Vincenzo Consolo, Cochlias Legere

Nello spirito informale di questo convegno preferisco esprimere pensieri “spettinati”, come diceva il polacco Stanislaw Jerzy Lec. Le mie esperienze di letture infantili sono state profondamente diverse da quelle ricordate da alcuni dei relatori di oggi. Non ho avuto l’opportunità di incontrare personaggi straordinari, professori, scrittori nell’estrema provincia siciliana in cui sono cresciuto. Sono vissuto nel vuoto, in una solitudine assoluta sino a un’età matura. Nessuno, durante l’infanzia, mi ha letto I promessi sposi e tanto meno La Divina Commedia. Anzi, mio padre, che era un piccolo borghese commerciante con otto figli, e con l’assillo di mantenerli decorosamente, non concepiva proprio che al mondo ci fossero dei libri. Io dormivo in una stanza accanto a quella dei miei genitori, la sera da ragazzino, leggevo con un’abat-jour accesa fino ad ora tarda, clandestinamente. Mio padre vedeva filtrare la luce sotto la porta della sua stanza, allora si alzava e veniva a spegnerla. Non lo faceva per avarizia, ho capito solo dopo che questo bambino che leggeva era per lui motivo di inquietudine. Vedeva in me un deviante, probabilmente si chiedeva «ma questo chi è? di che razza è uno che legge?». Naturalmente mi voleva uomo pratico, commerciante come lui, o magari piccolo industriale, perché l’ambizione del mio clan – la famiglia Consolo era una sorta di clan – era quella di diventare piccoli industriali dell’olio. Quindi questo ragazzino che leggeva libri di letteratura appariva anomalo, diverso dai fratelli più grandi. In casa non avevamo una biblioteca, c’erano solo i libri di scuola delle mie sorelle e dei miei fratelli, neanche in paese c’era una biblioteca pubblica, e i preti, presso i quali studiavo, conservavano solo opere rare, libri ecclesiastici, vite di santi.,. La mia grande voglia di sapere, di conoscere, di leggere restava immancabilmente inappagata. Avevo sviluppato, in quegli anni, una sorta di ossessione per la lettura, che sola mi avrebbe permesso di conoscere il mondo, di sapere chi ero, da dove venivo, dove volevo andare. Mi venne in soccorso un cugino di mio padre che viveva davanti a casa nostra: don Peppino Consolo, proprietario terriero e originale figura di scapolo, forse un po’ folle, Possedeva una grande biblioteca, molto partigiana. Tolstojano e vittorhughiano, aveva libri fondamentali, come Guerra e pace, I miserabili. Quando capì che questo ragazzino era un deviante, mi chiamò, dicendomi: «Vincenzino, vieni qua ho dei libri, se tu vuoi leggere». Allora io presi l’abitudine di attraversare la strada e di andare da lui. Mai mi diede un libro in prestito, mi faceva leggere solo a casa sua, in cucina, su un tavolo di marmo: questo fu il mio impatto con il mondo dei libri (non prendo in considerazione quelli di scuola che, oltre ad essere noiosissimi, erano contrassegnati dal marchio della dittatura fascista). Il primo che lessi fu I miserabili, mi sconvolse la vita, mi aprì straordinari. orizzonti. Don Peppino Consolo, ripeteva spesso «Victor Hugo, non c’è che lui!». La seconda biblioteca in cui mi sono imbattuto, all’epoca delle scuole medie – gli americani erano già arrivati – è stata la biblioteca del padre di un mio compagno che si chiamava Costantino. Era il figlio dell’ultimo podestà del mio paese, diventato, ovviamente, sindaco democristiano. Io andavo a casa sua a fare i compiti, cioè ero io a fare i compiti a Costantino. Nello studio con le poltrone di pelle, suo padre aveva una biblioteca ricchissima, i libri erano tutti rilegati. Costantino, di nascosto, in cambio dei compiti che io facevo per lui, me li prestava. Lessi dei libri importanti che a quell’età, undici, dodici anni, non riuscivo a capire nella loro profonda verità, nella loro bellezza. Quei libri mi sono serviti moltissimo, per il mio nutrimento adolescenziale e per diventare un uomo con un’ossatura abbastanza accettabile, per non restare gracile. Quando in età adolescenziale ci si imbatte in libri importanti come Guerra e pace, La Certosa di Parma di Stendhal, Shakespeare, Don Chisciotte, anche se non si coglie il loro significato profondo, li si attraversa come quando da giovane si attraversa un bosco e senza rendersene conto si incamera l’ossigeno che serve per la costruzione dello spirito e del corpo. Quindi, in qualsiasi modo la lettura dei libri importanti, di quelli che si chiamano classici. in ogni caso e a qualsiasi età può servire per formare la struttura del pensare. Leggere e scrivere sono per me elementi inscindibili, e in parte sono la stessa cosa. Credo che derivino dalla consapevolezza o dalla sensazione che noi uomini siamo persone fragili, finite, esposte a qualsiasi tipo di insulto e qualsiasi tipo di offesa. Io credo che da questa stessa debolezza e impotenza sia nato il bisogno del metafisico, siano nate 1e religioni. Forse sarò blasfemo, ma credo che le religioni scaturiscano da questa esigenza che ci sia altro, al di là di noi che possa soccorrerci, da qui nasce anche quella che Leopardi chiama <<da confederazione degli uomini fra di loro», perché proprio a causa di questa fragilità l’uomo sente il bisogno di mettersi insieme e darsi delle regole per un reciproco aiuto. La stessa esigenza genera le società, la storia, la letteratura. I grandi scrittori sono i teologi che hanno elaborato per noi il sistema religioso della letteratura. Perché la letteratura è una religione, l’ho sentito e capito da adolescente, raggiungendo uno stato febbrile di piacere della lettura, di incandescenza dello spirito, paragonabile all’estasi dei santi. La lettura di quegli anni felici era assolutamente gratuita e disinteressata, disordinata, caotica, poteva capitare il capolavoro come il libraccio orrendo e sbagliato. Ma anche il libro peggiore, non quello falso ma quello mancato, serviva. In quell’età irripetibile dell’adolescenza, nessuno può consigliarti cosa devi leggere, è uno stato di assoluta libertà. Virginia Woolf ha detto: <<l’unico consiglio che si può dare ad un giovane lettore è quello di non accettare nessun consiglio». Ma il tempo della lettura disinteressata e gratuita, come diceva Pavese «della libera fame», si riduce sempre di più, soprattutto per noi che abbiamo scelto il mestiere di scrivere. Siamo obbligati a letture che chiamiamo professionali, fatte con razionalità, consapevolezza, funzionali al lavoro. Certo ci sono anche le riletture, grazie alle quali scopri delle cose che ti erano sfuggite: attraversare per la seconda volta La ricerca del tempo perduto, Don Chisciotte, Shakespeare, sono esperienze straordinarie che, in età matura, nell’età della consapevolezza, nell’età del lavoro, danno un’altra felicità, diversa da quella adolescenziale, assolutamente inconsapevole, gratuita, anarchica e libera. Del resto, si parte quasi sempre dai libri per scrivere un altro libro, che si configura come una sorta di palinsesto costruito sull’esperienza di altri libri. Pensiamo al Don Chisciotte, il più grande libro della letteratura occidentale: tutto comincia con la lettura dei libri di cavalleria per cui don Chisciotte impazzisce, diventa quell’hildalgo dalla trista figura che noi conosciamo. C’è un episodio chiave, a proposito di libri; al ritorno di don Chisciotte dal primo viaggio, la nipote e la governante cercano di eliminare tutti i libri rischiosi e pericolosi che 1o avevano indotto a credere di essere un cavaliere. Come Minosse, le due donne destinano questi libri al Paradiso, al Purgatorio o all’Inferno. Alcuni infatti vengono salvati, altri vengono tenuti in sospeso, quelli condannati, vengono subito eliminati e buttati via. Un criterio di ripartizione molto saggio, a mio avviso. Tutti abbiamo avuto i nostri libri dell’inferno, nel senso dell’erotismo, dell’enfer francese, i libri dannati, da eliminare, da bruciare. Anche se i libri non si dovrebbero mai bruciare, purtroppo oggi il loro livello si abbassa sempre di più, in quest’epoca della visualità in cui si tende ad intrattenere piuttosto che a far capire che cosa è la bellezza della poesia, la bellezza della parola scritta. A ragione Aldo Bruno ha parlato di libri da supermarket, che ci vengono propinati dall’industria editoriale le cui scelte sono sempre di più all’insegna del profitto e non della qualità. Ho dedicato al tema dei libri utili e dei libri inutili, alcune pagine di un mio romanzo, che io chiamo narrazione, nel senso in cui la intende Walter Benjamin. Credo che il romanzo oggi non sia più praticabile, perché non è più possibile fare appello a quello che Nietzsche, a proposito della tragedia greca, chiama lo spirito socratico. Lo spirito socratico è il ragionamento, la riflessione sull’azione scenica. Parlando del passaggio dalla tragedia antica alla tragedia moderna, dalla tragedia di Sofocle e di Eschilo a quella di Euripide, Nietzsche sostiene appunto che in quella di Euripide c’è l’irruzione dello spirito socratico, cioè l’irruzione del ragionamento e della filosofia. Nel romanzo tradizionale settecentesco-ottocentesco l’autore usava interrompere il racconto con le sue riflessioni. Pensiamo alle celebri riflessioni manzoniane sull’azione scenica. Io credo che oggi questa riflessione non si possa più fare, lo spirito socratico non può più esserci nelle creazioni moderne perché l’autore non sa più a chi rivolgersi in questa nostra società di massa. Ho teorizzato perciò lo spostamento della narrazione verso la forma della poesia; la narrazione non è più un dialogo ma diventa un monologo, con l’aspetto formale di un’organizzazione metrica della prosa. La pagina che vi propongo è tratta dal mio romanzo che si chiama Nottetempo, casa per casa, dove narro dell’imbattersi in libri inutili, in libri fasulli e di un’erudizione che non appartiene alla cultura, non appartiene alla letteratura e che forma quella che è La zavorra del sapere, a volte l’errore del sapere. Il protagonista è un giovane intellettuale socialista, nel periodo de1’avvento del fascismo, che per il suo impegno politico, sarà costretto ad andare in esilio in Tunisia. Il suo antagonista è un barone decadente dannunziano che, nella ricca biblioteca di famiglia, cerca insistentemente un libro sui mormoni che non trova e allora dice:
Erano primieramente libri ecclesiali, per i tanti monaci, parroci, arcipreti, canonici, ciantri, provinciali, vescovi dentro nel suo casato, dalla parte dei Merlo e dei Cìcio. Erano controversie storiche, teologiche, vite di santi, di  missionari martiri, dissertazioni, apologie, come ad esempio, e solo fra quei in volgare, Delle azioni eroiche, virtù ammirabili, vita, morte e miracoli del B, Agostino Novello Terminese capi dieci, Apologia dell’Accademico Tenebroso fra i Zelanti intorno alla nascita di santa Venera in Jaci contro gli argomenti del p. Giovanni Fiore, L’ardenza e tenacità dell’impegno di Palermo per contendere a Catania la gloria di aver dato alla luce la regina delle vergini e martiri siciliane S.Agata, dimostrate nell’intutto vane ed insussistenti in vigor degli stessi principi e dottrine de’ Palermitani scrittori.

