I MURI D’EUROPA

(letto a Università di Chergy Pontoise 7-8 dicembre 06)

Addio città
un tempo fortunata, tu di belle
rocche superbe; se del tutto Pallade
non ti avesse annientata, certo ancora
oggi ti leveresti alta da terra.

(Euripide: Le Troiane)1

Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,
io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.
Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo,
una sola salvezza avrem l’uno e l’altro.Il piccolo
Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi la sposa

(Virgilio: Eneide)2

Questi versi di Euripide e di Virgilio vogliamo dedicare ai fuggiaschi di ogni luogo, agli scampati di ogni guerra, di ogni disastro, a ogni uomo costretto a lasciare la propria città, il proprio paese e a emigrare altrove. Sono dedicati, i versi, agli infelici che oggi approdano, quando non annegano in mare, sulle coste dell’Europa mediterranea, approdano, attraverso lo stretto di Gibilterra, a Punta Camarinal, Tarifa, Algeciras; approdano, attraverso il canale di Sicilia, nell’isola di Lampedusa, di Pantelleria, sulla costa di Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Pozzallo…

La storia del mondo è storia di emigrazione di popoli – per necessità, per costrizione – da una regione a un’altra. Nel nostro Mediterraneo, nella Grecia peninsulare, gli Achei lì emigrati nel XIV secolo a.C. danno origine alla civiltà micenea che soppianta la civiltà cretese, che a sua volta viene offuscata dalla migrazione dorica nel Peloponneso. Con questi greci cominciò, nel XII secolo a. C. la grande espansione colonizzatrice nelle coste del Mediterraneo – in Cirenaica, nell’Italia meridionale (Magna Grecia), in Sicilia, Francia, Spagna. La colonizzazione greca in Sicilia, dove vi erano già i Siculi, i Sicani e gli Elimi, avvenne con organizzate spedizioni di emigranti, di fratrie, comunità di varie città – Megara, Corinto, Messane… – che sotto il comando di un ecista, un capo, tentavano l’avventura in quel Nuovo Mondo che era per loro il Mediterraneo occidentale. In Sicilia fondarono grandi città come Siracusa, Gela, Selinunte, Agrigento, convissero con le popolazioni già esistenti, assunsero spesso i loro miti e riti, stabilirono pacifici rapporti, per molto tempo, con la fenicia Mozia e con l’elima Erice.
Ma non vogliamo qui certo fare –non sapremmo farla – la storia dell’emigrazione nell’antichità. Vogliamo soltanto dire che l’emigrazione è fra i segni più forti – oltre quelli delle guerre, delle invasioni – della storia.
Segno forte l’emigrazione, della storia italiana moderna.
“Dall’Unità d’Italia (1860) non meno di 26 milioni di italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro Paese. E’ un fenomeno che, per vastità, costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo”. Questo scrive Enriquez Spagnoletti, in un numero speciale dedicato all’emigrazione, nella rivista Il Ponte (Novembre, Dicembre 1974), rivista fondata da Piero Calamandrei.3
Sull’emigrazione nel Nuovo Mondo esiste, sappiamo, una vasta letteratura storico-sociologica, documentaria, ma anche una letteratura letteraria. Il racconto Dagli Appennini alle Ande, del libro Cuore4 di Edmondo De Amicis, è il più famoso. Ed anche, dello stesso autore, Sull’Oceano5. Meno famoso è invece il poemetto Italy6 di Giovanni Pascoli; Sacro all’Italia raminga ne è l’epigrafe.

A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l’erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.


Vi si narra, nel poemetto, di una famigliola toscana, della Garfagnana, che ritorna dall’America per la malattia della piccola Molly. Nella poesia compare –ed è la prima volta nella letteratura italiana – il plurilinguismo: il garfagnino dei nomi, lo slang della coppia e l’inglese della bambina.
Non era allora solo nelle Americhe l’emigrazione, essa avveniva anche, e soprattutto dal Meridione d’Italia, dalla Sicilia, nel Magreb, in Tunisia particolarmente. Questa emigrazione comincia nei primi anni dell’Ottocento, ed è di fuoriusciti politici. Liberali, giacobini e carbonari, perseguitati dalla polizia borbonica, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli  in  questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”7. In Tunisia si fa esule anche Garibaldi.
La grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per la crisi economica che colpì le regioni meridionali. Si stabilirono, questi emigranti sfuggiti alla miseria, alla Goletta, a  Biserta, Susa, Monastir,Mahdia nelle campagne di Kelibia di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprirono allora scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale, fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria per giungere nel 1881 al trattato del Bardo e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilivano  il protettorato francese sulla Tunisia. La Francia cominciò così la politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti, la cittadinanza francese. Frequentando le scuole gratuite francesi, il figlio di poveri emigranti siciliani, Mario Scalesi, divenne francofono e scrisse in francese Les poèmes d’un maudit8, fu così il primo poeta francofono del Magreb.
Anche sotto il Protettorato l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane  nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna (vediamo come la storia dell’emigrazione, nelle sue dinamiche, negli effetti, si ripete). Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vice presidente della Camera dei deputati. Visita le regioni dove vivono le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori : “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il  convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi alla vostra sorte”.
La fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’Italia dell’industrializzazione, del cosiddetto miracolo economico, della crisi del mondo agricolo e insieme della  nuova emigrazione di braccianti dal Sud verso il Nord industriale, del Paese e dell’Europa, quella fine degli anni Sessanta segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale dei Sicilia. Segna l’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.
Di siberie, di campi di lavoro, di mondi concentrazionari, di oppressione di popoli a causa di regimi totalitari o coloniali sono stati i tempi da poco trascorsi. Tempi vale a dire in cui l’umanità, per tre quarti, è stata prigioniera, incatenata all’infelicità. E le siberie hanno fatto sì che il restante quarto dell’umanità, al di qua di mura o fili spinati, vivesse felicemente, nello scialo dell’opulenza e dei consumi si alienasse. Ma dissoltesi idolatrie e utopie, crollati i colonialismi, abbattute le mura, recisi i fili spinati, sono arrivati i tempi delle fughe, degli esodi, da paesi di mala sorte e mala storia, verso vagheggiati approdi di salvezza, di speranza. Ed è il presente – un presente cominciato già da parecchi anni – un atroce tempo di espatri, di fughe drammatiche, di pressioni alle frontiere del dorato nostro “primo” mondo, di movimento di masse di diseredati, di offesi, di oltraggiati.
Da ogni Est e da ogni Sud del  mondo, da afriche dal cuore sempre più di tenebra, da sudameriche di crudeltà pinochettiane si muovono oggi i popoli dei battelli, dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente ed è preda ancora dei criminali del traffico di vite umane, sparisce spesso nei fondali dei mari, nelle sabbie infuocate dei deserti, come detriti di una immane risacca finisce sopra scogli, spiagge desolate o anche fra i vacanzieri stesi al sole per abbronzarsi.
Non vogliamo andare lontano, non vogliamo dire del muro di acciaio eretto al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, ma dire di qua,  del confine d’acqua che separa l’Europa da ogni Sud del mondo, dire del Mediterraneo e della bella Italia, del suo Adriatico e del suo Canale di Sicilia.
Tante e tante volte le carrette di mare provenienti dall’Albania, dalla Tunisia o dalla Libia, carrette stracariche di disperati, si sono trasformate i bare di ferro nei fondali del mare, bare di centinaia di uomini, di donne, di bambini, a cui, come all’eliotiano
Phlebas il Fenicio, “una corrente sottomarina / spolpò l’ossa in dolci sussurri”. E finiscono anche i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani…E si potrebbe continuare con le cronache di tragedie quotidiane, di una tragedia epocale che riguarda i migranti, le non-persone che cercano di entrare nella vecchia Italia, nella vecchia Europa della moneta unica, delle banche e degli affari. Vecchia soprattutto l’Italia per una popolazione di vecchi. “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma” ha detto icasticamente il poeta Andrea Zanzotto. E la frase-metafora vuole dire di quanto ciechi noi siamo a voler continuare a sguazzare nel nostro mare di catarro e a voler scansare quel mare di vitalità che è arricchimento: fisiologico, economico, culturale, umano…Scansare o eludere quell’incontro o incrocio di etnie, di lingue, di religioni, di memorie, di culture, incrocio che è stato da sempre il segno del cammino della civiltà. Respingiamo l’emigrazione dal terzo o quarto mondo erigendo confini d’acciaio con leggi e decreti, come la vergognosa legge italiana sull’emigrazione che porta il nome dei deputati di estrema destra Bossi e Fini, insorgendo con nuovi e nefasti nazionalismi, con stupidi e volgari localismi, con la xenofobia e il razzismo, con la cieca criminalizzazione del diseredato, del diverso, del clandestino.
A partire dal 1968, sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle coste italiane. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
In una notte di giugno dell’827 d.C., una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Magrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara. Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta l’isola, da occidente fino a oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. I Musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le espoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. Rifiorisce l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Il grande storico dell’ 800 Michele Amari ci ha lasciato La storia dei Musulmani di Sicilia, scritta, dice Vittorini, “con la seduzione del cuore”9.
Il ritorno infelice10 è il titolo del saggio del sociologo Antonino Cusumano, in cui tratta dell’emigrazione magrebina in Sicilia, a partire dal 1968, come sopra dicevamo. Sono passati quarant’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di detenzione nei cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea, che sono dei veri e propri lager, di fronte a ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”11.

Vincenzo Consolo


1   Euripide: Le Troiane, Prologo, “Il Teatro greco”, Sansoni Editore, Firenze 1980.
2   Virgilio: Eneide, Libro II, vv. 707-711, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967.
3   Il Ponte , XXX 11-12, p. 12-19, Novembre/Dicembre 1974, La Nuova Italia Editrice, Firenze
4   Edmondo De Amicis, Cuore, Fabbri Editore, 1999. Il racconto “Dagli Appennini alle Ande”, p. 230-265.
5   Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, Herodote Edizioni, Genoa-Ivrea 1983.
6   Giovanni Pascoli, Italy, Opere, “La Letteratura Italiana”, vol. 61, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1980, p. 361.
7   Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Libro VI, Rizzoli Editore, Milano 1967, p. 830.
8   Mario Scalesi, Les poèmes d’un Maudit, Le liriche di un maledetto, ISSPE Editore, Palermo 1997.
9   Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, prefazione di Elio Vittorini, Editore Bompiani, Milano 1942, p. 6.
10 Antonino Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio Editore, Palermo 1976.
11 Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. II, Einaudi, Torino 1982, p. 921-922.

