo: Sellerio,1987); Nottetempo, casa per casa (Milano: Mondadori, 1992); Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998). 8 Leonardo Sciascia, ‘Introduzione’ in Antonio Veneziano, Ottave (Torino: Einaudi, 1967), p. 7. 9 Enrico Testa, Lo stile semplice (Torino: Einaudi, 1997), p. 348. 10 Sulla plurivocità della lingua consoliana d’obbligo il riferimento al saggio di Cesare Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio’, in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), pp. 71-86 (p. 83). 11 A proposito della descrizione riportata a testo, alludo di volata alla necessità visiva della scrittura di Consolo che – basti solo pensare a qualche suo titolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio (Antonello da Messina), Lo Spasimo di Palermo (Raffaello), Retablo etc. –, contrae un debito sostanziale e fondante con la pittura analogamente a Meneghello che notoriamente rimase folgorato, all’inizio del suo apprendistato inglese, dal metodo didattico del Warburg Institute su cui ha scritto pagine importanti e sui cui ha ampiamente basato il suo insegnamento e quello del dipartimento di Studi Italiani da lui fondato a Reading. Si veda, inoltre, quanto riportano Giuseppe Barbieri e Ernestina Pellegrini, rispettivamente, alle pp. 191 e pp. 197-202 di Luigi Meneghello. Biografia per immagini. 12 Renato Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’, Filologia antica e moderna, 4 (1993), 179-223 (p. 182). 13 Sulla salvezza della scrittura, da varie prospettive, si ricordino le parole di Meneghello: ‘la crisi di tutto il mio sistema di idee pre-inglesi, durata decenni, un lungo, interminabile periodo in cui ho dovuto tener duro, hold tight, come un naufrago su uno scoglio: usando ciò che potevo, aggrappandomi a ciò che avevo, per esempio, la prosa di Leopardi’: Luigi Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, 3 voll. (Milano: Rizzoli, 2001), III, p. 185. E ancora: ‘“Scavi”. Estrarre “salvezza” dallo scrivere […]. È una specie di scavo continuo […]. Vado a scavare in tutto quello che mi è capitato: scavo, butto via e ricomincio, perché sono convinto che in qualche parte là sotto deve esserci quello che cerco, i nuclei del materiale effusivo e il luccichìo delle scorie vetrificate dove si Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 55 vede risplendere, che cosa di preciso? come dirlo?’ (ibid., p. 258). 14 Si confronti con quanto, analogamente, dichiara Meneghello, a proposito dell’autobiografia, nell’intervista concessa a Luca Bernasconi, in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, p. 205: ‘Però tutto questo non è fondato sull’idea che ciò che è accaduto a me ha qualche importanza, anzi sono convinto che non ne ha praticamente nessuna per gli altri, se non per me. Ma dentro contiene qualche cosa che non appartiene solo a me e, scrivendo, qualche volta emerge. Quando emerge, allora va bene, ce l’abbiamo fatta; e l’autobiografia è diventata qualche cosa di più e di diverso.’ 15 A questo argomento nel 2002 è stato dedicato un convegno a Parigi, alla Sorbonne Nouvelle, i cui atti si possono leggere nel seguente volume: Vincenzo Consolo. Étique et Écriture a cura di Dominique Budor (Parigi: Presses Sorbonne Nouvelle, 2007). 16 Su questi aspetti si veda Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’. 17 Cfr. I seguenti volumi: Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta (Milano: Rizzoli, 1999); Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta (Milano, Rizzoli, 2000). Per il volume III delle Carte si rimanda alla nota 13. 18 Si confrontino Meneghello e Consolo: le operazioni fatte sono diverse ma analoghe. Entrambi scavano nella propria lingua. Meneghello in quella parlata e non scritta del paese natale, nell’ambito storicamente ristretto alla propria esperienza biografica infantile e giovanile a Malo, nei due decenni degli anni ’20- ’40 del Novecento. Consolo, dal canto suo, scava storicamente e socialmente in un contesto storico millenario, secolare per: a) restituire la ricchezza linguistica del passato altrimenti destinata all’oblio; b) per rapportarsi sempre, metaforicamente, al presente. Meneghello: lingua della propria memoria biografica; Consolo: lingua della memoria storica collettiva. Ma la spinta etica a cercare di raccogliere nella loro lingua di espressione quanto di essenziale, di universale sia possibile reperire e tale da travalicare le proprie esperienze individuali è quello che li accomuna nel loro essere due ‘classici’ fuori dal coro. 19 Cfr. Ludwig Wittgenstein, ‘Lecture on Ethics: 1929- 1930’, ora in Ludwig Wittgenstein’s Lecture on Ethics. Introduction, Interpretation and Complete Text, a cura di Valentina Di Lascio, David Levy, Edoardo Zamuner (Macerata: Quodlibet, 2007), p. 42. 20 Sulle lingue di Meneghello, si vedano i lavori di Giulio Lepschy: ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy (Milano: Edizioni di Comunità, 1983), pp. 49- 60; ‘Le parole di Mino. Note sul lessico di Libera nos a malo’, in Luigi Meneghello, Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie (Bergamo: Lubrina Editore, 1987), pp. 75- 93. 21 Lepschy, ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, p. 49 e p. 50. 22 Cfr. Giulio Lepschy, ‘In che lingua?’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, pp. 15-22; ‘Introduzione’, pp.xliii-lxxxiv. 23 Lepschy, ‘In che lingua?’, p. 22 24 Cesare Segre, La letteratura italiana del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2004), p. 92. 25 Vincenzo Consolo, ‘I muri d’Europa’, Estudos Italianos em Portugal, Nova Série, numero a cura di Giovanna Schepisi, 3 (2008), 229-236 (p. 233). 26 Il sorriso dell’ignoto marinaio (Milano: Oscar Mondadori, 2004), p. 114. 27 Cfr. quanto Meneghello dice a proposito di Leopardi nella nota 13. 28 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), p. 67

The Italianist (2012)

Per Vincenzo Consolo

24 gennaio 2012 • pubblicato da minimaetmoralia

Fabio Stassi ci regala un ritratto appassionato dello scrittore Vincenzo Consolo, scomparso qualche giorno fa. L’appendice che segue sono gli appunti che Stassi ha conservato di un passato Salon du livre di Parigi, dove Consolo fu ospite e parlò della sua ricerca stilistica e della sua poetica.
di Fabio Stassi

Ho conosciuto Vincenzo Consolo nella biblioteca di Storia contemporanea della Sapienza di Roma. Era un giorno di maggio del 1995. L’avevamo invitato a parlare delle biblioteche frequentate nella memoria e nel sogno. A quell’incontro con gli studenti avrebbe partecipato anche José Saramago, se il dipartimento non lo avesse ritenuto un personaggio ancora non “di chiara fama”. Consolo intervenne dopo l’inconfondibile barba bianca a due punte di Vittorio Emanuele Giuntella, uno studioso a cui volevo bene e che mi aveva insegnato tutto quello che so sull’età dell’illuminismo. Giuntella aveva scelto di raccontare le biblioteche dei lager nei quali era stato internato, e lo fece in maniera toccante. Consolo parlò invece dei libri della sua infanzia, della biblioteca di Lucio Piccolo, della scoperta della stella polare della letteratura. La sua voce era mite ma affabulatrice, capace di esprimere con la stessa forza sia la nostalgia che l’indignazione.

Fu uno dei primi scrittori che vedevo in carne e ossa, avevo letto tutti i suoi libri e lo consideravo l’ultimo esponente della tradizione del romanzo siciliano post-unitario[1]. Leonardo Sciascia era morto da qualche anno e con Gesualdo Bufalino ci avevo parlato solo per telefono (il Grande Sedentario non usciva mai dalla Sicilia: ci saremmo scritti, ma non l’avrei conosciuto perché rimandai troppo a lungo un viaggio a Comiso). Restava solo lui. Quella sera scegliemmo un piccolo ristorante, in centro, dove poter conversare in pace. E per me fu come andare a cena con la lezione umanizzata di Verga, De Roberto, Pirandello e Borgese, più la luce luttuosa di Brancati, più gli astratti furori di Vittorini e di Sciascia e l’eleganza formale di Tomasi e di Bufalino declinati tutti insieme in un espressionismo dolente. Prendemmo un gelato dietro al Pantheon. Ricordo che Consolo si arrabbiò per come cambiava la letteratura, per la sua spettacolarizzazione, e anche per l’incomprensibile sciatteria delle nostre canzoni e della musica commerciale.

Sull’esempio di chi lo aveva preceduto, il suo lavoro portava avanti quella coerente e quasi cromosomica riflessione sui fatti italiani che gli scrittori siciliani hanno sempre condotto, dalla delusione del Risorgimento e dell’unificazione sino all’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino. Una riflessione che tra vicerè, vecchi e giovani, gattopardi, esercizi spirituali e olivastri selvatici suona come un recitativo all’inverso, una implacabile chiosa ai secolari malanni e guasti della nazione. La dominante è una dissonanza cronica: un cosmico e sgomentato discredito della storia. L’eccentrico barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, protagonista de Il sorriso di un ignoto marinaio (Einaudi, 1976), si chiede allo stesso modo dell’abate Vella del Consiglio d’Egitto di Sciascia[2]: “Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico?” La risposta è esemplare e definitiva: “Una scrittura continua di privilegiati.” Per lui il mondo aveva la forma di una chiocciola o di una lumaca: una spirale di ingiustizie e di soprusi, il ripetersi di una stessa mancata speranza.

Si potrebbe dire che il tema privilegiato della narrazione romanzesca, per Consolo come per Bufalino o per Sciascia, è “il tempo febbrile delle pesti”[3]. È lo stesso “mal contagioso” di cui scrive Manzoni, “il seme della peste”[4]. I personaggi che ne faranno esperienza, sono cronisti di epoche tristi e inferme, contemporanei di pestilenze ed esili che lasciano cambiati, per quanti oblii li seguiranno. È il “colera di Palermo”, la pandemia della mafia e quella nera del rimorso e del tragico senso di fallimento di una generazione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile e si ritrova ora a vivere in un paese franato, tra città stravolte, dove si cancellano memorie e nelle quali esala “un odore dolciastro di sangue e gelsomino”[5]. Segno che l’infezione, ancora, non è passata né che se ne potrà guarire.

Se Bufalino lavorò per decenni alla sua Diceria dell’untore, Consolo intitolò uno dei suoi ultimi libri con il nome dell’antico lazzaretto della città: Lo Spasimo di Palermo. Dalla valle “fetida, infetta” della Conca d’Oro, da questa Palermo immersa in “un sudario molle”, cielo lattiginoso e “mare d’un verdastro torbido”, e “fumi grassi” che s’alzano dalle spiagge, si può risalire fino alla Somalia del sergente di Ennio Flaiano in Tempo di uccidere o all’Algeria di Camus del dottor Bernard Rieux, che aveva proprio l’aria di un contadino siciliano. Lungo questa mappa delle metafore o cosmologia della peste, tutto ritorna all’uomo: la pena, e la rivolta, e il dovere della responsabilità e del bilancio.

Sarà un terremotato di Gibellina, emigrato nelle cave di Meirengen, vicino Basilea, a resocontare in L’olivo e l’olivastro il ritorno nell’isola odiosamata[6] ricoperta ora di gelsomini neri, un sudario di calce al posto del ricordo, una terra di massacro e una terra massacrata, dove di ciclopico è rimasta solo la demenza. Il suo viaggio, speculare a quello del Silvestro di Vittorini[7], è un dialogo con uomini e luoghi trapassati, con l’ansia divorante delle madri, un inoltrarsi nella rovina, un chiedersi cos’è successo, un sapere che si è destinati a ripartire… è l’ultimo mascheramento di Ulisse. Perché più vado avanti e più mi rendo conto che tutto quanto c’era da dire, scriverà in un altro piccolo libro Vincenzo Consolo, era già stato detto da Omero e dopo non si è fatto altro che ripetere: “l’Odissea è matrice di ogni racconto”[8].

Per qualche anno ci scambiammo solo dei biglietti, di tanto in tanto. Perché lo incontrassi  nuovamente, il caso scelse un’occasione privilegiata: il cielo grigio di Parigi e il Salon du livre del 2001. Io ci partecipavo come bibliotecario: quell’anno l’Italia era il paese omaggiato. All’ingresso avevano esposto trentacinque enormi ritratti. In uno di questi, Vincenzo Consolo teneva in mano una lente d’ingrandimento che gli dilatava l’occhio e lo sguardo mentre Rigoni Stern camminava su un sentiero innevato di Asiago. Lessi che teneva una conferenza alla sala Victor Hugo: Une heure avec Vincenzo Consolo. Mi precipitai. La sala era accanto al Padiglione Italia. Una sala gialla, affollata. Dai vetri si vedeva la gente che passava. Entrai mentre un attore stava leggendo un brano di un suo libro. Presi posto e aprii il mio quaderno per gli appunti. Soltanto dopo un po’ mi accorsi che mi ero seduto accanto a Daniel Pennac.

La conferenza di Consolo fu ipnotica. Parlò di molte cose, della letteratura come metafora, delle sue scelte stilistiche, del Sud, di Omero, di Verga e del proverbio siciliano cu nesce arrinesce: chi esce, chi va via, riesce. Alla fine, Daniel Pennac si avvicinò al mio orecchio e mi disse sottovoce, con un gran sorriso entusiasta, che per lui Consolo era semplicemente magnifique. Ci alzammo e andammo ad abbracciarlo insieme.

