L’abbuffata dei musulmani, Vincenzo Consolo

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L’abbuffata dei musulmani

Vincenzo Consolo

Immaginiamo che quel luminoso mattino di giugno dell’ottocentoventisette, quando le truppe musulmane – Arabi, Berberi, Spagnoli “sotto il comando del dotto e saggio Asad ibn al-Furat, sbarcarono presso Mazara, assieme ad armi, carri, cavalli, abbiamo portato a terra le loro vettovaglie. Immaginiamo che garzoni e cucinieri, issate sulla spiaggia le tende, dentro vi abbiano stipato giare d’olio, di semolina, di ceci, di fave, di giuggiulena, di cumino, di peperoncini, di miele, di datteri; e ancora capre e montoni da sgozzare per il rancio di quella famelica soldatesca venuta da Susa, da Sfax, da Djerba …

Dopo tanto tempo in mare, fame avevano quei soldati, fame di cibo cotto.

Immaginiamo che lì sulla spiaggia mazarese abbiano subito acceso i fuochi e, con grandi e numerosi lemmi, mafarate e cuscusiere, si siano subito messi a preparare gran quantità di cuscus. Ci vorrebbe la passione, la scrupolosità documentaria e l’ingegno con i quali Flaubert, ha ricostruito e descritto in Salammbo il pranzo delle truppe mercenarie sotto le mura di Cartagine per poter descrivere minuziosamente il primo pranzo delle truppe musulmane appena sbarcate in Sicilia. Ma non avendo né lo scrupolo né l’\ingegno di Flaubert, allora continuiamo a immaginare: immaginiamo che a conquista compiuta di tutta l’isola da parte dei Musulmani (con la caduta di Siracusa nell’878 e di Taormina nel 903: per 70 anni è andata avanti la conquista!), a poco a poco i Siciliani abbiano imparato a cucinare e mangiare al modo arabo. A cucinare per esempio il cuscus. Ma come avviene in ogni conquista che tra conquistatori e conquistati c’è uno scambio culturale, così immaginiamo che a un determinato momento i Siciliani abbiano apportato al cuscus la variante del brodo di pesce al posto del piccante e grasso sugo di montone, variante adatta a stomaci meno corazzati e tetragoni di quelli arabi. E ci piacerebbe infine sapere (quanto grande è la nostra ignoranza, nonché generale, di storia gastronomica, una storia particolare che ci aiuterebbe tanto a capire la grande Storia) quando dal consumo di quella pietanza straordinaria che è il cuscus (cibo che ha la morbidezza e la tenerezza materna nel biancore, nella granulosità del semolino e insieme la forza e la decisione paterna nella sferza del peperoncino e nella consistenza della carne di montone) si è passati al consumo dei maccheroni, della pasta in Sicilia.

Ma il cuscus, si sa, assieme a tanti altri retaggi della cultura musulmana, assieme a monumenti e linguaggi, è rimasto in Sicilia, come vestigia e memoria di quel periodo

d’oro, di quel gran Rinascimento che fu nell’isola nostra quello della dominazione musulmana.

2 gennaio 1990 L’Ora

La Sicilia e la cultura araba



Si sa che, con la fine del latino, nel medioevo italiano, si è imposto in letteratura, sulle altre realtà linguistiche e regionali, il dialetto toscano. Questo è avvenuto grazie ai tre grandi padri della letteratura italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma si sa anche che il primo nucleo della nuova lingua italia-na, o volgare, come si chiamò, si formò in Sicilia, che i primi poeti in lingua italiana furono siciliani, quei poeti della cosiddetta Scuola Poetica Siciliana che si trovarono raccolti nella palermitana corte dell’imperatore Federico II o che attorno ad essa ruotavano. E questo afferma Dante nel De vulgari eloquentia. In lingua siciliana poetavano in quella corte, in una lingua cioè che era mistilinguismo, in cui vi erano echi anche della lingua araba. Ma arabo era soprattutto lo stile di quei poeti: uno stile lirico, un po’ manieristico, nella costruzione di complicate metafore. Le rime, i sonetti, i contrasti di Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Re Enzo, Pier delle igne, di altri, non molto si discostano dalle qaside dei poeti siculo-a-rabi che con l’avvento dei Normanni avevano lasciato l’isola. E basta ricordare tra tutti il siracusano Ibn Amdis. Dal suo esilio maghrebino cosi cantava:

 Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo. Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni. Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso… O mare, di là da te io ho un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura!…

La cultura araba ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana. “Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba” dice Sciascia. Il quale, mutando da Américo Castro lo schema che il grande storico aveva applicato alla Spagna, chiama descrivibile la vita siciliana prima degli Arabi, narrabile quella sotto la dominazione araba, storicizzabi-le quella che viene dopo. Sciascia fa quindi iniziare quello che egli chiama il modo d’essere siciliano proprio dalla dominazione araba. La cultura araba ha inciso nell’isola soprattutto in quella parte occiden-tale che ha per vertici Mazara e Palermo. I segni arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell’architettura, nella lingua, nella letteratura, popolare e no. Durati per un millennio fino a ieri. “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”. E i Barberini questa volta, anche qui, in questa remota plaga dell’Italia e dell’Europa, sono i messaggi della civiltà di massa che tendono a distruggere le vere, autentiche culture, per tutto livellare, miseramente omologare. Ma torniamo all’inizio della conquista musulmana di Sicilia. In una notte di giugno dell’827, una piccola fotta di musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egi-ziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia, dopo la conquista, un emirato dipendente formalmente dal califfato di Baghdad. I musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni del Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della chiesa, dei monasteri, i musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana e lo spirito di tolleranza, la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna, di cui ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi, Ibn Hawqal, sono segni evidenti quelle chiese, quei monasteri, quelle cappelle, quelle residenze reali, quei giardini che ancora oggi si possono vedere a Palermo o in altre località vicine. Così scrive Ibn Giubayr di Palermo: “In questa città i musulmani conservano traccie di lor credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin… Vi hanno un qadì al quale si appellano nelle loro divergenze, e una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminarie. Le moschee ordinarie poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano”. Non voglio, né so fare qui tutta la storia del periodo musulmano di Sicilia. Voglio però qui rimandare a La Storia dei Musulmani di Sicilia scritta da un grande siciliano del secolo scorso: Michele Amari. Quest’apostolo della cultura e della libertà (egli combatté contro la dominazione borbonica nell’Italia meridionale e per l’Unità d’Italia) scrisse questa monumentale opera in cinque volumi durante il suo esilio politico in Francia, a Parigi. Nelle biblioteche di quella città, dopo aver imparato l’arabo, Amari reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia. “La storia dei Musulmani di Sicilia è una delle più suggestive opere d’intenti storici che da un secolo circa siano state scritte in Europa” scrive Elio Vittorini. E aggiunge: “La storia dei Musulmani di Sicilia voleva essere, forse, solo un frammento della storia patria, ma sembra che abbia avuto per punto di partenza, da come è scritta, una seduzione del cuore, qualche favolosa idea che l’Amari fanciullo si formò del mondo arabo tra le letture dei vecchi libri e i ricordi locali”. E come poteva non scrivere con la “seduzione del cuore”, cioè con rigore scientifico, ma anche con visionarietà e poesia, Michele Amari, nato e cresciuto a Palermo, in quella Palermo che ancora nel secolo scorso conservava non pochi vestigi, non poche tradizioni, non poca cultura araba? Basti pensare al castello della Zisa (restaurato, sembra destinato ora a museo islamico), alla Favara, ai bagni di Cefalà Diana, alla Cuba, alla Cubula, al quartiere della Kalsa, ai suq, ai mercati della Vucciria, di Ballarò o dei Lattarini, a San Giovanni degli Eremiti, alla Martorana, alla stessa cattedrale… Ultimi splendori della Palermo araba dalle numerose moschee, dai giardini, dai bagni innumerevoli, con cui poteva stare a confronto soltanto Cordova. Dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860, Amari, nominato ministro della Pubblica Istruzione, non smise di coltivare i suoi studi di arabo. Così, oltre La storia dei Musulmani di Sicilia, ci ha lasciato una Biblioteca Arabo-Sicula, Epigrafi, Sulwan al-mutà di lbn Zafir, Tardi studi di storia arabo-mediterranea. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti, poeti arabi classici. Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ebbe le sue eminenti figure in Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi Della Vida, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Celestino Schiaparelli, Umberto Rizzitano e il famoso Francesco Gabrieli. Il quale ultimo, idealmente continuando l’opera di Michele Amari, pubblicava nel 1980, in collaborazione con altri, un poderoso e documentatissimo volume dal titolo Gli Arabi in Italia. E scriveva, nel 1983, nel volume collettivo Rasa’il, in onore di Umberto Rizzitano, un capitolo dal titolo Attraverso il canale di Sicilia (Italia e Tunisia). Capitolo in cui fa la storia dei rapporti fra i due paesi, dall’antichità e fino a oggi. Ma più che della Tunisia con l’Italia, della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli, che già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imaàm al-Màzari. E ancora: “Nella scuola di lingue Bu Rqiba, i nostri giovani studenti dell’arabo e dell’Islàm han trovato da molti anni il più efficiente centro di iniziazione linguistica, in un diretto contatto con la terra dell’Islàm ispirato da puro interesse scientifico e spirituale”. Per merito di questi valorosi arabisti italiani si sono tradotti i classici arabi, a partire da una splendida edizione, curata proprio da Gabrieli, de Le mille e una notte. Ma della letteratura, del romanzo e della poesia maghrebina contemporanea gli editori italiani solo da qualche anno han cominciato a pubblicare qualcosa. Negli anni ’50 si svolse a Roma un convegno di scrittori arabi in cui si esaminarono i mezzi per una migliore diffusione delle loro opere in Italia. Questa non può avvenire che attraverso le traduzioni e quindi di una maggiore diffusione della lingua araba. In questi anni ciò è avvenuto, la lingua araba è sempre più studiata. Riallacciandoci allo scritto di Francesco Gabrieli, ripartiamo da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara in cui sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn alFuràt. Partire da lì per dire, in uno con quelli letterari o oltre essi, anche di altri sbarchi, di siciliani nel Maghreb e di maghrebini in Sicilia.