Antonello da Messina


Vincenzo Consolo


Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?


Milano, 20 ottobre 2006

Si, bisogna chiamarlo brogliaccio

Milano, 1 ottobre 2006

Si, bisogna chiamarlo brogliaccio, scortafaccia, giornale, memorie e, infine, diario. Comincio oggi, oggi per la prima volta nella mia lunga vita (73 anni), oggi che è il primo giorno in un mese, ottobre, che prelude alla fine: fine dell’anno e preludio, questo mio ottobre, alla fine della mia stagione.

Siamo insomma all’uggioso autunno. Siamo alla malinconia della fine della festa, la festa primaverile ed estiva, ma siamo anche ora nel tempo della riflessione, della fine della distrazione e dello scialo, spesso dello svaccamento, estivo. Riflessione: in questo diario cercherò di fissarla, fissare pensieri, osservazioni, e ricordi.

Oggi è domenica. C’è sciopero da ieri dei giornalisti. Siamo quindi privi di notizie su questo nostro paese, su questa Italia disastrata, sempre uguale a se stessa. Un governo di centro-sinistra, va bè, ma vi sono sempre, costanti, i retaggi dei governi passati della corruzione, del malaffare, della mafia, delle stragi, della criminalità diffusa e costante.

Una povera Italia, dopo … berlusconiana, terribilmente degradata, irriverente, volgare, stupida.

Il suo specchio e il suo maestro è quell …  “Video della vita”, come disse Quasimodo, ma che è un atroce video della morte. E il guaio è che quel raggio della morte che proviene da quel video investe ormai tutti, probi e disonesti.

2 ottobre

Preparazione – studio – per la partenza di domani per Palermo.

Vincenzo Consolo, viene intervistato in occasione della mostra alle scuderie del Quirinale dedicata a Antonello Da Messina – 2006

CARAVAGGIO IN SICILIA

Vincenzo Consolo

Caravaggio e ancora Caravaggio. Mostre e mostre si sono allestite e continuano ad allestirsi del pittore, da quelle ormai storiche del 1938 a Napoli, del 1951, ’53, ’58 e ’73 nel Palazzo Reale di Milano, al Caravaggio in Sicilia di Palazzo Bellomo di Siracusa nel 1984, alla palermitana del 2001 dal titolo Sulle orme di Caravaggio, a quella romana dello stesso anno Caravaggio e i Giustiniani, al Caravaggio – due capolavori a confronto, del 2003, ancora a Palazzo Bellomo, al Caravaggio, ultimo tempo: 1606-1610 del 2004 a Napoli, e la discussa e discutibile mostra di Caravaggio a Milano del 2005 e, infine, la bella mostra di Amsterdam di quest’anno in cui sono messi a confronto due grandi: Caravaggio e Rembrandt. Ci accorgiamo così che è lui,Caravaggio,il più attuale dei pittori, lui a dirci che questo nostro è ancora un tempo secentesco, controriformistico, un tempo di rischi e di incertezze, di pesti e di violenze. Che la vera realtà è unaluce che squarcia la cortina buia del mondo, che grazia e santità dimorano nell’umanità più sofferente, emarginata.

Ho enumerato varie mostre di Caravaggio, ma ne ho omessa una, a dir poco singolare. E’ una mostra itinerante del 2001, ideata dal collezionista ed esperto d’arte Giuseppe Salzano e patrocinata dall’Arma dei Carabinieri, nella persona del generale Roberto Conforti, comandante del Nucleo per la tutela del patrimonio artistico. Quella mostra permetteva la visione dopo trent’anni d’invisibilità, di un capolavoro di Caravaggio, la Natività dell’Oratorio di San Lorenzo di Palermo. Viaggiava, quella grande tela di quasi tre metri per due, insieme ad altri nove capolavori, insieme a un Antonello da Messina, a un Carracci, un Renoir…Ma erano quadri quelli, ahinoi, in “figura di funzione”, erano perfette copie di opere trafugate, eseguite da provetti copisti, i quali sono così salvati, sosteneva il Solzano, dall’occulto mondo dei falsari, veniva loro data dignità mettendoli al servizio della legalità.

E così ha fatto un sovrintendente alle antichità siciliano, con i tombaroli promovendoli a custodi di siti archeologici (ma non sappiamo se questa operazione abbia eliminato o almeno attenuato lo scavo clandestino).

La mostra delle copie, dicevamo, in cui spiccava la copia della Natività del San Lorenzo di Palermo, uno dei quattro capolavori lasciati in Sicilia da Caravaggio.

Nel novembre del 1996, le cronache riportavano la deposizione al processo,- chiamato maxiprocesso per il numero di imputati, – alla Corte d’Assise di Palermo del mafioso pentito Marino Mannoia, il quale, dopo la sequela di omicidi, confessava anche il furto, nel 1969, all’esordio della sua attività delinquenziale, della Natività dell’Oratorio di San Lorenzo.

Scriveva un cronista di Palermo:”L’incidente, che segnò la sua carriera di ladro, fu una maldestra operazione con una tela di Caravaggio, la Natività custodita, si fa per dire, in una chiesa del centro di Palermo. Marino Mannoia era stato incaricato di rubare il quadro da un anonimo committente, danaroso esperto d’arte. Il Mannoia si presentò all’appuntamento con il dipinto sottobraccio, arrotolato alla meglio. Srotolata l’opera, il mandante del furto scoppiò in lacrime: la ruvida mano del Mannoia l’aveva danneggiata irreparabilmente. Il Caravaggio non fu mai ritrovato, né il pentito ha saputo o voluto dire che fine abbia fatto”. Già, che fine ha fatto la Natività di Palermo ? E chi era quell’esperto danaroso che ha commissionato il furto,così sensibile da sciogliersi in lacrime di fronte al quadro distrutto?

Questa sarà stata di certo un’indagine infruttuosa per gli inquirenti, ma potrebbe essere un affascinante argomento per uno scrittore di romanzi polizieschi.

Ma torniamo al Caravaggio, al Caravaggio in Sicilia. I suoi primi contatti, la sue prime frequentazioni siciliane avvengono a Roma, nella città eterna, dove il giovane pittore era giunto da Milano nel 1592. Aveva 21 anni. Lavora subito, il Merisi, nella bottega di Lorenzo Carli, detto Lorenzo Siciliano, bottega che si trova nei pressi dell’ospedale dei poveri la Consolazione, al limite di Campo Vaccino. L’allievo del milanese Peterzano, dipinge per Lorenzo Siciliano “teste per un grosso l’una et ne faceva tre al giorno” racconta il biografo Giulio Mancini. Là, nella bottega di Lorenzo Siciliano, lavora anche il giovane siracusano Mario Minniti, che diverrà suo modello per la Fuga in Egitto,  per il Suonatore di liuto e per altri quadri di quel periodo. Il Minniti passerà poi con Caravaggio nella bottega di Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino. In quella bottega Caravaggio dipinge splendide nature morte, fra cui la famosa Canestra di frutta che Federico Borromeo si porterà a Milano.

Siamo del 1594, in gennaio, mese in cui s’interrompe bruscamente la collaborazione di Caravaggio col Cavalier d’Arpino. La causa è poco chiara, ma ci dice il Mancini”Fra tanto un calcio di cavallo gonfia la gamba né ne un chirurgo acciò non fusse visto et da un bolttegaro siciliano amico alla Consolazione…”Da queste annotazioni  manoscritte del Mancini si deduce che è il “siciliano bottegaio”, cioè Lorenzo Carli, ad accompagnare l’infortunato Caravaggio all’ospedale della Consolazione, in cui è priore il siciliano Giovanni Butera. Illo Butera commissiona al Caravaggio delle opere, fra cui il Suonatore di liuto. Quadro che Gioacchino Di Marzo ricorda a Catania nella raccolta di Rosario Scuderi Buonaccorsi. E pure di quel periodo è il Bacchino malato (supposto autoritratto). Dopo la malattia, Caravaggio ha i primi rapporti col cardinale Francesco Maria de Monte, quindi è accolto nel palazzo dei Giustiniani e dei Mattei.

Sono di questo periodo la Santa Caterina, i Bari, la Buona ventura, Giovane con un cesto di frutta, Giuditta e Oloferne, San Giovannino, Maddalena, San Giovanni Battista. E sono ancora di questo periodo le grandi commissioni per la cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi (San Matteo e l’angelo, Vocazione di San Matteo, Martirio di San Matteo) e per la cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo (Martirio di San Pietro e Conversione di San Paolo); e ancora: Madonna dei pellegrini  in Sant’Agostino, la Deposizione, la Madonna dei Palafrenieri.

Ho citato sopra il palazzo Mattei della romana via Castani. Un palazzo, quello, che, parafrasando Calvino chiamerei “dei destini incrociati”. Palazzo dove è stato ospite Leopardi e Stendhal. Ma, prima di questi due scrittori, vi era stato Caravaggio. Nel 1601, il cardinale Gerolamo Mattei e i fratelli Ciriaco e Asdrubale ospitano nel loro palazzo Caravaggio, il quale per loro dipinge la Cena di Emmaus e la Cattura di Cristo.

Ma nel 1606 è la rottura, la fine di questa stagione di benessere e di fama. E’ il 28 maggio di quell’anno infatti l’episodio della Pallacorda in Campo Marzio, l’uccisione  di Ranuccio Tomassoni da parte di Caravaggio, il quale, a sua volta ferito, è soccorso nel palazzo Colonna da Costanza Sforza Colonna, e quindi, inseguito da “bando capitale”, viene fatto rifugiare tra Palestrina, Zagarolo e Paliano, feudi dei Colonna.

Nel 1607, guarito, si trasferisce a Napoli. Qui dipinge pale d’altare per confraternite e privati (Le opere di misericordia). Nel luglio del 1607 è nell’isola di Malta, nella capitale La Valletta. Qui dipinge, oltre il San Gerolamo e il Ritratto del cavaliere Alof de Wignacourt, la grande tela della Decollazione di San Giovanni Battista. E firma per la prima volta nel sangue questo suo quadro (Motto cavalleresco ”e sanguine virtutem traho”- vedi riferimento di Verga alla famiglia Trao del Mastro-don Gesualdo).