Nel 2007 lo ritrovai a Siracusa, al Premio Vittorini. Era il presidente di giuria e furono le sue mani a benedire il mio primo romanzo. Ma l’ultima volta che l’ho visto fu a una serata tributo per Pino Veneziano, l’artista siciliano che un giorno dell’84 aveva cantato anche per Borges, commuovendolo. Consolo aveva firmato un appello per Selinunte e l’introduzione a un libretto dal titolo Di questa terra facciamone un giardino[9]. Prese la parola e tracciò un breve elogio della cultura orale. Me lo ricordo così, sotto la luce gialla che illuminava le colonne del tempio, piccolo e incanutito ma con gli occhi che non avevano mai smesso d’essere vivaci, un vecchio cantastorie in piedi tra i ruderi di un’acropoli.

APPENDICE

Un clandestino a Parigi : une journée avec Vincenzo Consolo
(dai miei appunti, Parigi, Salon du livre, 24 marzo 2001)
Sala Victor Hugo, ore 12

La letteratura è metafora. Nostalgia di un tempo e di una patria perduta, desiderio dei personaggi di tornare a un’Itaca che non esiste più. È la nostra condizione. Siamo degli ulissidi che anelano a raggiungere la patria perduta. La memoria di una patria. Io ho sempre avvertito nel mio lavoro di scrittore una discrepanza tra argomento e stile. Sin da quando iniziai a scrivere, nel 1963, capii che dovevo fare una scelta di campo dal punto di vista linguistico e stilistico. Non c’è innocenza in arte, bisogna avere consapevolezza di quello che si sta svolgendo. Io sapevo che gli scrittori della generazione appena precedente alla mia, avevano adottato un registro comunicativo, un codice linguistico comunicativo. Moravia, Calvino, Morante, Sciascia. Io penso che speravano che dopo la fine del fascismo sarebbe potuta nascere in Italia una società civile con la quale comunicare. E questa loro speranza risaliva all’utopia linguistica di Manzoni.
Ma quando cominciai a scrivere io, questa società non si era formata, non esisteva per me. Per questo ho adottato un codice non comunicativo, ma espressivo. Con questa scelta stilistica mi inserivo in una tradizione italiana che partiva da un mio conterraneo, Giovanni Verga. Lui aveva rivoluzionato il codice linguistico manzoniano. Sulla sua linea lo avevano seguito Gadda e Pasolini.
Avevano creato un controcodice espressivo.

In questo sono stato favorito dalla ricchezza della lingua della mia terra, da quel giacimento linguistico che con molta faciloneria viene chiamato dialetto. Nel siciliano sono presenti residui della lingua greca, araba, francese, spagnola e delle altre civiltà transitate dalla mia isola. Io ho utilizzato questo serbatoio, questi residui, per rompere il codice linguistico nazionale, organizzando la prosa in modo ritmico, lirico, più simile alla poesia. Per me non esisteva un rapporto tra testo letterario e contesto storico, situazionale, ma una rottura. L’esempio più efficace lo dà la tragedia greca. Il messaggero appare sulla scena e riferisce quello che è avvenuto in altro tempo e in altro luogo. Solo dopo che lui racconta i personaggi si muovono e il coro commenta. Così, attraverso il rito del teatro, si ottiene la liberazione dalla colpa, la catarsi. Il messaggero, l’anghelos, è lo scrittore. Appare e dice di una vicenda, e cerca di far immedesimare personaggio e lettore. Ma oggi la cavea è vuota. Non c’è più il pubblico. L’unica possibilità è quella di spostare la narrazione sul commento della tragedia che ci riguarda tutti.

Nei miei libri, in tutti i miei libri, ci sono queste parti corali, che i latini chiamavano cantica. Si interrompe il racconto e si alza il ritmo, attraverso l’uso insistito delle assonanze e delle rime. Come dice Bachtin, il romanzo è sempre utopico perché ipotizza un mondo migliore.

Questa è stata la mia ricerca stilistica, una ricerca archeologica e filologica. Noi non abbiamo la fortuna di voi francesi. Leopardi, in un’analisi delle due lingue cugine, l’italiano e il francese, dice che il francese, attraverso la creazione di uno stato e la sua storia unitaria, si è “geometrizzato”. L’italiano, invece, non è una sola lingua, ma tante lingue. Questa è la nostra risorsa ma anche la nostra dannazione, da Dante in poi.

La letteratura, per me, è soprattutto una memoria linguistica. Ho ricercato le radici e usato la tecnica dell’innesto. Ma non ci si deve confondere. Trovo ingiustificato e regressivo l’inserimento dell’elemento dialettale. Come ha scritto Pasolini, Verga usava un italiano irradiato di dialettalità, ma non era un dialetto, era un’altra lingua. Una lingua nuova.

Considero la ricerca stilistica un impegno nei confronti della storia. Capisco che i miei testi non sono di facile lettura. Ma c’è in me un’esigenza di praticare una “letteratura d’intervento” (così l’ha definita Roland Barthes) anche sui giornali. Sento il bisogno di esprimere il mio giudizio sulla situazione politica del mio paese, ma anche su quella internazionale. Domani, insieme ad altri scrittori che fanno parte del Parlamento internazionale degli scrittori, tra cui José Saramago, parto per Tel Aviv e per Ramallah, per portare un appello per la pace. In Francia, l’esempio dello scrittore militante è quello di Zola, che pur pagando di persona alla fine riuscì a far riaprire il processo Dreyfuss. Oggi, in Italia, c’è un ministro della cultura che accusa gli intellettuali di vigliaccheria. Di fronte a tanta volgarità non vale nemmeno la pena di rispondere. Voglio aggiungere che non volevo alcuna ipoteca da parte del governo italiano sulla mia partecipazione a questo Salone del libro. Dopo le nostre dichiarazioni, io, Camilleri e Tabucchi siamo stati cancellati dal catalogo. Non troverete né la nostra foto né la nostra biografia. Per il mio governo, qui sono un clandestino.

Sala Dante Alighieri, pomeriggio. Vincenzo Consolo discute insieme a Erri De Luca, Giuseppe Bonaviri e Raffaele La Capria. Qualcuno gli chiede perché ha lasciato la Sicilia…

Appartengo alla storia infinita di meridionali che hanno abbandonato questa estremità, questo limite, per raggiungere il centro. Alcuni vennero in Francia, nel vagheggiamento di un nord mitico. Il primo è stato Verga. Approda a Firenze, poi a Milano, nella Milano dei salotti e delle contesse. Trova invece un mondo in grande subbuglio. In quegli anni si avvia la Pirelli. Lui rimane spiazzato. E qui si toglie la maschera di scrittore borghese e compie una rivoluzione stilistica. Dopo di lui, a Milano ci piovono Vittorini e Quasimodo. Io ci ho studiato, poi sono tornato in Sicilia. Ho insegnato nelle scuole agrarie. Ma presto mi sono reso conto che la mia presenza nell’isola era un’assurdità. Il mondo che volevo descrivere, il mondo contadino, si stava frantumando. Era in atto un esodo di braccianti che partivano per il nord e diventavano operai. Si pensava ancora che Milano fosse diversa e opposta alla realtà siciliana. Questa mitologia era stata alimentata da Vittorini. Lì ho lavorato in quella che definisco una fabbrica di armi, ossia la televisione, la Rai. Progressivamente il mito di Milano mi si è infranto, stagione dopo stagione, prima con gli anni di piombo, poi col riflusso craxiano, infine con l’era di Berlusconi. Questa è la mia storia.

La sala è strapiena. Gente in piedi, gente seduta per terra. L’affluenza è davvero impressionante. Sembra quella di un concerto. De Luca e La Capria relazionano in francese. Consolo riprende il microfono per spiegare che per la sua isola i Vespri siciliani sono stati una sciagura, al contrario di quanto ha creduto Croce. Perché i francesi se ne sono andati a Napoli, “e oggi i relatori napoletani lo parlano correttamente, mentre da noi sono arrivati gli spagnoli e l’Inquisizione, ma i siciliani non hanno imparato nemmeno lo spagnolo”. Suscita l’ilarità della sala. Poi pacatamente riprende il suo discorso sul recupero di una memoria linguistica, della memoria di un sud più profondo.

Il canale di Sicilia era un canale di grande comunicazione. I pescatori trapanesi andavano a pescare nelle acque del Mahgreb. Poi, con l’inizio dell’età dei conflitti, il Mediterraneo divenne un confine, un luogo di miserie e di atrocità, come ha spiegato Braudel, un mercato di schiavi, il centro di guerre economiche mascherate da guerre di religione. Oggi, purtroppo, assistiamo al ritorno di questi massacri. Ma non bisogna dimenticare che la storia delle civiltà è sempre una storia di incroci e di migrazioni e anche voi francesi ne sapete qualcosa.

L’intensa giornata di Vincenzo Consolo termina la sera, allo stand di France culture. Attorniati dai microfoni e dai giornalisti della radio francese, siedono allo stesso tavolo i membri del Parlament International des Escrivains. Vicino a Consolo riconosco i premi nobel per la letteratura Wole Soynka e José Saramago. Soynka è un po’ invecchiato, con una montagna di capelli bianchi sulla testa. Saramago elegante e autorevole, come sempre. Accanto a loro siedono il sudafricano Breyten Breytenbach, il cinese Bei Dao, Juan Goytisolo per la Spagna e Russel Banks per gli Usa. Con voce ferma e sicura, insieme consegnano a Parigi e al mondo il loro messaggio di pace.

[1] Un sommario elenco delle opere che hanno edificato questa linea siciliana del nostro romanzo comprende: I malavoglia (1881) e la novella Libertà (1882) di Verga, I vicerè (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, Rubè (1921) di Borgese, Il gattopardo (1958) di Tomasi, Il Consiglio d’Egitto (1963) e il racconto Il quarantotto (Gli zii di Sicilia, 1958) di Sciascia. Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Consolo è l’estremo tassello di questa antistoria del Risorgimento, un discorso che si protrae da oltre un secolo. Ma, estendendo la riflessione al fascismo, al dopoguerra e al cinquantennio democristiano, bisogna annotare almeno Conversazione in Sicilia (1941) di Vittorini, Il bell’Antonio (1949) di Brancati, Il contesto (1971) e Todo Modo (1974) di Sciascia, Diceria dell’untore (1981) di Bufalino, L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) di Consolo, a cui ora si possono aggiungere le opere e i nomi di Andrea Camilleri, di Giosué Calaciura e di Giorgio Vasta.

[2] L’abate Vella sosteneva “che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh, sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente…. La storia. E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce alta della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?»” in L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Milano, Adelphi, 1989, p. 59-60.

[3] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 113.
[4] Così suona, in francese, il titolo della Diceria dell’untore.
[5] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 115.

[6] Consolo aveva già individuato in un piccolo paese nell’entroterra della Sicilia, Caltagirone, l’epicentro di una epidemia e l’emblema di una nazione, “della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinquant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l’Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze.” (L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994, p. 71).
In un altro libro di Gesualdo Bufalino, il Guerrin Meschino, il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 cala addirittura il sipario, si chiude per lutto. L’Oprante, il puparo si ferma, smonta il teatrino, ripone con cura i legni e, alla fine, rompe la noce del collo al più derelitto degli eroi, al desdichado di cui stava raccontando le avventure: è un tempo, ormai, dove nemmeno per finta, nemmeno per gioco, “il buono vive e il maganzese muore”.

[7] Silvetro Ferrauto è il protagonista di Conversazione in Sicilia.
[8] Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introduzione di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1999.
[9] Di questa terra facciamone un giardino. Tributo a Pino Veneziano, con CD audio, a cura di Rocco Pollina e Umberto Leone, Trapani, Coppola editore, 2009.

L’ulivo e la giara


di Vincenzo Consolo


Nell’estate del 1882 Pirandello a compagnia del padre, compie un viaggio – il primo suo vero viaggio – da Palermo e Sant’Agata Militello, per una Sicilia, per una campagna, per un paesaggio tutt’affatto diversi da quelli che aveva dentro e che conosceva. Scopo di questo viaggio, da parte di Stefano Pirandello, è d’intraprendere, dopo il suo crollo economico a causa dello zolfo, il commercio degli agrumi. II signor Vincenzo Faraci di Sant’Agata, proprietario terriero e agente della compagnia di navigazione Florio-Rubattino, presso cui si reca, dovrebbe aiutarlo nella sua nuova impresa. La famiglia Pirandello, già dalla primavera dell’82, si era trasferita da Girgenti a Palermo, s’era allocata in una casa di via Porta di Castro, a ridosso delle mura del Palazzo Reale. Partono dunque, padre e figlio, per Sant’Agata, alle prime ore del mattino, su un treno che li porta fino a Termini Imerese. Da qui, per l’inesistenza ancora della strada ferrata fino a Messina, proseguiranno in diligenza.
Immaginiamo, in treno e in carrozza, la curiosità, l’attenzione, il rapimento del quindicenne Luigi di fronte a quel nuovo mondo che gli scorreva davanti agli occhi, agli echi che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…
Al fitto e profondo verde degli agrumeti, e ai golfi, alle insenature, alle calette, al mare lungo la costa tirrenica; e alla cortina boscosa delle Madonie e dei Nebrodi che separavano questo rigoglio vegetale dalle sconfinate, aride lande dell’interno, della desolata nudità del latifondo e dei grigi e fumosi altipiani dello zolfo. E doveva accorgersi che man mano, dopo Termini, dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi – a spegnersi finanche nelle decorazioni dei carretti che, da chiassosi e spettacolari, si facevano monocromi, giallognoli o verdastri – a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena.
Sostano a Santo Stefano di Camastra. Un paese, questo, dopo la frana del 1682 che aveva distrutto il vecchio abitato in montagna, concepito e fatto ricostruire in basso-su un promontorio a mare, da Giuseppe Lanza duca di Camastra. L’impianto urbanistico disegnato dal duca ,un rombo inscritto in un quadrato – era ripreso aulicaunque dallo schema del Parco Versailles e della palermitana Villa Giulia. Un paese dunque non affastellato, casuale, di case sopra case, ma “pensato”, moderno, piano, ordinat: un paese “bello” secondo la qualificazione vittoriniana de Le cità del mondo. E’un paese anche di grande attività, di lavoro: la lavorazione dell’argila, di cui quasi tutti gli abitanti vivevano. A margini, lungo la statale, erano le purrere, le cave d’agilla, gli stazzuna, le fabbriche di laterizi, e le putii i robba r’acqua, le botteche delle ceramiche d’uso quotidiano (desumiamo queste notizie dalla monografia di Antonino Buttitta e Salvadore D’onofriono, La terra colorata)  davanti alle qual erano gli spiazi dove la creta veniva ammucchiata e impastata ( dagli impastatura, a piedi nudi seguendo un preciso disegno, a ventaglio, a chiasciola, a spicchi d’arancio o a cerchi concentrici) e venivano esposti i manufatti ad asciugare o messi in mostra per la vendota dopo la cottura.

