Isole dolci del Dio.

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Quasimodo le chiama “Le isole dolci del Dio” e le guarda dal Tindari nella bellissima lirica intitolata “Vento a Tindari”. Per noi siciliani dell’isola grande, queste isole che avevamo di fronte, soprattutto per noi che abitavamo sulla costa settentrionale, erano delle isole da una parte fantasmatiche perché apparivano e sparivano a seconda del tempo, le nebbie o le calure estive, a volte sembravano vicinissime e dalla zona dove io abitavo si vedeva finanche il faro di Vulcano. Però d’altra parte era un mondo “maledetto” per noi isolani perché quelle erano le isole dei coatti e poi anche dei confinati politici quindi quando la mia sorellina andò a Lipari e incontrò il suo fidanzato, io l’andai a prendere al molo di Milazzo poi l’accompagnai a casa in treno, perché le signorine da sole non viaggiavano, lei in treno mi raccontò questo suo incontro e mi disse tutta felice che poi questo ragazzo sarebbe venuto a casa per chiedere la mano di mia sorella come si usava allora. Io le dissi “vedrai papà cosa dirà…”. Infatti la sera a cena lei disse “sai papà ho incontrato un giovane, ci siamo parlati e mi ha detto che verrà a chiederti la mia mano.” Mio padre, che era molto rigoroso soprattutto con le figlie femmine, le diede uno schiaffo e disse “e io ti ho mandato a Lipari per cercare un fidanzato?”. Poi si sono sposati nel ’60. Allora ero studente a Barcellona e quando potevo andavo da mia sorella e scoprii questo Paradiso che sono le isole Eolie. Quando avevo tempo libero mi imbarcavo a Milazzo sulla “Luigi Rizzo” che allora era l’unica nave e man mano scoprii prima Lipari poi le altre isole, Salina, Alicudi e Filicudi, Stromboli. Una volta ebbi anche un naufragio su un aliscafo: tornavo da Stromboli, era estate e c’erano tantissimi turisti, a Panarea avevano caricato molte persone per cui questo aliscafo cominciò a imbarcare acqua e quasi affonda, spararono i razzi per chiedere aiuto, arrivarono i pescherecci, ci portarono su questi pescherecci e poi ci abbandonarono su una spiaggia di Panarea tutti bagnati. L’indomani finalmente ho potuto raggiungere Lipari. Un altro ricordo alle Eolie: nel ’62 ero lì e arrivò la colonia romana di Moravia, Pasolini con tutti i suoi ragazzetti e Dacia Maraini con la madre Topazia Alliata: io li vedevo, li osservavo, sapevo chi erano. Andavano a fare il bagno a Vulcano alle sabbie nere e io mi mettevo vicino ad ascoltare i loro discorsi. Un giorno sulla spiaggia dopo aver fatto il bagno mi sono seduto accanto a Moravia con nonchalance; Moravia era paralitico da una gamba e zoppicava e arriva una persona che gli racconta che un subacqueo aveva raggiunto una profondità di non so quanti metri ed egli sentenziò “io mi contento di scendere nella profondità dell’animo umano”. Nasceva proprio quell’estate il nuovo amore fra lui e Dacia Maraini. Al Centro Studi Eoliano ho avuto un incontro per l’anniversario del Constitutum, la costituzione democratica che si erano dati gli eoliani. C’era anche un altro personaggio straordinario che ho frequentato a Lipari, Leonida Buongiorno, che mi raccontava le sue vicende personali e non, di cui ero molto amico era una specie di biblioteca delle isole Eolie. Ho conosciuto anche il prof. Giuseppe Iacolino, un altro studioso delle isole Eolie. Pirandello dice che “noi siamo i primi 9 anni della nostra vita” nel senso che da quando nasciamo cominciamo a guardare quindi questi segni esterni ce li portiamo dentro per tutta la vita, sia i segni visuali che i segni orali – questo lo dice anche Dante nel “De vulgari eloquentia”: noi impariamo la prima lingua, la lingua volgare, dalle persone che ci stanno intorno nei primi anni della nostra vita. Nascere in una grande città come Palermo, Catania o ad Agrigento dove è nato Pirandello o nascere alle Eolie è assolutamente diverso perché i segni sono diversi, per cui un eoliano ha un carattere diverso dall’abitante dell’isola grande. Per la vita così dura e aspra l’eoliano era un tipo parsimonioso e laborioso, sull’isola non c’era il latifondo quindi non c’era la mafia e quindi il lavoro per gli eoliani era senza nessun tipo di compromissione e di cedimento ai poteri. C’è un libro di un confinato politico a Lipari che racconta degli altri confinati: quelli che potevano affittavano una casa a Lipari, gli altri invece erano relegati nel castello, una sorta di prigione, però c’era molta solidarietà da parte degli eoliani, c’era aiuto nei confronti di questi confinati. Quindi gli eoliani erano anche persone generose. Oggi non so se è ancora così. Vedere un mondo “altro” anche primigenio, che cos’è la vita nella sua elementarità e nelle sue leggi fondamentali. I turisti spesso vengono dal nord industriale, da luoghi più abbienti e devono capire cosa significa vivere in una piccola isola. L’esempio della rivolta che c’è stata a Lampedusa per quelli che chiamano centri di accoglienza ma che sono dei veri e propri lager: i lampedusiani vivono anche loro di turismo ma non sopportano che la loro isola diventi un lager a cielo aperto, molti questi poveri infelici hanno anche perso la vita.
Se questi turisti approdando a Lipari, nelle isole Eolie leggessero prima e conoscessero i 5000 anni di storia che ha avuto soprattutto Lipari, la stratificazione di civiltà che c’è stata andando a vedere il museo unico che c’è a Lipari capirebbero che luogo unico è, al di là del mare e del cielo. Sulle Eolie c’è anche il libretto “Isole dolci del Dio” uscito nel 2002 per le edizioni l’Obliquo, scritto per amore delle isole. Al momento sono impegnato a scrivere un’opera per Mondadori, alla conclusione della quale l’editore ristamperà tutta la mia produzione nella collana Meridiani. Dopo quest’ultima fatica, mi piacerebbe lasciare Milano e tornarmene finalmente nella mia amata Sicilia, ma non so se mia moglie Caterina è d’accordo…