Il barone tirava fuori dagli scaffali i volumi con disgusto, 1l fazzoletto al naso per la polvere che s’alzava da quelle carte. E c’era poi tutto quanto riguardava Cefalù, il suo Circondario, da Gibilmanna a Gratteri, a Castelbuono, a Collesano, fino a Làscari, a Campo Felice, a Pòllina… E copia del Rollus rubeus dei diplomi del Re Ruggero, degli atti del processo al vescovo Arduino, le storie di Cefalù del Passafiume, dell’Aurìa, del Pietraganzili… Libri di scienza come la Flora palermitana, la Stoia naturale delle Madonie, I Catalogo ornitologico del Gruppo di Malta, il Catalogo dei molluschi terrestri e fluviali delle Madonie e luoghi adiacenti, il Catalogo dei Crostacei del Porto di Messina, il Trattato sui novelli pianeti telescopici… E ancora le istruzioni per adoperare gli specchi inclinati, i rimedi contro la malsanìa dell’aria, la memoria intorno ai gas delle miniere di zolfo… Che puzza, che polvere, che vecchiume! Ne avrebbe volentieri fatto un grande fuoco don Nené, per liberare, ripulire, disinfestar la casa. E pensò ad altre case del paese in cui v’erano simili libri. Alle antiche case di tutta la mastra nobile, da la guerra fino ad oggi serrate, fredde come tombe, abitate da mummie, da ombre, da cucchi spaventati dalla maramaglia dei reduci, dei villani, che di questi tempi s’eran fatti avversi, minaccianti. Pensò alla casa del Bastardo con tutti quei libri i, ogni stanza, di filosofia, di politica, di poesia, alla villa a Santa Barbara che lo zio don Michele, un pazzo! aveva lasciato a quel Marano, al figlio della gna Sara. Pensò ai gran, palazzi di Palermo, alle canoniche, ai monasteri, ai reclusori, agli oratori, ai conventi. Pensò a Monreale, a San Martino delle scale, all’Arcivescovado, allo Steri, all’Archivio Comunale, ad ogni luogo con cameroni, studi, corridoi, anditi tappezzati di stipi traballanti, scaffali di pergamene scure, raggrinzite, di rìsime disciolte, di carte stanche, fiorite di cancri funghi muffe, vergate di lettere sillabe parole decadute, dissolte in nerofumo cenere pulviscolo, agli ipogei, alle cripte, alle gallerie sotterranee, ai dammusi murati, alle catacombe di libri imbalsamati, agli ossari, allo scuro regno r6so, all’ imperio ascoso dei sorci, delle càmole dei tarli degli argentei pesci nel mar del1e pagine dei dorsi dei frontespizi dei risguardi. E ancora alle epoche remote, ai luoghi più profondi e obliati, ai libri sepolti, ai rotoli persi sotto macerie, frane, cretti di fango lave sale, aggrumati, pietrificati sotto dune, interminate sabbie di deserti. Oh l’incubo, l’asfissia! Dalla sorda e inarrestabile pressura di volumi inutili o estinti, dai cumuli immensi di parole vane e spente sarà schiacciato il mondo, nell’eloquio demente d’una gran Babele si dissolverà, disperderà nell’universo. Per fortuna, don Nené aveva come antidoto, contrasto, il suo segreto enfer, aveva per sollazzo il suo Micio Tempio, e aveva soprattutto, per nutrimento d’anima, di vita, il suo D’Annunzio.

E dove siete, o fiori

strani, o profumi nuovi?

Don Nenè, l’eccentrico pazzo tolstojano – ecco il cugino di mio padre che ritorna
nella narrazione – lascerà in eredità la sua preziosa biblioteca a Pietro Marano, il protagonista, figlio di contadini. Il ragazzo attingerà a questi libri, realizzando la sua educazione sentimentale: <<E i libri, tutti quei libri in ogni stanza lasciati dal padrone don Michele, ‘Vittor Ugo”, diceva ‘Vittor Ugo…” e “Gian Valgiàn, Cosetta…” “Tolstòi” e ‘Natascia, Anna, Katiuscia…”, e narrava, narrava le vicende, nell’inverno, torno alla conca con la carbonella. Narrava ancora di fra Cristoforo, Lucia, don Rodrigo… dei Beati Paoli, Fioravanti e Rizziere, Bovo d’Antona…>> (ecco che ritorna il nostro Manzoni). Ci si può imbattete talvolta nei falsi libri, nei libri ammuffiti, pietrificati, che non significano nulla ma si può avere la fortuna, di incontrare, di attraversare i libri che Harold Bloom chiama canonici. Certo si leggono i libri per la trama, per quello che rappresentano; si legge Stendhal per la passione d’amore, per la sua visione di energia del mondo; si legge Proust per la rappresentazione di un mondo che stava declinando; si legge Kafka per quanto Kafka abbia di profetico, di entusiastico. L’entusiasmo viene da en-theòs, si dice quando si è posseduti dal Dio e molto spesso gli scrittoti sono entusiasti, sono quelli che riescono attraverso la metafora ad essere profetici. A proposito, io ho capito il senso della parola metafora una volta, mentre mi trovavo  ad Atene, invitato dall’Istituto Italiano di Cultura, e mi sono visto sfilare davanti agli occhi un camion su cui c’era scritto netaforòi, cioè trasporti! I libri che hanno questa vita – Vittorini diceva che sono libri arteriosi -, che hanno la forza della metafora, riescono ad essere profetici perché con il passare degli anni diventano veramente interpreti del tempo che stiamo vivendo. Don Chisciotte o I promessi sposi, o le opere di Pirandello diventano sempre più attuali in quest’epoca in cui stiamo smarrendo la memoria, l’identità, in cui il potere ci costringe a vivere in un infinito presente, privandoci della conoscenza dell’immediato passato, impedendoci di immaginare l’immediato futuro. Ho intitolato questo mio intervento Cochlias legere, in antico si diceva questo quando si andava per i lidi a raccogliere le conchiglie come un gioco dilettoso. Io credo che la parola “leggere” significhi andare dentro i libri per raccogliere conoscenza, raccogliere raccogliere, sapienza, bel1ezza, poesia; noi leggiamo queste chiocciole che raccogiamo sulla spiaggia, che ci portano dentro il labirinto dell’umanità., dentro il labirinto della storia, dentro il labirinto dell’esistenza. Capire questo significa esorcizzare la nostra consapevolezza della finitezza, la nostra paura, perché io credo che le aggregazioni umane, le società, nascano proprio da questi sentimenti di insicurezza, dalla debolezza della nostra condizione umana. La lettura dei classici ci conforta, ci arricchisce, ci apre nuovi orizzonti. Oggi, in questa epoca della visualità, sembra che i libri non siano più tanto praticati, soprattutto in questo nostro paese che ha avuto una storia particolate. II nostro è un paese culturalmente terremotato che ha avuto una storia diversa da ogni altro paese europeo. La nostra cultura era una cultura in cui affluenti venivano da una cultura alta e da una cultura popolare. L’incrocio di questi due affluenti formava quella che era la cultura tout court. La trasformazione radicale, profonda e veloce del nostro paese – Pasolini ce l’ha spiegato a chiare lettere – da plurimillenario contadino a paese industriale, lo spostamento di masse di persone dal meridione ai settentrione, verso le zone industriali, ha generato uno sconvolgimento culturale: la cultura popolare è stata cancellata: nessuna nostalgia, ma era comunque una ricchezza. Il mondo contadino era un mondo di pena, di sofferenza, di ignoranza, però la cultura popolare era una vera cultura. Poi c’era la cultura alta. Oggi viviamo una cultura media che è stata sicuramente appiattita dall’ossessione per la comunicazione, per la velocità. Io credo che oggi i classici, da Cervantes a Shakespeare a Dante, siano veramente, come dire, i segni, i monumenti di una gande civiltà che nel nostro contesto, nel contesto occidentale è al tramonto. Non sappiamo cosa avverrà dopo questa nostra epoca. Bill Gates ha profetizzato già che il libro sparirà e questo mi ricorda una frase di Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, che riguardava l’invenzione della stampa: «ceci tuera cela», questo ucciderà quello, cioè il libro avrebbe ucciso l’architettura. Questo non è avvenuto,
 l’ architettura ha continuato ad essere insieme al libro, una delle grandi espressioni umane dell’arte; ma oggi con la comunicazione assoluta, con i mezzi di informazione di massa (internet, televisione) non so quello che avverrà, se la tecnologia, l’elettronica uccideranno il libro, la carta stampata. Ci auguriamo che questo non avvenga e che ci saranno ancora, come diceva Stendhal, «i felici pochi» che possano attingere a questi monumenti dell’umanità che sono i libri di letteratura e la poesia, i romanzi, il teatro. Speriamo che le nuove generazioni, voi, possiate continuare, come i monaci del medioevo, a trascrivete i codici importanti della nostra cultura, della nostra civiltà, del nostro sapere e della nostra poesia.

estratto da Sincronie VII,13
Rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero
Vecchiarelli Editore 2003




Roma 18/2/2003
Università Tor Vergata

La peste a Catania – ricordo di Sebastiano Addamo di Vincenzo Consolo

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La peste a Catania – ricordo di Sebastiano Addamo
di  Vincenzo Consolo

Sarei tentato di chiedermi in poche frasi, se non nel silenzio, anche per la commozione in questa giornata in cui si commemora uno scrittore che mi è stato tanto caro, di cui sono stato amico, ho avuto l’onore di essere amico, e che ho tanto ammirato.

C’è una bellissima parola che usano i francesi per indicare i letterati, gli scrittori, cioè quelli che operano nel campo della narrativa, nel campo della letteratura; questa parola è, col!fìrèrès, che tradotta in italiano diventa confratelli, e prende una connotazione di tipo religioso, non più laico, perché i confratelli da noi sono gli appartenenti ad un ordine religioso. Ecco la parola francese confrère indica nel modo più laico e più bello quella che una volta era, ma adesso, ahimè, non più, una fratellanza fra quelli che facevano questo mestiere; mestiere di scrivere arduo, difficile, di grande responsabilità, che forse è difficile come quello del vivere, come diceva Pavese. Io sono stato doppiamente confrère di Sebastiano Addamo, perché assieme a lui ho cominciato questa strada, quest’ avventura della scrittura, della narrativa e della saggistica.