E davanti a queste botteghe, Luigino, fra i tanti oggetti, tante forme, quartari lémmi, bùmmuli, lumèri, fangotti, mafarati, avrà visto quella grande forma, alta, panciuta, ch’era la giarra.
La fabbricazione d’una giara era un lavoro delicatissimo, di grande precisione e di alta specializzazione dei “mastri”. Veniva eseguito in tempi successivi, al tornio. Sulla base precedentemente asciugata (u piezzu) venivano poi man mano innestate le fasce, su su fino alla parte più convessa della pancia e alla rastremazione delle spalle, del collo e della bocca. Veniva poi stagnata, invetriata con piombo ossidato, all’interno e fino al labbro, prima di essere infornata. In quella stagione, prossima alla raccolta delle olive e alla loro spremitura – le olive dei vasti oliveti della zona del Mistrettese, delle Caronie, di San Fratello – dovevano essercene già molte esposte davanti alle botteghe, di giare, nelle loro varie misure canoniche – da mezzo cantàru, venti litri, fino alle grandi capaci di quattrocento, cinquecento litri d’olio – un solenne corteo di badesse nell’ocra infuocata della luce del tramonto.
A Sant’Agata Luigi e il padre sono ospiti per alcuni giorni della famiglia Faraci, in contrada Muti, in una casina di campagna su una collinetta da dove si domina il piccolo paese col castello dei principi di Trabia al centro, le casupole dei pescatori lungo la spiaggia e quelle dei contadini verso l’alto. Luigi ritrovava qui il suo coetaneo e compagno di scuola, al “Vittorio Emanuele II” di Palermo, Carmelo, figlio di Vincenzo Faraci. Fra i due ragazzi si stabili una solida amicizia. E, ritornata la famiglia Pirandello a Girgenti nell’85, Luigi e Carmelo andranno a abitare insieme in un stanzetta d’affitto in via Mastro d’Acqua, E l’ultimo anno di liceo, Luigi allora ferocemente immerso nei suoi studi e nell’amore per la cugina Lina. Carmelo Faraci si dedicherà a questo suo compagno geniale e stravolto dalla passione d’amore fino ad accudirlo, a preoccuparsi di tute le necessità pratiche. Poi Carmelo, finito il liceo. avrà un triste futuro, si ammalerà di tisi e lascerà Palermo per andare a rifugiarsi in un bosco sopra Sant’Agata, a Mangalavite.
Luigi, da Porto Empedocle, dalla villa del Caos, nell’agosto dell’87, deluso dall’amore, dal lavoro tentato nelle zolfare del padre, in preda al pessimismo più nero, si ricorderà di questo suo mite e fedele amico e gli scriverà. Le cinque lettere che Pirandello invierà al Faraci sono state pubblicate dal professor Giovanni R. Bussino, di San Diego in California nel libro Alle fonti di Pirandello. Scrive in una di queste lettere:

“Tu sei malato di corpo (e io ti voglio intanto in via di guarigione) ed io sono malato di spirito e della mia malattia non si guarisce. Mi credono tutti pazzo, e prima – per maggiore tormento – i miei più cari; il mio vizio dei nervi si è bruscamente accentuato ed io non so trovar pace in nessun luogo: la mia vita mi si è fatta brutta bene… M’indusse a scriverti – non te lo nascondo – una dolcissima memoria del passato…”.
La memoria dolcissima d’una serena campagna: e di due forme, antichissime e significanti: l’ulivo e la giara.
La novella La giara è pubblicata il 20 ottobre 1909 sul “Corriere della Sera”.
Pirandello è chiuso, in questo periodo, in una doppia, tetra prigione: quella burocratica dell’insegnamento al Magistero, dov’era inquadrato nella categoria degli “incaricati” certamente contrassegnato da un mastronardiano “coefficiente”, e quella domestica, dove la gelosia paranoica della moglie gli tesseva intorno ogni giorno di più le sue terribili maglie. La novella La giara è la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano.
‘A giarra, commedia in dialetto, è del 1916.

E’ tempo di guerra. Il figlio Stefano è prigioniero degli austriaci, la madre appena morta – quella madre che aveva incarnato il suo romantico patriottismo, che ora, nell’urto con la tragica realtà, si lacerava – gli ritornava a colloquio come personaggio, la moglie ormai dentro quella tenebra dove “nessuna voce può raggiungerla più” Si sa che al teatro regionale e dialettale Pirandello fu trascinato dall’amico Martoglio e dalla forza della “Compagnia comica di Angelo Musco, che in quegli anni mieteva successi per tutta la Penisola Successi, certo, di questi istintivi e irresistibili teatranti catanesi, dovuti anche al bisogno di distrazione e di riso da parte degli spettatori angosciati dalla guerra. Pirandello scriverà per quel teatro per ragioni materiali, economiche ma deve anche scrivere quel teatro per ragioni spirituali, in un bisogno crescente di luce e di respiro quanto più si sente precipitare nel pozzo della disperazione. Al momento più basso e più cupo della sua vita, corrisponderà il momento creativamente più luminoso e liberatorio che è Liolà.
Subito seguirà La giara, con la quale chiuderà questo ciclo. E a noi piace credere che nel concepire La giara gli sia tornato il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Demone, della fertile campagna alle falde dei Nebrodi, delle giare intraviste a Santo Stefano. “Sissignore, della giara grande, per l’olio, arrivata ch’è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d’uomo, pare una badessa” dice ‘Mpari Pè, il garzone di don Lollò. L’uomo rimasto prigioniero dentro la giara è una delle trovate sceniche, visive e gestuali, più felici del teatro pirandelliano. Saracena è la giara – giarrat – e saraceno quel conciabrocche dentro, ladro (involontario) della roba altrui, su cui volentieri don Lollò, nella sua furia, butterebbe dell’olio bollente. Ma zi’ Dima è anche un folletto, un imprevedibile ginn, di quelli annidati dentro bottiglie o lampade – egli ha commercio col diavolo, e quella gobba e quella pece nera ne sono la prova – che con le sue argomentazioni da dentro la giara contrasta e distrugge di volta in volta le argomentazioni esterne, giuridiche, codificate, di don Lollò e del suo avvocato.
Ma La giara trapassa questa farsa saracena o questo mimo siceliota, sofroneo o senarcheo, trapassa ogni eclisse solare e storica, va più indietro verso un tempo remoto, verso significati più abissati, archetipici. La giara è allora l’involucro della nascita, l’utero, ed è insieme la tomba (i Siculi seppellivano i loro morti, in posizione fetale, dentro i giaroni). E zi’ Dima non perde, non muore, sapiente, dialettico e sarcastico, vince e rinasce nello splendore d’un plenilunio, nel tripudio dei contadini.
E quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene si dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza.
Se Liolà, della stagione della vendemmia, è mimo dionisiaco o fliacico (Phliax era un demone della natura, della fecondità), La giara è mimo apollineo e cavillico, della stagione dell’olio che dà sapore – sapere – e che dà luce. L’ulivo saraceno, un ulivo del Caos, immaginato, sognato, riapparirà in limine, nella notte che precede la morte, sul palcoscenico del palcoscenico, in un terzo atto mai scritto, a reggere un tendone – sudario contro cui si reciterà l’ultima favola. Apparirà quell’albero di forma tormentata, agonica, da cui l’anima anela a uscire, a consumarsi bruciando, come olio dentro una lampada: a ritornare, annullandosi, nella nudità, nella verità, nel flusso infinito.

Vincenzo Consolo come Verga

Nel 1893 Giovanni Verga lascia Milano, “stanco di anima e di corpo”, per ritornare nella sua Sicilia. A Milano aveva soggiornato per circa vent’anni, essendovi giunto nel novembre del 1872, ma se ne andrà alquanto deluso e risentito. In Sicilia Verga ritroverà i sedimenti profondi della sua memorialità e soprattutto la lingua delle origini; primordiale, robusta, incorrotta, da cui trarrà linfa vitale e sangue la sua fantasia e con cui darà forza, spessore, virulenza alle sue storie e alla sua poetica, come non gli era ancora accaduto. Questo generoso amalgama si rivelerà una felice epifania e lo trasformerà nel potente scrittore che conosciamo. Stilisticamente una vera e propria rivoluzione, pari a quella di altri giganti della letteratura europea del suo tempo. All’archetipo del ritorno degli scrittori siciliani moderni nella loro isola, Vincenzo Consolo dedica un breve capitolo “I ritorni” che chiude la sezione verghiana degli scritti compresi in Di qua dal faro. Ritorno nelle sue molteplici declinazioni, che non è solo tópos, mito, visionarietà, storia o civitas, ma soprattutto memoria e lingua; vale a dire, il corredo più acconcio e prezioso per uno scrittore. Ora è giunto il momento anche per lui, il momento del nóstos e del ricongiungimento, come lo fu per Verga più di un secolo fa; anche Consolo ripercorre a ritroso il suo cammino, di uomo prima che di scrittore, e da Milano dove era salito nel 1968 vivendovi e operandovi per oltre un quarantennio, inverte la rotta per riapprodare nella sua isola. “Torno nella mia terra. Voglio morire nella mia isola”‘ , confida in un’intervista al settimanale palermitano “a sud’ europa” (1) nel dicembre scorso. Ribadita all’età di 77 anni, Consolo è del 1933, questa volontà suona perentoria, asseverativa, ultimativa. Quando questo avverrà, si sarà compiuta la parabola naturale di un uomo e di uno scrittore che non ha mai scisso, per sua e nostra fortuna, il legame profondo, primigenio, ancestrale, con l’ónfalos, con la terra, con la mater, che è impasto di lingua, carne, affetti e visione. E su quell’isola, non dimentichiamolo, c’è sedimentato il respiro di Sciascia e di Lucio Piccolo, di Verga e di Lampedusa, di Antonello e di Pirandello con la fantasia del Caos, il profumo perduto del suo pino. E c’è il mare, cioè il mito dei miti.
Ritorna, Consolo, con lo stesso risentimento, con la stessa delusione di Verga. Delusione per le aspettative tradite di una città divenuta, secondo le sue stesse parole, “città centrale della menzogna” (2). E non possiamo fare a meno di andare con la mente alla Milano di Tangentopoli e al tradimento che ne è seguito: al leghismo bieco e reazionario, al berlusconismo disinvolto e immorale, alla deriva etica, al degrado civile, all’indegnità opportunista della cosiddetta società letteraria, sempre più stomachevole. Il ritorno di Consolo non è un ritorno alla fonte salvifica (come fu per Verga); egli non ne ha bisogno; non ha bisogno di purificare la sua lingua alle fonti primigenie perché di quella lingua Consolo è impastato. Della sua oralità e della sua sostanza. Non torna per arginare la crisi dell’artista, perché di quell’universo vitale, labirintico e fecondo non si è mai separato. E rimasto, pur vivendo fuori dalla sua isola, il più siciliano degli scrittori siciliani: come Sciascia, come Buttitta. E questa è stata la sua forza e la sua fortuna. Egli non ha dissipato, e, in linea con la grande lezione della tradizione, ha tenuto salde le radici per non “disperdersi”, come dice Giuseppe Bonura, “in un ambizioso quanto vacuo internazionalismo’, senza anima e senza storia. In sintesi: senza verità. Se, com’egli scrive, “la letteratura è essenzialmente scrittura, è espressione linguistica; è tempo, ritmo delle parole, eco poetica di suoni” (3), il plurilinguismo, la poeticità, il suono, e direi anche il colore stesso della parola, non possono prescindere dalle lingue madri. Nessuna lingua artificialmente ricostruita può eguagliarne la potenza espressionistica, la densità sapienziale, la ricchezza significante, l’umoralità, l’irriverenza iridescente, l’ironia sovversiva. E lingua madre significa una lingua talmente antica e così arcaicada aver sfidato il divenire; che ha saputo tener testa all’omologante egemonia, al livellamento sterile e banale del linguaggio, nato dalla società consumistica e della pervasività televisiva.
Quest’opera di resistenza ha operato il Consolo artista, il Consolo creativo, attento alla parola quant’altri mai, attratto come direbbe Bonura “dalla passione inappagata del senso primitivo della parola” (4), da quella “nostalgia dell’inizio, dell’origine, quando un vocabolo poteva illuminare una vita” (5). Questa nostalgia, questa “regressione strategica” (sono ancora concetti di Bonura), si ricollega a radici antichissime e dai risultati espressivi sorprendenti. Valga per tutti l’Aristofane delle Tesmoforiazuse e della sua guardia, che argomenta in un misto di siculo-calabrese divertentissimo, e che non ha perduto nulla, a distanza di tanti secoli, della sua vis comica e della sua efficacia. Non si dimentichi che questa regressione strategica ci ha dato un capolavoro come Il sorriso dell’ignoto marinaio, da un lato, e come contrappeso quella favola barocca e notturna che è Lunaria. Un discorso approfondito meriterebbe anche il Consolo intellettuale, il ricercatore erudito, il filologo, il cultore di storia e di tradizioni, il saggista. Il Consolo che invidia la scrittura geometrica, rigorosa, analitica di sodali come Sciascia, Pasolini o Moravia è in realtà altrettanto illuminista, analitico, ragionatore. Chi vuole la prova di quanto sto sostenendo, si vada a leggere le oltre 280 pagine che hanno dato vita ad un libro composito come Di qua dal faro. Tutti assieme ora, quei saggi, quelle conferenze, quegli articoli, quelle prefazioni, compongono il corpo unitario di un volume che io trovo, oltre che bellissimo, assolutamente necessario.