E ancora là, a Malta, per il ferimento in uno scontro con un cavaliere di giustizia, Caravaggio è messo in prigione. Fugge dalla prigione e il 6 ottobre 1608 approda a Siracusa. Fugge di notte dal Forte Sant’ Angelo, il Caravaggio, nel bel mezzo di parate, caroselli e clamori per la celebrazione dell’anniversario della battaglia di Lepanto. Riesce a fuggire da quel forte per l’aiuto  dell’ammiraglio della flotta maltese don Fabrizio Sforza, figlio di Francesco e di Costanza Colonna, marchesi di Caravaggio, al cui servizio era stato il “maestro di case” Fermo Merisi, padre di Michelangelo. E’ sempre sotto la protezione degli Sforza e dei Colonna, Michelangelo Merisi, nel borgo Caravaggio, a Milano, a Roma. E’ sempre protetto da principi e cardinali, malgrado il suo porsi nella marginalità, tra ribelli, bande di violenti, prostitute e ragazzi di vita, il suo porsi contro i gesuiti e gli ortodossi pittori controriformati.

Il 6 ottobre del 1608 Caravaggio approda dunque nel Porto Grande di Ortigia. Aveva viaggiato, confuso in un manipolo di marinai fiamminghi, sulla speronara del raìs Leonardo Greco. Così ci racconta Pino Di Silvestro nel suo romanzo, che poggia su una precisa documentazione La fuga, la sosta. Caravaggio a Siracusa (Rizzoli, 2002). A Siracusa è accolto, Michelangelo Merisi, nel convento dei frati Minori Cappuccini sopra l’Acradina. Dove è curato e amorevolmente assistito dai frati e quindi affidato, come chiede lo Sforza nella lettera raccomandatizia al guardiano padre Raffaele da Malta, a don  Vincenzo Mirabella, musicista e storico di Siracusa. Ed è il Mirabella, il “cavaliere squisito, dall’intelletto concettoso”, come lo definisce Caravaggio in una lettera al cardinale Del Monte, è don Vincenzo a fare da méntore al lombardo nel viaggio, per i vari strati o gironi, nella profondità storica di Siracusa. Viaggio nella contemporanea città controriformista, d’inquisizione e ispanica militarizzazione, di ricchezza e miseria, di religiosità popolare  e di superstizione, fino alla Siracusa della solarità dei templi, dei teatri e degli anfiteatri greci e romani, alla Siracusa delle latomie, fra cui quelle profonde e brulicanti del Paradiso, in cui penosamente lavorano i cordari e in cui è l’Orecchio di Dionisio, nome dato dallo stesso Caravaggio a quel cunicolo scavato nel tufo. E scrive don Vincenzo Mirabella nel suo Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse…:”…avendo io condotto a vedere questa carcere quel pittore singolare dei nostri tempi Michel Angelo da Caravaggio, egli, commiserando la fortezza di quella, mosso da quel  suo ingegno unico imitatore delle cose di natura, disse: Non vedete voi come il tiranno per voler fare un vaso che per far sentir le cose servisse,non volle altronde pigliare il modello che da quello che la natura per lo medesimo effetto fabbricò. Onde si fece questa carcere a somiglianza d’un orecchio”. Ed è ancora il Mirabella a convincere il Senato a commissionare al pittore il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia per la chiesa extra moenia di Santa Lucia al Sepolcro, nell’antica zona dell’Acradina. E’ lui, il Mirabella, che difende il pittore dall’accusa di blasfemia, da parte dell’autorità religiosa, del grasso arcivescovo Saladino, per l’eterodossia iconografica del quadro (la costante eterodossia caravaggesca). In questo quadro, come nella Decollazione del Battista di Malta, è l’ambiente, lo spazio che prevale. I personaggi, clero e fedeli, sono relegati, quasi schiacciati contro l’alta parete di tufo, nella penombra d’una latomia. E il gonfio corpo della  fanciulla, di Lucia, con la testa mozza, è steso a terra e s’intravede tra le quinte in primo piano dei corpacci ignudi di due interratori. I quali sono forse in Caravaggio la memoria lontana di due monatti che sotterrano i corpi del padre Fermo e del nonno Bernardino, morti per la peste in Lombardia del 1576. E nella fanciulla là stesa a terra è forse la memoria della madre Lucia. Il corpo della martire è chiuso tra la piccola schiera degli astanti in pena e i corpacci in primo piano, come dicevamo, di due “manigoldi giganteschi” (Longhi), di due becchini. Sembra questa una scena dell’Amleto, quella del cimitero in cui Ofelia sta per essere seppellita. Ma i due interratori siracusani, facchini di porto o cordari, non possono avere la sofisticata dialettica del becchino shakespeariano. Qui piuttosto lo sguardo è condotto, attraverso le quinte dei due interratori in primo piano, al corpo a terra della santa e quindi, nel centro, al diacono dal drappo rosso e dalla mestissima espressione. E sembra, quello del giovane, il dolore di Caravaggio per la madre morta Lucia. Chissà se Manzoni, ricercando sul cardinal Federico Borromeo, possessore del famoso Canestro di frutta di Caravaggio, non si sia imbattuto in Fermo e Lucia, genitori del pittore, e che con questi due nomi “caravaggeschi” abbia voluto intitolare la prima stesura del 1823 del romanzo che diverrà poi I promessi sposi.

Scriveva Roberto Longhi nel suo Caravaggio del 1952 che, fra i quadri del pittore in Sicilia, la Sepoltura di Santa Lucia era il più guasto. Questo perché per secoli quel capolavoro era rimasto nell’antica chiesa presso il mare, aggredito dalle intemperie e soprattutto dalla salsedine.Pesantemente ritoccato nell’800 con pretese conservative, il quadro è stato poi più volte restaurato e la penultima volta, prima dell’attuale restauro  a Palermo, nel 1979 nell’Istituto Centrale del Restauro. E il direttore dell’Istituto, Michele Cordaro, un allievo di Brandi, ci dà ragguaglio di questo restauro nel catalogo della mostra del 1984 a Palazzo Bellomo, Caravaggio in Sicilia.

E scriveva Cesare Brandi il 10 aprile 1977 sul Corriere della sera: “I fedeli caravaggeschi, che oramai sono legione, chiedevano a gran voce che il capolavoro restituito a una nuova vita non fittizia, non torni a marcire nel luogo che l’aveva quasi cancellato.” Ma i frati del convento di Santa Lucia al Sepolcro continuano a reclamare la restituzione del dipinto. Ma i fedeli caravaggeschi, oltre a temere, come Brandi, l’ulteriore deterioramento del quadro, temono altresì che un esperto danaroso e “sensibile” possa commissionare a un picciotto, a un qualche Marino Mannoiaq, il furto del quadro in quella chiesa accessibile come l’oratorio di San Lorenzo di Palermo. Ma scrivevano nel 1996, nel fascicolo Il seppellimento di Santa Lucia del Caravaggio, Giuseppe Voza e Gioachino Barbera:”…la collocazione del Seppellimento nella sua ubicazione originaria è fuori discussione, malgrado il parere contrario di Cesare Brandi e la presa di posizione di intellettuali  come Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, i quali, in occasione della mostra del 1984, volevano farsi promotori di un appello rivolto alle autorità religiose e politiche regionali  chiedendone la musealizzazione”. Non sappiamo delle autorità religiose, del cardinale di Palermo o del vescovo di Siracusa cosa oggi risponderebbero a quell’appello. Ma sappiamo con certezza della risposta delle autorità politiche  regionali, autorità rappresentate  in Sicilia da Totò Cuffaro e dai suoi assessori alla Regione.   

 Ma torniamo al Seppellimento, a questo capolavoro che ha ispirato alcune mie pagine del libro L’olivo e l’olivastro (Milano, 1994)

(Lettura del brano)

A Siracusa sembra che Caravaggio abbia rincontrato il suo antico compagno di bottega a Roma Mario Minniti. Il Minniti si muoveva allora, nella sua attività di pittore, per canali francescani. Il generale dell’ordine era in quel tempo il padre Geronimo Errante, oriundo di Polizzi Generosa, e per questi canali francescani sembra si muova  anche Caravaggio per la Sicilia. Nel dicembre del 1608 lascia Siracusa e va a Messina, dove rimane per otto mesi, fino all’agosto del 1609. Qui ha la prima commissione  dal ricco mercante genovese Giovan  Battista de’ Lazzari, la magnifica Resurrezione di Lazzaro per la chiesa dei Crociferi. Dal Senato ha la committenza de L’Adorazione dei pastori per la chiesa extra muros di Santa Maria della Concezione dei padri Cappuccini. Opere, queste due, oggi nel Museo di Messina, accanto al Polittico di San Gregorio di Antonello.Dipinge ancora per il conte Adonnino la Visione di San Gerolamo, oggi a Worcester, USA. La Salomé con la testa del Battista, oggi nel palazzo Reale di Madrid, L’Annunciazione, oggi a Nancy. E quindi su committenza del barone Nicolao Di Giacomo le Storie della passione di Cristo. E scrive il di Giacomo: “Nota delli quatri fatti fare da me Nicolao di Giacomo: Ho dato la commissione al signor Michiel’Angelo Morigi da Caravaggio di farmi le seguenti quatri: Quattro storie della passione di Gesù Cristo da farli a capriccio del pittore delli quali ne finì uno che rappresenta Christo colla croce in spalla; La Vergine Addolorata e dui manigoldi, uno sona la tromba, riuscì veramente una cosa bellissima, opera pagata onze 46. L’altri tre s’obbligò il pittore portarmeli nel mese di agosto con pagarli quanto si converrà da questo pittore che ha il cervello stravolto”. Di queste committenze del di Giacomo sembra sia  superstite l’Ecce Homo del Palazzo Rosso di Genova. “Ha il cervello stravolto” dice il di Giacomo di Caravaggio. Sì, siamo in questa estrema stagione  siciliana di Caravaggio, di fronte a un uomo dal “cervello stravolto”, siamo di fronte a un uomo mai sereno, in un accentuato momento di dolore e di furore, come se quel nobile genio, avvertisse i passi terribili della conclusione  della sua vicenda umana.

