Il ponte sul canale di Sicilia

Gostanza, di nobile e ricca famiglia di Lipari, ama, riamata, il povero pescatore Martuccio. Per l’impossibile amore, il giovane abbandona l’isola, si fa corsaro per il Mediterraneo. Gostanza, avuta notizia che Martuccio era morto, disperata, sale su una barca per andare alla ventura e lasciarsi morire, ma il vento la sospinge e la fa approdare sulla costa di Barberia, nei pressi di Susa. Sulla spiaggia la fanciulla s’imbatte in una donna che parla latino e che è al servizio di pescatori cristiani. Questo è l’argomento della Novella Seconda della Giornata Quinta del Decamerone di Boccaccio. In cui, al di là della storia d’amore che poi felicemente si concluderà, ci colpisce il fatto che pescatori cristiani, trapanesi, tranquilli soggiornassero e pescassero nelle acque della musulmana Tunisia, di Susa, oggi Sousse. E ci conferma nella consapevolezza che ancora nel medioevo quel canale, quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane, libiche tunisine algerine, non fosse ancora frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio, che quelle acque anzi venissero allora percorse solo in un senso, dai lavoratori di Sicilia, di Calabria, di Sardegna, che volendo sfuggire alla fame cercavano fortuna in quelle ricche terre degli “infedeli”. Provetti “tonnaroti”, lavoratori delle tonnare, pescatori di alici e di sarde, di spugne e di coralli, da Trapani, da Pantelleria, da Lampedusa, s’avventuravano sulle loro esili barche per quel canale, e insieme contadini, pastori, murifabbri, minatori da ogni parte del nostro Meridione.
S’ interruppe questa comunicazione, questa provvidenziale emigrazione, con la dominazione turca sulle coste africane e quella spagnola in Sicilia, con l’insorgere delle guerre corsare. Carlo V si spinse fino in Tunisia per combattere e umiliare il nemico. La battaglia di Lepanto significò lo scontro più alto e simbolico fra le due fedi, i due imperi, quello cristiano e quello ottomano. Vittoria di Lepanto che però non riuscì a domare, a scemare le incursioni barbaresche nelle nostre contrade. E corsari si fecero anche ammiragli e principi cristiani, incursioni praticarono sulle coste africane, razziando uomini e cose, riducendo in schiavitù. Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova. Scrive Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari'”.
Prigionia in Algeri patirà Miguel de Cervantes, che già aveva pagato il suo tributo alla guerra nella battaglia di Lepanto con l’amputazione di una mano. Lascerà memoria di quella sua triste esperienza nel Don Chisciotte e in altre sue opere.
Si hanno notizie ancora dettagliate, precise, di quel mondo di allora sulle coste africane nel secentesco libro del frate Diego de Haedo Topographia e Historia Generai de Argel. Dal quale si apprende, fra l’altro, che una nuova, massiccia emigrazione avveniva allora di italiani nel mondo ottomano. Erano, costoro, emigranti della fede, cristiani vale a dire rinnegati, che si facevano musulmani, “turcos deprofesión”, che divenivano capi corsari, razziatori nelle loro stesse terre d’origine, mercanti di schiavi.
Finisce questa pagina tremenda, questa lunga guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei francesi. Ma si apre anche in quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo.
Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento. È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuoriusciti politici, di professionisti di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”.
E ancora negli anni ’30, ’40 e fino all’Unità, reduci da congiure, moti rivoluzionari repressi, qui si rifugiano. Dopo i falliti moti di Genova, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 49 ancora si fa esule a Tunisi.
A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, che s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Tra-pani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine. Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali.
Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Susa, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e  di Gafsa. Nel 1880 nel Consolato italiano erano registrate 12.000 presenze italiane, ma molti sfuggivano alla registrazione, e fra questi, naturalmente, gli irregolari, renitenti alla leva o colpevoli di reati.
Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprono scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale (i collegamenti marittimi nel Canale di Sicilia erano di compagnie italiane, italiana, dei Rubattino, era la compagnia che costruiva la ferrovia Tunisi-Algeria), fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria, per togliere all’Italia questa supremazia. Tutto questo portò al Trattato del Bardo del 1881 e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilirono il protettorato francese sulla Tunisia.
“L’Italia non è abbastanza ricca per pagarsi il lusso di un’Algeria” aveva dichiarato il ministro degli Esteri Visconti Ventosa dell’allora governo di Benedetto Cairoli. La Francia, con il protettorato, iniziò la sua politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti la cittadinanza francese. Anche sotto il protettorato, l’immigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale su mezzi di fortuna. La reggenza francese, di fronte a quel continuo affluire di diseredati, ricorse ai rimpatri. Nei primi cinque anni del Novecento ben 13.000 furono rimpatriati. Quelli già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”.
I riflessi che la guerra di Libia, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra poi hanno avuto sulla comunità italiana di Tunisia è storia molto complessa per poterla qui riassumere. Rimandiamo perciò al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, libro dal quale abbiamo attinto per stendere questa memoria.
La fine degli anni ’60 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie quei vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione interna italiana aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la ” guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani e le autorità libiche e tunisine. In questi con-fitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi, i quali, oltre ad essere sfruttati, venivano di tempo in tempo perseguitati. Odiosi episodi sono avvenuti, in quella parte meridionale della Sicilia, di “caccia al tunisino”.
“. Su questa prima emarginazione maghrebina in Sicilia, un giovane sociologo di Mazara, Antonio Cusumano, ha scritto un libro documentato, preciso, Il ritorno infelice, pubblicato nel 1976 da Sellerio.
Sono passati trent’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con improvvisati metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato…”.