ANGELO GACCIONE

NOTE (1) “a sud’europa” anno 3° n. 45, Palermo 21 dicembre 2009, pag. 18. Intervista a cura di Concetto Prestifilippo. (2) Idem. (3) Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, 1999, cit. pag. 137, nel saggio “Verga fotografo” (4) LE LUCI DEL BAUHAUS – Linee/Voci, a cura di Angelo Gaccione, Gutenberg, 2001, pag. 7, “I labirinti della poesia”. (5) Idem.

Le parole sono pietre

La notte del 15 gennaio 1969, un anno dopo il terremoto della Valle del Belice, mi trovai a Gibellina, tra le baracche dei superstiti di Gibellina, il paese più distrutto, di cui non rimaneva che un manto di macerie. Mi trovai con tanti altri, contadini di Santa Margherita, Montevago, Salaparuta, Santa Ninfa, e scrittori, pittori, scienziati, sociologi, sacerdoti, giornalisti, lì riuniti per un convegno, un pellegrinaggio in memoria e per appello, allo Stato e al mondo, che da lì, dal Belice, in nome dell’umanità, dei doveri dell’umanità, non bisognava distogliere lo sguardo, che alle popolazioni del Belice si doveva rispetto, solidarietà e aiuto. Vano monito e vano appello, che, poi, le cronache hanno dovuto puntualmente registrare l’ennesimo insulto a quella gente, non solo dimenticandola, ma miserevolmente tradendola con il solito sporco gioco delle corruzioni e dei furti.

Ma quella notte, tra le baracche di Gibellina, sotto un cielo invernale terso e stellato, tutti quei contadini lí convenuti, le donne, le vecchie e i bambini, con negli occhi ancora paura e dolore per i morti, guardavano i «forestieri» lí giunti per loro con l’antica diffidenza ma anche con malcelata gratitudine e speranza.

L’assembramento sulla spianata delle baracche si compose poi in un corteo, un lungo corteo luminoso come un fiume di fuoco per la fiaccola che ciascuno aveva acceso e reggeva in una mano, che si mosse e cominciò a salire sul colle di Gibellina. Fu lì, tra le macerie rese più sinistre e spettrali dal barbaglio delle fiaccole e dai fasci di luce dei proiettori che sciabolavano nel cielo, che vidi, alto sopra un rocchio di colonna abbattuta, Carlo Levi. Parlava a un gruppo di contadini che attorno a lui si erano disposti, e altri se ne avvicinavano e man mano il gruppo cresceva. Non sentivo le parole di Levi, ma vedevo i suoi gesti calmi e fraterni, il suo viso chiaro dall’espressione confortante, vedevo l’attenzione e la partecipazione dei contadini alle sue parole. E mi sovvennero in quel momento, come concentrate in un’unica parola, le pagine del Cristo si è fermato a Eboli, le pagine di Le parole sono pietre e tutte le pagine da lui scritte sul mondo contadino. Concentrate in quest’unica parola: amore. Questo è la forza e la poesia delle pagine di Levi: l’amore per tutto quanto è umano, acutamente umano, vale a dire debole e doloroso, vale a dire nobile. Da qui quella sua straordinaria capacità di guardare, leggere e capire la realtà, capacità di leggere la realtà contadina meridionale, di comunicare con essa. Da questo suo amore poi, l’ironia e l’invettiva contro il disumano, contro i responsabili dei mali, e la risolutezza nel ristabilire il senso della verità e della giustizia.

Le parole sono pietre – mai titolo di libro fu più felicemente duro e capace di colpire – è il frutto di un viaggio in Sicilia in tre tempi: nel 1951, nel 1952 e nel 1955, anno, questo stesso, in cui fu pubblicato per la prima volta il libro. Viaggio e non soggiorno, com’era stato per la Lucania. E proprio perché frutto di viaggio, Le parole sono pietre, al contrario del Cristo si è fermato a Eboli, ha dentro come un ritmo urgente, una tensione e quasi una febbre dello sguardo e dell’intelligenza nel cogliere voracemente la realtà e subito restituirla nella sua purezza e nel suo significato più vero.

Ultimo, allora, di una lunghissima e illustrissima schiera di viaggiatori in Sicilia, viaggiatori che spesso, in questa terra antica e composita, enormemente stratificata, sono stati ingannati e fuorviati da superfici arditamente colorate o da monumentalità incombenti, fino a giungere qualche volta allo smarrimento (come successe a quel povero inglese di nome Newman, divenuto poi cardinale, che dalla Sicilia scappò confuso e febbricitante), ultimo, dicevo, Levi, non ha distrazioni e incertezze.

Il 1951 non era, tanto per non cambiare, un anno particolarmente felice per l’Italia e ancor più per il Meridione e la Sicilia. Era un anno uguale o esattamente speculare a quello di cinquant’anni prima, al 1900. All’inizio di questo secolo, in Sicilia, dopo le ferite aperte dalle repressioni statali ai moti dei contadini e degli operai delle miniere di zolfo, era cominciata, col governo Giolitti, una terribile crisi agraria seguita da una grave crisi economica che aveva obbligato le masse diseredate e angariate dai creditori a salire sui bastimenti e salpare per l’America. Fu, quello, il primo grande esodo, la prima grande emigrazione. Mezzo secolo dopo, uscita, la Sicilia contadina, stremata dal fascismo e dalla guerra, ma accesa nella speranza di poter finalmente intervenire nella storia, di poter cambiare, essa, il corso della storia, subisce ancora la repressione e il sangue, da parte dello Stato, da parte delle eterne, oscure e prepotenti forze che da sempre l’hanno tenuta in soggezione: gli agrari e la mafia. Questi, nel 1947, armano la mano di un bandito, Giuliano, e lo fanno sparare contro contadini inermi che a Portella della Ginestra festeggiano il 1o maggio. Le elezioni nazionali del 1948 poi – sulle quali influirono pesantemente gli Stati Uniti e la Chiesa, per scongiurare, dissero, «il pericolo comunista» – e il conseguente governo centrista di De Gasperi, avevano vanificato i risultati e le speranze delle prime elezioni regionali siciliane, dell’aprile del ’47, in cui le forze popolari avevano ottenuto una grande affermazione. E nel 1951, ancora sotto un nuovo governo De Gasperi, nonostante gli aiuti americani del piano Marshall e nonostante l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, il divario fra le due Italie, quella del Nord e quella del Sud, si allargò sempre più. Nei primi anni cinquanta comincia così il secondo grande esodo delle masse contadine meridionali verso l’Italia settentrionale, verso il centro Europa, verso l’America, di nuovo verso quella mitica America nella quale erano approdati altri emigranti cinquant’anni prima.

Tra questi emigrati in America dell’inizio del secolo, vi fu un calzolaio siciliano, con moglie e sei figli. Uno di questi figli, Vincent, Vincent Impellitteri, cresciuto negli Stati Uniti, un giorno diventa sindaco di New York. Nel 1951, a distanza di mezzo secolo, questo primo cittadino della «più grande città del mondo» ritorna, quasi come una divinità, per una breve visita, al suo paese natale: Isnello, un paesino desolato sopra le Madonie, 600 metri d’altitudine, 4000 abitanti.

Carlo Levi segue Impellitteri in questa giornata di commozione e di trionfo a Isnello, guarda tutto, ascolta, annota, e ci fa subito capire, con la sua lieve ironia, che dietro la bella favola, dietro la mitologia dell’uomo di umili origini che può diventare importante in una nazione, come quella americana, «dove c’è libertà e uguaglianza», una ben altra realtà si nasconde. Quella per esempio del feroce gioco politico in una città come New York, gioco per cui un «estraneo» come Impellitteri può diventare sindaco solo con l’appoggio dell’Italian American Labor Council, il potentissimo consiglio del lavoro del settore dell’abbigliamento che vanta legami con la mafia. Ci fa capire che, contro il successo «pulito» di un Impellitteri o contro il successo sporco di un gangster come Lucky Luciano, ci sono stati Sacco e Vanzetti, c’è una massa enorme di immigrati che lavora e sgobba e non si arricchisce, non ha successo, resta povera. Che non ci sono Eldoradi, non ci sono nazioni innocenti, non esistono l’azzardo e la fortuna. Esistono i diritti e la giustizia: quelli bisogna far rispettare, questa reclamare. Se non l’hanno capito i contadini di Isnello, frastornati dalla Pontiac, dai discorsi reboanti delle autorità e dall’invasione dei petulanti giornalisti americani, lo hanno capito gli zolfatari di Lercara Friddi.

È qui che a Levi si apre l’antico mondo siciliano delle zolfare. Di cui bisognerebbe conoscere la storia: dei carusi ceduti dalle famiglie ai picconieri che su questi lavoratori bambini hanno ogni potere (ma il potere sommo, e sui picconieri e sui carusi, è esercitato dal proprietario, dal gabellotto, dal sorvegliante); del lavoro disumano dentro quelle fosse dantesche, delle esplosioni frequenti e dei crolli che vi avvenivano e delle vittime che dentro rimanevano sepolte; e la storia, anche, delle ribellioni e degli scioperi degli zolfatari, come quelli del 1893, che Pirandello raccontò nel suo romanzo I vecchi e i giovani.

A Lercara, dunque, nonostante la chiusura politica che sull’Isola e la Penisola in quegli anni si andava effettuando, nonostante la crudeltà, l’arroganza e la mafiosa sicurezza del proprietario della miniera Ferrara, detto Nerone, gli zolfatari, col loro primo sciopero che dura ormai da un mese, hanno appena acquistato una nuova coscienza, sono appena entrati «nel mobile fiume della storia». La causa di questo miracolo era dovuta al sacrificio di un ragazzo di diciassette anni, Michele Felice, morto schiacciato da un masso dentro la miniera. «Alla busta-paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata»: «Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò». Con poche parole secche Levi ci racconta un fatto tragico ed enorme. Trovato ora, qui a Lercara Friddi, il filo, lo scopo del viaggio, e del libro – la nuova coscienza e l’ingresso nella storia del mondo contadino siciliano – Levi corre su una precisa direzione. Non potendo però fare a meno di indugiare su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, su quanto di violento investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di storico di mitico di poetico torna alla memoria. Ed è Palermo, la fastosa e miserabile Palermo, con i suoi palazzi nobiliari che imitano le regge dei Borboni tra i «cortili» di tracoma e di tisi, con le ville-alberghi in stile moresco-liberty di imprenditori come i Florio che s’alzavano sopra i tetti dei tuguri; la Palermo dalle strade brulicanti d’umanità come quelle di Nuova Delhi o del Cairo e dei sotterranei dei conventi affollati di morti imbalsamati, bloccati in gesti e ghigni come al passaggio di quello scheletro a cavallo e armato di falce che si vede nell’affresco chiamato Trionfo della morte del museo Abatellis. È la nera Catania di lava, l’azzurro-nera Aci Trezza di Verga, la Segesta d’oro o la bianca Erice di Venere; è Partinico con le buie case dei pazzi del quartiere Spine Sante, dove si muove Danilo Dolci, incomodo accusatore di mali e suscitatore di speranze; è Montelepre, con le sue aspre e orride montagne, teatro di imprese banditesche.

Ma vediamo, con Levi, Bronte e la ducea di Nelson.

Questo feudo, ottenuto dal cinico ammiraglio inglese per aver versato il sangue dei giacobini rivoluzionari napoletani (egli personalmente impiccò all’albero della sua nave l’ammiraglio Caracciolo), fu sempre difeso dai suoi discendenti con la repressione e il sangue. Come nel 1860, quando, per ordine di Bixio, vengono fucilati cinque rivoltosi, fra cui un povero, innocente pazzo. E questa resta una delle pagine più nere della cosiddetta epopea garibaldina. Ora, in questo 1955, dopo quasi un secolo da quell’impresa, i braccianti e i contadini che lavorano la terra della ducea sono ancora lì, nei tuguri, nei vicoli e nei cortili fetidi e malarici dagli ironici nomi di fiori, di muse e di poeti, che suonano come «ingiuria», insulto per loro. Sono lì, e i discendenti di Nelson, tramite il braccio forte e la furbizia dei loro amministratori e campieri, difendono ancora il feudo dalla legge di riforma agraria ingannando e derubando i contadini.

Ma la disperazione dei contadini di Bronte, come la disperazione di tutta quella Sicilia che ha sofferto per i morti e le ingiustizie, trova riscatto e senso nella forza, nella lucida consapevolezza, nella ferma determinazione di entrare nella storia, di restare nella storia, di una donna: Francesca Serio, la madre del sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia.