E un momento di abbandono, di tenerezza lo ha a Palermo, con la Natività o Adorazione dei pastori con i Santi Francesco e Lorenzo, che è stato nell’Oratorio di San Lorenzo fino al 1969. Scrive Roberto Longhi: “L’altro  “Presepio” dell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, dipinto dal Caravaggio nel 1609 già sulla via del ritorno, è il meglio conservato (e anche il meglio pulito) dei suoi dipinti siciliani”. E dico qui tra parentesi che è poco credibile la versione di Marino Mannoia del disfacimento della tela appena srotolata. Ma continuo col Longhi : “Ritornando sui suoi passi pare che l’artista quasi voglia rievocare  le vecchie Sacre Conversazioni lombarde. Ma tutte nuove sono le scoperte nei semitoni ombrosi dei due animali del presepio, nel San Giuseppe in giubbetto verde elettrico e nella grande ritrosa della lustra canizie; nell’angelo, di nuovo “bresciano”, ma che spiomba dall’alto come un giglio scavezzato dal proprio peso; nel bambino miserando, abbandonato a terra…” Dopo questo umile, sereno idillio, s’imbarcherà per Napoli (pensiamo dalla Cala, su una speronara). E da lì a Napoli, ancora guai: sulla porta della locanda del Consiglio sarà raggiunto dai sicari  del suo rivale maltese e massacrato di botte. Da Napoli manderà a Roma il suo ultimo messaggio: Il Davide con la testa del Golia (che si crede il suo autoritratto), oggi alla Galleria Borghese. E infine il suo accostarsi a Roma, le sue febbri, la sua morte sulla spiaggia  di Porto Ercole. Così finisce quest’uomo geniale, questa lama di luce vivida che ci ha rivelato la verità del mondo.

                                                

Milano, 10 aprile 2006

UOMO DEL NOSTRO TEMPO

“Come d’arbor cadendo un picciol pomo” distrugge un formicaio, così un vulcano, eruttando, con la colata sua di lava incandescente, copre città e villaggi, così lo “sterminator Vesevo” distrusse Pompei ed Ercolano. Il vulcano è per il Leopardi de La Ginestra metafora della natura matrigna,
violenta, che desertifica, annichilisce il mondo, questo granello di sabbia
rotante nell’infinito spazio. E in cui, consolazione per gli uomini,
è l’“odorata ginestra”, è il sentimento, la ragione, unica salvezza la “social catena”, è “l’onesto e il retto / conversar cittadino, / e giustizia e pietate”.
È da qui dunque, dalla città, dall’urbs, dalla polis che bisogna partire per
percorrere e “leggere” questa mostra di Augusto Sciacca.
Perché l’artista è dall’idea di città che parte, dall’ideale di una civiltà perfezionata, come quella che ritrova Ulisse, dopo le offese e le perdite subite dalla natura, nel regno dei Feaci. “Per te (…) l’idea e il tema della città sono l’idea e il tema stesso dell’arte; lo si vede (…) specialmente nella tela in cui, con simbolismo evidente, evochi Giotto” scrive al pittore Giulio Carlo Argan.
L’alta città da cui Francesco d’Assisi ha scacciato i diavoli dell’irrazionalità, del disordine, della violenza, abita il pittore e là può riflettere sullo spazio e sul tempo, sull’universo, questo leibniziano incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata, e stende le sue magnifiche mappe del vortice degli elementi, delle espansioni materiche, mappe evocative dei luoghi della memoria. Ma in quella turrita, ideale città giottesca giunge il tremendo fragore della storia, e le mura merlate, i soavi colori delle facciate sono investiti e offesi dall’onda di ceneri e detriti d’una storia umana di storture e atrocità.
“Adunque l’arte è filosofia”, questa frase di Leonardo mette Sciacca in
esergo a un suo scritto. È filosofia, sì, afferma il pittore, e anche
responsabilità etica, oltre ad essere continua ricerca linguistica o stilistica,
ad essere infine metafora.


E dunque per ragioni etiche l’artista svolge il nuovo ciclo pittorico per rendere “evidente” – è la parola giusta – la stoltezza umana, la ricorrente
caduta storica nella barbarie, nella violenza che ciecamente e impietosamente oltraggia ogni innocenza.
E ci racconta, Sciacca, dell’inizio, della violenza di un fratello contro
l’altro, di Caino contro Abele, mostrandoci la “pietra” intrisa di sangue,
incrostata di capelli. E dalla pietra della Genesi posiamo lo sguardo sulla
pietra dell’“Uomo del mio tempo” di Quasimodo, il moderno uomo, ma
eternamente primordiale nella violenza, l’uomo della “scienza esatta
persuasa allo sterminio”, l’uomo della bomba atomica. Guerra, violenza e
morte che già il poeta primo, Omero, ci raccontò nel poema e ci
rappresentò nello scudo per Achille foggiato da Efesto. “Lotta e tumulto
era fra loro e la Chera di morte (…) veste vestiva sopra le spalle, rossa di
sangue umano”.

Una scia rossa attraversa la storia umana, da ieri fino ad oggi. Oggi in cui
ancora l’uomo, immemore della violenza già compiuta, ripete la stessa
violenza, la stessa ignominia. E l’artista, come altri nel passato, come
Callot, Goya o Picasso, offeso nella sua coscienza etica, commosso,
rappresenta e denunzia. Sciacca sceglie le icone più emblematiche nel
mare tenebroso delle immagini di questo nostro tempo, di questo antinferno di ombre evanescenti, di questa oscena civiltà dello spettacolo,
delle immagini che si annullano tra loro, che subito precipitano nel nero dell’oblio. Le immagini che trascorrono sotto i nostri occhi, come fossero
normali e quotidiane, a mille a mille di scene di guerra e di disastri, di
morti e di massacri, d’intimità violate, di dolori esposti all’indifferenza e al
ludibrio. L’abitudine, si sa, cancro che divora e che trasforma, ottunde,
spegne la ragione, e l’idiozia è madre della degradazione e della crudeltà.
Sciacca salva e illumina l’immagine emblema. Con tavole come Pugnale,
Innocenza-corona, Orme, Tagliola, ci dice d’una violenza, d’una tragedia
ricorrente. L’innocenza – un angolo di muro non bastò è la ricreazione di
una recente icona, quella del bambino palestinese, stretto al padre, ucciso
da una raffica di mitra; e ancora della bambina vietnamita colpita dal
napalm che corre per la strada, e del giovane armato degli Anni di
piombo, e del terrorista islamico, e del Muro (…ancora muri), alzato dagli
israeliani; e l’immagine della teoria di corpi inanimati dentro sacchi neri di
plastica, e dell’Elettrodi, l’atroce immagine dell’incappucciato e torturato
nel carcere di Abu Ghraib; e delle torri gemelle di New York ridotte in
macerie, e ancora dei fili spinati, e della memoria di Auschwitz, fino
alla desolazione di Neve e cenere. Campeggia quindi la bianca colomba
insanguinata contro il nero della notte, la notte della storia.
Immagini infernali, da inferno dantesco, l’inferno delle brutte Arpie e delle
nere cagne, le feroci bestie aizzate contro prigionieri inermi. “In quel che
s’appiattò miser li denti, / e quel dilaceraro a brano a brano; / poi sen
portar quelle membra dolenti”.
Ma gli artisti, pittori, poeti o musicisti, scuotono la nostra coscienza, ci
strappano dagli occhi il velo della nostra distrazione, della nostra
alienazione, ci rappresentano l’orrore, la Guernica della nostra barbarie,
per ricordare l’essenza nostra umana, che mai dovrebbe essere ridotta
allo stato di natura, all’animalizzazione, alla ferinità primordiale.
Sciacca, come gli antichi amanuensi, ha scritto i libri delle nostre perdite,
gli annali delle nostre sconfitte, la plumbea pagina nostra Della crudeltà.
Ma, in contrappunto, anche il Libro d’oro del sublime umano, la Nike di
Samotracia e la lira del poeta, il tempio d’armonia e il poverello d’Assisi
che parla agli uccelli…
Sui grandi schermi delle tele, sul video della vita ha fissato i fotogrammi
dell’innocenza violata, della violenza e dell’empietà.
Noi rappresenta Augusto Sciacca con grande arte in questa sua mostra.

Vincenzo Consolo

Milano, 23.2.2006

nella foto: Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga Consolo, Augusto Sciacca, Angela di Carluccio


Testo scritto da Vincenzo Consolo in occasione della mostra di Augusto Sciacca intitolata “Innocenza e pietas” al Museo della Permanente di Milano nel 2006.

Quanto ci mancano la penna e la spada di Sciascia.

di Vincenzo Consolo

«Chi sei?» domanda Danilo Dolci a Leonardo Sciascia durante il dibattito tenutosi al Circolo Culturale di Palermo il 15 aprile 1965. E Sciascia risponde: <<Sono un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri. Forse perché non riuscivo ad essere un buon maestro delle elementari. Questa può essere una battuta, ma per me è una cosa seria>>.