Siamo stati amici; ci siamo conosciuti in anni lontani insieme agli altri scrittori siciliani, insieme a Leonardo SciascÌa, e poi in seguito assieme a Bufalino, a Ignazio Buttitta, Padre Antonio Corsaro…. E Sebastiano si distingueva per il suo rigore, rigore morale, per la sua, diciamo, non condiscendenza nei confronti di quelli che erano i principi etici, i principi ideologici, per essere esigente prima di tutto con se stesso e poi nei confronti degli altri. Questo lo rendeva un personaggio difficile, spinoso; soltanto i poveri di spirito, soltanto gli ingenui non capivano che, dietro questa sua spinosità, questa sua difficoltà nel tratto, si mascherava un uomo di estremo e nobile sentimento, e di grande tenerezza.

Io  Sebastiano Addamo lo chiamavo scherzosamente  “Zì Dima”.

Zì Dima è un personaggio della Giara di Pirandello; quel concia brocche che era rimasto chiuso dentro la giara di don Lolò, il proprietario terriero. E questa giara è una specie di onfalo, una sorta di utero, una sorta di grembo materno, ma anche una sorta di tomba, è un principio e una fine. Perché i ‘Siculi, (o i Sicani?), come abbiamo visto nei musei, (soprattutto nel museo di Lipari), usavano seppellire i morti in questi grandi gironi.

Dicevo, dunque, che Zì Dima, rimanendo prigioniero dentro la giara di Santo Stefano di Camastra, che aveva conciato, ad un certo punto stabilisce un dialogo, una diatriba con don Lolò, proprietario della giara stessa; e Zì Dima era il personaggio dialettico caustico che smontava di volta in volta quello che era il codice di don Lolò, suggerito dall’ avvocato.

Quindi era la dialettica per eccellenza ( quella dialettica di cui parlava Mazzamuuto); era quello che i Greci chiamano

dissoi logoi  quello che i latini chiamano diverbia.

Ecco, tutta l’opera di Sebastiano Addamo è proprio un’ opera di dissoi logoi di diverbia, un’ opera di dialettica; dialettica perché filosofia, perché opera di pensiero leopardiano, perché quello di Sebastiano Addamo era un pensiero poetante o pensiero narrante, che dir si voglia.

Io credo che ogni generazione, (ed io appartengo alla generazione di Addamo) ha avuto sempre il senso della fine, e che colla fine della generazione finisse un tempo, una stagione, finisse una civiltà. Questo è vero in generale, ma credo sia una sensazione psicologica: pur tuttavia sono convinto, parlando della letteratura siciliana, che realmente in questo nostro tempo con la fine di scrittori come Sciascia, come Bufalino, D’Arrigo, Angelo Fiore, Antonino Uccello, Antonio Castelli, (e potrei nominarvi altri), con la morte di Sebastiano Addamo sia finita un’epoca, sia finita una civiltà, sia finita una cultura. E questo non solo in Sicilia. In Sicilia questo si sente di più, perché la Sicilia, voi sapete, ha avuto una grande tradizione letterati a, almeno nella storia moderna: da Verga in poi c’è stata una letteratura altissima con una concatenazione, con una consequenzialità che difficilmente si può riscontrare in altre Regioni.

Qualcosa di simile si trova forse nella nordica Irlanda: una letteratura così alta, così concatenata, con i grandi nomi di scrittori con1e Bemard Shaw, come Joyce, come Oscar Wilde, come Beckett, come tantissimi altri.

Ecco io credo che quello che è avvenuto in Sicilia si possa dire di questo.

nostro Paese Cl ‘Italia), ma più in generale, si possa dire di questo nostro contesto occidentale. lo penso che in Italia, dopo la morte di scrittori come Calvino, Moravia, Morante e tanti altri, ci sia stato uno iato, una frattura, credo ci sia stata proprio una rottura. E cerco dispiegare brevemente perché.

Gli scrittori della mia generazione, della generazione di Sebatstiano Addamo, della generazione di Sciascia, quando hanno incominciato a muovere i primi passi sapevano chi erano, da dove partivano; sapevano che cosa li aveva preceduti, quale era stata la letteratura, quali erano stati i segni poetici e letterari sui quali si collocavano, e sapevano, soprattutto quello che si stava svolgendo in quel momento attorno a loro. E allora da parte nostra, quando si incominciava a scrivere, (ma sono certo che questo avvenga anche in pittura, così come in musica), ecco quando si incominciava a scrivere, si aveva consapevolezza di dove e come collocarsi, dove – in quale linea, in quale tradizione; e come – in quale forma, in quale maniera scrivere, quale stile scegliere.

C’è in Federico Nietzsche, nel libro ‘La nascita della tragedia’: una bellissima osservazione: Nietzsche spiega che il passaggio dalla tragedia antica (Eschilo, Sofoc1e…) alla tragedia moderna, (da Euripide in poi), avviene con l’irruzione in Euripide, appunto, dello spirito socratico, cioè della filosofia, del ragionamento. .            .

Infatti, mentre in Eschilo e in Sofocle non c’era stato lo spirito socratico, ma c’era stato piuttosto lo spirito dionisiaco, lo spirito apollineo, nel senso che c’era il canto, c’era il coro, c’erano i personaggi che agivano e insieme dicevano in tono poetico alto, non si ponevano domande, non si ponevano quesiti, non avevano dei dubbi, in Euripide invece incominciano i dubbi, incomincia il ragionamento e quindi comincia la moderna tragedia.

Io credo che in letteratura, volendo fare una metafora, nella scelta letteraria nel nostro mondo, mondo moderno, ci sia o la scelta dell’irruzione nella narrazione dello spirito socratico, cioè del pensiero della filosofia, oppure la ritrazione verso la zona del canto, verso la zona corale. Sebastiano Addamo, naturalmente, da quel filosofo che era, da quel pensatore che era, aveva scelto la forma moderna, la forma socratica, la forma del pensiero. In lui c’era proprio la filosofia narrante, cioè la narrazione era come una sorta di dimostrazione di paradigma di quello che lui voleva dimostrare, di quello che era il pensiero filosofico.

In me, naturalmente, la scelta è stata diversa: sarebbe lungo spiegare la ragione di queste scelte. lo ho scelto la ritrazione verso la forma del canto, verso l’ accostamento alla forma della poesia, e quindi, la scomparsa di quella che è la riflessione dell’ azione narrativa.

Sebastiano Addamo si trova molto vicino alle teorie del romanzo di uno scrittore moderno, quale Milan Kundera, il quale dice le stesse cose che ha narrato Sebastiano Addamo. Ci sono altri scrittori che hanno scelto la forma poematica, la forma antica di questo nostro tempo ormai, di scompenso di schemi, di lacerazioni; in questo nostro tempo in cui quello che era il personaggio della tragedia, l’ anghelos, (che si può assimilare allo scrittore), non appare più sulla scena, perché non c’è più il referente, non c’è più il pubblico della cavea e quindi lo scrittore non può più dialogare; dialoga in questa nostra civiltà di massa con un interlocutore oscuro, sconosciuto e inconoscibile. Proprio per questa assenza è costretto a fare questa incredibile, a volte pericolosa, scelta: di andare verso la fdosofia o andare verso la poesia.

Ma Sebastiano Addamo, pur in questa sua scrittura estremamente logica, estremamente comunicativa, (che era, per intenderci, la linea che partiva da Manzoni e passava, soprattutto in Sicilia attraverso De Roberto, Brancati, Sciascia, quella che immediatamente non sembra la linea cosiddetta espressiva o linea barocca), ecco in Sebastiano Addamo c’era un  barocco connaturato a questa terra, alla Sicilia; penso che non si possa essere scrittori siciliani se non si è barocchi.

In lui non c’era un barocco della forma ma un barocco del pensiero; c’era in lui un continuo rimando ad un filosofo, alla citazione, esplicita o implicita, o nascosta, dell’idea di un altro, di un pensatore, e, quindi, in questo rimando c’era un sottofondo di barocco.

C’è un bellissimo saggio di Brancati a proposito della costante barocca nella letteratura siciliana; in questo saggio, parlando di Borgese, Brancati afferma che il barocco non è altro che una linea retta che, uscendo da un ghirigoro, entra in un altro ghirigoro. Il barocco non è capriccio, non è rococò; il barocco sottindente una razionalità e una misura ma posta in secondo piano nei confronti della linea retta.

Un grande pensatore spagnolo, Eugenio D’Ors (1882-1954, Il barocco, 1942), parlando del pittore Goya, paragona la scrittura barocca alla musica, (e proprio di musica si parlava poco fa), e la scrittura di tipo logico all’architettura. Credo che Sebastiano Addamo sia stato uno scrittore architetto, di grande architettura.

Dicevo degli esordi, degli inizi: Addamo ha esordito nel 1962 in una collana sperimentale della casa editrice Mondadori, diretta da un poeta, Vittorio Sereni (1913-1983), e da un critico, Niccolò Gallo, collana che . voleva continuare l’esperienza vittoriniana conc1usasi proprio in quegli anni de “I gettoni”; erano collane di ricerca letteraria che in quegli anni gli editori si permettevano come le grandi fabbriche si permettono di tenere laboratori di ricerca. Oggi tutto questo è sparito; oggi gli editori tendono immediatamente al profitto e, quindi, i giovani autori, (che loro intercettano per motivi a volte extraletterari, o perché cantanti o perché personaggi della ribalta televisiva), vengono presi e immessi immediatamente nel mercato, dove vengono molte volte bruciati e messi da parte. Allora le case editrici, appunto perché facevano un lavoro culturale, un lavoro serio, si permettevano di tenere queste collane che non erano destinate al profitto immediato ma erano autentica ricerca letteraria.

L’esordio di Addamo avviene nel 1962 con un libro stupendo, bellissimo, !/ioletta, dove sono inclusi due racconti: il primo è “Violetta” e il secondo “Il mostro”. Violetta è la storia di una bambina apparentemente schizofrenica, diversa, una bambina “disturbata”, emarginata, che non vuole avere contatti con il resto dell’umanità, (soprattutto con il genitore vivo naturale, il padre, e la matrigna), che gira per la campagna sempre nascondendosi e tenendo al guinzaglio un rospo, animale un po’ repellente. Una bambina che alla fine arriva al suicidio! E’ uno dei racconti più belli della letteratura italiana che mi è capitato di leggere. Questa Violetta credo che rappresenti un po’ l’angelo annunciatore di quello che sarebbe stata la nostra apocalisse di oggi, il nostro disastro, la nostra caduta, la nostra sconfitta.

I successivi libri di Sebastiano Addamo sono Il giudizio della sera e Un uomo fidato e tanti altri che qui non cito. Dopo Violetta, dopo il mostro, Addamo incomincia a narrare la nostra storia di questi anni, dalla guerra ai giorni nostri; la guerra storica sì, ma la guerra continua della dignità contro la barbarie, della civiltà contro il degrado, la ribellione contro la violenza.

Il primo di questi libri, Il giudizio della sera, è una sorta di telemachia, il libro di iniziazione e di formazione: narra la storia di ragazzi che per studiare capitano a Catania in quel fatidico quartiere di San Berillo dove subiscono le violenze di ogni tipo, le violenze della società, le violenze della miseria, della povertà, della guerra, del degrado. Questo quartiere, che è il simbolo della peste, della peste del nostro tempo, e ricorda moltissimo, (anzi credo che Addamo l’avesse presente), la Peste di Camus.