Anche qui, come a Lercara Friddi con la morte del ragazzo Michele Felice, «il senso antico della giustizia fu toccato» e Francesca Serio, ferita nelle viscere sue antiche di madre mediterranea, invece di ripiegarsi nella tragica disperazione che annienta, trasferisce la sua furia nella ragione: l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole – quelle parole che diventano pietre – in un processo verbale, il processo verbale in racconto, essenziale, definitivo; e il suo linguaggio, rivendicativo, accusatorio, giuridico, partitico, tecnico, diventa un linguaggio storico, un «linguaggio eroico».

A Sciara, Levi ha trovato, sul filo sottile che inseguiva della nuova coscienza contadina, il punto più vero e più alto della realtà siciliana di quegli anni. E più vero e più alto si fa allora il tono del libro: le pagine su Francesca Serio sono indimenticabili, sono pagine di commozione rattenuta dal pudore, pagine di parole scarne e risonanti, pagine di poesia.

Sono passati più di cinquant’anni dalla prima pubblicazione di questo libro. In questo mezzo secolo la realtà siciliana si è trasformata, e non nel senso indicato da Francesca Serio e nel senso sperato da Carlo Levi, in quello cioè del progredire della storia verso la giustizia e la serenità per tutti. I braccianti e i contadini di Bronte sono emigrati in Germania, la ducea di Nelson è stata venduta alla Regione siciliana per un buon numero di miliardi; le miniere di zolfo di Lercara Friddi e tutte le altre miniere siciliane sono state chiuse perché improduttive: restano lì, gialle sotto la luna, come cavi monumenti di antiche morti e antiche sofferenze.

Di Francesca Serio, vecchia di oltre settant’anni, si sono avute le ultime notizie molti anni fa dalle colonne di un quotidiano dell’Isola. Si ricordava, su quel giornale, che venti anni prima, al processo di Palermo contro i mafiosi assassini di Salvatore Carnevale, l’avvocato di parte civile era Sandro Pertini. E su quel giornale era fotografata lei, com’era allora, alta e sottile, nobile nei lineamenti del volto incorniciato dallo scialle nero, che si appoggiava al braccio di Pertini. Diceva, sul giornale, di colui che sarebbe diventato presidente della Repubblica: «È un uomo giusto, un uomo giusto». I giusti, la giustizia: erano ancora le sue uniche certezze.

VINCENZO CONSOLO

Gennaio 2010

[…]
– Da bambino mi mangiavo i ricci interi, con la scorza e le spine e il guscio, tanta era la fame: perché la nostra bocca è un mulino; e anche i fichi d’India mi mangiavo con la buccia e non mi facevano male, tanta era la fame; perché il nostro stomaco è un calderone e sotto la gola c’è una vampa che brucia ogni cosa, – mi diceva lo scoparo dell’Aspra aprendo per me dei ricci di mare che era stato a pescarmi sulle rocce di quella costa fra Bagheria e Capo Zafferano, sotto le rovine dell’antica città di Solunto, che è forse il luogo più bello dove un corpo umano possa stendersi al sole. Rocce scoscese terminano in mare con una specie di cornice o di piedistallo di pietra appena sopra il livello dell’onda, che, gonfiandosi dolce, la ricopre a tratti; e questa cornice piena di alghe e di conchiglie e di madrepore e di animali marini, dove si può passeggiare protetti alla vista dalle rocce strapiombanti e scavate sotto all’acqua in mille invisibili anfratti, è forata qua e là da larghe buche rotonde o in forma di cuore, come dei piccoli laghi o delle vasche naturali tappezzate di alghe tenere e piene di un’acqua appena mossa. Qui, in questi cuori marini, ci si può adagiare, mentre dai fori della roccia sale in spruzzi e in getti subitanei, con un gorgoglio sotterraneo, una doccia improvvisa, e, avvolti teneramente dal mare, rimanere a lungo senza pensieri, con null’altro davanti che un impenetrabile azzurro.

La capanna dello scoparo sta in alto sopra le rocce, ci si sdraia per asciugarsi, come su un morbido letto, su mucchi di giunchi, mentre egli li intreccia a triplici scope di palma che sembrano cimieri di Paladini o di guerrieri selvaggi, con tre criniere, e costano settanta lire. Questo luogo paradisiaco mi era stato indicato dalla duchessa di S., madre di una mia amica, che, avendo saputo del mio passaggio per Bagheria, mi aveva fatto pregare di salire nella sua villa perché voleva assolutamente conoscermi, e io, che avevo trovato chiusa la bottega dei carri dei fratelli Ducati (provvisoriamente chiusa perché il lavoro scarseggia anche per questi che sono i migliori pittori della costa, perché i carri calano di numero di mese in mese, sostituiti, a poco a poco, dai camion), ero salito alla villa, meravigliosa di architettura e di giardini alti sul paese davanti al mare, dove stava svolgendosi il banchetto di nozze di una delle cameriere, con volo di uccelli dalla torta nuziale, e ballo, e un pranzo fatto, secondo l’uso, di un solo piatto di pasta al forno con ragú di carne, seguito immediatamente dai confetti, dalle torte, dai croccantini, dai bigné, dai desserts colorati, dagli amaretti, dagli africanelli, dai pavesini, dagli svizzeri e da una sterminata quantità di spumoni, di cassate, di bombe Etiopia, di Moka, di nocciole Chantilly e di fragole imbottite. La duchessa troneggiava con bonaria autorità in mezzo alla festa; mi portò a visitare la villa piena di bizzarre statue dello Ximenes, ricordo di ottocentesche esposizioni internazionali, mi mostrò la sua stanza, dove vive lontana dal mondo, che, mi disse, ella odia. Una antica beltà per cui credo abbiano battuto molti cuori, e se ne vede ancora sul suo viso il chiaro ricordo; piena di energia vitale e di bizzarra violenza. Con questa energia e violenza mi assalí di domande. Da quanto tempo, mi disse, voleva sapere se io ero meglio o peggio dei miei libri; e io dovetti sottopormi, non so con quale risultato, al confronto e all’esame, che non lasciò da parte nessun punto e si volse alla letteratura, alla pittura, e perfino all’amore, e a Dio. Come resistere a quella scatenata forza della natura? Mi fece promettere che, in bene o in male, in tutti i modi, avrei scritto sinceramente qualche cosa di lei: e io, troppo brevemente, mantengo la promessa. Prima che mi congedassi ci raggiunse un giovane principe, suo amico o parente non so, che raccontò inaudite stravaganze e follie di spettacolosi membri della sua famiglia: personaggi morti da poco, con stature e barbe imponenti, pieni di disprezzo feudale, di manie smisurate, di proterva e folle vitalità. Avventure, scherzi, mistificazioni, travestimenti, pieni tutti di un grano di genio e di pazzia, e del senso della vita come di un teatro illimitato. Il discorso a un certo punto cadde su Sciara, dove egli aveva passato lunghi periodi della sua infanzia nel castello di una sua parente, la principessa Notarbartolo. Gli dissi della mia intenzione di andarci, e dell’uccisione del capolega. Non ne sapeva nulla di preciso, gli pareva vagamente di averne sentito parlare: doveva essere un violento, un esaltato… – Sciara, – mi disse, – è un paese ricco, c’è lavoro, bestiame, non ci sono poveri, ci si fanno delle cacce meravigliose, le campagne sono piene di quaglie. Da ragazzo stavo su al Castello, li conosco tutti quelli di Sciara, si saliva a caccia sul monte San Calogero, si prendevano le quaglie, una volta abbiamo ammazzato un’aquila reale.

Cosí oggi ero sulla strada per Sciara con Alfio e la sua Appia, e rifacevo ancora una volta, dopo quattro anni, la via della costa, nel grande sole di luglio. Passato Porticello e Casteldaccia, e Altavilla Milicia, bianca sulla collina, e San Nicolò, ci dovemmo fermare a lungo al passaggio a livello di Trabia, sempre chiuso per i lavori del doppio binario e per le manovre dei treni. Un bambino venne a offrirci un cestino di fragole freschissime. Si discusse sul prezzo, e Alfio, abituato a vedere quel ragazzo, in quel suo commercio che profittava della fermata obbligatoria al passaggio a livello, gli chiese, cosí a caso per farlo parlare, come era andata la lite coi suoi rivali. La lite immaginaria c’era stata davvero e il bambino l’aveva risolta a suo vantaggio applicando spontaneamente la regola della forza e del prestigio che regge tutto il paese. – Mi sono preso un socio, – disse. – Quell’altro, che voleva vendere le fragole qui dove spetta a me, era piú grande, ma adesso che siamo in due comandiamo noi e non ci viene piú.

Dopo Trabia e Termini Imerese, è la stessa strada di Isnello, fino a un bivio sulla destra. Qui si lascia la costa e si sale per una strada sbrecciata, polverosa e piena di buche, verso l’interno. Subito l’aspetto del paese cambia, si apre una grande valle di monti nudi, compare, lontana sul monte di faccia, Cerda, grigia nelle nude distese dei campi, con quel colore di terra e di stoppie, di silenzio e di antica malaria che accompagna come una nota continua e patetica la fatica contadina. A destra si leva altissimo il monte San Calogero, isolato e torreggiante, avvolto di nubi verso la cima. Dal suo interno scendono al mare le calde acque termali. Sotto la Sicilia, si racconta, sta sdraiato in eterno un Ciclope, là schiacciato sotto quel peso, per vendetta degli Dèi. La sua bocca è sotto l’Etna e lancia fiamme di lava, le sue spalle a Siracusa e allo Stretto, i suoi piedi sotto il monte di Erice, e, sotto il San Calogero, i suoi reni stillanti in eterno quelle acque benefiche.

Si sale a giravolte, tra i campi di stoppie del feudo. Passiamo in un uliveto di grandi alberi centenari, contorti, grigi e argentei sul giallo delle stoppie. È un uliveto della principessa, come tutte le terre circostanti. – Qui, – dice Alfio, – per queste olive, cominciò la prima azione di Salvatore Carnevale. Per queste olive e per questo grano. Quando lo hanno ammazzato, il grano era alto –. Ora, il grano era stato mietuto; qua e là, lontano, sulle distese del feudo, sorgevano i pagliai, come torri quadrate, e l’ombra grigia dei grandi olivi si stendeva sulla terra.

– Salvatore Carnevale io l’ho conosciuto, l’ho visto molte volte quando era vivo, qui a Sciara, e nelle riunioni contadine. Aveva trentadue anni, alto, bruno, scuro di pelle, nero di occhi e di capelli, pieno di fuoco e di energia, anche buon oratore era, deciso, violento, estremo, ma insieme molto equilibrato e con una visione precisa e semplice delle cose. Era uno dei migliori, un vero capo contadino. Era il solo di quella qualità qui a Sciara, e gli altri lo hanno capito benissimo. Fu lui a fondare la sezione socialista di Sciara, nel ’51, e a mettere in piedi la Camera del lavoro. A Sciara non c’era mai stato nulla, nessun partito, nessuna organizzazione per i contadini, niente mai. Era un paese feudale, lo vedrai. Fermo nelle stesse condizioni da chissà quanti secoli, terra di feudo, con la principessa, i soprastanti, i campieri; e i braccianti che non sapevano neanche di esistere, immobili da secoli. È un paese poverissimo, naturalmente (ti diranno che non è vero) in mano alla mafia. Non è un grosso centro di mafia come Caccamo, Termini, o Trabia o Cerda che le stanno tutto attorno, perché è poco piú di un villaggio. Ma quei pochi mafiosi sono i padroni e fanno la legge. È la condizione elementare dei paesi del feudo. Carnevale fu il primo, e mosse ogni cosa con l’esempio e il coraggio. Perché aveva una mente chiara, e capí che non si può venire a patti, che i contadini dovevano muoversi con le loro forze, che il contadino per vivere deve rompere con la vecchia struttura feudale, non può fare le cose a mezzo, non può accettare neppure il minimo compromesso. Capí che l’intransigenza è, prima che un dovere morale, una necessità di vita, e che il primo passo è l’organizzazione, e che ci si può fondare e appoggiare soltanto sulle organizzazioni che non hanno nulla a che fare con il potere. Per questo poteva apparire talvolta eccessivo, estremista. Aveva capito che in queste condizioni primitive e tese, di fronte a un potere organizzato e ramificato che arriva dappertutto, che controlla tutto con la sua legge, l’essenziale è non lasciarsi sedurre, né corrompere; né accettare mai, come cosa reale, la paura, l’omertà, la legge del terrore. L’ha pagato con la vita. Ma il paese è cambiato, lo vedrai.

– Proprio qui, queste olive della principessa, sono state la sua prima vittoria, e forse lo hanno condannato a morte. Era usanza antica che i contadini di Sciara che seminavano il grano sotto l’oliveto non avessero parte nel raccolto delle olive. Il grano era diviso secondo le vecchie proporzioni. Le olive erano tutte della proprietaria che ne affidava il raccolto a gente forestiera, a coltivatori e raccoglitori di Caccamo e ai loro soprastanti. Carnevale si fece forte della legge, e chiese che il raccolto delle olive fosse affidato agli stessi contadini che coltivavano il grano, e che la divisione fosse fatta come vuole la legge, in modo che la parte dei contadini fosse il sessanta per cento e quella della principessa il quaranta. Era il primo movimento contadino organizzato. E a Carnevale fu subito offerto da un amministratore del feudo, se avesse abbandonato la lotta, tutte le olive che egli avesse voluto. I contadini vinsero, ottennero quasi tutto quello che chiedevano; la mafia fu offesa e ferita nel suo fondamento, il prestigio, non tanto per la questione sindacale in sé, quanto per il modo intransigente e fiero con cui era stata condotta. Poco dopo cominciarono le occupazioni delle terre. Mi pare fosse l’ottobre del ’51. Tu sai come avvenivano queste cerimonie familiari e solenni, con le donne, i bambini, le bandiere, che andavano come a una festa a prendere il possesso simbolico della terra e poi tornavano alle loro case. Carnevale li guidava. Erano andati qui, sopra questi campi che si chiamano contrada Giardinaccio (è lí che poi è stato ammazzato). Al ritorno al paese il corteo fu fermato dal brigadiere, e Carnevale con tre altri contadini fu chiamato in Municipio per discutere, arrestato e mandato per otto giorni alle carceri di Termini Imerese; e di nuovo, anche questa volta, comparvero le minacce e le seduzioni della mafia. Un soprastante si rivolse alla madre offrendole la migliore tenuta di olive se il figlio avesse lasciato stare il partito, e oscure e chiarissime minacce se non fosse sottostato alle offerte. Ma queste cose te le racconterà assai meglio sua madre.