Vincenzo Consolo
venerdì, 03 aprile 2009(da “Il notiziario delle Isole Eolie)

Paesaggi di luce

di Vincenzo Consolo

Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia.
 Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto…
 Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello).
E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.
E se dallo Stretto andiamo  oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi …  Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile.
E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo?
 Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega?
Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?

 Quali nei pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vidi sopra migliaia di lucerne… (1)

 E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile.
Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
  non si profonde che i fondi sien persi,
  tornan de’ nostri visi le postille,
debili sì, che perla in bianca fronte… (2)


(1) Dante,Paradiso, canto XXIII
(2) Dante, Paradiso, canto


Confini – Visività e configurazione nel reale.
1990 Fabbri Editore

Isole Eolie

Per un po’ d’erba al limite del feudo

Via del Sole scende stretta tra il muro laterale del Pa­lazzo e una ringhiera di ferro sul dirupo. Era in ombra a quell’ora. Il sole batteva invece sulle pietre di via Muro­rotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo. La ringhiera di ferro di via del Sole era quella d’un terrazzo sospeso, navigante.

Il vecchio con lo scialle sporse nel vuoto il braccio e con l’indice a corno percorreva la linea ondulata che dise­gnavano nel cielo terso i monti tutti attorno, dalle spalle del paese fino al mare.

– Motta – diceva fermando il dito su un punto bian­castro lungo la costa dei monti. E poi – Pettineo, Castel­luzzo, Mistretta, San Mauro… – Posò lo sguardo sul mare, ripiegò il braccio, si tirò sulla spalla lo scialle scozzese che gli era scivolato. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la rin­ghiera e indicai il mare. – Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Con­tinente, Roma…

– Roma – ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuò a indicare le montagne, ora con un breve cenno del capo: – Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Fo­ieri…

L’ulivo, fitto ai piedi dei monti, diradava, spariva verso l’alto. Poi vi erano costole nude, scapole, e qua e là ciuffi di sugheri, di castagni.