Vincenzo Consolo

I MURI D’EUROPA

(letto a Università di Chergy Pontoise 7-8 dicembre 06)

Addio città
un tempo fortunata, tu di belle
rocche superbe; se del tutto Pallade
non ti avesse annientata, certo ancora
oggi ti leveresti alta da terra.

(Euripide: Le Troiane)1

Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,
io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.
Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo,
una sola salvezza avrem l’uno e l’altro.Il piccolo
Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi la sposa

(Virgilio: Eneide)2

Questi versi di Euripide e di Virgilio vogliamo dedicare ai fuggiaschi di ogni luogo, agli scampati di ogni guerra, di ogni disastro, a ogni uomo costretto a lasciare la propria città, il proprio paese e a emigrare altrove. Sono dedicati, i versi, agli infelici che oggi approdano, quando non annegano in mare, sulle coste dell’Europa mediterranea, approdano, attraverso lo stretto di Gibilterra, a Punta Camarinal, Tarifa, Algeciras; approdano, attraverso il canale di Sicilia, nell’isola di Lampedusa, di Pantelleria, sulla costa di Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Pozzallo…

La storia del mondo è storia di emigrazione di popoli – per necessità, per costrizione – da una regione a un’altra. Nel nostro Mediterraneo, nella Grecia peninsulare, gli Achei lì emigrati nel XIV secolo a.C. danno origine alla civiltà micenea che soppianta la civiltà cretese, che a sua volta viene offuscata dalla migrazione dorica nel Peloponneso. Con questi greci cominciò, nel XII secolo a. C. la grande espansione colonizzatrice nelle coste del Mediterraneo – in Cirenaica, nell’Italia meridionale (Magna Grecia), in Sicilia, Francia, Spagna. La colonizzazione greca in Sicilia, dove vi erano già i Siculi, i Sicani e gli Elimi, avvenne con organizzate spedizioni di emigranti, di fratrie, comunità di varie città – Megara, Corinto, Messane… – che sotto il comando di un ecista, un capo, tentavano l’avventura in quel Nuovo Mondo che era per loro il Mediterraneo occidentale. In Sicilia fondarono grandi città come Siracusa, Gela, Selinunte, Agrigento, convissero con le popolazioni già esistenti, assunsero spesso i loro miti e riti, stabilirono pacifici rapporti, per molto tempo, con la fenicia Mozia e con l’elima Erice.
Ma non vogliamo qui certo fare –non sapremmo farla – la storia dell’emigrazione nell’antichità. Vogliamo soltanto dire che l’emigrazione è fra i segni più forti – oltre quelli delle guerre, delle invasioni – della storia.
Segno forte l’emigrazione, della storia italiana moderna.
“Dall’Unità d’Italia (1860) non meno di 26 milioni di italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro Paese. E’ un fenomeno che, per vastità, costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo”. Questo scrive Enriquez Spagnoletti, in un numero speciale dedicato all’emigrazione, nella rivista Il Ponte (Novembre, Dicembre 1974), rivista fondata da Piero Calamandrei.3
Sull’emigrazione nel Nuovo Mondo esiste, sappiamo, una vasta letteratura storico-sociologica, documentaria, ma anche una letteratura letteraria. Il racconto Dagli Appennini alle Ande, del libro Cuore4 di Edmondo De Amicis, è il più famoso. Ed anche, dello stesso autore, Sull’Oceano5. Meno famoso è invece il poemetto Italy6 di Giovanni Pascoli; Sacro all’Italia raminga ne è l’epigrafe.

A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l’erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.