Per tale motivo ho intitolato questo mio intervento, La peste di Catania, ossia la peste di San Berillo, che è insieme la peste di Grano, la peste  di Atene, di Palermo, la peste di Milano o la peste di Londra: è la peste della civiltà. La peste della civiltà è il processo di imbarbarimento del nostro tempo.                                           .

Un uomo fidato è più direttamente storicizzato perché parla degli anni 1975-1976, gli anni della nostra storia politica in cui si svolgono nel nostro paese il primo referendum sul divorzio, (che segna una svolta di progresso civile), e quindi le elezioni del 197 6 per cui la sinistra raggiunge la maggioranza.

Addamo ci racconta quello che è l’eterno trasformismo italiano; di un povero piccolo borghese, un impiegato, che per ragioni di sopravvivenza abdica alla sua coscienza, alla sua ideologia, ed è costretto a diventare democristiano; va in ufficio leggendo “L’Unità” e il suo capoufficio non lo tratta bene per questa sua scelta ideologica; si fa democristiano, ma si accorge poi che il suo capoufficio per ragioni di opportunismo da democristiano diventa comunista. Questa vicenda di Sebastiano Addamo si conclude alla maniera di Todo Modo di Sciascia: è tale l’odio, il furore, verso questi trasformisti del potere politico italiano che alla fine il protagonista, Marco, arriva all’ omicidio, si fa giustiziere e conclude con la frase: “li ucciderò tutti.”  Naturalmente non nel senso vero ma in quello traslato! A proposito dell’eterno fascismo italiano, dell’ eterno trasformismo italiano e delle cadute di differenza fra quelle che sono le posizioni ideologiche in questo momento nel nostro paese, in cui assistiamo a un processo di omologazione di idee, (sembra che non ci siano più ideologie ma un’unica ideologia, sia pure articolata in forme diverse), volevo leggervi una frase di Carlo Levi, il quale, già nel 1943 (nel suo esilio, durante la guerra, ancora imperante il fascismo ), aveva previsto tutto questo e detto in termini molto chiari nelle ultime pagine di quello straordinario libro che è Cristo si è fermato ad Eboli: “Noi non possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparano per il futuro; ma in un paese di piccola borghesia, come l’Italia, nel quale le ideologie piccolo borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno il fascismo, o per evoluzione lenta o per opera di violenze, anche le più estreme, appartenenze rivoluzionarie, saranno portate a riaffermare in modi diversi quelle ideologie; creeranno uno Stato, altrettanto o forse più lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nomi nuovi e nuove bandiere, l’eterno fascismo italiano. . .”.

Addamo ci parla appunto di questa piccola borghesia italiana nel L’uomo fidato, dove la peste dell’anima invade tutti gli individui, tutti gli uomini. Parallelamente alla frase di Levi, voglio leggervi una frase del

L’uomo fidato. Egli scrive: “La giovinezza di Trigilio si era svolta in quegli anni che avevano visto l’Italia troppo rapidamente trapassare da una società agricola ad una caratteristicamente industriale”.

Sempre su questa linea della peste, della corruzione degli animi e dell’eterno fascismo italiano, (di cui tanto soffrì Sebastiano Addamo e che lo rese forse uomo non capito e quindi uomo che è stato costretto a ritrarsi nella sua dignità e nella sua libertà), voglio ricordarvi il libro di Addamo Non si fa mai giorno, con il racconto straordinario La mano tagliata.

Racconto che termina con la frase “E nel principio è la mia fine”, un verso di T. S. Eliot, da lui mascherato ( “In my beginning is my end”).

Nello stesso libro vi è il racconto La noia a Catania, che ricorda un po’ Brancati; una noia come categoria filosofica, la noia anche di Moravia, oltre che di Brancati.

Vi dicevo del “fascismo eterno italiano” che Sebastiano Addamo ha sentito molto e di cui ha sofferto molto. In questo racconto una frase dice ( come la frase di Splenger) “È il fascismo la fine  della loro civiltà”.

 Sono partito da questo, dalla fine di una civiltà e voglio concludere con questo.

Io spero che una civiltà ritorni in questo nostro paese, in questo nostro contesto occidentale. Spero che il tempo, “grande giustiziere e grande scultore”, come dice Marguerite Yourcenar; restituisca a Sebastiano Addamo quel che a Sebastiano Addamo in vita non è stato dato e non è , stato riconosciuto.

E voglio concludere con le parole di Mallarmée:

   “Tel que en lui mème l’eternitè l’echange ».
addamo

L’enorme realtà

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.

È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta.

Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie.

Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e di fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione.

Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso.

Guttuso ancora, nella Bagherìa dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara.

Un paese, Bagherìa – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori.

In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è stata solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione.

Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi ogni velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero.

Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagherìa, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagherìa; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo.

Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagherìa, si trovò a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ’30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà in ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano, avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti. Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire.

(Renato Guttuso, autoritratto con ombrello e sciarpa)


La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano.

La fuga dall’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix.

Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Góngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificale, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza.

(Renato Guttuso, Crocifissione, 1940-1941, olio su tela,)

Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati […] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee…” scriveva nel suo diario.

(la “Crocifissione”, capolavoro conservato al Museo Reale di Belle Arti di Anversa, creato dal celebre pittore siciliano Antonello da Messina. Realizzato a Venezia nel 1475)

Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori…” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo.

Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara.

In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello.

In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio.

Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dall’Etna.

E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.

(Renato Guttuso – natura morta)


Vincenzo Consolo – Di qua dal faro – Arnoldo Mondadori Editore Milano
I edizione ottobre 1999

I ritorni


Isola. L’archetipo omerico delle isole fantastiche, isole di violenza e inganno, di utopie e distopie, di deserti e di silenzi, di linguaggi sorgivi ed ermetici, è scivolato per tutta la letteratura occidentale, è passato per tutti i grandi poeti e scrittori, dall’antichità fino ad oggi. Non è questo archetipo che qui ci interessa, ma l’altro, quello più importante dell’Odissea, di questo grande poema della nostra civiltà: l’archetipo del nóstos, del ritorno. Del ritorno in Sicilia dei narratori moderni.

Ma non è più ora, la Sicilia, la fantasmatica isola della primordiale natura minacciosa e devastante, non è più, il suo isolamento, nella terribilità di quel suo stretto passaggio. Ora l’isola è affollata dei più vari segni storici, antichi e immobili per fatale arresto, quali rovine trasferite in una dimensione metafisica, è ricca di frantumi di civiltà, di frammenti linguistici, è composita culturalmente, problematica socialmente. Tutto questo ha fatto sì che nel tempo, paradossalmente, quel breve braccio di mare che la staccava dal Continente si ampliasse a dismisura e la rendesse più estrema rispetto a un centro ideale, la relegasse, a causa della sua eredità linguistica, della sua dialettalità, ai margini della comunicazione.

Da qui, la necessità, l’ansia negli scrittori isolani di lasciare il confine e d’accentrarsi, di uscire dall’isolamento e di raggiungere i centri storici, culturali, linguistici.

Primo fu Verga, nella letteratura siciliana moderna, a compiere il viaggio, a lasciare Catania e ad approdare a Firenze, centro di quella cultura rinascimentale che aveva illuminato l’Europa, del neodantismo romantico, di quella lingua attica restaurata da Manzoni dopo la sua esplosione, la sua frantumazione in senso barocco e in senso dialettale, lingua a cui ogni scrittore, da ogni periferia, cercava d’approssimarsi; a Firenze, in quel 1869, capitale del nuovo Regno d’Italia.

Tracce di una certa qual fiorentinizzazione dello scrittore si trovano subito in ambientazioni, in episodi di Eva, Tigre reale, Eros, e maldestre, ingenue assunzioni linguistiche si riscontrano nella Storia di una capinera. Ma non era, Verga, un aspirante al perfezionismo linguistico; a lui il toscano poteva servire per liberarsi da incertezze lessicali e sintattiche, da retaggi dialettali, a farsi padrone di una lingua media, di servizio, per le sue narrazioni. E del resto Luigi Russo afferma che Verga non si mostrò appassionato per la Firenze ben parlante, che in lui era “scarso accademismo linguaiolo e letterario”. “Firenze” dice “fu per lui soltanto un’altra atmosfera, l’orizzonte più largo, qualche cosa di diffuso di cui bisognasse respirare l’aria.”

Ma di diffuso, in Firenze, c’era l’aulicità del suo passato, una certa ritualità mondana e la struttura burocratico-ministeriale che da poco vi si era installata. C’era una società letteraria, i cui componenti più rappresentativi erano Dall’Ongaro, Prati, Aleardi. Altrove, a Milano, era il movimento, la modernità, l’impresa. A Milano erano le case editrici. Qui, da Lampugnani, nel ’71, Verga aveva pubblicato la Storia di una capinera, romanzo alla moda di derivazione diderotiana e manzoniana, che gli aveva dato successo, fama.

Da Milano Verga tornerà in Sicilia, vi tornerà prima con la memoria, con le “memorie pure della sua infanzia”, operando la famosa svolta stilistica, convertendosi a una nuova etica. In Sicilia, a Catania, tornerà realmente nel 1893, ferito per l’incomprensione a cui era andata incontro la sua opera, chiudendosi in un orgoglioso silenzio.

“Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto…” Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia di Vittorini, il romanzo pubblicato nel 1941, che risuonava, in una livida aria, come un rintocco di campana, lento e triste, che dava voce, nell’atrocità della guerra in corso, nel ricordo della guerra di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno.

Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, della madre e delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo dei padri, della ideologia. Ed è insieme, come quello di Ulisse, un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli Inferi, nel regno delle ombre, dei morti, per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, traversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, dopo aver assunto il cibo iniziatico, pane e pecorino, approda in una Sicilia invernale, in un’isola di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma anche di fieri e indomiti “gran lombardi”, di uomini che parlano di “nuovi doveri”, di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblìo del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità, del risentimento e della libertà, è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio nella zona incantata e regressiva dell’infanzia, che lo lascia tornare ai doveri di uomo, al lavoro di linotipista, di compositore di parole.

Vittorini inaugura, con Conversazione, per la prima volta nella letteratura siciliana – letteratura d’interni o di piazza, di stasi – oltre Verga o contro il mondo circolare, chiuso verghiano, oltre Pirandello, il viaggio di ritorno, viaggio non solo memoriale, ma reale. E attinge lo schema, l’istanza, alla grande letteratura, a Omero, Virgilio, ma anche a Cervantes, a Gogol’, Fielding, e soprattutto alla letteratura americana, letteratura di grandi spazi e di quasi incessante movimento. Di questa letteratura ancora, di Hemingway, Steinbeck, Caldwell, facendolo germogliare su ceppo ermetico, riprende lo stile, se non la stilizzazione. Schema di viaggio, movimento, che è esigenza ideologica, necessità etica.

