Il ponte sul canale di Sicilia

Gostanza, di nobile e ricca famiglia di Lipari, ama, riamata, il povero pescatore Martuccio. Per l’impossibile amore, il giovane abbandona l’isola, si fa corsaro per il Mediterraneo. Gostanza, avuta notizia che Martuccio era morto, disperata, sale su una barca per andare alla ventura e lasciarsi morire, ma il vento la sospinge e la fa approdare sulla costa di Barberia, nei pressi di Susa. Sulla spiaggia la fanciulla s’imbatte in una donna che parla latino e che è al servizio di pescatori cristiani. Questo è l’argomento della Novella Seconda della Giornata Quinta del Decamerone di Boccaccio. In cui, al di là della storia d’amore che poi felicemente si concluderà, ci colpisce il fatto che pescatori cristiani, trapanesi, tranquilli soggiornassero e pescassero nelle acque della musulmana Tunisia, di Susa, oggi Sousse. E ci conferma nella consapevolezza che ancora nel medioevo quel canale, quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane, libiche tunisine algerine, non fosse ancora frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio, che quelle acque anzi venissero allora percorse solo in un senso, dai lavoratori di Sicilia, di Calabria, di Sardegna, che volendo sfuggire alla fame cercavano fortuna in quelle ricche terre degli “infedeli”. Provetti “tonnaroti”, lavoratori delle tonnare, pescatori di alici e di sarde, di spugne e di coralli, da Trapani, da Pantelleria, da Lampedusa, s’avventuravano sulle loro esili barche per quel canale, e insieme contadini, pastori, murifabbri, minatori da ogni parte del nostro Meridione.
S’ interruppe questa comunicazione, questa provvidenziale emigrazione, con la dominazione turca sulle coste africane e quella spagnola in Sicilia, con l’insorgere delle guerre corsare. Carlo V si spinse fino in Tunisia per combattere e umiliare il nemico. La battaglia di Lepanto significò lo scontro più alto e simbolico fra le due fedi, i due imperi, quello cristiano e quello ottomano. Vittoria di Lepanto che però non riuscì a domare, a scemare le incursioni barbaresche nelle nostre contrade. E corsari si fecero anche ammiragli e principi cristiani, incursioni praticarono sulle coste africane, razziando uomini e cose, riducendo in schiavitù. Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova. Scrive Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari'”.
Prigionia in Algeri patirà Miguel de Cervantes, che già aveva pagato il suo tributo alla guerra nella battaglia di Lepanto con l’amputazione di una mano. Lascerà memoria di quella sua triste esperienza nel Don Chisciotte e in altre sue opere.
Si hanno notizie ancora dettagliate, precise, di quel mondo di allora sulle coste africane nel secentesco libro del frate Diego de Haedo Topographia e Historia Generai de Argel. Dal quale si apprende, fra l’altro, che una nuova, massiccia emigrazione avveniva allora di italiani nel mondo ottomano. Erano, costoro, emigranti della fede, cristiani vale a dire rinnegati, che si facevano musulmani, “turcos deprofesión”, che divenivano capi corsari, razziatori nelle loro stesse terre d’origine, mercanti di schiavi.
Finisce questa pagina tremenda, questa lunga guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei francesi. Ma si apre anche in quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo.
Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento. È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuoriusciti politici, di professionisti di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”.
E ancora negli anni ’30, ’40 e fino all’Unità, reduci da congiure, moti rivoluzionari repressi, qui si rifugiano. Dopo i falliti moti di Genova, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 49 ancora si fa esule a Tunisi.
A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, che s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Tra-pani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine. Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali.
Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Susa, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e  di Gafsa. Nel 1880 nel Consolato italiano erano registrate 12.000 presenze italiane, ma molti sfuggivano alla registrazione, e fra questi, naturalmente, gli irregolari, renitenti alla leva o colpevoli di reati.
Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprono scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale (i collegamenti marittimi nel Canale di Sicilia erano di compagnie italiane, italiana, dei Rubattino, era la compagnia che costruiva la ferrovia Tunisi-Algeria), fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria, per togliere all’Italia questa supremazia. Tutto questo portò al Trattato del Bardo del 1881 e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilirono il protettorato francese sulla Tunisia.
“L’Italia non è abbastanza ricca per pagarsi il lusso di un’Algeria” aveva dichiarato il ministro degli Esteri Visconti Ventosa dell’allora governo di Benedetto Cairoli. La Francia, con il protettorato, iniziò la sua politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti la cittadinanza francese. Anche sotto il protettorato, l’immigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale su mezzi di fortuna. La reggenza francese, di fronte a quel continuo affluire di diseredati, ricorse ai rimpatri. Nei primi cinque anni del Novecento ben 13.000 furono rimpatriati. Quelli già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”.
I riflessi che la guerra di Libia, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra poi hanno avuto sulla comunità italiana di Tunisia è storia molto complessa per poterla qui riassumere. Rimandiamo perciò al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, libro dal quale abbiamo attinto per stendere questa memoria.
La fine degli anni ’60 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie quei vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione interna italiana aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la ” guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani e le autorità libiche e tunisine. In questi con-fitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi, i quali, oltre ad essere sfruttati, venivano di tempo in tempo perseguitati. Odiosi episodi sono avvenuti, in quella parte meridionale della Sicilia, di “caccia al tunisino”.
“. Su questa prima emarginazione maghrebina in Sicilia, un giovane sociologo di Mazara, Antonio Cusumano, ha scritto un libro documentato, preciso, Il ritorno infelice, pubblicato nel 1976 da Sellerio.
Sono passati trent’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con improvvisati metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato…”.

Mediterraneo
Viaggiatori e Migranti

Vincenzo Consolo per Enzo Sellerio.


Bisogna superare ostacoli d’intimidatorie citazioni, stagni di brucianti ironie (e già temo l’ironia di questa metafora ippica) per parlare di un fotografo come Enzo Sellerio.
Un signore che, costretto a dire di sé in rapporto alla fotografia, mette subito le mani avanti, sfodera una figura retorica come la preterizione attraverso un autorevole citazione di Rudolf Arnhcim che lapidariamente afferma: «L’arte rischia di venir sommersa dalle chiacchiere», a cui egli stesso, Sellerio, cementa altra pietra, o altra intimidazione, con la frase: «E la fotografia pure, qualunque cosa sia». Ma io temerariamente parlo perché non sono, come si dice, un addetto ai lavori, non sono un critico, e quindi spero che il mio parlare, al di qua o al di là dell’oggetto in parola, o dell’oggetto parlato, non si sommi alle chiacchiere sommergitrici (le attuali chiacchiere che, afferma sempre il Nostro, facilmente possono sgorgare dalla lettura delle 537 paginette – notare l’esattezza del conto – a cui assommano i saggi di Barthes, Benjamin, Freund, Sontag); io parlo perché, contro ogni dubbio di Sellerio, sono convinto che la fotografia — la sua fotografia — sia arte (cd ecco che questo giudizio mi mette in contraddizione con quanto ho detto sopra); parlo perché ho da sempre nutrito profonda ammirazione per quest’arte di Sellerio (le prime sue foto che vidi furono quelle pubblicare da Michele Gandin su •Cinema Nuovo- e che avrebbero dovuto illustrare Banditi a Partinico di Danilo Dolci: era il 1955, mi pare, ed io ero studente a Milano; l’anno in cui usciva, in volume, Le parole sono pietre di Carlo Levi; qualche anno prima era uscita l’edizione illustrata dalle foto di Crocenzi di Conversazione in Sicilia di Vittorini; immagini, libri che mi facevano conoscere o riconoscere la mia Sicilia lontana, che mi avrebbero indotto a tornare nell’Isola della quale volevo scrivere, volevo testimoniare); parlo infine, ma primieramente come motivo, per consonanza: perché, voglio dire a me narratore, il genere fotografico di Sellerio mi sembra simile al genere narrativo: la sua fotografia simile al racconto. «La qualifica di fotografo-giornalista esiste, ma non quella di fotografo-letterario: perché non è lecito fare un lavoro di ricerca simile a quello dello scrittore?» si chiede Sellerio (intervista a Maurizio Spadaro per la sua tesi al DAMS, 1988-89). Ma questo lavoro di ricerca Sellerio l’ha sempre fatto, sin dalla sua prima fotografia. Perché la sua è stata, è fotografia «letteraria» (ma metto tra virgolette questa parola ambigua, pericolosa), è fotografia narrativa. E cerco di spiegarmi. Ho sostenuto in altri luoghi che lo scrittore ha due modi di esprimersi: scrivendo, appunto, c narrando. Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico; che è un rappresentare il mondo, ricrearne cioè un altro sulla carta. Gravissimo peccato detto tra parentesi, che merita una pena, come quella dantesca degl’indovini, dei maghi, degli stregoni (Inferno, XX canto):

| Come ‘I viso mi scese il lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso;
chè dalle reni era tornato il volto,
ed in dietro venir vi convenia,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.