Vi si narra, nel poemetto, di una famigliola toscana, della Garfagnana, che ritorna dall’America per la malattia della piccola Molly. Nella poesia compare –ed è la prima volta nella letteratura italiana – il plurilinguismo: il garfagnino dei nomi, lo slang della coppia e l’inglese della bambina.
Non era allora solo nelle Americhe l’emigrazione, essa avveniva anche, e soprattutto dal Meridione d’Italia, dalla Sicilia, nel Magreb, in Tunisia particolarmente. Questa emigrazione comincia nei primi anni dell’Ottocento, ed è di fuoriusciti politici. Liberali, giacobini e carbonari, perseguitati dalla polizia borbonica, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli  in  questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”7. In Tunisia si fa esule anche Garibaldi.
La grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per la crisi economica che colpì le regioni meridionali. Si stabilirono, questi emigranti sfuggiti alla miseria, alla Goletta, a  Biserta, Susa, Monastir,Mahdia nelle campagne di Kelibia di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprirono allora scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale, fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria per giungere nel 1881 al trattato del Bardo e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilivano  il protettorato francese sulla Tunisia. La Francia cominciò così la politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti, la cittadinanza francese. Frequentando le scuole gratuite francesi, il figlio di poveri emigranti siciliani, Mario Scalesi, divenne francofono e scrisse in francese Les poèmes d’un maudit8, fu così il primo poeta francofono del Magreb.
Anche sotto il Protettorato l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane  nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna (vediamo come la storia dell’emigrazione, nelle sue dinamiche, negli effetti, si ripete). Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vice presidente della Camera dei deputati. Visita le regioni dove vivono le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori : “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il  convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi alla vostra sorte”.
La fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’Italia dell’industrializzazione, del cosiddetto miracolo economico, della crisi del mondo agricolo e insieme della  nuova emigrazione di braccianti dal Sud verso il Nord industriale, del Paese e dell’Europa, quella fine degli anni Sessanta segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale dei Sicilia. Segna l’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.
Di siberie, di campi di lavoro, di mondi concentrazionari, di oppressione di popoli a causa di regimi totalitari o coloniali sono stati i tempi da poco trascorsi. Tempi vale a dire in cui l’umanità, per tre quarti, è stata prigioniera, incatenata all’infelicità. E le siberie hanno fatto sì che il restante quarto dell’umanità, al di qua di mura o fili spinati, vivesse felicemente, nello scialo dell’opulenza e dei consumi si alienasse. Ma dissoltesi idolatrie e utopie, crollati i colonialismi, abbattute le mura, recisi i fili spinati, sono arrivati i tempi delle fughe, degli esodi, da paesi di mala sorte e mala storia, verso vagheggiati approdi di salvezza, di speranza. Ed è il presente – un presente cominciato già da parecchi anni – un atroce tempo di espatri, di fughe drammatiche, di pressioni alle frontiere del dorato nostro “primo” mondo, di movimento di masse di diseredati, di offesi, di oltraggiati.
Da ogni Est e da ogni Sud del  mondo, da afriche dal cuore sempre più di tenebra, da sudameriche di crudeltà pinochettiane si muovono oggi i popoli dei battelli, dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente ed è preda ancora dei criminali del traffico di vite umane, sparisce spesso nei fondali dei mari, nelle sabbie infuocate dei deserti, come detriti di una immane risacca finisce sopra scogli, spiagge desolate o anche fra i vacanzieri stesi al sole per abbronzarsi.