L’oliveto era finito, il terreno era aperto, il grano mietuto fino a perdita d’occhio, fino a un lontano dosso dietro a cui d’un tratto apparve il paese. Veramente il paese non si vedeva, ma erano sorti, come spuntati dalla terra, il castello, alto sopra una roccia, e, sotto di lui, piú in basso, la chiesa. Fra il castello e la chiesa stava, invisibile, il paese. Pareva un’immagine araldica della Sicilia feudale, troppo semplicistica, troppo simbolica per essere vera, con quei due soli neri profili verticali, stagliati sul cielo, come i segni del potere, piú protervo e alto il primo, sottomesso e aguzzo il secondo, e, in mezzo, quasi inesistenti, nelle casupole confuse con la terra, i contadini.

Un valloncello senz’acqua si apriva come una fessura nella polvere bruciata dei campi, verso il monte, dove Carnevale era stato ucciso. Lasciammo la macchina e cominciammo a inerpicarci sul pendio. Incontrammo un orto e una casupola: quattro piccoli cani bastardi ci vennero incontro abbaiando furiosamente e il contadino si fece sull’uscio, guardandoci diffidente. Ma quando capí dai nostri passi dove eravamo diretti, ci salutò, e, indicandoci col gesto di un principe i quattro alberelli di frutta del suo podere, ci disse di raccogliere tutto quello che avessimo voluto, che era nostro. Salimmo tra i cardi e le erbe spinose, tornammo tra il grano, piú in alto, fino a un sentiero orizzontale, visibile di lontano, nell’uniforme terreno, per un cippo di pietra. Qui Carnevale morí. Il cippo lo ricorda, con una semplice scritta, dove però due parole, le piú modeste e innocenti, dove si parla del pianto di tutto il popolo, sono leggibili solo sotto la calce che le ricopre, cancellate per ordine del prefetto.

Ora il grano è tagliato e l’occhio vede lontano lungo il sentiero che da Sciara, a mezz’ora di strada di qui, porta alla cava di pietra dove lavorava Carnevale. Ma quando, all’alba del sedici maggio, gli assassini lo attendevano, il grano era alto, e li copriva. Devono essersi fermati qui ad aspettarlo per lungo tempo, si vede ancora il terreno pesticciato sopra il sentiero. E avevano fatto passare quell’ora di attesa, prima di sparare, mangiando delle fave, ci sono ancora per terra le bucce rinsecchite. Mi pare che parlino maligne come antichi ruderi di un incendio, o vecchi documenti ingialliti. Le cose cosí cambiano natura, diventano prove, piene di senso, della realtà, buone o cattive, non piú oggetti, ma testimoni e partecipi. Mi chino a raccogliere una di quelle bucce. Scendono dai campi, come uccelli che scorgono di lontano e si buttano improvvisi, o mobili abitanti del deserto, dei contadini che ci hanno veduto vicino al cippo. Si fermano rispettosi a qualche passo di distanza, ci salutano, senza chiederci chi siamo: – Buon giorno, compagni.

– Carnevale è stato l’ultimo, finora, – disse Alfio, – dei contadini ammazzati sul feudo dalla mafia. La lista è lunga in questi anni, tu lo sai. Era stato due anni lontano di qui, a Montevarchi, a lavorare. Quando tornò era cominciata la Riforma. Settecento ettari erano stati scorporati, ma solo duecento distribuiti, e gli assegnatari avevano avuto una serie di «avvertimenti» dalla mafia perché non credessero di godersi impunemente le terre ricevute. A chi bruciarono il pagliaio, a chi sfondarono la porta, o rubarono le pecore o le capre, o l’aratro. La mafia e il feudo si difendono, tanto piú violenti se è una battaglia perduta. Appena tornato, Carnevale ricominciò con l’occupazione delle terre, per far applicare la legge: e per questo ha avuto un processo e una condanna. Poi lavorò alla costruzione della strada tra Sciara e Caccamo, e poi alla cava della pietra per la costruzione del doppio binario tra Termini e Trabia, quello che ci ha fermato al passaggio a livello. Anche la cava che è quassú, nel Giardinaccio, appartiene alla principessa, e i lavori sono di una ditta di Bologna; ma chi fa tutto sono gli appaltatori locali legati alla mafia. Carnevale era segretario degli edili e chiese le otto ore dovute per contratto mentre se ne lavoravano undici, e il pagamento dei salari arretrati. Scrisse a Palermo, fece comizi attaccando la mafia, venne di nuovo minacciato e infine ucciso mentre andava al lavoro. L’assassinio era, per cosí dire, firmato, con la simbologia delle uccisioni di mafia: i colpi al viso, per sfigurare il cadavere, in segno di spregio; e il giorno seguente il furto di quaranta galline, per il banchetto tradizionale. Ma tutto sarebbe finito nel silenzio, come tutte le altre volte. L’autorità avrebbe fatto le viste di indagare, nessuno avrebbe parlato. Si sarebbe, come tutte le altre volte, parlato di un delitto privato, per ragioni personali, o di onore, o di interesse, o di vendetta. Ma questa volta, per la prima volta nella storia della Sicilia, non è stato cosí. La madre di Salvatore ha parlato, ha denunciato esplicitamente la mafia al tribunale di Palermo. È un grande fatto, perché rompe il peso di una legge, di un costume il cui potere era sacro. Qualche cosa è davvero cambiato. Il giorno della morte di Carnevale il paese era terrorizzato, nessuno osava andare a vedere il morto, abbandonato all’obitorio. La denuncia ha scacciato il terrore, al funerale c’erano tutti, si sentivano solidali e sulla strada giusta, come al centro del mondo.

Eravamo discesi sui nostri passi: tornati sulla strada, in pochi minuti giungemmo a Sciara. Una strada la traversa salendo e scendendo da un capo all’altro, interrotta nel mezzo da una piazza con l’aquila del monumento ai caduti, e una assurda chiesa di stile olandese goticizzante al posto della chiesa antica. Da questa strada salgono verso il castello e scendono verso la valle le vie trasversali, larghe, ripide, sassose, come dei letti di torrente. Sono delle sciare, delle strisce, sono dei fiumi di pietra che rovinano a valle. Risalendole, tra le capre e gli asini e le vacche, e le basse casipole di pietra, si vede il castello dove tutte convergono. È, visto da vicino, un modesto castelluccio, quasi una villa signorile abbandonata e cadente; ma l’alta roccia a picco su cui è costruito e le siepi spinose di fichi d’India che lo circondano gli dànno un’aria militare e grifagna, come una rocca segregata e imprendibile, un luogo di separazione sanguinosa, e di disprezzo.

A salirci, che pace! La campagna digrada fino al monte San Calogero ammantato di nebbie, un silenzio solenne si stende sui campi, un intatto incanto pastorale lega gli alberi, le piante, le rocce, l’oro delle paglie, le azzurre lontananze, fino al cielo vuoto. Affacciandosi di lassú, tutto il paese circostante è come un libro aperto, e nulla è celato allo sguardo. Nell’immobilità della campagna il minimo moto di un uccello, di un animale, di un cristiano appare nitidissimo. Tutte le strade di Sciara, tutte le case, tutte le porte di tutte le case, tutti gli scalini davanti alle porte, tutte le persone sedute sugli scalini, si vedono ad una ad una, come in un grande quadro senza ombre. Chi sta qui non ha bisogno di interpreti o di spie, ma ha, col solo sguardo, il dominio. Sa chi esce e chi entra, chi è andato al lavoro e chi ne è tornato, chi ha acceso il lume e chi ha mangiato, chi ha munto la vacca, chi ha chiuso la porta. E chi sta sotto, su quelle soglie, in quelle case, sente sopra di sé gli occhi di questo uccello da preda appollaiato.

In una di quelle strade in discesa, di quelle specie di scoscendimenti sassosi che dirupano a valle, è la casa di Salvatore Carnevale e di sua madre, Francesca Serio, nella parte bassa del paese; vi si giunge dalla via principale scendendo degli alti e stretti scalini di pietra. Un vecchio stava sulla soglia, col viso rugoso bruciato dal sole, con un cappello stinto in testa: abituato alle visite, ci fece cenno di entrare. È una sola stanza stretta e lunga che prende luce dalla porta, con un soppalco nella parte di fondo, un forno di mattoni per il pane, vicino all’ingresso, qualche attrezzo appoggiato al muro nudo e bianco di calce, e un letto accostato alla parete, sotto il soppalco. Vicino al letto, seduta su una sedia, coperto il capo di uno scialle nero, sta, sola, Francesca, la madre. È una donna di cinquant’anni, ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti: di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana. Chiede a Alfio se io sono un compagno o un amico, ci fa sedere vicino a lei, presso quel letto bianco che era quello di Salvatore, e parla. Parla della morte e della vita del figlio come se riprendesse un discorso appena interrotto per il nostro ingresso. Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l’italiano, la narrazione distesa e la logica dell’interpretazione, ed è tutta e soltanto in quel continuo discorso senza fine, tutta intera: la sua vita di contadina, il suo passato di donna abbandonata e poi vedova, il suo lavoro di anni, e la morte del figlio, e la solitudine, e la casa, e Sciara, e la Sicilia, e la vita tutta, chiusa in quel corso violento e ordinato di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta sulla sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Cosí questa donna si è fatta, in un giorno: le lacrime non sono piú lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come di chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e da cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa, Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose.

Francesca racconta: – Su mio figlio morto venne il pretore a fare la perizia, sembrava urtato. Non bada che c’erano operai assai che ti guardano. Fai almeno come solito di legge, non diciamo come affetto perché era carne umana e perché era come te. Ma tu ti senti persona elevata, e quella a te ti sembrava niente. Allora fece con la testa un segno di disprezzo, e disse: «Ah, non era il momento di fare questo!» Come lo sento parlare cosí, mi volto e gli dico: «O vigliacco, hai ragione di dirlo che non era il momento, perché pensi alle elezioni e tu perdi terreno. Allora quando sei al potere vieni fin dentro e mi uccidi? È questa la disciplina che porti? Perché fai questa perizia per ingannarci? Perché non te ne vai a casa? Certo, non era il momento».

Di fronte all’ingiustizia che è nelle cose sta dunque la giustizia, che è una certezza. Ma la risposta di Francesca non è quella anarchica e individuale che arma la mano del brigante e lo spinge al bando, al rifiuto, al bosco: è una risposta politica, legata all’idea di una legge comune che è un potere a cui ci si può appoggiare, un potere nemico del potere: il Partito. La legge che dà certezza a Francesca non è l’autorità né i suoi strumenti: questi appartengono per natura al mondo nemico.

Racconta della prima pacifica occupazione delle terre nel ’51, quando suo figlio la prima volta guidò i contadini e venne poi arrestato:

– Eravamo andati alla montagna, eravamo piú di trecento persone; mentre eravamo là che stavamo mangiando un poco, chi era seduto, chi passeggiava, e non c’era nessuno che danneggiasse, venne un brigadiere di Sciara con un carabiniere, dice: «Per favore, per favore, per favore togliere la bandiera». Perché c’erano le bandiere che tenevamo sventolate. I contadini dicono: «No, perché dobbiamo togliere le bandiere, per quale motivo? Non è che le bandiere fanno male. Qui non è che stiamo facendo guasti». Ma il brigadiere dice: «Allora andiamo al paese, andiamo al paese». Ce ne andammo al paese. Quando arrivammo un po’ di via lontano, vedemmo di sotto la polizia col commissario e ci fermarono: «In alto le mani». Noi non avevamo né fucili né scoppette, niente. Ci fermarono e presero tutti i nomi e cognomi, a mio figlio, a Polizzi, a Tirruso, a Ceruti, a Lentini che chiamiamo il sindaco di Favara. A me mi chiesero il nome. Dice:

– «Lei come si chiama?»

– «Scritta sono io».

– «Passassi», dice. Alcuni prendemmo da una via, altri da un’altra, c’erano cinque o sei carabinieri. Disse uno di loro:

– «Ci avete pensato proprio a questa giornata. Ci siamo fatti le scarpe molli e i pantaloni tutti pieni di terra».

– «Ma per noi, – risposi, – per noi questa giornata è la piú bella giornata del mondo: bella, tranquilla, col sole. Questo è un divertimento che noi non abbiamo preso mai. Se non ci date le terre incolte, secondo la legge (perché si devono perdere?) ne avrete da fare di queste giornate. Questa è la prima che state facendo». E cosí ce ne andammo al paese. Arrivati al paese, invitarono mio figlio e altri quattro ad andare al Municipio in commissione per discutere e chiarire i fatti. E mio figlio venne a casa, si cambiò per andare al Municipio, credendo che doveva fare questo, perché noi non è che eravamo imparati di fare queste dimostrazioni. Mentre erano al Municipio a discutere, venne la polizia con la camionetta, li misero sulla camionetta e se li portarono a Termini, alla prigione.

