Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia. Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto… Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello). E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo. E se dallo Stretto andiamo oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi … Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile. E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo? Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega? Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?
Quali nei pleniluni sereni Trivia ride tra le ninfe eterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vidi sopra migliaia di lucerne… (1)
E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile. Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.
Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non si profonde che i fondi sien persi, tornan de’ nostri visi le postille, debili sì, che perla in bianca fronte… (2)
Sfogliando il grande
libro (1300 pagine) di Stefano D’Arrigo
Vent’anni di lavoro,
e tant’attesa – È l’odissea di un marinaio reduce in Sicilia alla fine
dell’ultima guerra mondiale.
Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e
infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia
e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e
tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il
romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di
Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è
una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di
quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno s’è formato il “modo
d’essere”, dove cioè la realtà da “descrivibile” è diventata “narrabile” e
quindi “storicizzabile”. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma:
e il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia,
che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo
russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo
disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla
letteratura, il romanzo: cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha.
E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono
a spiegare le cose e le ragioni delle cose.
A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di
leggere un romanzo: Qui solo vogliamo dire che quell’equazione
povertà-infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per
quella letteratura che si chiama siciliana.
E quando una storia della letteratura dell’isola si farà,
oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà
pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa,
Addamo, Castelli, Bonaviri … ultimo, nel tempo, è da ascrivere a questa
anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in
libreria il poderoso romanzo “Orcynus Orca” edito da Mondadori.
Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare
un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana.
E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema
alla realtà siciliana e dice “storicizzabile” la Sicilia di dopo i normanni e
da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano.
Ora, l’isola, non sempre e non dappertutto ebbe uguale
sorte. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte
occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola
proprietà nel Val Demone hanno fatto si che le popolazioni delle due zone
fossero in qualche modo diverse. E
diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa. Occidentale e
orientale, marino e dell’interno, continentale, ha per noi significato riguardo
agli scrittori, nella misura in cui essi rispecchiano nelle loro opere, nella
materia che assumono e esprimono, queste diversità. Verga ci sembra Marino (e
non per via dei malavoglia), De Roberto continentale, come Pirandello e
Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo
romanzo si svolge sullo stretto).
Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (come diversi
sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa
realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel
descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al
modo d’essere siciliano. Sciascia,
sintetizzando Castro, dice che’ descrivibile “una vita che si svolge dentro un mero
spazio vitale”. E ci soccorre anche
Addamo scrivendo: “ … Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite
della storia”.
Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie
ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia,
o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che
scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’epos, la bellezza, il dolore,
la vita, la morte,… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si
muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre
le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono
siciliane per sostanza. Ma questa non è
che una semplicistica classificazione, nella quale, come nel letto di procuste,
la realtà scappa da tutte le parti.
Tuttavia: una città
come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e
ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi
dentro un mero spazio vitale. E
figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo
stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana, di
Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e
sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. “Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?”
dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge il
romanzo di D’Arrigo.
La morte marina
“Orcynus Orca” è un
romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni. È la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria,
marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante
l’ultima guerra, nell’autunno del ’43, a piedi percorre la costa della
Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare,
lo stretto, lo ferma. Tutto è devastato,
distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche. Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e
matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di
riprendere, come prima, il loro contrabbando di sale. Ferme e in attesa sotto i giardini di aranci
e bergamotti, in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge.
Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara
Ciccina Circè che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare
notturno di cadaveri e di fere bestine.
Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’isola
appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra,
ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre
deludente e atroce. Ritrova il vecchio
padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta.
Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della “Ricchia, compare
improvvisa l’orca, l’Orcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia,
l’orcaferone”… quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la
morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola.
Solitario,
terrificante scorritore di oceani e mari: puzza lontano un miglio, lo precede
il terrore, lo segue il deserto e la devastazione. Il mostro arenato, scodato e irriso dalle
fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo
fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli
inglesi e dai pellisquadre. Il viaggio
di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato,
corrotto: viaggio verso la morte. Ma
viaggio anche verso la verità, l’origine della vita. Orcynus è anche orcio, grembo materno,
liquido rifugio, mare, principio e fine della vita. ‘Ndrja Cambria morirà, ucciso sul mare dello
stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura
“naturale” tra una terra e le altre, tra una “storia” e le altre, ucciso da un
colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte
È quasi impossibile
riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove
episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure. Romanzo dentro il quale tuttora siamo
immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante. E per poterne riferire in termini pacati e
chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore e l’incanto.
“Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla lingua usata
dallo scrittore. Lingua che è il
dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento,
assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi
con ritmo e musicalità, larga, polifonica.