Mediterraneo
Viaggiatori e Migranti

La Sicilia e la cultura araba



Si sa che, con la fine del latino, nel medioevo italiano, si è imposto in letteratura, sulle altre realtà linguistiche e regionali, il dialetto toscano. Questo è avvenuto grazie ai tre grandi padri della letteratura italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma si sa anche che il primo nucleo della nuova lingua italia-na, o volgare, come si chiamò, si formò in Sicilia, che i primi poeti in lingua italiana furono siciliani, quei poeti della cosiddetta Scuola Poetica Siciliana che si trovarono raccolti nella palermitana corte dell’imperatore Federico II o che attorno ad essa ruotavano. E questo afferma Dante nel De vulgari eloquentia. In lingua siciliana poetavano in quella corte, in una lingua cioè che era mistilinguismo, in cui vi erano echi anche della lingua araba. Ma arabo era soprattutto lo stile di quei poeti: uno stile lirico, un po’ manieristico, nella costruzione di complicate metafore. Le rime, i sonetti, i contrasti di Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Re Enzo, Pier delle igne, di altri, non molto si discostano dalle qaside dei poeti siculo-a-rabi che con l’avvento dei Normanni avevano lasciato l’isola. E basta ricordare tra tutti il siracusano Ibn Amdis. Dal suo esilio maghrebino cosi cantava:

 Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo. Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni. Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso… O mare, di là da te io ho un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura!…