Speculare a Conversazione, di opposto senso e di opposta conclusione, di diverso stile, linguaggio, lontano da ogni mito, simbolo, da ogni utopia, è, dello stesso anno 1941, un altro viaggio di ritorno, quello di Don Giovanni in Sicilia di Brancati.

Già fascista, Brancati entra in crisi ideologica ed esistenziale. A minare le sue certezze c’era già stato il dialogo a distanza con l’esule Borgese. Lasciata Roma, la capitale del potere, torna nel ’37 in Sicilia e lì, nella lucida e impietosa osservazione della piccola borghesia, attraverso la rappresentazione comica, corrosiva di questa classe priva di sicurezza e di cultura, attraverso i suoi tic, le sue follie, la meschinità dei suoi padri e il potere devastante delle madri, le infanzie morbose e ammorbate dei suoi figli, le loro sensuali pigrizie corporali e intellettuali, Brancati restituisce il ritratto di una classe, siciliana e no, italiana e no, che aveva dato potere al fascismo e nel fascismo aveva trovato identità.

Dopo aver pubblicato nel ’38 Gli anni perduti e Sogno di un valzer, pubblica dunque nel ’41 Don Giovanni in Sicilia. Con questo romanzo lo scrittore va al centro della sua polemica, al cuore del problema: al dongiovannismo, al gallismo, al vagheggiamento vale a dire verbale e fantastico, da parte di uomini bloccati in una incancrenita adolescenza, della donna. E non poteva scegliere, Brancati, come teatro della sua vicenda, una città più adeguata di Catania. Una città sotto il vulcano, continuamente minacciata e invasa dalla natura, vitalistica e sensuale, nera e abbagliante. Giovanni Percolla, il protagonista, conduce qui, fino ai quarant’anni, tutelata da una plurima madre rappresentata da tre sorelle nubili, circondata da amici a lui somiglianti, un’esistenza bovina, pigra, torpida, una vita di vischiose abitudini, di sonni, sogni, allucinazioni. In cui è possibile ogni ottundimento, ogni regressione. Sposatosi con la “continentale” Ninetta e trasferitosi a Milano, sembra diventato un altro uomo, attivo, volitivo, raziocinante. Ma tornato in Sicilia, tornato alle sorelle, alle loro malie, subito sprofonda nel letto suo “scivoloso e caldo” di scapolo, rientra nell’utero della terribile madre. “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…” dice Brancati. In quel letto l’anima infantile di Giovanni Percolla rimarrà per sempre isolata, esiliata, come quella del professor La Ciura, del racconto Lighea di Lampedusa, dopo la visione o l’allucinazione della sirena.

Un nóstos classico, un omerico ritorno ad Itaca dell’eroe dalla guerra è il vasto e complesso Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Ma è anche, soprattutto, un viaggio, un ritorno nella lingua, nei linguaggi, come nell’Ulisse di Joyce.

Anticipato, con una parte, che aveva il titolo di I giorni della fera, nel 1960, sulla rivista “Il menabò”, diretta da Vittorini e Calvino, il romanzo veniva pubblicato quindici anni dopo con il nuovo titolo. Ma già Vittorini, in appendice all’anticipazione, pur ammettendo l’alta valenza letteraria del lavoro in corso di D’Arrigo, mette le mani avanti e afferma: “Debbo avvertire i lettori ch’io non ho nessuna simpatia né pazienza per i dialetti meridionali […], i quali sono tutti legati a una civiltà di base contadina, e tutti impregnati di una morale tra contadina e mercantile, tutti portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica”. E conclude: “I dialetti che sarebbe auspicabile di veder entrare nelle elaborazioni linguistiche della letteratura dei giovani sono, a mio giudizio, i padani, i settentrionali, che già risentono della civiltà industriale…”. È evidente, in queste affermazioni, tutto l’antiverghismo di Vittorini, è evidente la sua concezione progressiva della storia – la concezione di Cattaneo, di Michele Amari – la sua fede marxiana e gramsciana, la sua scelta operaistica, la sua utopia industriale. Industria a misura d’uomo, sull’esperienza olivettiana e sulla tenace volontà direttiva, sulla profonda convinzione democratica di un dirigente di stato come Mattei, sulla recente scoperta del petrolio in Sicilia, a Gela, che avrebbero ancora portato lo scrittore siracusano-lombardo a compiere un secondo viaggio in Sicilia con Le città del mondo, pubblicato postumo. Alla luce oggi dei vari crolli, di cui siamo stati partecipi e testimoni, di crolli ideologici, industriali, linguistici, sarebbe lungo qui analizzare le concezioni politiche e culturali di Vittorini, le sue generose e poetiche indicazioni per una risoluzione degli atavici “mali” meridionali.

Di Horcynus Orca dicevamo, di D’Arrigo. Egli, certo, riprende e amplifica i moduli lirici vittoriniani, affolla il testo di corposi simboli, ma il suo linguaggio va verso altre direzioni, va verso quella sperimentazione che, partendo da Verga, arrivava in quegli anni, in estensione, fino a Gadda, in digressione, fino a Pasolini. Ma la ricerca di D’Arrigo è importante nel suo movimento digressivo, nella sua dimensione verticale. Mette in campo davvero una grande Orca linguistica, D’Arrigo. Usando due registri, dialogico e narrativo, partendo da livelli comunicativi, normativi, con scarti progressivi sprofonda nell’espressionistico, in un vortice di dialettalismo, di sicilianismo topologico, con l’infinita iterazione e deformazione lessicale – parole composte, diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi e spregiativi – con indugi, divagazioni, accumuli, innumerevoli approssimazioni che quasi mai si ricongiungono col referente. Si ha l’impressione che D’Arrigo abbia trasformato il cerchio salmodiante dei proverbi verghiani in un vortice, in un gorgo linguistico, simile al gorgo di Cariddi. E ancora, che il suo, oltre quello liminare di Aci Trezza, riproduca ed esalti il linguaggio di una realtà mobile, equorea qual è Scill’e Cariddi, in cui lo iato, per l’incessante furia distruttiva della natura, si è fatto più vasto, più profondo: lo iato fra mito e storia, natura e cultura, individuo e società. Riproduce ed esalta insomma, D’Arrigo, il linguaggio della paura, che è proprio dei pescatori, degli abitanti dello Stretto.

Siamo qui ancora, in questo scrittore di assoluta vocazione e dedizione letteraria, nella sfiducia nei confronti della storia, siamo nel pessimismo, nel fatalismo verghiano. In Horcynus sembra che ’Ndria Cambria sia il giovane Luca Malavoglia che, sopravvissuto alla battaglia di Lissa, ritorna al paese e non trova più la casa del nespolo, la Provvidenza, trova Aci Trezza sconvolta, i familiari, i compaesani scomparsi o perduti, degradati. Siamo qui ancora nella siciliana non speranza, nell’assenza di una civile società in cui l’individuo possa riconoscersi, con la quale stabilire il linguaggio logico della comunicazione.

Sullo schema del ritorno si svolge anche la vicenda del mio libro L’olivo e l’olivastro, in cui l’archetipo omerico del nóstos non è messo en abîme, ma esplicitato, fin nel titolo. È riletto, ripercorso anzi succintamente, il mito del ritorno dell’eroe greco nel tentativo di scoprirvi ulteriori significati, per dare significato al mio viaggio, alla mia narrazione. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definita Walter Benjamin in Angelus Novus. Dice in sintesi, il critico, che la narrazione è antecedente al romanzo, che essa è affidata più all’oralità che alla scrittura, che è il resoconto di un’esperienza, la relazione di un viaggio. “Chi viaggia, ha molto da raccontare” dice. “E il narratore è sempre colui che viene da lontano. C’è sempre dunque, nella narrazione, una lontananza di spazio e di tempo.” E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità.

L’olivo e l’olivastro è il naturale e necessario esito di una ricerca letteraria. È uno spostare il romanzo, che presuppone, nella sua struttura, nelle scansioni riflessive, comunicative l’esistenza di una società, verso la narrazione, verso il poema narrativo.

Nei libri che fin qui abbiamo esaminato, da Conversazione in Sicilia a Horcynus Orca, non è mai presupposta l’esistenza di una società; nessuno di quei libri può dirsi dunque romanzo, ma dirsi invece narrazione, poema narrativo. In Sicilia, questo, priva da sempre di una società, in quest’Itaca desiderata, raggiunta e rifiutata. In altri luoghi di questo Paese era presupposta la società, in Toscana, in Piemonte, in Lombardia. Ma oggi, in questa nostra civiltà di massa, in questo mondo mediatico, esiste ancora la possibilità di scrivere il romanzo? Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la situazione sociale, non si possano che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo.

“La racine de l’Odyssée c’est un olivier” dice Paul Claudel.

Sappiamo che dopo l’uccisione dei Proci, dopo il rito di purificazione con lo zolfo dei luoghi della strage, il riconoscimento e il ricongiungimento di Ulisse e di Penelope avviene dopo la rivelazione del segreto: il loro talamo era costruito su un tronco di ulivo.

Nel viaggio di ritorno degli scrittori siciliani manca questa conclusione, manca questo alto simbolo della civiltà.

Anche nel mio ritorno. E l’assenza più clamorosa dell’ulivo si incontra a Gela, in questo luogo di mitizzazione e di speranza del vittoriniano Le città del mondo.
Anche nel mio ritorno. E l’assenza più clamorosa dell’ulivo si incontra a Gela, in questo luogo di mitizzazione e di speranza del vittoriniano Le città del mondo.