No, non è una battuta, perché sappiamo dalle sue Cronache scolastiche, pubblicate nel1955 nel numero 12 di “Nuovi Argomenti”, la malinconia, la pena, lo smarrimento e l’indignazione per le condizioni di quei suoi alunni di 5″ elementare, alunni poveri, figli di contadini e zolfatari. Pena e indignazione per le condizioni di Racalmuto, della Sicilia di allora e di sempre, sfruttata e umiliata dai “galantuomini”, oppressa dalla mafia. Inadeguato, incisivo, come si sente, nell’ insegnare, si mette a scrivere (ma Sciascia aveva già pubblicato, le Favole della dittatura nel 1950 e La Sicilia, il suo cuore nel 1952) e scrivere per lui, impugnare la penna, è come impugnare la spada, L’affilata, lucida e luminosa spada della ragione per dire, denunciare e quindi combattere i mali della società, le ingiustizie, le offese all’uomo, alla sua dignità. Aveva scritto Sciascia, nella premessa a Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato nel 1956, parlando del suo paese, di Racalmuto: <<La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso. Paolo Luigi Courier vignaiolo della Turenna e membro della legion d’onore, sapeva dare colpi di penna che erano colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna.,.>>, e ribadisce, nella conversazione con Dolci: «Io concepisco la letteratura come una buona azione. Il mio ideale letterario, la mia bibbia è Courier, l’autore dei libelli. Courier definì il libello una buona azione.,.>>. Anch’io <<in effetti non ho scritto che libelli». Il libello o pamphlet. E siamo nel ’65, quando già Sciascia aveva pubblicato vari libri di narrativa, fra cui Gli zii di Sicilia, Morte dell’inquisitore, Il giorno della civetta, Il consiglio d’Egitto. Ma libello, dice, nel senso di buona azione, di impegno civile, vale a dire, sia in campo narrativo che in campo saggistico o giornalistico. Dice, ancora in quell’incontro con Dolci: <<Ho scritto libri di storia locale, in un certo modo, nel tentativo di raggiungere un pubblico anche popolare. Cosa che parzialmente mi è riuscita. E il mio impegno – ormai è diventato quasi ridicolo palare di impegno – ma io continuo a ritenermi uno scrittore impegnato. Perché fin quando c’è una realtà che si deve mutare, pena proprio la morte, come il caso nostro della Sicilia, io ritengo che esiste l’impegno dello scrittore>>. Scrittura narrativa, dunque, e scrittura libellistica, e scrittura saggistica e scrittura. giornalistica. E in tutte le scritture Sciascia ha come principio, come cifra stilistica la chiarezza. <<Il problema della chiarezza è per me come se lo può porre un giornalista, non come se lo può porre un letterato>>. E qui, in tema di chiarezza, di scrittura chiara ed estremamente comunicativa, siamo nel problema dello stile. Scrive Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura: <<Lo sconfinare dei fatti politici e sociali nel campo di coscienza della letteratura. ha prodotto un nuovo tipo, diciamo, di scrittore situato a metà strada tra il militante e lo scrittore vero e proprio (…) Nel momento in cui l’intellettuale si sostituisce allo scrittore, nelle riviste e nei saggi nasce una scrittura militante interamente liberata dallo stile e che è come il linguaggio professionale della “presenza”>>. E ancora: «Nelle scritture intellettuali si tratta di scritture etiche, in cui la coscienza di chi scrive trova
 l’immagine confortante di una salvezza collettiva.
Ora, crediamo che la distinzione barthesiana tra scrittore e intellettuale la si possa applicare a tanti scrittori, a partire dall’ Émile Zola del caso Dreyfus, ma nel caso di Sciascia non è possibile vedere quella dicotomia. Perché in Sicilia, in Italia, i fatti politici e sociali sconfinano con una tale irruenza, costanza e urgenza nella coscienza della letteratura che non è più possibile, per uno scrittore come Sciascia, praticare una lingua, uno stile per la scrittura narrativa e un altro per la scrittura di “presenza” o militante. <<Sono le grandi cose da dire che fanno la lingua>> afferma Sciascia. E anche; «Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono>>. La ragione che dalla buia miniera di Racalmuto, dalla Sicilia, lo porta alla luce di quella regione, di quella città dove la lingua ha avuto la sua più alta e limpida declinazione, a quelle rive dell’Arno in cui Manzoni volle sciacquare i panni. Manzoni fino ai rondisti. «Debbo confessare che proprio dagli scrittori “rondisti” – Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente in me restano tracce di tale esercizio>> scrive il Nostro nella prefazione alla seconda edizione del’67 delle parrocchie di Regalpetra. La fiorentina lingua dei rondisti, sì, ma scavalcando poi le Alpi e trovando più robusta consistenza in quella lingua “geometrizzata”, come la definisce Leopardi, che è il francese, la lingua dei suoi illuministi, degli amati Diderot, Voltaire e Courier, la lingua del suo “adorabile” Stendhal. Scrive Italo Calvino a Sciascia, in data 26 ottobre 1964 (la lettera è pubblicata nel numero 77 della rivista francese “LArc”, dedicato a Sciascia): <<Tu sei molto più rigoroso “filosofo” di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto, esse hanno una univocità che è loro propria nel pieno del pamphlet. (…) Ma tu hai, dietro di te, il relativismo di Pirandello, e Gogol tramite Brancati, e, continuamente tenuta presente, la continuità Spagna-Sicilia, Una serie di cariche esplosive sotto i pilastri dello spirito filosofico. Io m’aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che tu hai accumulato”. E questo potrà difficilmente prodursi senza una esplosione formale, della levigatezza della tua scrittura>>. Ma mai e poi mai Sciascia avrebbe dato fuoco alle polveri, avrebbe fatto esplodere il suo stile, la sua lingua illuministico-comunicativa. Poiché polveri, esplosioni e tragici continui crolli, caligini e disordini erano già nella realtà storicosociale della Sicilia, dell’Italia; libertà e giustizia erano in quelle realtà continuamente offese, offeso era il cittadino, l’uomo nei suoi diritti, nella sua dignità. E allora Sciascia, tagliente penna-spada, con quella limpida, luminosa lingua “geometrizzata” scrisse i suoi romanzi, racconti. pamphlet, articoli di giornale, con la barthesiana scrittura di “presenza” o militante. I fatti poi, i fatti siciliani, italiani erano (e, ahinoi, sono tuttavia, direbbe Manzoni) così gravi e urgenti da spingere Sciascia a scrivere, a intervenire sulle pagine dei giornali, a spingerlo a dire, a denunziare, a indicare là dove un male civile era in atto o avrebbe potuto manifestarsi. Ma in lui gli intellettuali giornalistici erano anche occasione di ripercorrere la storia, rivisitare episodi, indicare personaggi, libri, autori che quegli episodi ci fanno capire, di cui ci indicano la soluzione. Già, da anni lontani. dalla metà degli anni Quaranta, Sciascia comincia a scrivere sui “giornali, sulla “Sicilia del Popolo” e quindi sul ‘Corriere del Ticino”. la “Gazzetta del Mezzogiorno”. sul “Corriere della Sera”. “La Stampa”, oltre che su varie riviste italiane e straniere. Ma il suo rapporto più assiduo, costante e direi più connaturale, è stato con il giornale “L’Ora”.
Inizia nel 1955) con un articolo su Micio Tempio, la collaborazione se pure saltuaria, con quel glorioso giornale di frontiera. Ma è dal ’64 al ’67 che Sciascia tiene sul quel giornale la rubrica settimanale “Quaderno”. E il nuovo direttore del giornale, Vittorio Nisticò. approdato a Palermo nel 1955, per restare alla direzione di quel giornale fino al ’75, a invitare Sciascia, tramite Gino Cortese e Mario Farinella. A collaborare col giornale. E lo farà, Sciascia, fino agli ultimi suoi anni, fino a dettare alla figlia, poco prima di morire, una nota su Giuseppe Antonio Borgese. La grande firma di Sciascia si affiancava nella gloriosa storia dell’ “Ora”, Fondato nel 1900 da Ignazio Florio e diretto da Vincenzo Morello (Rastignac), a quella di Verga, Capuana, Borgese, Rosso di San Secondo, Serao, Scarfoglio, Brocca, Di Giacomo, Guglielminetti, Ojetti; e, alla grande firma di Sciascia, si affiancavano firme di scrittori e intellettuali a lui vicini: Guttuso, Caruso, Addamo, Renda, Marck Smith, Sapegno, Sanguineti, Lanza Tomasi, Franco Grasso, Dolci, Giarrizzo, Pantaleone, lo stesso che qui vi parla, ed altri ed altri ancora: per non dire di intellettuali entrati come giornalisti a “L’Ora”: Farinella, Cimino, Saladino. Perriera, Nicastro e altri. Il rapporto più stretto, più assiduo di Sciascia con “L’Ora” è stato, come dicevo, attraverso la rubrica settimanale “Quaderno”, che va dal 24 ottobre 1964 al 27 giugno 1967. Rubrica poi raccolta in volume, pubblicato nel ’91 dalla stessa editrice “L’Ora”. Nella introduzione da me scritta per quel volume, definivo Sciascia “scrittore di pensiero”, in contrapposizione a quello scrittore di sentimento che era Verga. E l’uno e l’altro quindi, con due visioni del mondo e con due stili, con due lingue diverse: l’uno, ripetiamo, con una chiara ed estremamente comunicativa lingua centrale” o illuministica; l’altro con un italiano “irradiato di dialettalità”, come l’ha definito Pasolini. L’uno con una lingua articolata, dialettica; l’altro con una lingua chiusa, circolare, come di versetti biblici o sure del Corano. E cosa più importante, dietro Sciascia e Verga vi erano due biblioteche. Dietro Sciascia vi furono quei dieci importanti libri in cui s’imbattè nella sua infanzia, e quindi la sterminata biblioteca del suo vasto, inesauribile sapere. Per cui la lineare chiara scrittura di Sciascia, aveva in sé delle vaste e profonde risonanze; era la sua, in modo esplicito o implicito una scrittura palinsestica (di riscrittura egli parlava). In Verga, invece, non c’era nessuna biblioteca (ci poteva essere, sì, Zola o Flaubert), c’era solo in luì la memoria di Acitrezza o di Vizzini, la memoria dei proverbi e dei modi di dire siciliani che egli traduceva appena, in italiano.
La Spagna, innanzitutto. La Francia, abbiamo detto, nel pensiero, ma, com’egli ha scritto, <<La Spagna nel cuore>>. La Spagna della Guerra civile, la Spagna di Cervantes e di Unamuno, quella dei poeti della generazione del ’27, antologizzati da Gerardo Diego, di Lorca, di Alberti, di Guillén, Cernuda. Machado, Salinas, Aleixandre, Alonso .,. La Spagna di Manuel Azana, l’ultimo presidente della repubblica spagnola, l’autore de  La veglia a Benicarlò, che Sciascia aveva tradotto e introdotto per Einaudi. La Spagna ancora di Hemingwy e di Malraux, della città martire di Guernica e di Picasso dell’architetto Gaudì e di Robert Capa, della sconfitta dell’esercito fascista italiano a Gudalajara. Spagna e quanto di Spagna, attraverso lo schema del grande storico Américo Castro, è rimasto in Sicilia. Rimasto nelIa sua storia, nei costumi, nel modo di essere. Rimasto in quell’atroce fenomeno dell’lnquisizione. Inquisizione che è sì quella del Santo Uffizio a Palermo, del suo carcere qui. in questo palazzo dello Steri, dei messaggi degli inquisiti, dei Palinsesti del carcere. Quella Spagna e quella Sicilia di dolore e di orrore da cui sono scaturiti i racconti L’antimonio, Morte all’inquisitore, il Consiglio D’Egitto. Si chiude sì il Santo Uffizio a Palermo e il suo carcere, il giorno 27 marzo 1782, viene abbattuto l’orribile mostro”, come scrive il marchese Caracciolo al suo amico d’Alambert, ma le inquisizioni e le carceri continuano in Italia e nel mondo, là dove impera il “sonno della ragione” e si commettono ludibri, oscene vergognose violenze di uomini contro altri uomini, Di questo parlano, per esempio, le pareti delle carceri naziste o staliniste le carceri di via Tasso a Roma, così le pareti delle carceri argentine o cilene o greche, delle dittature dei colonnelli o di Pinochet; così oggi, e ancora con maggior ludibrio palano le pareti delle carceri americane in Iraq, di Abu Ghraib e quelle di Guantanamo. E, a proposito dell’Inquisizione a Palermo, Sciascia scrive ancora sul “Quaderno” del 21 novembre 1964: << II 19 agosto del 1953 incappò foco a due dammusi di polveri» nel castello a mare di Palermo: <<et essendo vicine le carceri, tutte le scacciò>>. Tra quei prigionieri di Castellamare perirono Argisto Giuffredi, autore di quel libretto (che precorre Beccaria) contro la tortura e la pena di morte intitolato Avvertimenti Cristiani, e il poeta Antonio Veneziano, che, nei bagni di Algeri, aveva conosciuto e stretto amicizia con Cervantes.
Tanti, tanti sono i tempi svolti da Sciascia in quei 125 articoli, scritti trai,’64 eil’67 per il “Quaderno”. Articoli che prendono spunto di volta in volta da fatti di cronaca – di mafia soprattutto -, da letture, viaggi, incontri, accadimenti politici, polemiche. Fra queste ultime vogliamo ricordare quella del 21 febbraio col giornalista dell’“Avanti!” Fidia Sassano. Il quale rimproverava a Sciascia di essere pessimista nei confronti del futuro della Sicilia, nonostante la miracolosa scoperta del petrolio in Sicilia, la presenza del “colosso europeo” del petrolchimico di Priolo, Melilli, Gela. E, dice Sassano a Sciascia: <<Questi benedetti letterati!». Ma benedetto letterato non era Sciascia allora, lo è stato invece, e ci dispiace dirlo, Vittorini, che in quel “petrolio siciliano” aveva visto il risveglio e il riscatto dei siciliani ed era stato indotto a scrivere Le città del mondo, uscito postumo. Del disastro, dello sfacelo di quell’utopia industriale che era stato il petrolio siciliano, Sciascia ne vede, profeticamente, il fallimento, così come profeticamente vede il fallimento del Psi, il Partito socialista italiano, cui Fidia Sassano appartiene. Quel partito socialista che alla sua fine, come frutto avvelenato, ci avrebbe lasciato in eredità un uomo e un partito: Berlusconi e Forza Italia, del cui potere o strapotere tutti soffriamo e di cui ci vergogniamo. Scriveva Sciascia: <<Sassano appartiene a quella categoria di socialisti che io chiamo soddisfatti: talmente soddisfatti che dalle loro soddisfatte viscere si possono trarre auspici non del tutto rassicuranti per il nostro immediato e lontano avvenire >>. Potrei ancora dire d’altri temi e d’altri spunti. Dire che questo illuminista interviene sempre là dove la ragione è offuscata, la libertà conculcata, il cittadino, l’uomo offeso. Ed è certo che la sua “conversazione” sempre dalla Sicilia parte e alla Sicilia si riduce, a quest’isola che duole al siciliano Sciascia, a questa regione in cui i siciliani onesti si ritrovano sempre “con la faccia per terra”, quei siciliani di “alta dignità e di tenace concetto” che non hanno meritato tutti i malgoverni locali e nazionali del passato, non meritano quelli nefasti e vergognosi di oggi, a Palermo e a Roma. Ci è mancato dal 1989 e ci manca ancora oggi e ogni giorno di più uno scrittore e un intellettuale come Leonardo Sciascia. Ci manca la sua penna, la sua spada. Come ci è mancata e ci manca quella di un suo confrère, di Pier Paolo Pasolini, il Pasolini delle Lucciole, del Palazzo, il Pasolini corsaro e luterano. Luterano come Sciascia, come pochi altri in questo Paese segnato da sempre da viltà e conformismo. Nel deserto e nella malinconia di questo nostro attuale Paese, di questo nostro contesto occidentale, ci conforta sapere che è stato qui con noi, per noi, un uomo come Leonardo Sciascia. Ci conforta sapere che possiamo tornare a rileggere le sue forti e luminose parole.

