Porcacchia facean di nome

“Porcacchia facean di nome loro di famiglia…”: con questo o un simile
attacco vorrei scrivere un romanzo. Raccontare d’una famiglia di camionisti (padre e due figli, mettiamo) del Napoletano, del Casertano o Avellinese, ex contadini, proprietari di un camion con rimorchio (costano, questi bisonti, quanto una casa di cento metri quadri entro la prima cerchia dei Navigli di Milano), che vanno, affannosamente e disperatamente (devono pagare il camion, costruire la casa), sulle autostrade su e giù per la stretta penisola nostra italiana. Con loro, della nuova realtà sociale: l’inurbamento, le squallide periferie industriali delle metropoli del Nord e i caotici agglomerati delle città del Sud, la camorra, il traffico di armi e droga, l’industria delle serre, lo sfruttamento della mano d’opera del Terzomondo, il calcio, gli stadi, i grandi mercati, le tangenziali, i raccordi anulari, i massacri sulle autostrade, gli scioperi, i blocchi stradali, i porti, i containers… Vorrei scrivere, ma non posso: bisogna esser giovani per scrivere un libro così, giovani e sciolti d’ogni memoria e legame per poter salire sulla cabina di uno di quei camion e viaggiare almeno per un anno, imparare, se già non la si conosce, la nuova lingua italiana, le koinè delle nuove realtà in cui ci si imbatte, i gerghi dei camionisti, dei trafficanti, dei camorristi, dei tifosi, delle prostitute, dei travestiti… No, non posso proprio: sono vecchio. Peccato. Mi resterà il rimpianto di non aver potuto scrivere un mio Pasticciaccio, il pasticciaccio brutto dei Porcacchia. Cedo dunque l’idea a qualche giovin scrittore italiano (interesserà mai a costui la realtà nostra sociale e saprà scrivere in terza persona?). La cedo a gratis, come dicono a Milano. Dicono a gratis e dicono con pardon i ragionieri di codesta città quando vogliono parlare in punta di forchetta. Oltre a dire una tantum, nel senso del diritto che hanno loro a sniffare di tanto in tanto per riprender quota ed esser efficienti. Ma con lo sniffo siamo forse già a livelli un po’ più alti (di quelli dei ragionieri almeno rimasti fuori da Palazzo Chigi, fuori dal Banco Ambrosiano e fuori dalla Borsa): macellai, ristoratori, amministratori ed evasori d’ogni risma, fabbricanti di mine, di defolianti e di tondini, pubblicitari e pierre, designers, parrucchieri, sarti, fotomodelli, artisti d’ogni ramo, dentro e fuori il Canale Cinque. Parlo della grande Milano in cui dimoro ormai da venti anni, senza contare i quattro in cui vi studiai. Erano allora gli anni Cinquanta e Milano l’era tutta un’altra roba. Era la città della ricostruzione, del grande Progetto, gli anni del “Politecnico” e dei “Gettoni” di Vittorini. Finiti gli studi, me ne tornai in Sicilia con l’idea di fare lo scrittore. Lo scrittore meridionale e meridionalista (era tanto di moda allora). Perché allora la scrittura era subito impegno, testimonianza e denunzia (e c’era pure Scelba che denunziava il culturame). Il grande sole o schema era naturalmente il Cristo d’Eboli con tutto quanto lo aveva preceduto e seguito, Gramsci Dorso Salvemini, con tutte le Uva puttanella, tutti i Pasticciaccio e i Ragazzi di vita, tutti i neorealismi, le sperimentazioni e le digressioni dialettali allora imperanti. Ma quando mi trovai a pubblicare il mio primo libro nel ’63, nella mondadoriana collana del “Tornasole” di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, dal titolo La ferita dell’aprile, dissero i critici, che allora leggevano i libri, che ero fuori, ma proprio fuori dal neorealismo. Ma ero dentro la storia. La storia siciliana del dopoguerra, la caduta del fascismo, la ricostruzione dei partiti, le prime elezioni regionali del ’47 con la vittoria del Blocco del Popolo, la strage di Portella della Ginestra, la vittoria schiacciante dei Democristiani nel ’48… Poi finì il Meridione e finì il mondo contadino. Tutto si industrializzò, pure la mafia e pure la camorra. Avvenne il grande esodo dei braccianti dal Sud al Nord. Anch’io quindi emigrai, e di nuovo su a Milano. Avevo la bell’età di trentacinque anni. Viaggiai il giorno e la notte di San Silvestro e il primo gennaio del 1968 fui a Milano. Contadino inurbato, non sapevo niente di metropoli e di cultura industriale. Mi sentii spaesato, spiazzato anche linguisticamente. Ripercorsi così, per salvarmi, per riconquistare anche l’uso della parola, la mia storia, la storia cioè della mia terra, e scrissi, in una lingua storica e filologica scavata e ritrovata, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Dopo tredici anni dall’esordio. E questo libro, ch’era d’impianto storico (si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…),
voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva,
a Milano e altrove. Poi… Poi sempre più indietro e sempre più lontano
dalla realtà: Lunaria, un racconto favoloso ambientato in un vago Settecento e scritto in forma teatrale. Quindi, uscito proprio nei giorni in cui sto per tracciare questo mio profilo scellerato, Retablo, d’ambientazione ancora settecentesca. Su cui aspetto che i critici dicano qualcosa. I quali forse non diranno niente fino a che il libro non sarà tradotto in italiano, nella lingua cioè dei Porcacchia che oggi si parla e scrive nel paese nostro. Perché Retablo è scritto in una lingua trapassata,
che pochi ormai ricordano e capiscono. “Lei è anacronistico?” mi ha chiesto un giornalista. “Certo” ho risposto. “E pure anacreontico.”