Sì, il narratore, attingendo alla memoria, procede sempre con la testa rivolta indietro (e il suo narrare può quindi apparire operazione inattuale, regressiva). Ha però, il narratore, al contrario dei dannati dell’Inferno, una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo riporta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, si, figli della natura, ma siamo anche — dirci soprattutto – figli della cultura. Nasciamo, e subito veniamo incisi dai segni culturali. Lo scrivere invece, al contrario del narrare, può fare a meno della me- moria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica. «Che cos’è per lei la fotografia?» chiedeva il critico Diego Mormorio 1983). E Sellerio: «Non le risponderò certo tentando una definizione. lo credo, e l’ho verificato più volte, che nell’atro di fotografare, in certi stati di grazia, scatti una specie di telemetro interiore che fa coincidere quello che si vede con quello che si sa». E, questo che si sa, cos’è, se non la memoria, la memoria culturale? Quindi, il fotografo enumera casi in cui memorie pittoriche, memorie letterarie sono riemerse nell’atto del suo fotografare. E Malata, Partinico 1954 rimanda a Femme au lit di Vuillard, Monastero di clausura di Santa Caterina, Palermo 1967 rimanda a Vermeer, Quartiere della Kalsa (o Fucilazione dei bambini), Palermo 1960, rimanda a Goya, Musica sacra al Duomo, Monreale 1959 rimanda alla America di Kafka, e c’è ancora Brueghel, c’è Millet, c’è Antonello, c’è Picasso, c’è Conversazione di Vittorini; e Chaplin e Bufuel, e tanto cinema francese degli anni ’40, e Cartier Bresson e Robert Capa… Non si finirebbe mai, con i rimandi, le citazioni volute e non volute, consce ed inconsce. Insomma, la fotografia, come ogni altra espressione d’arte non è innocente, la naïveté è un’illusione, quando non è impostura. Non è innocente l’obiettivo fotografico. Non è obiettivo. Neanche l’obiettivo di Giovanni Verga. Né quello della macchina a cassetta avuta in eredità dallo zio Salvatore, né quello della Kodak e quello della Express Murer acquistate a Milano, né quello della Aestman acquistata a Londra. L’impassibilità dell’obiettivo di Verga rimase solo una fede, una credenza. Ho avuto occasione di vedere le 400 e più foto, in massima parte fino ad oggi indite, scattate da Verga, e ho potuto constatare che in esse c’è naturalmente tutta la concezione letteraria dell’autore dei Malavoglia, c’è la sua estetica, la sua cultura, la sua ideologia. Quasi tutti i personaggi ritratti, pescatori e contadini, proprietari, popolani o borghesi, parenti o amici, uomini o donne, bambini o vecchi, tutti sono sempre in posa davanti al muro di una casa, accanto a una porta o a una finestra: come pronti, dopo quella uscita al sole per la posa, a rientrare nel conforto, nell’illusoria protezione delle mura domestiche, perché il fuori è sempre minaccia, è ineluttabilmente perdita, è iattura. Sono, quelli di Verga, come si sa, personaggi isolati e soli davanti al destino e la fissità della stampa fotografica sembra certificare, confermare questa immutabilità. «Mektoub» («E scritto»), dicono gli Arabi, e quindi è immutabile; sono, quelli di Verga, personaggi irrigiditi in una epopea tragica. I personaggi di Sellerio, al contrario, sono usciti, si sono staccati dalle case (negli interni sono rimasti solo i vecchi, i malati, le monache di clausura), si sono sparpagliati per le vie, le piazze, i vicoli di città e paesi, per i sentieri di