Foto di copertina di Giuseppe Leone

Vincenzo Consolo
Di qua dal faro. Mondadori Editore – 1999

La donna nella letteratura siciliana

La donna nella letteratura siciliana

Di vinte, prima ancora che di vinti è il mondo verghiano. Già dalla novella epifanica, dalla soglia che segna il nuovo corso, la “conversione” dell’autore, da quella Nedda (in cui dalla cornice del camino di una dimora milanese, dalla sua fiamma, si sprofonda nel mondo memoriale, si passa la fiamma gigantesca del focolare della fattoria del Pino, sulle falde dell’Etna) ci viene incontro una donna , Nedda, appunto, la varannisa, la “povera figliola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana”. E non è caso la scelta di questo primo personaggio “verghiano”. Se lo scrittore –è sedimentato nella sua memoria – che ruolo ultimo è della donna in quel mondo chiuso, eternamente immobile, fuori da ogni riscatto storico, inferiore a quello d’ogni bracciante o carrettiere, pastore o cavamonte, castaldo o proprietario. La donna, prima dell’uomo, è vittima d’ogni beffa del destino, d’ogni accadimento del fato. Quando poi essa si ribella, vuole uscire da quel cerchio di condanna, quando rompe con la legge dei costumi, le regole della società, perché spinta dalla forza dell’istinto o da quella del sentimento, come accade a La Lupa o a L’amante di Gramigna, è relegata ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, paga il suo gesto con la morte o con l’esilio. Il naufragio della Provvidenza, il fallimento della famiglia dei pescatori di Acitrezza investe prima di tutti le donne, che scontano la catastrofe con la follia, la ritrazione dalla vita o il disonore. C’è ne I Malavoglia una galleria di personaggi femminili che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica, sono il coro d’una tragedia senza catarsi. Prima, e più straziante, è la Locca, la pazza che muta e solitaria va sempre cercando il figlio morto nel naufragio della barca. La Longa, Maruzza quindi, che la scomparsa del marito Bastianazzu, del figlio Alessi in guerra, porta alla malattia e alla morte. E Mena, la Sant’Agata, che le disgrazie familiari danno rinunziare all’amore, al matrimonio con Alfio Mosca (con un gesto rituale – contro rito di ritrazione, di voto alla necessaria verginità – rimette alla treccia la spadina d’argento che l’era stata tolta a suo tempo per poterle spartire i capelli sulla fronte). Lia infine, la sorella,che con la fuga in città, dove l’attende un destino di prostituzione, segnerà il punto più basso della decadenza, del degrado.
In Mastro don Gesualdo, nello spostamento dell’azione nell’entroterra, in classi sociali più alte, in un paese, Vizzini, più strutturato, più “storico” di Acitrezza, con palazzi, chiese,conventi, con vaste terre intorno, con tante “chiuse”;
le donne, più degli uomini, vivono come naufraghe su una zattera dove può avvenire ogni crudeltà, ogni ferocia. Ferocia che non viene più dalla natura, ma dagli uomini, dalla loro religione della “roba”. E in roba sono qui trasformate le donne, in oggetti di compravendita, di scambio, di promozione sociale. A loro è negato amore, pietà, ruolo sociale. Bianca Trao e la figlia Isabella sono accomunate in un uguale destino: un amore infelice le ha costrette a un matrimonio senza amore, a divenire oggetti di scambio, di compravendita. Ma la creatura più toccante è la primitiva Diodata, docile e fedele come un cane, oggetto sessuale di don Gesualdo, schernita e derisa, che viene venduta a Nanni l’Orbo. Un mondo senza luce, senza speranza, quello femminile di Verga, una notte di neri scialli dove non appare una stella, una leopardiana luna di conforto.
Pirandello rompe il fatale cerchio verghiano, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma con l’acido dell’umorismo, riporta il mondo a una progressione lineare attraverso la parola, la dialettica, il sofisma, l’infinito processo verbale. Ma nel dibattito quella linea si frantuma, in essa si aprono voragini, la dura pietra vulcanica si sfalda, si polverizza, la realtà perde consistenza, l’identità dei personaggi precipita nell’indeterminatezza, nello smarrimento. Nell’universo pirandelliano, nell’interno borghese, nella “stanza della tortura”, come la chiama Macchia, è ancora la donna a subire perdita, cancellazione, ad essere di volta in volta quell’apparenza, quella forma in cui la volontà maschile tenta di chiuderla. Ed essa parla, irride, accusa, entra nel gioco dialettico, ma non può mai sottrarsi al suo ruolo di specchio su cui si riflette la crisi, che rimanda i mutevoli fantasmi che gli uomini di volta in volta gli pongono davanti. Nelle novelle, nel teatro, nei romanzi è una teoria infinita di donne negate, frantumate, straziate, da Marta Ajala de L’esclusa, a L’amica delle mogli, alla figliastra dei Sei personaggi, alla Sconosciuta di Come tu mi vuoi, alla Velata di Così è (se vi pare). L’apparizione di quest’ultima nel dramma è il simbolo più alto, e più poetico, della drammaturgia pirandelliana: la Velata è meno di una maschera, d’un fantasma, è la negazione, l’assoluta assenza, il vuoto invaso della follia, dell’allucinazione.
La donna, in Pirandello, è il messaggero, l’angelo che nella crisi della civiltà occidentale annuncia l’imminente disastro, la catastrofe incombente:il buio della ragione, l’abisso della distruzione e della morte. Così è anche in Kafka, Musil, Joys e, in tutti i grandi profeti del nostro secolo.
Lontano da Pirandello è Vittorini, ma vicino a Verga, e per opposizione. Egli rifiuta l’antistoricismo verghiano, il fatalismo, la rassegnazione. Rifiuta il ruolo subalterno e passivo della donna; fa diventare anzi, la donna, protagonista, portatrice di ogni libertà, di ogni volontà. In Conversione in Sicilia smantella il mito della sacralità della madre. “Benedetta vacca” dice Silvestro alla madre Concezione. Ed è la frase, per la prima volta nella narrativa siciliana, un punto di rottura, una svolta nel senso di una democrazia desiderata. Nei romanzi e nei racconti vittoriniani c’è il capovolgimento del ruolo femminile, ma c’è insieme lo spostamento di una realtà effettuata verso il territorio dell’utopia.
Antivittoriniano non intenzionale è Brancati. Nel suo mondo comico, grottesco, nella lucida critica della piccola borghesia, la donna riprende ancora il ruolo subalterno, ma con le sue rivalse di inganni, di malizie, è strumento di regressione maschile, di vagheggiamento degli ottusi “galli” della provincia italica. Don Giovani in Sicilia viene pubblicato nel ’41, lo stesso anno del vittoriniano Conversazione. Le soluzioni dei due romanzi vanno però in senso diametralmente opposto. Don Giovanni Percolla, con moglie ed esperienza milanesi, tornato a Catania, nella casa materna, immediatamente regredisce, sprofonda nel letto suo scivoloso e caldo dell’adolescenza, rientra nell’utero della terribile madre, s’immerge nel sonno, nell’oblio, nella perdita di sé: “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…”
In Lampedusa le donne, quelle collocate nel mondo dorato e tarlato della nobiltà, vivono nell’incoscienza d’essere sull’orlo di un tramonto, di una fine, e ripetono come scimmiette, gesti e detti di un trito rituale. L’incoscienza le condannerà ancora una volta alla rinunzia della vita, alla cristallizzazione del tempo, alla fissazione maniacale, come le signorine Salina. La donna nuova è Angelica, dalle origini maleodoranti e innominabili, fiore lussureggiante di una borghesia in ascesa, avida e mafiosa, bellissima e sensuale, porta però nei “denti di lupatta” i segni del suo futuro di ferocia e di cinismo.
Logico, dialettico,pirandelliano è Leonardo Sciascia. Il suo processo verbale, il suo serrato spirito inquisitorio non si appunta su una classe, una cultura, non investe l’esistenza, non si dispiega nel chiuso di una stanza, ma si svolge fuori, nella piazza, nel contesto storico, civile, politico. La sua radicale polemica è contro i trasgressori, i violatori di uno statuto, delle regole del convivere liberale e democratico. La polemica è quindi contro la corruzione del potere politico, contro soprattutto il connubio tra potere e mafia che fatalmente genera la più grave delle violazioni delle regole: il delitto, la soppressione vale a dire del primo e più sacro dei bene, della vita umana. Tutti i polizieschi di Sciascia si svolgono su questi principi illuministici. Le donne in quei racconti entrano nei ruoli tradizionali di una cultura borghese e mafiosa. E sono di volta in volta vittime di quel sistema, complici o spettatrici conniventi. Non c’è, e non può esserci, nei racconti sciasciani, la donna di nuova cultura, quella a cui, al di là dell’utopia vittoriniana, nella storia, i principi socialisti avevano dato consapevolezza di classe, che avevano sottratto all’ipoteca mafiosa, la donna che, accanto al marito, al figlio bracciante, zolfataro, sindacalista, aveva lottato contro il potere corrotto e sfruttatore. Ma questa storia – della fine dell’800, del primo e del secondo Dopoguerra – raramente è entrata nella narrativa siciliana.

Vincenzo Consolo

Milano, 1 luglio 1996
pubblicato sulla rivista L’indice di Torino

Foto Giuseppe Leone

Consolo, disperazione in Sicilia

L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.

E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato.  Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso la dialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 3 settembre 1994
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Consolo (Mondadori, pagine 149,)
Gibellina: un sudario di calce
di Vincenzo Consolo

Da «L’olivo e l’olivastro»

Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza, nella memoria dissolta, nell’estraneità, nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro di marmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfalto il fiore stridente, la stella texana, la porta per la fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghe strade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge, vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliati dall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardini di pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli, cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillini alfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata del frammento, l’arco il portale il timpano infranto. L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre, fra le astratte sculture imponenti, le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne (…). Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori da una casa del nuovo paese, cammini sulla strada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo. «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré… », rispondi. «Che dico?… Mi chiamo Nicola, sono nato a Gibellina, ho lavorato nelle cave di Meirengen. vicino Basilea. Ho là moglie, figli che non vogliono più tornare in questo paese». «Ti riconosco, Nicola, e son passati tanti anni, sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione di Milano…». «Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una faccia diversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamo per quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce, di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, ai ruderi spianati e coperti da un’immensa colata di cemento, da una coltre bianca, da un sudario di calce. Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello, la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola.
L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggio la violenza, la corruzione delle coscienze: «La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»