Il vecchio sedette sulla panchina di pietra e, la fac­cia tra due sbarre della ringhiera, appuntò gli occhi sullo spiazzo erboso sotto il dirupo. Ragazzi vi giocavano, tra pecore al pa­scolo, piccoli, appiattiti sul prato, silenziosi. Uccelli con larghe ali planavano sulla valle. La strada a serpentina, grigia di fango rappreso, partiva dalle prime case del paese, passava tra alberi d’eucalipto e d’acacia, circondava il prato, accostava una vasca d’acqua stagnante e finiva in un cancello di lamiera arrugginita. Il sole di questo primo pomeriggio era tutto ammassato nella tenera valle, su­scitava tremuli vapori.

Al di là del cancello, dentro, il cerchio del muro, nel tabuto fresco di vernice, era Carmelo Battaglia, il sin­da­calista di Tusa ammazzato su una trazzera, una mat­tina di marzo, con due colpi a lupara, e messo in ginoc­chioni, con la faccia per terra. La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agorà, i cocci d’an­fora e le colonne spezzate affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). In fondo, Tusa Marina, col suo castello sull’acqua sma­gliante e triangoli di vele sui merli.

Nel ventitrè ammazzarono il padre Battaglia, con colpi a lupara, su una trazzera, e gli riempirono la bocca di pietre e di fango. Il vecchio s’era tirato fin sulla nuca e gli orecchi lo scialle scozzese, avevachiuso gli occhi e recli­nato il mento sul petto.

Il piano della Piazza era tagliato a rettangoli e tra­pe­zi di luce. La torre medievale,al centro, massiccia, qua­dra­ta, avevadue facce illuminate. Uccelli neri, con lievefruscio, facevano la spola tra la Matrice e la torre. Via Pier delle Vigne si perdeva tra vecchiecase. Via Matteotti, dall’ogiva dell’antica porta, scendevaripida e larga versole case nuove. Un vecchio cantavanella piazza, seduto al sole davanti alla porta della società Agricola. Un altro vec­chio stavaimmobile dall’altra parte; e altri tre dentro, nel vanointerrato della società, immobili attorno a un piccolo tavolosu cui battevail sole. Il vecchio sulla porta cantavacon gli occhi in cielo e un sorriso sulle labbra. Cantava: – Al natio fulgente sol / qual destino ti furò –; e poi dac­capo: – Qual destino ti furò / al natio fulgente sol –; sempre avanti e indietro su quelle parole.

Un’automobile nera venne giù da viaAlesina, attra­versò la Piazza e scese per viaMatteotti. Vi era dentro un ufficiale dei Carabinieri con le stelle d’argento sulle spalle e altri signori col cappello. Il vecchio interruppe il suo can­to e poi riprese.

Via Alesina era tutta in ombra, stretta e lunga, tra alte case, dalla Piazza fino al Belvedere. I vicoli verticali erano assolati. Cespi di bàlico fiorito, viola e giallo, spun­tavano dalle crepe delle case e ficodindia da sopra i tetti. Da un balcone del vicolo penzolava la testa d’un asi­no, pensosa nel sole. Il municipio e la cooperativa Risve­glio Alesino. Sul portone del municipio era scolpito lo stem­ma della città: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avven­tarsi, i denti scoperti (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e al­tro­ve, i Consigli municipali, costituiti dai Go­vernatori di­stret­tuali, erano composti di elementi della grossa borghe­sia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»).

Una giovane bellissima, dietro i vetrid’una piccola finestra, ricamava. Divenne viva,aprì la finestra, si sporse, allungò il braccio bianco e fece segno che dovevoancora andare avanti e poi salire per il vicolo.

Bussai e venne ad aprire una donna in nero. Mi fece strada per uno stretto corridoio celeste che sbucava in una grande stanza celeste. È il celeste, abbagliante per le mo­sche, latte di calce mischiato con l’azolo. Sei donne tutte nere erano attorno alla ruota della conca: la figlia, la moglie, due sorelle e altre due parenti di Carmelo. Parlava la giovane figlia, il fazzoletto nero annodato sotto il mento e ancora il velo nero che le scendevaper le spalle, gestiva con le sue mani guantate di nero. La madre, accanto, non parlava perché muta, muta e paralitica. Solo gli occhi ave­vavivi.