campagna, per le montagne, per i giardini di aranci: un’umanità che pullula, che lavora, che gioca, che fa festa… formano questi personaggi, l’umana compagnia, tutti fra sé confederati, per dirla con Leopardi: un contesto storico, insomma, una società. E qui dunque non siamo più nella poesia tragica, ma siamo, come dicevamo sopra, nel racconto. Racconto laico, moderno. Racconto che nasce da  una società, essa rappresenta e ad essa si rivolge. E il suo linguaggio, quindi, non è solo d’espressione, ma è anche di comunicazione. È linguaggio critico. E la critica, assieme alla poesia, ha certi acuti lirismi, ha certo struggente dramma, nasce dalla metafora.
 No, la fotografia di Sellerio, come ogni vera arte, non è naturalistica, ma è allusiva, è metaforica. Cadono nel ridicolo certe sperimentazioni linguistiche cosiddette concettuali, come quella, per esempio, di un fotografo che avrebbe voluto fotografare, in tutta la sua estensione, il muro di Berlino, e, incollando fotogramma a fotogramma, riprodurlo naturalisticamente. Siamo alle incomprensibili sperimentazioni cinematografiche di uno Straub che mette la cinepresa al centro della Piazza della Bastiglia o davanti a una fabbrica del Cairo e vuole riprodurre naturalisticamente tutto quanto si presenta davanti al suo obiettivo. «Chiedo perdono se proprio in un libro sulla Sicilia manca la violenza che qui, se non l’unico, resta un modus vivendi fondamentale scrive il Nostro nella nota introduttiva al suo Inventario Siciliano. Manca quindi nel suo Inventario la lupara, mancano i morti ammazzati dalla mafia, manca l’urlo, manca l’espressionismo traboccante di tutta l’infelicità sociale di Palermo e della Sicilia. Ma lo stile di Sellerio, il suo linguaggio, non è espressionistico. Esso si regge sul difficile equilibrio tra la parola e la cosa, tra il significato e il significante, tra l’informazione e l’espressione; tra la storia e la poesia, infine. Non c’è la violenza, non c’è la lupara. Ma c’è l’umano, il troppo umano. C’è amore, pietas, verso tutte le creature ritratte: verso i bambini, le donne, i lavoratori. In contrappunto, fuori dall’impaginazione della foto, sono la violenza, il crepitare del fucile; c’è l’offesa alle nobili creature ritratte. Ecco, dal momento che questo suo stile, questo suo linguaggio non è stato più capito o egli ha pensato che non fosse più capito, io credo che Sellerio abbia voluto smettere di scrivere il suo «E qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti. E ti vedrai quindi sfilare sotto gli occhi, a mille a mille, scene di guerre e di disastri, di morti e di massacri, d’intimità violate, di dolori esposti all’indifferenza e al ludibrio. L’abitudine, si sa, tannino che s’incrosta, nerofumo di camino, cancro che divora e che trasforma, ricopre, spegne la ragione, e l’idiozia è madre della degradazione e delle crudeltà. .Monsieur Guy de Maupassant va s’animaliser…. Scusate l’autocitazione. Questo è un brano di un mio racconto intitolato Il fotografo, in cui parlo di Robert Capa. Ma quando lo scrivevo, pensavo anche ad Enzo Sellerio. Il Sellerio che così dichiarava: «La professione di fotografo, come io la intendevo, cominciava ad andare in crisi. Sotto l’incalzare della televisione i periodici di maggior prestigio, anche negli USA, chiudevano via via i battenti: destino che non fu risparmiato qualche anno dopo a “Life”». E ancora: -Io avevo fotografato essenzialmente i luoghi della mia città che mi erano più cari e