Vincenzo Consolo Catarsi



Ermetici suoni, versi bestiali o ululare
del vento fra picchi, gole o accordi
 d’arpa eolia, cembalo, siringa o il silenzio
 come il tuo di pietra, creatura mia,
solo questo è degno, la tua cruda assenza,
 la tua afasia, la tua divina inerzia.
Là, per il cammino impervio e fatale,
 per il sentiero opposto, purgato d’ogni colpa,
 pena, tenterò di sfiorare il tuo mistero.
lo che sarò erba, fronda, uccello…
Io che sarò cenere.
 Il silenzio o solo la parola vergine
del folle o del poeta.
“ tôn dè méson théso kat’aghénneta stoicheia
il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno,
 e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono:
 gli uomini e le fiere e i pesci e i virgulti;
 perché quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai
per causa di uno solo
d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto.
 allá, theoi…
 ek d’osion stomáton kataren och eúsate peghén”
Dico queste parole d’una lingua morta,
di corpo incenerito, priva delle scorie
 putride dello scambio, dell’utile
come la lingua alta, irraggiungibile,
 come la lingua altra, oscura,
 della Pizia o la Sibilla
che dall’antro libera al vento mugghii, foglie,
come la formula introversa, transustanziante,
dell’unto attore, del sacrificante.
Voglio opporre così, da questo treppiede
del vulcano, in quest’ultimo momento,
all’ermetismo osceno e violento,
all’afasia del potere immondo,
 il sacro ermetismo d’una lingua scritta.
 Come s’oppose a me, vile Agamennone,
 il fiore più bello nato alla mia casa,
 la dolce Ifigenia ch’io, snaturato!,
 volli sacrificare alla lotta, all’ intrigo,
alla vittoria mia per il comando.
S’oppose, col suo volo d’angelo
 a capofitto, col terribile silenzio,
la ritrazione in un’oscura lontananza,
con l’apparente morte, la paraplegia inumana.
Lo voglio dire qua,
a parole chiare e nette,
 lo voglio dire alle pietre e al fuoco,
al vento e a questa nuova alba nel cielo, all’aurora
 che urge appresso: mia figlia Delia
così di me s’è giustamente vendicata.
 Vendicata? O non piuttosto ha voluto lasciare,
 con il suo precipitare nell’assenza,
 vuoto alla mia espansiva tracotanza,
 alla mia cieca, corposa violenza?
Perché, o noi crudeli, è così:
 chi muore per suo volere o d’altri
 è la sacrificale vittima, l’agnello bianco
 sopra la dura pietra, sotto la lama
 della nostra sopravvivenza.
 Così ogni tempo, ogni società ha ucciso
 il suo poeta: Vladimir tra i ghiacci e il fuoco
 d’un colpo di pistola; Federico
 tra gli ulivi e i cardi (splendeva,
 contro il nero dei fucili, dei colbacchi
 la sua camicia bianca, splendeva
 nella notte lo sciame nella lampada di lucciole);
 Pier Paolo tra l’immondizia e il fango
 d’un Getsemani, d’un desolato campo.
 Così le creature che in esilio vanno sulla luna,
che hanno rotto ogni legame
 col nostro linguaggio marcio e insensato.
Aaaaaah! Aaaaaaah!
 Pesano le nostre colpe sulle spalle
 come una plumbea Terra!
 […]
 Nell’età ferita e luminosa,
 fremente di lievito e di zagara,
 venni la prima volta a questo monte.
 Venni con la brigata d’allegria
 e di chiasso dei compagni,
 con il sorriso dolce di Pantea.
 Scendeva per la vallata
 il fiume rovinoso della lava,
 solenne piena di panico e d’incanto
 (torceva in un lamento, inceneriva
 la betulla, il cerro, il faggio,
 rovinava il muro a secco,
 la cisterna, la pergola,
 la casa tenera di rosa,
 giallo sopra quel mare nero.
 Torceva pel terrore il collo
e scalpitava il mulo,
 il cane si perdeva nei guaiti
 legato sotto il carro dei fuggenti).
Mi feci appresso a consolarla,
smarrita e tremula com’era
avanti allo spettacolo tremendo.
E avanti al fuoco, avvampando,
dissi del mio marasma, del mio fuoco.
Lei, dolce, si volse a consolarmi.
 Tutta una vita, Pantea amorosa,
 s’assume in un unico momento.
 La mia, in quell’antico,
 dolcissimo e solenne, di verità assoluta
 dentro la verità della natura
 Raccolsi e le offrii un verde
 tralcio di ginestra
 ch’ella conservò come segno
 e pegno d’un sacro giuramento.
 Pose quel ramo poi nella scatola
 di legno, bianco come avorio,
 scolpito da un pastore d’Eraclea,
che regalò, viatico e amuleto,
 a nostra figlia, a Delia,
nel giorno primo che diventò fanciulla
E ancora sul vulcano, davanti a te,
 Demetra sigillata dentro il manto,
madre e donna offesa,
incenerito e privo di poesia,
 sono questa volta in cerca
 d’un castigo, d’una quiete.
Dell’ultima verità, e indicibile.
 […]
 Alla luce viola dell’estremo raggio,
 alla luce spenta, voglio dire addio
 alle arpe senza suono, alle creature senza accento:
al fiore straziato, più che morto,
 al nardo, al gelsomino delicato
 reciso dalla mia, dalla furia del mondo;
alla madre tutta amore, alla madre tutta dolore.
 Io pago la mia follia, la mia fuga
 da voi, dal sacro accordo, dall’armonia.
 Quel tralcio di ginestra, fiore del deserto,
 che il deserto consola della vita,
 chiamatelo asfodelo, fiore della morte,
chiamatelo loto, fiore dell’oblio.
Dimenticatemi. Dimenticate l’Empedocle
feroce, l’Empedocle sacrilego.
 L’odio di me, di questo tempo odioso
 mi separa da voi, da voi già separate.
 Io vado, Pantea, vado figlia mia,
nella notte d’assenza come la tua,
vado dove finisce questo monte,
dove finisce questa terra,
vado dove comincia il fuoco
ch’ogni male assolve, purifica ogni colpa.
E questo il solo, il degno modo,
 mie perse figlie, di trovarvi.
 Di ritornare nel giardino vago,
 nella casa vostra di pietra e onore,
 alla serena mensa degli affetti.
 Addio.

Questi brani sono tratti dall’opera teatrale Catarsi, pubblicata dall’editore Sanfilippo di Catania e rappresentata nel 1989. La voce è quella di Empedocle.


foto Giovanni Giovannetti


Elogio della poesia
Intervista con Vincenzo Consolo


Lei, in un’altra occasione, mi disse di provare una sorta di soggezione verso la poesia. Eppure la sua scrittura narrativa sembra costantemente alimentarsene.

Difatti è così. Io intendevo soggezione nel senso di scrivere in versi. Anzi, io leggo più poesia che prosa. Una volta la distinzione tra poesia e prosa non esisteva. I poemi narrativi, ad esempio, erano romanzo e poesia insieme. Il genere romanzo è nato con la nascita della borghesia, con la laicizzazione del mondo. Il romanzo è, intendiamoci, un grande genere letterario. Basti pensare ai romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Però, oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tino di prosa di una volta. Deve farsi più guardingo, deve cercare di reagire. Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto. Penso che per salvare il romanzo, questo genere lemerario che sta morendo, lo scrittore debba nutrirsi di poesia. I poeti sono la nostra salvezza, la nostra risorsa. La scrittura è sempre un fatto di linguaggio e nessuno più dei poeti ce ne indica la funzione.

La sua è una scrittura precisa, prosciugata… Si tratta di una sorta di concentrazione che è tipica della poesia.

La concentrazione viene  dal ritmo che io impongo, perché concepisco più di nella forma laica, distesa. Credo che sia giusto risacralizzare la scrittura, eliminando quel laicismo che oggi corrisponde esattamente a impoverimento e banalità. Detto altrimenti: c’è bisogno di dare alla parola una dignità più alta. Questa ce la può dare soltanto la contaminazione con la poesia.

 Lei ha scritto Lunaria, un’opera dedicata a Lucio Piccolo, ai poeti lunari, ai poeti. Qui c’è l’ombra della poesia..

 Ha detto bene: l’ombra della poesia… E, in qualche caso, c’è la forma se non la sostanza poetica. Il libretto mi pare significativo di questa crisi che sentivo della narrativa. Allora l’ho concepito in forma poetica e dialogica, approdando al teatro poetico. Il libro vuole essere polemico. La caduta della luna rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo. C’è il tentativo di far rinascere questa luna caduta in luoghi che bisogna scovare. La contrada senza nome, l’ho chiamata. Un luogo insondato, sconosciuto.

Qual è il rischio maggiore che corre la narrativa?

È il rischio della mercificazione. Avverto, in questi nostri anni, con la morte di una generazione di narra-tori, un mutamento grave: si vuol fare apparire come letteratura qualcosa che letteratura non è. Che, al massimo, somiglia alla letteratura. È un segno che lascia presagire un futuro terribile per la narrativa. Prima esisteva il livello commerciale, di consumo, della narrativa e quello letterario. Oggi si cerca di operare una mistificazione, facendo convergere i due livelli. La poesia, in questo senso, non è mercificabile, perché è irriducibile Si diceva prima che Lunaria è dedicata a Lucio Piccolo. C’è un capitolo, bellissimo, de Le pietre di Pantalica, in cui si ricorda, in termini indimenticabili, questo poeta.

Lei è d’accordo se dico che Piccolo è il poeta più importante che la Sicilia ci abbia dato in questo secolo?

Sono d’accordo. A rileggere insieme, ad esempio, Piccolo e Salvatore Quasimodo, credo che il vantaggio, se così possiamo dire, vada tutto per il primo. Piccolo ha avuto un solo torto: ha scritto poco. È morto relativamente giovane, ha esordito tardi, è stato molto critico verso le cose che scriveva. Se ne avesse avuto il tempo, egli ci avrebbe dato cose ancor più straordinarie. Per me, quest’uomo è stato importante. Mi ha insegnato a capire che cos’è la letteratura, la poesia. lo ho sempre ricordato che sono stati impor-tanti, mentre stavo in Sicilia, in questo luogo che sembra un deserto (ma dove, come in ogni deserto, ci sono le oasi), Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi seduceva nei confronti della poesia, Sciascia nei confronti della prosa e della ragione. Io ho sempre cercato di oscillare tra questi due poli: quello orientale, barocco, e quello occidentale, illuminista.

 Come mai Piccolo fa così fatica a essere accettato e studiato? E un poeta poco letto, la sua opera non è stata più ristampata da molti anni.

 È vero. C’è stata, dal momento della sua scomparsa, una specie di cancellazione di questo grande poeta. Lo dico a disdoro della critica italiana. Quando Montale scoprì Piccolo e se ne occupò, da parte di molti si credette a una beffa del futuro Nobel a danno degli altri poeti. Poi, quando lo lessero e si accorsero che si trattava di un poeta vero e grande, non gli perdonarono, lui periferico (Piccolo abitava in una frazione di un minuscolo centro siciliano, il massimo della solitudine e dell’isolamento), di essere stato scelto da Montale. Anche critici eminenti e rispettabili, penso a Gianfranco Contini, fecero di tutto per cancellarlo. La società letteraria italiana (che io ormai preferisco chiamare azienda) penalizza chi considera periferico.

L’immagine vincente, allora, resta ancora quella di Quasimodo?

Certo. Quasimodo era più facile, più ‘esotico, nel senso che dava al mondo un’immagine della Sicilia che il mondo già credeva di conoscere. Ad esempio, quella grecità di maniera che gli svedesi amavano e concepivano. Che è del tutto falsa, finta. La grecità in Sicilia non esisteva più neanche ai tempi di Quasimodo. Esisteva, piuttosto, la violenza dei baroni. Più che di grecità, allora, bisognerebbe parlare di infamie storiche di tipo spagnolesco. I fanciulli lasciamoli ai nobili tedeschi. Detto questo, naturalmente, bisogna aggiungere che Ouasimodo ha scritto alcune belle poesie.

 Per restare in un ambito siciliano, mi piacerebbe conoscere il suo parere su Bartolo Cattafi.

Non ho amato molto Cattafi. Aveva qualcosa di turgido, di urgente, di incontrollato, di non castigato che mi disturbava. Mi disturbava anche la sua concezione della, vita, il nichilismo, il superomismo. Come persona era piacevolissima, benché ricalcasse troppo certi schemi da signore di campagna. Era una persona gentile.

Quali sono i poeti che ha amato e che ama di più?