– Sì, fece il soldato e, finita la guerra, venne a piedi da Trieste. Passò lo Stretto su una barca e, a Messina, pri­ma che attraccassero, si buttò in acqua per toccare prima la Sicilia, ma non sapevanuotare. Il pescatore calabrese lo dovetteafferrare per i capelli per salvarlo. Rideva molto quan­do raccontava questo. Dicevache allora, a vent’anni, era sventatocome un caruso.

– Sempre l’ha avutaquesta idea socialista, ma di più quando tornò dalla guerra. Dicevache i contadini, i bovari sono sempre state malebestie. Sempre a limosinare un palmo di terra o un po’ d’erba al limite del feudo. Ma non parlava molto in casa, avevale parole giuste, contate. Questa di mia madre era una pena forte che portava in cuore: venti anni che è allogo, un male di nervi.

– Partiva alle quattro, alle cinque, secondo la sta­gio­ne, col mulo, per il feudo. A voltesi restavalà e si por­tava un poco di pasta e una boatta di salsina. Questa voltado­vevarestarci per due giorni.

– Sì, voglio che si scopra al più presto l’assassino. Voglio conoscerlo. Voglio vedere in faccia questo che in­sulta i morti, che li mette in ginocchioni.

– No, neanche i vivi s’insultano. Ma di più i morti, specie se in vita sono stati sempre latini, diritti, cava­lieri.

La madre mugolò e cominciò a piangere. La figlia le prese le mani, se le portò sulle gambe e, tenendovi sopra le sue, si mise a cullargliele.

La stanza era piena di penombra. C’era solo la luce rossa di un lumino davanti alla fotografia di Carmelo ve­stito da soldato, sopra il comò. Le donne stavano tutte chiuse nei loro scialli e mute. Una prese la paletta di rame e rimestò la brace nella conca.

– Nessun desiderio, nessun progetto. L’unica sua idea era quella di aggiustare questa casa».

Il sole era tramontato e, all’uscita del paese, sopra un muretto della strada, erano seduti un prete grosso e un prete magro. Quello magro, scuro, era venuto da Cesarò per predicare il quaresimale. Quello grosso, chiaro, era del paese.

– Un uomo buono, benvoluto da tutti. Parlava po­co ma spartano. No, in chiesa mai. Ci andavo io a casa sua, una volta al mese, per confessare e comunicare la moglie. Poveretta, mi scriveva i peccati su un foglio di carta.

Passavano i contadini per la strada, tornavano a grup­pi dal lavoro, gli uomini sul mulo e le donne a piedi. – Vos­sia benedica – salutavano.

– Benedetto – rispondeva il prete.

– Tra loro, si ammazzano, tra loro bovari.

– Benedetto.

Le montagne là di fronte erano diventate viola, di un viola tenero sfumato.

Questi Nebrodi, alti di fronte al mare, sono di una bellezza impareggiabile. Ora, con le prime ombre della se­ra, si udivano per la campagna ringhiare e abbaiare i primi cani: quei cani orbi, bastardi, che si avventano feroci non appena li sfiora l’odore della carne d’un cristiano.


[i] «L’Ora», 16 aprile 1966, p. 6. Stesso testo, col titolo: Per un po’ d’erba al limite del feudo, in L. Sciascia e S. Gu­gliel­mino (a cura di), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, pp. 429-434. Il testo del 1966 è ripreso tal quale – sotto forma di «Prima appendice del curatore», con fonte: L’Ora, 16 aprile 1966 (p. 6), autore: Vincenzo Consolo, occhiello e titolo: Tra cronaca e racconto un giorno a Tusa. Un filo d’erba ai margini del feudo, sottotitoletti redazionali in­fram­mezzati: Il tabuto fre­sco di vernice, Sei donne tutte nere – in Mario Ovaz­za, Il caso Battaglia. Pascoli e mafia sui Nebrodi, a cura di Fernando Cia­ramitaro, Palermo: Centro Studi e iniziative culturali Pio La Torre, 2008, pp. 124-126

Acquaforte di Liliana Conti Cammarata

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