dove la vita era la continuazione della sua storia. Oggi quel paesaggio è completamente mutato… Non mi interessa la città nuova con i suoi mostri di cemento armato, né la nuova fauna umana che vi abita, dimentica del suo passato e incapace di immaginarsi un futuro… Questa città e quest’Isola le lascio ai giovani che possono fotografarle con minore angoscia». Ma non è solo la mutazione del paesaggio intorno che gli ha fatto cadere la penna di mano. È anche la mutazione dei linguaggi, che si son fatti sempre più urlanti, scomposti, sgrammaticati, sopraffacendo la poesia. È la rivoluzione tecnologica che ha ucciso il rigore, lo stile. E più aumentano gli oggetti, i materiali, i supporti (grandangolare, occhio di pesce, automatismi elettronici ecc…), così, come nella classifica che dava Kant delle arti a seconda della maggiore o minore materia che esse contenevano, sempre meno appare l’arte nella fotografia. «C’era una volta un fotografo. Fotografava moltissimo: profili e primi piani, ritratti dalle ginocchia in su e figure intere; sapeva sviluppare e fissare, dare i toni e riprodurre. Era una meraviglia! Ma non era mai contento, perché era un filosofo, un grande filosofo e un inventore…. Questo è l’attacco di un raccontino di Strindberg. Ecco, quel fotografo scontento, quel filosofo deluso che è Sellerio ha smesso – o dice di avere smesso — di narrare fotografando e s’è messo a praticare un’altra scrittura: l’editoria. I suoi splendidi libri — dal primo del 69, I veleni di Palermo, fino agli ultimi due Cristalli di quest’anno, Zolfare di Sicilia e La storia dei Whitaker, e ancora tutta l’impostazione grafica dei libri di narrativa, di saggistica, di storia dell’altro settore della Casa editrice Sellerio, quello di Elvira, dicono ancora e sempre del suo rigore, del suo stile. Stile che gli viene ancora una volta dalla sua cultura, dalla frequentazione delle più prestigiose riviste internazionali, di grafici come il grande Fleckhaus. Sono libri troppo noti e finanche largamente imitati, questi libri, per parlarne qui ampiamente. E voglio quindi tornare al Sellerio fotografo, al grande reporter, al maestro di quella scuola fotografica palermitana, o più estesamente siciliana, di cui prima o dopo bisognerebbe scrivere la Reporter. Viene da riportare, referre, riferire. È il messaggero del teatro greco che assiste alla tragedia che si è svolta in altro luogo e arriva sulla scena a riferire: ricreando il fatto, colla sua sensibilità, colla sua memoria, colla sua cultura, con il suo stile. Dipende da noi, da noi spettatori, se non abbiamo ancora perso il senso delle parole, intendere il linguaggio, la metafora di quell’anghelos. L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze. Ma nell’impossibilità di farsi capire oggi, nell’assordante chiasso, nell’urlante totalitarismo dei media, la reazione può essere l’afasia scandita da un’amara intelligente ironia. Quella che, per esempio, nel dilagare del baconiano «mosso» di tanta fotografia di oggi, di fronte al ritratto di una massaia contro le sue casseruole, fa dire: «Il messaggio è chiarissimo: la donna è mobile, le pentole no». «Fotografare significa scegliere e senza scelta non può esservi stile» dice Sellerio. Il fatto è che tanti fotografi oggi non scelgono. ma sono scelti; ridotti a passivi strumenti, come la camera che tengono in mano, a media dell’impero delle merci.

Vincenzo Consolo

28 ottobre – 18 novembre 1989 – Messina
Testo di Vincenzo Consolo