Dante, innanzitutto, il Dante più petroso, più linguistico. Leopardi, la sua parola incandescente, nuda, terribile. Leopardi si è scarnificato fino in fondo nella propria scrittura. Poi amo Pascoli perché ci ha fatto scoprire la grandezza della poesia umile e quotidiana. Non era mai generico nel nominare l’oggetto, l’animale, la pianta. È stato un grande sperimentatore, sapientissimo. E poi Pasolini, Montale, Amelia Rosselli, Zanzotto. Proprio nel suo petel, nei suoi balbettii, si posa la splendida oscurità della poesia. E non voglio dimenticare Giorgio Caproni e Mario Luzi.

 Che tipo di rapporto pensa di aver avuto con la neoavanguardia?

lo andai a Palermo a seguire il celebre incontro del Gruppo 63. Per curiosità, innanzitutto. Allora, abitavo ancora in Sicilia. Andai, dunque, ma me ne ritrassi immediatamente. Quella sorta di azzeramento che loro tendevano a operare mi ripugnava un poco. I pensavo di praticare la letteratura dentro la tradizione letteraria. Amavo la sperimentazione di Gadda e di Pasolini. Per me, poi, il più grande sperimentatore del romanzo italiano è stato Giovanni Verga. Spesso le parole che ci giungono sono come svuotate, prive di senso, consumate. Come bisogna reagire? Noi riceviamo materiali che molto spesso subiamo passivamente. L’atteggiamento passivo nei confronti delle parole significa anche passività morale. Non ci chiediamo mai da dove ci vengano le parole e perché ci giungano in quel modo e in quel contesto. Il compito dello scrittore è di aprire queste parole e di vedere che cosa c’è dentro e quali sono le incrostazioni esterne. Gadda le faceva esplodere, ci metteva dentro la dinamite. La poesia, in questo senso, lo ripeto, ci potrà essere di grande aiuto.

a cura di Enzo Di Mauro

 Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933. Ha pubblicato: La ferita dell’aprile (Mondadori 1963 – Einaudi 1977), Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976 Mondadori 1987), Lunaria (Einaudi 1985), Retablo (Sellerio 1987), Le pietre di Pantalica (Mondadori 1988).

Foto Giovanni Giovannetti


Paesaggi di luce

di Vincenzo Consolo

Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia.
 Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto…
 Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello).
E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.
E se dallo Stretto andiamo  oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi …  Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile.
E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo?
 Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega?
Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?

 Quali nei pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vidi sopra migliaia di lucerne… (1)

 E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile.
Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
  non si profonde che i fondi sien persi,
  tornan de’ nostri visi le postille,
debili sì, che perla in bianca fronte… (2)


(1) Dante,Paradiso, canto XXIII
(2) Dante, Paradiso, canto


Confini – Visività e configurazione nel reale.
1990 Fabbri Editore

Isole Eolie

La trezza

Vincenzo Consolo

Aci Trezza. La Trezza, come la chiama Verga. ‘A Trizza, in siciliano: la treccia. L’intreccio. Ma nessun libro della letteratura italiana moderna è così privo d’intreccio (vi è in esso una iterazione ossessionante di avvenimenti dolorosi, di disgrazie, come per spietata beffa del caso o per persecutoria maledizione divina), nessuna narrazione è meno romanzesca de I Malavoglia. Un poema narrativo è stato detto, una «poesia di gesta epica popolana» lo dice Bacchelli. Un poema chiuso, circolare, da dare il senso, nelle formule lessicali, nelle forme sintattiche che si ripetono, nel timbro monocorde, nel tono salmodiante del linguaggio, nei proverbi che hanno la gravità e l’immutabilità delle sentenze giuridiche o dei versetti delle sacre scritture («Mektoub!» dicono i musulmani, «E scritto!»), da dare il senso della mancanza di movimento, dell’assenza di sviluppo imprevedibile, da suggerire l’immagine della fissità: della predestinazione, del fato, della sorte umana irredimibile. C’è, da parte di Verga, uomo dell’interno, della campagna vasta e desolata, ma comprensibile, dominabile, nella scansione delle chiuse, con il lavoro, con il possesso, come un graduale processo di avvicinamento a questo villaggio di pescatori poco distante da Catania; c’è un diffidente approssimarsi alla riva aspra e nera, alla sciara, al mare amaro, periglioso fra Ognina e Capo Mulini, e ancora più davanti a Trezza per gli scogli che come mostri, incubi lo invadono.

Il mare non è stato mai amato dagli isolani: dal mare viene il male, la minaccia Il mare è estraneo a un «continentale» come Verga. Da cosa è spinto allora lo scrittore a far partire da qui, da Trezza, il suo grande affresco narrativo, la sua ambiziosa Commedia Umana, il suo ciclo de I vinti?

È spinto a Trezza, crediamo, perché, per il livello infimo da cui doveva partire la sua storia, per le condizioni umilissime dei personaggi, del coro dei Malavoglia, aveva bisogno di un luogo estremo, marginale, di un limen, un punto di Passaggio in cui le onde pietrificate dell’antica lava etnea scivolano e si sciolgono nel liquido del mare, nell’incertezza assoluta della tempestosa esistenza.

L’epifania di Trezza si trova in una curiosa novella del 1875: Le storie del castello di Trezza. Una novella gotica, nera. Ma in cui, dall’alto del castello c’è, inaspettatamente, la visione del villaggio: «Il mare era levigato e lucente; i pescatori sparsi per la riva, o aggruppati dinanzi agli usci delle loro casipole, chiacchieravano della pesca del tonno e della salatura delle acciughe; lontan lontano, perduta fra la bruna distesa, si udiva ad intervalli un canto monotono e orientale». Fantasticheria, in Vita dei campi (1880), è poi come un accordo di strumenti, un’anticipazione di motivi, di temi, di personaggi, una prefigurazione della Trezza dei Malavoglia. Ma Fantasticheria si può leggere anche come commiato di Verga, ai temi, ai personaggi mondani di tutti i  suoi scritti precedenti, prima di entrare nella realtà e nella verità di Trezza, nelle casipole dei suoi pescatori, nel mondo dei Vinti.

Com’era Trezza allora? Certamente come ce la descrive, nella sua essenzialità di «voce», il Di Marzo, nella traduzione e continuazione del Dizionario topografico della Sicilia del Vito Amico (1858): «Contansi oggi in quella terricciuola un 600 abitatori; è distante 6 miglia da Catania, ed esporta orzi e vini (e lupini, ci viene da aggiungere). Gli scogli di Aci o dei Ciclopi sono celebri presso i mineralogisti, dopo che Dolomieu vi scoperse per la prima volta l’analcime limpida, detta da lui zeolite bianca…» Era Trezza certamente come ce la descrive, anzi ce la fa «sentire» Verga: un villaggio di poche case, con la piazza, la chiesa di San Giovanni, l’osteria, la sciara, le barche ammarrate sopra la spiaggia, sul greto del torrente, sotto il lavatoio; e quel mare di cupo cobalto che s’infrange e spumeggia contro gli scogli, i fariglioni; e l’immenso Etna alle spalle, nero e fumante, minaccioso.

Un luogo di pura esistenza, di elementare eventologia, ai limiti dello spazio, del tempo: o fermo nel tempo, fissato in un dolore lontano, immemorabile. Com’è nelle tragedie greche, in cui i protagonisti sono inchiodati a un evento che si è svolto molto tempo prima, ma che saranno sciolti, infine animati per l’intervento pietoso di un qualche dio. Un luogo senza luce, Trezza, chiuso, circolare o labirintico; il Luogo della treccia, del nodo mai sciolto della tragedia.

E così il luogo dové apparire, puro e intatto, sublime e sacro, al giovane Visconti che un giorno (1947) capitò a Trezza per girare La terra trema.

E così anche noi l’abbiamo vista Aci Trezza, uguale a quella de I Malavoglia, de La terra trema, quando vi capitammo un giorno di settembre di circa vent’anni fa. Vi eravamo andati – insieme a Pasolini, Moravia, la Maraini, tanti altri – durante una pausa dei lavori di un premio letterario che si svolgeva in un paesino, Zafferana, sopra l’Etna. Unica novità, e stridore in quell’intatto piccolo mondo, una

Madonnina, bianca di calce e abbagliante sotto il sole, eretta sopra la nera lava di uno degli scogli dei Ciclopi, una innocente Madonna che aveva fatto indignare Pasolini.

Vi siamo tornati ora, nel giugno appena scorso. Aci Trezza non c’era più, era scomparsa. Erano scomparse le casipole, le barche da pesca, i fariglioni. Due enormi braccia di grigio cemento, due banchine circolari di un assurdo porto, alte come bastioni, chiudevano tutto il mare del seno, nascondevano gli scogli, la rupe del castello di Aci, tutto l’orizzonte. Il villaggio s’era ingigantito, era affollato di enormi case, di condomini, ristoranti, pizzerie, discoteche.

Ai tavoli di un bar sulla piazza servivano degli immigrati arabi. Altri, di colore, con fazzolettoni legati in testa, sembravano degli improbabili pirati lì pronti per una sceneggiata televisiva. Ragazzine in short o minigonne arrivavano in piazza sopra strombazzanti motorette, abbracciavano e baciavano i corsari di colore, si sedevano tutti insieme sui gradini a parlare e a fumare.

Più avanti, vicino la chiesa (sul muro, unica testimonianza di un mondo ormai scomparso, scomparso nel paesaggio, nella memoria, un bassorilievo dello scultore Lazzaro con sotto una frase malavogliana «E quei poveretti sembravano tante anime del purgatorio»), a una tavolata all’aperto della trattoria Gaetano avevano appena finito di mangiare tante coppie di genitori di bambinetti indiani. C’è anche in mezzo a loro una suora cattolica indiana. Era domenica, e certo festeggiavano tutti insieme un qualche avvenimento. Fra i genitori adottivi d’una bella bambinetta c’era la signora Nelluccia Giammona, moglie del Gaetano che dà il nome al locale. La signora Nelluccia ci conduce su, nell’appartamento sopra la trattoria, in uno stanzino che tiene chiuso come un piccolo sacrario. Alle pareti di questa stanza disadorna sono le gigantografie delle foto di scena de La Terra trema. Perché lei, allora tredicenne, e la sorella Agnese, sedicenne, sono state protagoniste del film di Visconti. E sono là effigiate, brune e bellissime, al telaio, alle faccende domestiche della casa del nespolo. «La casa del nespolo per la verità non esiste, non è mai esistita», ci dice come rivelando un segreto la signora Nelluccia. La quale è ancora effigiata, innocente e smarrita, un gran mazzo di fiori sulle braccia, con la sorella, con Visconti, Francesco Rosi e Zeffirelli, al festival di Venezia. La casa del nespolo non è mai esistita, certo, come non è mai esistita l’altra casa su «quel ramo del lago di Como». E forse non è mai esistita nella realtà Aci Trezza, la Trezza. Ogni segno del paesaggio fisico e umano di oggi ci convince di questa inesistenza. Forse non è mai esistita neanche Vizzini, non è esistita Catania, Siracusa, Palermo, Racalmuto… Non è mai esistita la Sicilia.

Forse una volta sono esistiti gli scrittori. Forse una volta è esistita la letteratura.