da Kalos “Sciascia il romanzo quotidiano”
2005 Gruppo editoriale Kalos

Ma la luna, la luna… Vincenzo Consolo



 Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .

1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).

 Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:

 5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).

 “(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:

6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.

 “Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che

11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.

avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa

 13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.

 gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e

14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.

  dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.

 Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il

18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).

 Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.

Milano, 22 ottobre 2005


21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).

Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo

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Struttura-azione di poesia e narratività
nella scrittura di Vincenzo Consolo

Maria Attanasio
Scrittrice

Alla ricerca di un’espressività nuova rispetto all’omologazione linguistica della contemporaneità, la scrittura di Vincenzo Consolo assume le modalità ritmiche e la densità metaforica della poesia: una vera e propria struttura-azione testuale che fa interferire la lingua della memoria e la memoria della lingua, la sequenzialità del tempo narrativo e la verticalità di quello della poesia. Benché tutti i suoi libri siano traboccanti di citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo — da Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shakespeare, a Leopardi, a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri — Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato un libro di poesie, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani — Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio — la cui narrativa è stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica. Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva,ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazionetra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio; esemplare è in questo senso un racconto appartenente a Le pietre di Pantalica, I linguaggi del bosco, in cui lo scrittore racconta l’esperienza di un fanciullo che, durante un soggiorno in campagna, apprende dalla selvatica amica Amalia ad ascoltare il bosco — il suono del vento tra gli alberi, il gorgoglio dell’acqua, l’oscurata parola delle bestie — e a rinominare con una lingua argotica ogni cosa Fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che in quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava.1 metafora della necessità di una espressività nuova in una contemporaneità che, in nome del mercato e del profitto, opera, anche a livello linguistico, una marginalizzazione dei valori di un mondo a carattere antropocentrico. E in questi ultimi anni più che mai: la definizione di «guerra umanitaria» ad esempio, o l’umanizzazione di borse e mercati che «tremano, soffrono, si esaltano, si deprimono, sono euforiche», ecc., mentre, ridotti a puri beni strumentali dell’economia, gli uomini sono diventati semplici «risorse», talvolta da «rottamare». Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua — quella da lui definita «tecnologica-aziendale» che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà — spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perché il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: «coscienza anticipante», rispetto ai valori del proprio tempo, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità — non di semplice realtà — e testimonianza di libertà. Verità della storia — nella storia — e libertà della parola — nella parola — costituiscono infatti la struttura ideologicamente portante della sua narratività, che nella metafora del viaggio — presente e centrale in tutti i suoi libri — si congiungono, corrispondendo spesso — il viaggio e la scrittura — all’inizio e alla fine dello sviluppo narrativo; tappe necessarie di un processo conoscitivo che, coniugando storia ed esistenza, diventa presa di coscienza, parola, il cui nucleo — insieme motivazione e finalità — è sempre l’uomo, «Prima viene la vita, — scrive in Retablo — quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…». 2

  1. Vincenzo CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori,1988, p. 155.
  2. Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 131.