La cultura araba ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana. “Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba” dice Sciascia. Il quale, mutando da Américo Castro lo schema che il grande storico aveva applicato alla Spagna, chiama descrivibile la vita siciliana prima degli Arabi, narrabile quella sotto la dominazione araba, storicizzabi-le quella che viene dopo. Sciascia fa quindi iniziare quello che egli chiama il modo d’essere siciliano proprio dalla dominazione araba. La cultura araba ha inciso nell’isola soprattutto in quella parte occiden-tale che ha per vertici Mazara e Palermo. I segni arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell’architettura, nella lingua, nella letteratura, popolare e no. Durati per un millennio fino a ieri. “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”. E i Barberini questa volta, anche qui, in questa remota plaga dell’Italia e dell’Europa, sono i messaggi della civiltà di massa che tendono a distruggere le vere, autentiche culture, per tutto livellare, miseramente omologare. Ma torniamo all’inizio della conquista musulmana di Sicilia. In una notte di giugno dell’827, una piccola fotta di musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egi-ziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia, dopo la conquista, un emirato dipendente formalmente dal califfato di Baghdad. I musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni del Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della chiesa, dei monasteri, i musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana e lo spirito di tolleranza, la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna, di cui ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi, Ibn Hawqal, sono segni evidenti quelle chiese, quei monasteri, quelle cappelle, quelle residenze reali, quei giardini che ancora oggi si possono vedere a Palermo o in altre località vicine. Così scrive Ibn Giubayr di Palermo: “In questa città i musulmani conservano traccie di lor credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin… Vi hanno un qadì al quale si appellano nelle loro divergenze, e una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminarie. Le moschee ordinarie poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano”. Non voglio, né so fare qui tutta la storia del periodo musulmano di Sicilia. Voglio però qui rimandare a La Storia dei Musulmani di Sicilia scritta da un grande siciliano del secolo scorso: Michele Amari. Quest’apostolo della cultura e della libertà (egli combatté contro la dominazione borbonica nell’Italia meridionale e per l’Unità d’Italia) scrisse questa monumentale opera in cinque volumi durante il suo esilio politico in Francia, a Parigi. Nelle biblioteche di quella città, dopo aver imparato l’arabo, Amari reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia. “La storia dei Musulmani di Sicilia è una delle più suggestive opere d’intenti storici che da un secolo circa siano state scritte in Europa” scrive Elio Vittorini. E aggiunge: “La storia dei Musulmani di Sicilia voleva essere, forse, solo un frammento della storia patria, ma sembra che abbia avuto per punto di partenza, da come è scritta, una seduzione del cuore, qualche favolosa idea che l’Amari fanciullo si formò del mondo arabo tra le letture dei vecchi libri e i ricordi locali”. E come poteva non scrivere con la “seduzione del cuore”, cioè con rigore scientifico, ma anche con visionarietà e poesia, Michele Amari, nato e cresciuto a Palermo, in quella Palermo che ancora nel secolo scorso conservava non pochi vestigi, non poche tradizioni, non poca cultura araba? Basti pensare al castello della Zisa (restaurato, sembra destinato ora a museo islamico), alla Favara, ai bagni di Cefalà Diana, alla Cuba, alla Cubula, al quartiere della Kalsa, ai suq, ai mercati della Vucciria, di Ballarò o dei Lattarini, a San Giovanni degli Eremiti, alla Martorana, alla stessa cattedrale… Ultimi splendori della Palermo araba dalle numerose moschee, dai giardini, dai bagni innumerevoli, con cui poteva stare a confronto soltanto Cordova. Dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860, Amari, nominato ministro della Pubblica Istruzione, non smise di coltivare i suoi studi di arabo. Così, oltre La storia dei Musulmani di Sicilia, ci ha lasciato una Biblioteca Arabo-Sicula, Epigrafi, Sulwan al-mutà di lbn Zafir, Tardi studi di storia arabo-mediterranea. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti, poeti arabi classici. Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ebbe le sue eminenti figure in Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi Della Vida, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Celestino Schiaparelli, Umberto Rizzitano e il famoso Francesco Gabrieli. Il quale ultimo, idealmente continuando l’opera di Michele Amari, pubblicava nel 1980, in collaborazione con altri, un poderoso e documentatissimo volume dal titolo Gli Arabi in Italia. E scriveva, nel 1983, nel volume collettivo Rasa’il, in onore di Umberto Rizzitano, un capitolo dal titolo Attraverso il canale di Sicilia (Italia e Tunisia). Capitolo in cui fa la storia dei rapporti fra i due paesi, dall’antichità e fino a oggi. Ma più che della Tunisia con l’Italia, della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli, che già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imaàm al-Màzari. E ancora: “Nella scuola di lingue Bu Rqiba, i nostri giovani studenti dell’arabo e dell’Islàm han trovato da molti anni il più efficiente centro di iniziazione linguistica, in un diretto contatto con la terra dell’Islàm ispirato da puro interesse scientifico e spirituale”. Per merito di questi valorosi arabisti italiani si sono tradotti i classici arabi, a partire da una splendida edizione, curata proprio da Gabrieli, de Le mille e una notte. Ma della letteratura, del romanzo e della poesia maghrebina contemporanea gli editori italiani solo da qualche anno han cominciato a pubblicare qualcosa. Negli anni ’50 si svolse a Roma un convegno di scrittori arabi in cui si esaminarono i mezzi per una migliore diffusione delle loro opere in Italia. Questa non può avvenire che attraverso le traduzioni e quindi di una maggiore diffusione della lingua araba. In questi anni ciò è avvenuto, la lingua araba è sempre più studiata. Riallacciandoci allo scritto di Francesco Gabrieli, ripartiamo da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara in cui sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn alFuràt. Partire da lì per dire, in uno con quelli letterari o oltre essi, anche di altri sbarchi, di siciliani nel Maghreb e di maghrebini in Sicilia.

Vincenzo Consolo