Non vogliamo andare lontano, non vogliamo dire del muro di acciaio eretto al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, ma dire di qua,  del confine d’acqua che separa l’Europa da ogni Sud del mondo, dire del Mediterraneo e della bella Italia, del suo Adriatico e del suo Canale di Sicilia.
Tante e tante volte le carrette di mare provenienti dall’Albania, dalla Tunisia o dalla Libia, carrette stracariche di disperati, si sono trasformate i bare di ferro nei fondali del mare, bare di centinaia di uomini, di donne, di bambini, a cui, come all’eliotiano
Phlebas il Fenicio, “una corrente sottomarina / spolpò l’ossa in dolci sussurri”. E finiscono anche i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani…E si potrebbe continuare con le cronache di tragedie quotidiane, di una tragedia epocale che riguarda i migranti, le non-persone che cercano di entrare nella vecchia Italia, nella vecchia Europa della moneta unica, delle banche e degli affari. Vecchia soprattutto l’Italia per una popolazione di vecchi. “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma” ha detto icasticamente il poeta Andrea Zanzotto. E la frase-metafora vuole dire di quanto ciechi noi siamo a voler continuare a sguazzare nel nostro mare di catarro e a voler scansare quel mare di vitalità che è arricchimento: fisiologico, economico, culturale, umano…Scansare o eludere quell’incontro o incrocio di etnie, di lingue, di religioni, di memorie, di culture, incrocio che è stato da sempre il segno del cammino della civiltà. Respingiamo l’emigrazione dal terzo o quarto mondo erigendo confini d’acciaio con leggi e decreti, come la vergognosa legge italiana sull’emigrazione che porta il nome dei deputati di estrema destra Bossi e Fini, insorgendo con nuovi e nefasti nazionalismi, con stupidi e volgari localismi, con la xenofobia e il razzismo, con la cieca criminalizzazione del diseredato, del diverso, del clandestino.
A partire dal 1968, sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle coste italiane. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
In una notte di giugno dell’827 d.C., una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Magrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara. Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta l’isola, da occidente fino a oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. I Musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le espoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. Rifiorisce l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Il grande storico dell’ 800 Michele Amari ci ha lasciato La storia dei Musulmani di Sicilia, scritta, dice Vittorini, “con la seduzione del cuore”9.
Il ritorno infelice10 è il titolo del saggio del sociologo Antonino Cusumano, in cui tratta dell’emigrazione magrebina in Sicilia, a partire dal 1968, come sopra dicevamo. Sono passati quarant’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di detenzione nei cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea, che sono dei veri e propri lager, di fronte a ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”11.

Vincenzo Consolo


1   Euripide: Le Troiane, Prologo, “Il Teatro greco”, Sansoni Editore, Firenze 1980.
2   Virgilio: Eneide, Libro II, vv. 707-711, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967.
3   Il Ponte , XXX 11-12, p. 12-19, Novembre/Dicembre 1974, La Nuova Italia Editrice, Firenze
4   Edmondo De Amicis, Cuore, Fabbri Editore, 1999. Il racconto “Dagli Appennini alle Ande”, p. 230-265.
5   Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, Herodote Edizioni, Genoa-Ivrea 1983.
6   Giovanni Pascoli, Italy, Opere, “La Letteratura Italiana”, vol. 61, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1980, p. 361.
7   Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Libro VI, Rizzoli Editore, Milano 1967, p. 830.
8   Mario Scalesi, Les poèmes d’un Maudit, Le liriche di un maledetto, ISSPE Editore, Palermo 1997.
9   Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, prefazione di Elio Vittorini, Editore Bompiani, Milano 1942, p. 6.
10 Antonino Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio Editore, Palermo 1976.
11 Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. II, Einaudi, Torino 1982, p. 921-922.