Una lingua che è
ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che
procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose.
E riferire vogliamo
anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì nel 1919, passa subito
a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie.
Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San
Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli
degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in
cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a
oriente, verso il sole. Si sarà
incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia,
terra, e in tutto che si sfalda e ritorna al mare.
L’incontro con Vittorini
A Messina,
all’università, fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva a un suo amico, Felice
Canonico, disegnava. Vittorini, chissà
per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perché vuole vederlo,
vuole leggerlo. Gli mandano un numero
con un interessante articolo di D’Arrigo, “La crisi della civiltà”. È il 1946.
Laureatosi in lettere con una tesi su Hoederlin (“Doveva forse sembrarmi
di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e
follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono
civiltà e poesia”).
Nel 1947 parte per
Roma. Qui si occupa d’arte. Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di
D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del
periodo di Scilla), Mazzullo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti,
Ciarletta. Nella soffitta dello scultore
di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a
testa, e mangiano panibi e bevono vino.
Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi
D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul
delfino. Canonico va dal direttore
dell’istituto talassografico di Messina e così può avere trattati scientifici,
storie antiche sul delfino, leggende. E
fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a
inchiostro di china, come quelli che faceva il durer dei granchi, dei cetacei.
Nel 1957 D’Arrigo
pubblica un libro di versi, “Codice siciliano” presso l’editore Scheiwiller di Milano.
Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica sulla rivista
“Menabò 3” due parti, cento pagine, de “I giorni della Fera”, come si chiamava
prima il romanzo. Scrisse allora
Vittorini sulla rivista: “Quanto qui ora
pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di un “Work in progress”
ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata
iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta
a mutamenti e sviluppi anche per un decennio.
Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad
un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello
scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza”.
Impegno totale
La rivista di Vittorini
era uscita nell’agosto del ’60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a
Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla
libreria di Giulio D’Anna, sul viale San Martino. Ci trovammo, non ricordo bene come, a parlare,
a chiacchierare. Io avevo appena finito di leggere le sue pagine sul “menabò” e
ne avevo ricevuto una grande impressione.
D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui
delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io
avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore “messinese”: sul
linguaggio, il ritmo, i personaggi…
Lo incontrai l’anno
dopo, sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù
da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni, alcuni modi di dire dei
pescatori, parole, frasi. Era pieno di
fervore, di vita. Si capiva che il
lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo. E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai
a trovarlo a casa, a Monte Sacro. Era
già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il
libro era là nel suo studio, in bozze.
Bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe
strisce di carta scritte a mano incollate al margine inferiore del foglio e che
arrivavano fino al pavimento.
D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a
Messina. Era tutto calato dentro il suo
libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro. Mi disse che soffriva di cattiva circolazione
alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da
attacante nella squadra di calcio del Messina.
Sono passati anni. Di tanto in
tanto leggevo, come tutti, di lui sui giornali, brevi note che annunciavano
l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori.
Nel ’73 sono ancora
andato a trovare D’Arrigo a Roma. Mi
apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede
nessuno ormai da anni. Dopo un lungo
tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a
sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto,
memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento. Mi parla della moglie Jutta (è assente perché
al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui,
senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spronandolo, con
speranza intatta e chiara. “A Jutta, che
meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano” c’è scritto ora sul
frontespizio del libro. Parla degli
amici che se ne sono andati, quelli morti
(Niccolò Galo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città
grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma. E parla di Messina, della sua Messina, della
Sicilia.
– Perché un giorno
non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i
politicanti, gli affaristi, i mafiosi.
– E poi, dopo una
lunga pausa: – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia.
Ma del libro non parla e io non oso fargli domande. E il libro è lì, sempre in bozze sparse, sul tavolo
e anche sul divano. E c’è anche la prima
pagina, la controcopertina col titolo.
“Orcynus orca” si chiama ora e non più
“I giorni della fera”. E poi di
Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico. La Divina Commedia è il mio libro De
Chevet. Mi è servito molto, soprattutto
per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo “Bagno”
in Arno.
Al momento che devo
partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me,
in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti.
Certo, D’Arrigo,
rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno di impegno totale alla letteratura, alla
poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi. Non si sa ancora che ripercussioni avrà il
suo libro nei lettori, nei critici.
Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio. E questo lui lo sa e lo teme. Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, portare a termine il libro, distaccarsene, non lavorarci più, consegnare col “va bene, si stampi”, quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore. Perché, quando opere come “Orcynus Orca” possono dirsi concluse? Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?