Tra il primo romanzo, La ferita dell’aprile (Mondadori, 1963) e l’ultimo, Lo spasimo di Palermo (Mondadori, 1999), il rapporto tra storia e parola — e quindi il senso della metafora del viaggio — si modifica però profondamente. Se fino a Retablo il viaggio è avventura conoscitiva e utopia, che dilatano il tempo, ingannano la morte — la causa vera del viaggio, per Fabrizio Clerici, il protagonista di questo libro, «è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno dell’ere passate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri»3, nella produzione successiva perde ogni connotazione conoscitiva, diventa nostos, amara verifica in un «paese piombato nella notte», «nell’Europa deserta di ragione»; Chino Martinez, il protagonista de Lo Spasimo di Palermo, ha infatti la consapevolezza che ogni viaggio è «tempesta, tremito, perdita, dolore, incontro e oblio, degrado, colpa sepolta rimorso, assillo senza posa». 4 La modificazione del senso della storia modifica anche quello della parola, con un’accentuazione sempre più espressiva ed espressionista del suo linguaggio, e con un utilizzo in funzione narrativamente destrutturante, rispetto a un tradizionale concetto di romanzo; un utilizzo, in questo senso, presente fin dalle prime opere. In un saggio del 1997, Il sorriso dell’ignoto marinaio vent’anni dopo, che conclude la raccolta di saggi Al di qua dal faro, scrive: Il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodie, fratture, spezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che nella loro limpida, serena geometrizzazione escludevano le voci dei margini.5 Una vera e propria «struttura-azione» di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Lo scrittore sente però fortemente il malioso richiamo che da essa proviene: la straniante fascinazione di forme, suoni, segni, paesaggi che, intrecciandosi o alternandosi agli echi drammatici e stridenti della storia, come una sorta di respiro profondo attraversa tutta la sua scrittura; non si tratta di una schi-Ibid., p. 177. Op. cit., p. 98.Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 2001, p. 282. zofrenia espressiva, ma di una strutturale complementarietà, come complementari — all’interno di una complessiva visione del mondo — sono in Dante e Leopardi, filosofia e sentimento, ideologia e poesia. E non è un caso che entrambi, insieme a Omero, a Eliot e a Lucio Piccolo, siano i poeti di riferimento più presenti nella sua scrittura, che assume talvolta il carattere di una visionaria riscrittura, pulsante di echi, parole, reperti linguistici, risalenti dal fondo del già scritto. In una sorta di rarefatto silenzio leopardiano, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio — mentre il bastimento con il Mandralisca e tutto il suo carico di storia ed esistenze, approda davanti alla Rocca di Tindari — risuona, al di sopra dei tempi e degli spazi della narrazione, la voce visionaria dello scrittore a richiamare dal buio dei millenni Adelasia, la solitaria badessa centenaria, che torna ad aggirarsi tra le celle ormai disabitate, a interrogare invano l’immemore fluire Quindi Adelasia, regina d’alabastro, ferme le trine sullo sbuffo, impassibile attese che il convento si sfacesse. Chi è, in nome di Dio? — di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde per le celle, i vani enormi, gli anditi vacanti. — Vi manda l’arcivescovo? — E fuori era il vuoto. Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali,  uro d’arenaria che si sfalda, duna che si spiana, collina, scivolio di pietra, consumo. Il cardo emerge, si torce, offre all’estremo il fiore tremulo, diafano per l’occhio cavo dell’asino bianco. Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse.6 Lo stesso cosmico smarrimento dei sensi e dell’intelletto lo restituisce attraverso il protagonista di Retablo, che, sul colle di Segesta, davanti alla grandiosità dell’arte e della natura, vede spalancarsi le inaudite voragini del tempo: Sedetti su lo stilòbate, fra le colonne, sotto l’architrave da cui pendeva e oscillava al vento il cappero, il rovo, l’euforbia, a contemplare il deserto spazio, ascoltare il silenzio spesso su codesto luogo. Un silenzio ancora più smarrente per lo strider delle gazze, dei corvi, che neri sopra il cielo del tempio e sopra il vuoto della gran voragine grevi volteggiano, per frinire lungo di cicale e il gorgogliare dell’acque del Crinisio o Scamandro che dall’abisso, eco sopra eco, sonora si levava. 7 finendo con la letterale citazione di un verso de L’Infinito leopardiano. «E sedendo e mirando…». C’è una circolarità geografica nella scrittura consoliana: gli stessi luoghi — esemplari di una perduta bellezza, come i resti della grecità, o di una aggrovigliata contemporaneità, come la Palermo barocca, o la tecnologica Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi, 1976, p. 8. Op. cit., p. 79. Milano — ritornano ciclicamente nelle sue opere; Segesta tornerà infatti a essere rappresentata ne L’olivo e l’olivastro: E là, nel centro, nel recinto aperto in ogni lato, verso ogni punto, esposto alla notte dell’estate che porta sulle brezze odori arsicci di fieni, nepitelle, porta le scansioni del silenzio, del buio, strida, pigolii, sprazzi verdastri, gialli, luccichii, aperto in alto all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo nella lettura stupefatta del libro immenso, in incessante mutamento, nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti, dei chiodi tremendi del mistero…..Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti,nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.8 Un testo di una straordinaria intensità poetica; l’immagine di quei «chiodi tremendi del mistero» resta, ad esempio, ostinata a perciare la mente: l’enigma dell’improvviso ritrovarsi esistenti nel tempo. Interminabili potrebbero essere le citazioni, tratte da tutti i suoi libri, a esemplificazione della variegata e lirica restituzione della natura; del paesaggio soprattutto, colto in tutte le ore e le stagioni: dalla campagna alla città al mare, la cui plurale valenza simbolica nella sua scrittura meriterebbe una trattazione a parte; nella lunga e illuminante intervista, pubblicata ne La fuga dall’Etna (Donzelli, 1993), lo scrittore definisce infatti il mare, come un luogo di invasione e possessione della natura, dell’esistenza, dei miti e dei simboli: simboli ambigui, spesso, insieme, di valori opposti, stridenti come la vita e la morte. Ma la percezione del luogo nella sua scrittura non è mai orizzontale e univoca: nella sua spazialità affiorano memorie, miti, scritture, esistenze, visioni; e non solo nei luoghi dell’arte o in quelli della storia, ma anche in quelli abituali e scontati del quotidiano, come, ne Lo spasimo di Palermo, la stanza di un albergo: Scricchiolii, la guida scivolosa nella curva e il fiato di sempre venefico e pungente, mai tarme blatte, mai topi in quest’ammasso d’alberi e fasciami disarmati, forse madrepore, alghe secolari, fermenti sigillati di mari tropicali, lo sciabordio è nelle tubature verniciate, nel rigagnolo sotto il marciapiede. L’angustia è forzata dagli specchi, uguale gentilezza è impressa su carta tende copriletto, lo stridore è nel giallo degli eterni girasoli.9 A volte è invece il sentimento a far scattare la tensione lirica, privilegiatamente l’amore nelle sue diverse espressioni: come dolcissima e lacerante coniugalità ne Lo Spasimo di Palermo, come sconvolgente passionalità in Retablo, il meno storico dei suoi romanzi, benché ci sia anche in questo, come in tutta la sua produzione, una precisa lettura etica e di classe; nucleo motivante è, in Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 128. Op. cit., p. 11-12. questo libro, l’esistenza, nel suo rapporto, a volte conflittuale, di ragione e sentimento, di arte e verità; un tema, quest’ultimo, già fortemente presente, direi centrale, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ma la scrittura per Vincenzo Consolo non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; aldilà della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita: Oh mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mio sogno e mio pensiero, cos’é mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo ha sempre declinato in mito, in racconto favoloso e leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?10 Per rappresentare il delirio amoroso di Isidoro, in Retablo, lo scrittore fa perciò interferire iperletterarietà e leggerezza, ricerca espressiva e liricità; scava infatti nelle sonorità del nome Rosalia, trovando in esso occultati tutti i sensi e i segni della passione. Ognuna delle due parti del nome genera infatti una appassionata proliferazione di figure d’amore; se «Rosa» è l’immaginifica sorgente di tutti fiori, i colori, gli aromi, di tutte le sfumature di bellezza dell’amata: Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino,bàlico e viòla; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia,… Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel core.11 il «li» di «Lia» invece si moltiplica in una spirale di indicibili tormenti amorosi: Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come sangue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi, per mia dannazione.12 Il testo non è fine a se stesso, ma fa da attacco al romanzo, immettendo subito il lettore nel cuore tematico del racconto — la vita, l’amore, l’arte — ; presentando i protagonisti — Isidoro, Rosalia, Fabrizio Clerici — ; e profilando l’antefatto e i fatti. Già nel libro d’esordio — La ferita dell’aprile — lo scrittore apre la narrazione con una una bellissima prosa, scandita dal ritmo dell’endecasillabo: il ricordo del protagonista che rivede se stesso adolescente, in viaggio verso la vita e la consapevolezza storica:Op. cit., p. 109.Op. cit., p. 15.Ibid., p. 16.
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista, sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti.13 Una lirica dilatazione memoriale, che, con un procedimento tipico della poesia contemporanea, a volte si traduce in contratta densità metaforica, tesa al coinvolgimento emozionale e interpretativo del lettore: esemplare è nello stesso libro la descrizione del panico dei viventi, e della natura tutta, di fronte all’eruzione: La strada è occhi grandi, dilatati, fronti pesanti sull’arco delle sopracciglia, gambe invischiate lente a trascinarsi, schiene ricurve sotto il cielo basso, la mano gonfia con le dita aperte; il gallo sul pollaio che grida per il nibbio, e il cane che risponde petulante. Il cane e un altro cane e tutti i cani: sì, si spaccò l’Etna.14 La presenza di incipit di poesia — in funzione lirica o tragica — aumenta sempre più, libro dopo libro, in funzione di anticipazione metaforica dello sviluppo narrativo, come il testo, tutto assonanze e rime, che da’ inizio al capitolo quarto di Nottetempo casa per casa: Nella vaghezza sua, nell’astrattezza, nella sublime assenza, nella carenza di ragione, di volere, nell’assoluta indifferenza, nel replicare cieco, nella demenza, rivolge a un luogo solo la dura offesa, strema la tenerezza, frange il punto debole, annienta.15 Nella risuonante atmosfera che la rima in «enza», scandendo la prosa, genera, s’imprime tragico e dissonante il conclusivo, «Crudo o Vile o Nulla, vuoto vorticoso che calamita, divora, riduce a sua immagine, misura». Nella produzione consoliana degli anni novanta, una visione sempre più pessimistica della storia tende a instaurare un rapporto inversamente proporzionale tra la rappresentazione della fine di un mondo a carattere antropocentrico e il vitalismo del linguaggio, in funzione di una strutturazione poematica del romanzo, che procede per accumuli lessicali, per addensamenti sonori di consonanze, rime, per grovigli metrici, settenari, novenari, decasillabi, endecasillabi soprattutto. Lo spostamento in senso poematico della sua narratività è l’esito ultimo di sua riflessione critica sul rapporto scrittura-realtà, che avviene nella seconda metà degli anni ottanta: da un lato — scrive in Fuga dall’ Etna — in concomitanza con il «clima spensierato, cinico, di ottuso scialo» della situazione politica italiana di quegli anni — «un carnevale o un paese della cuccagna alla Vincenzo CONSOLO, La ferita dell’aprile, Torino: Einaudi, 1977, p. 3. Ibid., p. 69. Vincenzo CONSOLO, Nottetempo casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 41.