La legge è una cosa, l’autorità è un’altra. Suo figlio, dice, voleva far rispettare la legge, il sessanta e quaranta, le otto ore, ma le autorità stanno dalla parte di quelli che violano le leggi. Quando, pochi giorni prima della morte, Salvatore aveva iniziato l’azione per le otto ore nella cava e venne provocato dai soprastanti, andò a raccontare il fatto al brigadiere di Sciara, e il brigadiere rispose: – Non è competenza mia, – e rifiutò di intervenire. Il giorno seguente ci fu lo sciopero, la ditta promise di rispettare le otto ore, e di pagare i salari arretrati. Francesca racconta che mentre lavoravano venne il maresciallo di Termini accompagnato da Mangiafridda Antonino, che faceva per la principessa il controllore dei camion.

– Il maresciallo fa chiamare fra tutti Carnevale, mio figlio. «Carnevale, venisse qui. Bada bene che tu sei il veleno dei lavoratori». Mentre mio figlio gli rispondeva che lui non era il veleno dei lavoratori, ma soltanto difendeva la legge, Mangiafridda si voltò e gli disse:

– «Picca n’ai di sta malandrineria!» (Durerai poco a fare lo spavaldo).

– Il maresciallo non fa il testimone contro Mangiafridda. Se le parole le diceva mio figlio, allora il maresciallo lo arrestava e se lo portava, ma siccome le ha dette Mangiafridda, che è il delinquente, il malfattore di Sciara, che era il magazziniere della principessa, non lo arrestò e se ne andarono. Questo fu il giorno tredici, venerdí.

Di questi episodi e di questi sprezzanti giudizi sulle autorità, lo sterminato discorso di Francesca è fitto, a ogni momento. Essa è tutta piena di ostilità e di violenza, la sua rottura è totale e senza mezzi termini, fondata sull’incrollabile certezza. È la rottura di una situazione secolare, del riconoscimento passivo che contro quella realtà non c’è nulla da fare. Senza quella certezza sarebbe possibile soltanto la disperazione, la rottura non sarebbe pensabile altro che nella forma poetica di un lamento funebre, o nel rifugio mitologico, nella fede nell’altro mondo, nella identificazione del morto con Cristo. Anche per lei il figlio è Cristo, ma in un modo tutto realistico (col brigadiere che come Pilato dice: – Non è competenza mia –), legato alla terra, e che non chiede amore, ma giustizia. Di qui questa passione fredda, questo impulso d’azione, questo slancio, che ha un poco la stessa natura della spinta che ha mosso a emigrare, per altre vie e con altri destini, i contadini ebrei di San Meandro Garganico in cerca di giustizia su questa terra. Ma per Francesca la terra non è altrove, è qui, a Sciara, in Sicilia, e la guerra si conduce con la parola, nel tribunale di questa stanza.

– Chi uccide me uccide Gesú Cristo, – aveva detto Salvatore al mafioso che era stato mandato a minacciarlo cinque o sei giorni prima della sua morte. – Era notte, mio figlio tornava dal lavoro, quando in un angolo buio sentí chiamare con un sussurro: «Ps, ps». Non si voltò e non rispose. Quello allora, spuntato dall’ombra, gli si avvicinò. Gli batte una mano sulla spalla. «Oh, – dice, – Totò, ti sei fatto superbo». «Ho un nome che mi ha dato Dio».

– «Bene, – dice quello, – ti voglio bene, se non ti volessi bene non mi metterei in questi inciampi. Hai da levarti dal partito e stracciare tutte le carte e non pensarci piú. Avrai una buona somma, che mentre campi non avrai piú da lavorare».

– Disse mio figlio: «Io non sono carne venduta, e non sono un opportunista».

– «Pensaci, che altrimenti farai una mala morte».

– E allora Salvatore rispose: «Vieni tu ad ammazzarmi, ma di’ a questi che ti ci mandano che quando hanno ammazzato a me hanno ammazzato a Gesú Cristo».

– Quando mio figlio arrivò a casa era agitato, e mentre mangiava, qui su questa tavola, si dava dei colpi in testa, cosí, con le mani, ma non parlava, diceva solo: «A me non mi convincono». Ma era pallido come un morto. Dette solo due cucchiaiate giuste giuste di pasta e smise di mangiare. «A tua madre non vuoi dire che cosa è successo?» Non voleva. Ma poi me lo raccontò. Ma non mi disse il nome di quello. Mi disse che lo avrebbe detto in pubblico, al comizio, la domenica. Ma la domenica il comizio non si poté tenere perché era proibito, per la festa del Santo Patrono, e il lunedí mattina, all’alba, lo ammazzarono.

– Chi uccide me uccide Gesú Cristo, – ripete Francesca. Ma sa che la sua Chiesa è in piedi tuttavia («se muore un monaco non si chiude il convento»). E questo potere, questa chiesa terrestre che la fa viva, che le ha asciugato il pianto, che le ha sciolto la lingua, le ha dato un linguaggio. Non è il linguaggio poetico della madre lucana che racconta la vita del figlio morto: è un linguaggio di rivendicazione, di oratoria, di discussione, un atto di accusa, è un linguaggio di partito. Anche i suoi termini suonano nuovi e strani nel dialetto: termini giuridici e politici, la legge, la riforma, il sessanta e quaranta, la lotta, l’organizzazione, gli opportunisti, e cosí via. Ma nella sua bocca, davanti alla morte, questo linguaggio, questo convenzionale e monotono linguaggio di partito, diventa un linguaggio eroico, come il primo modo di affermare la propria esistenza, l’arido canto di una furia che esiste per il primo giorno in un mondo nuovo. La nuova esistenza nasce con la forma della tragedia, è oscura, minuziosa, opaca e feroce. È una rivelazione, nel teatro del tribunale della coscienza, e del tribunale vero, quello di Palermo; un punto di verità raggiunto che dà vita e moto a tutte le cose e va ripetuto senza stancarsi, in un racconto ormai fissato, che non si perde piú, come non si perde quella raggiunta certezza. La morte del figlio le ha aperto gli occhi, ha fatto di lei una persona nuova e diversa, fortissima, indifferente agli altri, superiore a tutte le cose perché sicura di questa sua nuova esistenza. Prima, era una donna qualunque, una povera donna contadina, una forestiera qui a Sciara, che veniva da un paese della provincia di Messina, abbandonata dal marito, che scomparve e poi morí. Era venuta con questo figlio di cinque mesi, forse malvista in principio perché forestiera e sola.

– Andavo a lavorare per campare questo figlio piccolo, poi crebbe, andò a scuola ma era ancora piccolino, cosí tutti i mestieri facevo per mantenerlo. Andavo a raccogliere le olive, finite le olive cominciavano i piselli, finiti i piselli cominciavano le mandorle, finite le mandorle ricominciavano le olive, e mietere, mietere l’erba perché si fa foraggio per gli animali e si usa il grano per noi, e mi toccava di zappare perché c’era il bambino e non volevo farlo patire, e non volevo che nessuno lo disprezzasse, neanche nella mia stessa famiglia. Io dovevo lavorare tutto il giorno e lasciavo il bambino a mia sorella. Padre non ne aveva, se lo prese mio cognato qualche anno a impratichirsi dei lavori di campagna. Lo mandai alla scuola fino alla quinta, aveva il diploma e andava a giornata, e ci industriavamo la vita per campare fino a quando andò soldato.

Cosí Salvatore era venuto su senza il padre, e aveva dovuto superare già da bambino una condizione particolare anche piú difficile di quella degli altri bambini contadini, ed era cresciuto pieno di orgoglio. Aveva fatto due tentativi di uscire da quel mondo ristretto: un concorso per entrare nella polizia, dove non fu ammesso per la fedina penale di uno zio, un altro per diventare autista militare, che non riuscí perché, per il ritardo a preparare i documenti, passò il limite di età stabilito. Non era uno da accettare la condizione servile, il movimento contadino gli evitò la protesta individuale, la rivolta del bandito; e si fece organizzatore sindacale. La madre non lo seguiva, legata ancora al vecchio costume.

– Quando ci furono le prime elezioni, – racconta Francesca, – allora non c’era ancora il partito qui a Sciara, e Salvatore mi disse: «Madre, vorrei metteste il voto per Garibaldi, non si può sbagliare, è quello con la berretta, si riconosce, non ve lo scordate».

– «No, non me lo scorderò». Se lo fece promettere. Ma io quando andai a votare e vidi quel Dio benedetto di Croce, pensai: «Questo Dio lo conosco. Come posso tradirlo per uno che non conosco?» E misi il segno sulla Croce. A lui non dissi nulla: ma i voti per Garibaldi, in tutto il paese, furono appena sette, e il conto non tornava. Salvatore si arrabbiò. Era un poco nervoso: diventò un Lucifero. Ma io non gli dissi mai nulla di come avevo votato. Poi, quando si formò il partito qui a Sciara, la sera che firmò e si mise a capo come segretario, io feci una seratina di pianto. «Figlio, mi stai dando l’ultimo colpo di coltello, non ti ci mettere alla testa. Il voto daglielo, ma non ti ci mettere alla testa, lo vedi che Sciara è disgraziata, è un pugno di delinquenti, vedi che sei ridotto senza padre e dobbiamo lavorare». Ma lui rispose che erano tanti compagni e che non avessi paura. Io non volevo; ma ormai, madre di socialista ero, che dovevo fare?

Cosí cominciò il lavoro politico del giovane contadino, fondato sul senso di una nuova legge e del suo libero esame; e cominciò nello stesso tempo la lotta contro la mafia, le sue lusinghe, le sue minacce tante volte ripetute. Ma la madre allora non era ancora quella di oggi, non era staccata dall’antico costume e dalle antiche paure. La zia, che ora è entrata nella casa, è rimasta ancora oggi in parte quella di prima. Si siede vicino a noi e non parla, ma capisco che non può evitare il vecchio pensiero che la colpa della morte del nipote era nella sua attività politica. È piú giovane della sorella, ha un viso piú umano, gli occhi piú umidi di sentimento. Era anche lei madre a quel bambino che aveva allevato mentre la sorella lavorava nei campi; e sembra, a vederla, nel suo accorato silenzio, piú visceralmente legata a quel morto, piú indifesa, come un animale ferito. Ma Francesca non si arresta di parlare, racconta dell’infanzia del figlio, delle prime lotte, dei due anni passati da lui a Montevarchi (– Maledetto il giorno che lo mandai a chiamare –), dei suoi gesti, delle sue risposte ai funzionari, del suo lavoro tra i compagni contadini. Quando racconta dei detti del figlio, delle sue grandi e nobili frasi (come quando, a un tenente dei carabinieri che gli puntava contro la pistola, al ritorno da una occupazione di terre, a cavallo con la bandiera, disse: – Spara. Io sono qui soltanto per l’onore del popolo, – e mille altre), non altera la verità, per gusto teatrale, ma se ne accorge per la prima volta, e questo basta a dare alle frasi nobiltà e grandezza. Il suo discorso è un Vangelo, un povero, poliziesco vangelo di verità, una testimonianza di verità. Questo solo conta per lei; mentre parla giungono dalla chiesa vicina i rintocchi della campana. Non arresta il suo dire, ma vedo che fa rapidamente il suo segno di croce e mormora: – Santa campana, testimone di verità.

Avvisi di morte, offerte e minacce, Salvatore ne aveva avute molte, e di ciascuna il racconto è lungo, circostanziato, preciso, documentato, fin da quelle degli inizi o da quando era in prigione a Termini, e venne Tardibuono dalla madre e le disse: – Che ci guadagna con questo partito? si mette le grate davanti, e gli altri si raccolgono le olive. È un partito di «scanazzati». Se si leva, noi gli daremo la meglio terra, le olive –. Le ultime furono quelle dell’uomo che gli parlò all’oscuro, il dieci o undici di maggio, e quelle di Mangiafridda, il tredici. La domenica non poté tenere il comizio dove voleva fare i nomi di quelli che dovevano ucciderlo. La sera c’era festa nel «baglio» della principessa; là lo aspettavano: quasi per un presentimento, non volle salire: andò invece al cinematografo con la madre e la zia.

– Era un po’ disturbato, perché il comizio non lo aveva fatto, poi vanno a fare una pellicola cosí disgraziata, c’era un marito, una moglie, un altro con una accetta e gli hanno calato l’accetta in testa e gli hanno stroncato la testa. Mio figlio disse: «Guardate come li ammazzano gli avversari», si alzò con la faccia come la morte, mi disse: «Vado a dormire, restate qua». Quando finí il cinema, verso l’una, me ne venni a casa con la sedia e trovai mio figlio sul letto, che leggeva. Lui dormiva qui, io sopra nel soppalco. Sempre studiava la notte nel letto, tutte le sere per due, tre ore, fino a tardi. Quella notte io feci un sogno, sognavo di cantare, che voce bella che avevo, che applausi. Il canto della notte sarà il pianto del giorno. La mattina dovevo andare a lavorare. Alle cinque e mezza l’ho lasciato che si faceva i capelli e sono andata al pagliaio. Quando sono tornata, mio figlio stava nello stradale e se ne andava. Io dovevo andare in campagna, ma era mattina presto e mi misi a fare il pane. Facevo il pane quando mio figlio moriva.