Brughel», che lascerà, però, «un campo di macerie»; 16 dall’ altro con la scrittura teatrale di Lunaria e di Catarsi. In entrambe le opere i versi si alternano al dialogo: una distinzione puramente formale, anzi grafica, perché nella loro testualità non c’è alcuno scarto tra versi e prosa; esemplare è l’attacco in prosa — in realtà in endecasillabi — del primo scenario di Lunaria: «E’ vasto il vasto regno della Spagna vasto come i castelli di Castiglia, va oltre il mare, s’espande miglia e miglia…». 17 In Lunaria — una favola teatrale ambientata in una Palermo settecentesca — lo scrittore procede in un’ardita sperimentazione linguistica, portando, soprattutto nelle parti in versi affidate al coro, fino al non sense il gioco linguistico: attraverso ripetizioni consonantiche o sillabiche (ad esempio la funzione della consonante «n», e della vocale «o», in questi versi: «Nutta, nuce, melanìa/ voto, ovo sospeso,/ immoto»);18 attraverso l’uso della rima, che spesso si ripete — la stessa — verso dopo verso, facendo assumere alle immagini quasi la ritmicità di una giocosa litania, «minna d’innocenti/ melassa di potenti/tana di briganti, tregua di furfanti»; 19 e spesso anche attraverso un uso puramente sonoro del significante, che azzera il significato; gioco, ironia, divertissement, che l’uso di un lessico alto, ricercatissimo, commisto di aulicità, dialetto, di termini derivati da tutti i saperi e da tutte le lingue, morte e vive, accentua, «luna, lucore,/ allume lucescente/ levia particula/ fiore albicolante»).20 Ma il risuonante non sense delle cantilene di Lunaria, nulla ha a che fare con il linguaggio afasico della neoavanguardia, esattamente speculare all’afasia del potere per Vincenzo Consolo; nella sua poesia c’è sempre una parola,un verso, una soluzione espressiva che effrange il seduttivo canto di sirena del puro significante. La metamorfosi del protagonista in luna è, ad esempio, una metamorfosi anche linguistica: il vicerè viene come avvolto da un velame di «l»e di «u» di luna, «Lena lennicula,/lemma lavicula,/ làmula/ lémura, mamula./Létula/ màlia,/ Mah.», 21 un «mah» finale di una trasgressiva sonorità rispetto ai versi precedenti; quel suono però in persiano significa luna, in arabo vuol dire acqua, mentre in italiano rimanda al dubbio, alla perplessità, e anche alla forma tronca della parola madre. Luna, acqua, dubbio, madre: occultati e oscuramente vibranti nel suono di quel monosillabo. In Catarsi, attraverso il dramma di un Empedocle contemporaneo — il direttore di un centro di ricerca, che, coinvolto in uno scandalo, è in procinto di buttarsi nell’ Etna — lo scrittore invece indaga il rapporto tra parola e realtà nella società contemporanea. Sul tema della comunicazione infatti drammaticamente si confrontano il protagonista,Empedocle, e l’antagonista, Pausania, che, con la forza persuasiva della parola vorrebbe farlo desistere, rivendicando il suo ruolo di anghelos, di Op. cit., p. 61. Vincenzo CONSOLO, Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 7.

  1. Ibid., p. 5.Ibid., p. 6. Ibid., p. 49. Op. cit., p. 21.
    «colui che conosce i nessi, la sintassi, le ambiguità, le astuzie della prosa, del linguaggio»; 22 ma nella situazione estrema in cui Empedocle si trova nessuna parola può raggiungerlo, «Se le parole si fanno prive di verità, di dignità, di storia, prive di fuoco e suono, se ci manca il conforto loro, non c’è che l’afasia. Non c’è che il buio della mente, la notte della vita.»23 dice infatti a conclusione della scena terza. Nell’introduzione a Oratorio (Manni, 2002) — che oltre alla ripubblicazione di Catarsi, comprende anche L’ape iblea (elegia per Noto) del 1998 — in riferimento allo scritto teatrale del 1989, Vincenzo Consolo ribadisce e approfondisce la sua riflessione teorica. Verificando nella contemporaneità gli elementi costitutivi della tragedia greca, afferma che, oggi, non c’è legittimità d’esistenza per l’Anghelos, — il comunicatore che, narrando l’antefatto agli spettatori seduti nella cavea, dava inizio alla messinscena tragica — perché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.24 Nell’assenza di ascolto, di referente, nel tempo «dell’assoluta insonorità di un contesto istituzionale», s’interrompe ogni rapporto di transitività tra realtà e scrittura: orfana, senza oggetto, davanti alla violenza senza riscatto della storia, al sonno senza risveglio della ragione, la parola non può più disporsi in racconto, ma con una lingua «estrema e dissonante» squarciare la testualità narrativa, destrutturarla, spostando il romanzo «sempre più verso la parte espressiva, la parte poetica». In realtà non si tratta di una radicale innovazione, piuttosto dello sviluppo di elementi espressivi di poesia — il lamento e l’invettiva — già presenti nei suoi romanzi, benché con un segno ideologico diverso. A conclusione storica de La ferita dell’aprile, si leva una voce dal fondo della narrazione, che da una più alta prospettiva di giustizia e di pietà, rappresenta con grande forza poetica la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio del 1947: N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e c’erano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: — Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca?. Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso.25 Vincenzo CONSOLO, Catarsi in Trittico (Bufalino, Consolo, Sciascia), Catania: Sanfilippo,
    1989, p. 21. Ibid., p. 25. Vincenzo CONSOLO, Oratorio, Lecce: Manni, 2002, p. 6. Op. cit., p. 122-123.
    un requiem per i morti di Portella, in cui però alla rappresentazione della violenza della storia si contrappone quella di una ostinata resistenza ad essa, attraverso la plastica immagine della vecchia con le gambe ben piantate nel terreno. Snodo poetico e ideologico del libro, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, «il canto lamentoso, il pianto rotto, il cordoglio», riguardano la rivolta e la strage dei braccianti ad Alcara Li Fusi, e la fine della speranza di giustizia sociale che in Sicilia motivò l’adesione popolare al processo unitario («Sì, bisogna scappare, nascondersi. Bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati»);26 ma anche, a mio parere, nascono dalla necessità dello scrittore di dare espressione allo spessore di sofferenza delle tante jaqueries, anonime e inespresse nella grande storia. Il brano oltrepassa la connotazione linguistica ottocentesca del personaggio del Mandralisca: è la voce dell’autore che, con un ritmo metaforico accelerato, entra in scena a indicare la cieca notte della storia «all’ estremo della notte già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli»):27 notte di morti, spari, inseguimenti, ma anche di una possibile sortita verso la luce, Muovi il tuo piede qui, su questa terra, entra, fissa la scena; in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe, esci se puoi dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda in prospettiva, mantegnesco.28 In Retablo, invece, il lamento diventa invettiva contro «il secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!», e contro la città che nel Settecento meglio lo rappresentava — e ancora oggi meglio rappresenta il secolo — l’«attiva, mercatora», Milano, stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacabìnt e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola;29 città che ritorna, oggetto di un’invettiva ancora più amara e disperata, ne Lo Spasimo di Palermo: simbolo dell’«illusione infranta», del disastro storico e morale dell’Occidente, città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, «tecnologico» ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.
    30 Op. cit., p. 112. Ibid., p. 113.Ibid.Op. cit., p. 103.Op. cit., p. 91.

Dopo Nottetempo casa per casa l’invettiva e il lamento si amplificano, acquistando una totale autonomia rispetto alla narrazione: diffusa voce extranarrante, inclusiva di vicende e destini, che, rispondendo a un consapevole disegno poematico del romanzo, blocca gli eventi, immobilizza il racconto senza possibilità di dialettico sviluppo e di autonoma parola nell’afasia della società di oggi. Ne L’olivo e l’olivastro cade infatti ogni steccato di genere tra poesia e prosa, tra poema e romanzo; il rimando da capitolo a capitolo — le tappe di una  contemporanea odissea — non risponde né alla sequenzialità narrativa, né tantomeno a un’organizzazione saggistica. Un’angolazione di poesia fa visionariamente implodere la simultaneità dei tempi della lingua nella sequenzialità di quello narrativo, connotando espressivamente eventi e personaggi. I luoghi si verticalizzano, materializzando — in un continuum di passato e presente, di bellezza e desolazione — la densità di storia e di vissuto che vibra oscurata dietro ogni paesaggio, ogni muro, ogni piazza, ogni città; il viaggio di Odisseo – Consolo verso l’Itaca – Sicilia non è infatti un viaggio «in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo»,31 dimensione di struggente lirismo si alterna a una poesia di dolente espressività: alla restituzione lirica di poche oasi di civiltà e di memoria — Siracusa, Cefalù, Caltagirone — si contrappone quella, indignata e drammatica, di una degradata contemporaneità, che trova tremenda esemplificazione in Gela, città «della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo», 32 simbolo dell’irreversibile fine di un’Atene civile, «che — scrive Vincenzo Consolo nel lamento-invettiva di grande forza tragica, a conclusione morale del libro — nessuno può liberare dall’oltraggio». Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua vertiginosamente espressionista disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjambement. Il libro si apre infatti con una sorta di proemio in cui lo scrittore addensa il senso e la connotazione metaforica della sua scrittura («Avanzi per corridoi d’ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza»):33 un criptico viatico di poesia per il lettore, che insieme al protagonista — trasparente doppio dell’autore — sta intraprendendo un viaggio nell’immobilità della storia e nella fascinazione maliosa ma non consolatoria della parola.Quasi tutti gli undici capitoli in cui è diviso il romanzo sono introdotti da brevi preludi di un’immaginifica ed enigmatica densità, del tutto irrelati rispetto alla narrazione; un solo esempio: il preludio del IV capitolo,

  1. Op. cit., p. 19.Ibid., p. 79.Op. cit., p. 9.Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla, antro fra ruderi sferzato dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri.34 Sono i misteri dolorosi di una via crucis, che, sviluppandosi capitolo dopo capitolo, tocca tutte le stazioni della contemporaneità — dal terrorismo alla speculazione edilizia, alla mafia, alla guerra, alla tenebra della follia, alla condizione di emarginazione urbana «degli stanziali dei margini» — i poveri, i disperati, i migranti — che vivono, oscuri e oscurati, negli squallidi anfratti delle città contemporanee, Stanno nel tempo loro, nell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, stanno come vessilli gravi sui confini, nel passo breve tra il moto e la paralisi. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro, sono la massa ironica contro illusioni, inganni, monito dell’esito, del lento sfaldamento.35 L’intervento poetico e tragico dello scrittore spesso taglia verticalmente la narrazione, assorbendo il narrato nella restituzione metaforica di una condizione storica dove ogni giustizia è morta, ogni pietà s’è spenta. Sulla stasi e il silenzio della storia («Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale»),36 si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi «si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente»; 37 barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che, simultaneamente, si pone come emergenza espressiva, ed estremo gesto di libertà ideologica, in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio, «La lingua — dice Vincenzo Consolo citando in un articolo della rivista Autodafè Roland Barthes — non è né reazionaria, né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire…». Non resta allora che l’afasia o la poesia. E Vincenzo Consolo sceglie la poesia.
  1. Ibid., p. 45.Ibid., p. 70-71.Ibid., p. 9.Ibid., p. 12.
    Quaderns d’Italià 10, 2005
    foto di Claudio Masetta Milone