– Mentre facevo il pane è arrivato mio cognato: correva già in paese la voce che c’era stato un morto, ma io non ne sapevo niente. Mi chiese se Totò era andato alla cava, a che ora era partito, se era solo. Aveva la faccia pallida e mi insospettii. Pensai a qualche disgrazia, e mi misi a piangere. Mi disse che c’era stato un morto, ma che era un vecchio, e che si andava a informare. Io corsi per il paese a chiedere notizie, vidi gente che piangeva, ma nessuno voleva dirmi nulla. E allora presi la via che aveva fatto mio figlio, con una donna che aveva alla cava il marito. Camminavo in fretta, guardando se vedevo tornare mio cognato, mio fratello; se tornavano, non era mio figlio, ma se non tornavano, era lui. Quando fui nella strada, intesi il rumore di una macchina. Girò la curva, vidi che era Mangiafridda. Lo fermai e gli dissi: «Dimmi la verità, chi è questo morto?»

– «Da come è messo non si può conoscere, – disse Mangiafridda, – c’è il brigadiere e i carabinieri che non fanno avvicinare nessuno. Davvero, sull’onore di mia madre, non me lo fecero vedere».

– Quando mi disse: «C’è il brigadiere e i carabinieri» che erano meglio che fratelli, erano sempre insieme, mangiavano insieme quando andavano in campagna, quando trebbiavano insieme a tutta la partita della principessa: «A te non ti disse il brigadiere questo morto chi era? Tu?»

– Mi si mossero tanto i nervi che a me sembrava di essere in un apparecchio che camminavo, e non piú a piedi, e camminavo; quella donna che era con me ogni tanto correva e mi prendeva per il braccio: «E lévati, e fammi camminare, fammi questo favore». Finí che arrivai dove era quel morto. Ma chi fui? Un fulmine, camminai come una disperata, nemmeno i piedi li posavo piú in terra. Quando sono arrivata, prima è venuto mio cognato: «Non correre che non è tuo figlio». Ma aveva la faccia come i morti. Mentre davo un altro passo, si avvicina il brigadiere di Sciara: «Signora, non è suo figlio». Mentre mi dicevano che non era mio figlio, ho fatto un altro passo e ho visto i piedi del morto, che era messo a testa sotto e coperto, e spuntavano solo i piedi, ma io ho visto le calzette bianche, erano le calzette che ho lavato ieri a mio figlio, che mio figlio ha messo nei piedi, e i piedi erano messi come metteva i piedi mio figlio, cosí. Non mi lasciavano avvicinare. Viene il maresciallo di Termini: «Se lei ha figli ed è cristiano, – (il maresciallo si mise a piangere), – mi deve portare da mio figlio, che questi vigliacchi dicono che non è mio figlio, ma è mio figlio». «Lei sa che non si può toccare», mi disse. «Non lo toccherò, lo voglio solo vedere: è mio figlio, nelle gambe è mio figlio, nei piedi è mio figlio, nello stare è mio figlio, voglio vedere la sua faccia». Tre volte mi infilai per potergli vedere la faccia: era nascosta. A lato mi si erano messi quei carabinieri e mi tenevano e mi guardavano.

– «Quando vennero ad ammazzare mio figlio non ci vennero a guardare, e ora guardano me. Io non è che ho ammazzato nessuno, che lo ho allevato per trentadue anni, e ora per andarlo a vedere mi guardate, a me mi guardate, e a quelli li lasciate liberi». Intanto, girando di spalle, dissi: «Figlio, e come ti ammazzarono, e cosí ti misero bello sistemato?» Nella terra non c’era nessun segno, niente, uno che è sparato, che è stato ammazzato, certo un movimento lo deve fare, o resta con il collo torto, o con le braccia aperte, o con una gamba allargata… certo non è che come spira resta. Finché era freddo il sangue qualche movimento lo deve fare. Uno spasimo, una convulsione in terra la deve fare; là, niente, pare che di sera si coricò lui, era messo bello aggiustato, la faccia bocconi che non si guardava in faccia, bello, diritto come una candela. Io tre volte mi infilai per potergli cercare la faccia.

– Mi hanno levata da vicino a mio figlio e mi hanno mandata a casa. Ero seduta sopra una pietra, prima mi sono seduta su una pietra nella parte di sopra e poi, visto che non lo potevo vedere, mi sono seduta di lato, e piangevo. Poi vennero i carabinieri, volevano farmi dire se aveva dei nemici per donne o per interessi, ma loro erano consapevoli di chi lo aveva morto, e poi la sera lo presero dal cimitero e me lo portarono in casa, passò dalla chiesa, gli abbiamo dato l’acqua benedetta, gli hanno fatto tutte le esequie che hanno potuto, lo hanno portato in paese e poi al Municipio. Quattro hanno arrestato, ma dovranno prendere anche quelli che li hanno mandati. L’ho sempre davanti agli occhi; non mi ricordo piú come entrava, come camminava, solo lo ricordo bocconi, per terra, sul sentiero.

Nella stanza sono entrati, a uno a uno, dei contadini, dei vecchi, dei giovani dagli occhi accesi di carbone lucente; stanno addossati al muro e ascoltano in silenzio quel vangelo. Ma è ormai notte fonda, e dobbiamo partire. Scendo dallo scalino della soglia, risalendo la strada buia. Qua e là per terra delle grandi masse nere fanno piú scura l’ombra, come macigni sparsi in un prato. Sono le vacche, le grandi vacche scure di Sciara che dormono sdraiate per la via: quando l’occhio si assuefà alla notte le distinguo come nere statue di animali arcaici in una Cina immaginaria. Piú avanti, una chiazza bianca sta immobile per terra, e vi ravviso un cane; ma non dorme: è morto.

Sopra gli scalini che portano alla via principale, al lume fioco di una lampadina elettrica con il suo piatto bianco, come le lampadine delle stanze, mi aspettano dei giovani contadini. Parlano di Salvatore, cosí onesto, tutto per il popolo, pulito, lavoratore; e vogliono che vada con loro alla Camera del lavoro. È una casa di contadini, una stanza che dà sulla strada, tappezzata di manifesti. Le galline dormono in un angolo. È l’abitazione del segretario, un vecchio contadino asciutto: il tavolo della famiglia è quello dell’ufficio. I contadini stanno seduti attorno a parlare come congiurati. Si riconoscono dal viso i violenti e gli incerti, tutte le maniere diverse di essere in un mondo che si muove e di cui essi, oscuramente, si sentono i protagonisti. Ma in un modo cosí difficile, avvolti in un labirinto di corde antiche e di antichi terrori, che la morte doveva ribadire, e ha inaspettatamente troncato. Il piú vivace è un bambino, il figlio del segretario, attivo, allegro, entusiasta, fiero di essere un falco, l’unico falco rosso fra tutti i gialli falchi del feudo di Sciara. Torno a uscire sulla strada, si affacciano tutti sull’uscio e mi salutano: – Compagno, compagno –. Nella loro bocca è una parola magica, una formula di scongiuro che dà la forza e il potere, e basta, come le trombe bibliche, a far crollare le mura della città.

Voglio girare un po’ le strade, ma è difficile essere soli. Un giovane contadino mi accompagna. Studiava, dice, con Salvatore, la sera. Studiavano il vocabolario. Là ci sono le parole, le parole che hanno scoperto e che solo adesso sono diventate necessarie. Vuole assolutamente pagarmi un caffè, e non posso schermirmi, per non ferirlo, quando estrae dalla tasca quegli spiccioli cosí preziosi. Lo lascio nella piazza, e risalgo solo verso il castello, girando attorno alle vacche addormentate. Una capra dorme appoggiata a uno stipite, con le zampe abbandonate, con la languida stanchezza di una donna. Sotto il castello, nel buio, due suonano invisibili l’armonica da bocca, e si rispondono da lontano. Passa un campiere a cavallo: il top-top dei ferri risuona sulle pietre. Sul cielo pieno di stelle si leva il profilo del San Calogero, una lampada elettrica fa apparire i bordi obliqui delle casette a un solo piano, le ultime del paese, davanti al vuoto della campagna. Il cielo è immenso, salgono vaghe nebbie dal mare, sul paese, sulle vacche addormentate, sui fiori di pastinaca nei campi. Scendo verso la macchina. Nel buio sento il clamore di una lite, qualcuno appoggiato a un muro mi dice: – Lite tra padre e figlio, non ci vuole consiglio –. Si chiudono le porte, si spengono i fuochi dei focolari, cala il sonno su Sciara, e partiamo nella notte.

Nei giorni seguenti tornai molte volte alla casa di Sciara. Qualche cosa mi attirava là, come un nero vortice, e ogni volta ritrovavo il paese, e la maligna pace del castello, e la chiesa con le tombe dei Notarbartolo, principi di Sciara e di Castelreale, gentiluomini di Camera; e quella stanza nuda col piccolo letto in fondo, e alle pareti bianche la Madonna di Altavilla, santa Rita, Gesú, la Sacra Famiglia e il Calendario del Lavoratore, e quella donna che muoveva il velo nero con le mani parlando, e quella voce oscura e ininterrotta che parla come se non dovesse cessare di parlare fino al giorno del Giudizio.

L’ultima volta, da Termini avevo preso la strada di Caccamo; mi portava un autista nuovo, un giovane dai baffetti sottili, dai modi rispettosi di un impiegato. La via sale dalla costa tra pendici che stillano l’olio, poi si entra tra i monti e lo sguardo spazia tra le azzurre distese dei feudi, quando, solenne e enorme, si leva sulla sua roccia il castello di Caccamo. Anche Caccamo, come Sciara, sta fra il castello e la chiesa, in mezzo ai campi di grano; ma non è, come quello, un villaggio, ma si allarga a coprire tutta la costa del monte. Ci fermammo a guardarlo dalla rotabile, compatto come un solo corpo di mille case, con la forma di un grande uccello o di una colomba con le ali chiuse posata sulla montagna. Il cielo si oscurò all’improvviso, e non eravamo ancora ripartiti che cadevano le prime gocce di pioggia. Era un temporale d’estate, rapido e selvaggio, e già la strada nuova di Sciara, quella dove aveva lavorato Salvatore, era un torrente, e i fulmini cadevano sulle pendici del San Calogero, e una nebbia d’acqua oscurava i profili lontani dei monti di Cerda. Passavano a cavallo, sorpresi dall’uragano, coperti con teli impermeabili, i campieri, la paglia sui campi fumava. Improvviso come era venuto, il temporale cessò, quando, passando tra pozze e ruscelli, scendemmo sulla piazza di Sciara. Francesca mi salutò ancora una volta, seduta vicino al letto, e mi diede una cartolina, un ritratto del figlio, ragazzo di sedici anni, vestito con gli abiti della festa, una grande cravatta americana, e un viso rotondo di bambino, coi neri occhi pieni di decisione e di fuoco, simile forse un poco alle immagini di Giuliano giovane, ma con una sorta di rettitudine, di fierezza modesta nello sguardo diritto come di chi vuol costruire il proprio destino. La madre mi chiese, salutandomi, sicura e imperiosa, che io scrivessi «il romanzo» della morte di suo figlio. Mi abbracciò, e la lasciai sola sulla sua sedia, con la sua voce che non si ferma, arida, uguale, nera.

Correvamo ancora una volta sulla tiepida costa verso Palermo. L’autista mi raccontava di sé e della sua vita. Era stato carabiniere al tempo delle repressioni. Una vita dura, un sacrificio inutile. Ora guadagnava ventinovemila lire al mese, aveva moglie e una bambina, per fortuna che sua madre lo ospitava e non doveva pagare l’alloggio. La politica non lo interessava: non c’è nessun partito che gli vada bene. Tuttavia, con un po’ di esitazione, perché non sapeva come la pensassi, mi confessò di aver avuto in passato simpatie per il MSI. Perché, disse, è un partito «sociale». Ci vuole qualche cosa di sociale, perché cosí non si può andare avanti con la miseria; però questo partito ha fatto cattiva prova, e allora nelle ultime elezioni lo aveva abbandonato e aveva pensato di votare per i socialisti. Per poter risolvere la vita, la sola via è quella sociale, quella del socialismo. Come si può campare? Veramente egli credeva anche in un’altra via. Aveva la passione del gioco, di tutti i giochi, ma soprattutto dei cavalli. – Ci metto tutto quello che posso risparmiare, e un giorno mi toccherà bene vincere. Una signora mi ha detto: «Ma con quelle mille lire che giochi ai cavalli, potresti comperare marmellata per la tua bambina». Lo so, ma la marmellata rimane sempre marmellata, e i cavalli possono diventare carne, bistecche, una casa, tutto quello che occorre –. Cosí egli sperava nella Giustizia o nella Fortuna, e non aveva scelto tra le due, i due soli modi mitologici per sopportare la miseria.

Palermo mi accolse nella sera, colorata e drammatica, come un grande formicaio, piena di splendore e di desiderio. Sta là, davanti al mare, assediata dalle montagne e dai feudi, in mezzo, tra i deserti dei banditi, i pescatori di Trappeto, gli uomini chiusi nelle gabbie di Partinico, la labirintica architettura della mafia, la protesta disperata e individuale del brigante a cui risponde l’iniziativa personale degli uomini come Dolci, e, dall’altra parte, la nera madre di Sciara, con la sua accusa, il suo Partito, il movimento contadino.

Sul molo, alla partenza del piroscafo di Napoli, si assiepa una grande folla, si levano saluti, si sventolano fazzoletti, per un vero distacco, per un abbandono. La notte ci avvolge sul mare e ci accompagna fino a Napoli, al primo sole, cosí chiaro, cosí azzurro. Per scendere a Napoli si passa dogana come se si andasse in un altro paese. La città si apre bianca e grigia nell’alba e pare piena di una tenerezza nervosa, nelle sue strade già fitte di commerci e di uomini intenti, con antica armonia, a un destino incerto. La Sicilia è lontana. Ma già il treno, nel mattino luminoso, mi porta a Roma, troppo consapevole e troppo ignara, addormentata nella sua storia senza limiti e nel torpore della calda estate. […]

Carlo Levi
Le parole sono pietre, Einaudi
1955