Vincenzo Consolo, in Giuseppe Appella – Paolo Mauri (a cura di), Almanacco della Cometa.
“I contemporanei vedono
se stessi”, Edizioni
della Cometa, Roma 1988, pp. 21-22.

Per Vincenzo Consolo

24 gennaio 2012 • pubblicato da minimaetmoralia

Fabio Stassi ci regala un ritratto appassionato dello scrittore Vincenzo Consolo, scomparso qualche giorno fa. L’appendice che segue sono gli appunti che Stassi ha conservato di un passato Salon du livre di Parigi, dove Consolo fu ospite e parlò della sua ricerca stilistica e della sua poetica.
di Fabio Stassi

Ho conosciuto Vincenzo Consolo nella biblioteca di Storia contemporanea della Sapienza di Roma. Era un giorno di maggio del 1995. L’avevamo invitato a parlare delle biblioteche frequentate nella memoria e nel sogno. A quell’incontro con gli studenti avrebbe partecipato anche José Saramago, se il dipartimento non lo avesse ritenuto un personaggio ancora non “di chiara fama”. Consolo intervenne dopo l’inconfondibile barba bianca a due punte di Vittorio Emanuele Giuntella, uno studioso a cui volevo bene e che mi aveva insegnato tutto quello che so sull’età dell’illuminismo. Giuntella aveva scelto di raccontare le biblioteche dei lager nei quali era stato internato, e lo fece in maniera toccante. Consolo parlò invece dei libri della sua infanzia, della biblioteca di Lucio Piccolo, della scoperta della stella polare della letteratura. La sua voce era mite ma affabulatrice, capace di esprimere con la stessa forza sia la nostalgia che l’indignazione.

Fu uno dei primi scrittori che vedevo in carne e ossa, avevo letto tutti i suoi libri e lo consideravo l’ultimo esponente della tradizione del romanzo siciliano post-unitario[1]. Leonardo Sciascia era morto da qualche anno e con Gesualdo Bufalino ci avevo parlato solo per telefono (il Grande Sedentario non usciva mai dalla Sicilia: ci saremmo scritti, ma non l’avrei conosciuto perché rimandai troppo a lungo un viaggio a Comiso). Restava solo lui. Quella sera scegliemmo un piccolo ristorante, in centro, dove poter conversare in pace. E per me fu come andare a cena con la lezione umanizzata di Verga, De Roberto, Pirandello e Borgese, più la luce luttuosa di Brancati, più gli astratti furori di Vittorini e di Sciascia e l’eleganza formale di Tomasi e di Bufalino declinati tutti insieme in un espressionismo dolente. Prendemmo un gelato dietro al Pantheon. Ricordo che Consolo si arrabbiò per come cambiava la letteratura, per la sua spettacolarizzazione, e anche per l’incomprensibile sciatteria delle nostre canzoni e della musica commerciale.

Sull’esempio di chi lo aveva preceduto, il suo lavoro portava avanti quella coerente e quasi cromosomica riflessione sui fatti italiani che gli scrittori siciliani hanno sempre condotto, dalla delusione del Risorgimento e dell’unificazione sino all’omicidio dei giudici Falcone e Borsellino. Una riflessione che tra vicerè, vecchi e giovani, gattopardi, esercizi spirituali e olivastri selvatici suona come un recitativo all’inverso, una implacabile chiosa ai secolari malanni e guasti della nazione. La dominante è una dissonanza cronica: un cosmico e sgomentato discredito della storia. L’eccentrico barone Enrico Pirajno di Mandralisca, catalogatore di molluschi e collezionista d’arte, protagonista de Il sorriso di un ignoto marinaio (Einaudi, 1976), si chiede allo stesso modo dell’abate Vella del Consiglio d’Egitto di Sciascia[2]: “Cosa è stata sin qui la Storia, egregio amico?” La risposta è esemplare e definitiva: “Una scrittura continua di privilegiati.” Per lui il mondo aveva la forma di una chiocciola o di una lumaca: una spirale di ingiustizie e di soprusi, il ripetersi di una stessa mancata speranza.

Si potrebbe dire che il tema privilegiato della narrazione romanzesca, per Consolo come per Bufalino o per Sciascia, è “il tempo febbrile delle pesti”[3]. È lo stesso “mal contagioso” di cui scrive Manzoni, “il seme della peste”[4]. I personaggi che ne faranno esperienza, sono cronisti di epoche tristi e inferme, contemporanei di pestilenze ed esili che lasciano cambiati, per quanti oblii li seguiranno. È il “colera di Palermo”, la pandemia della mafia e quella nera del rimorso e del tragico senso di fallimento di una generazione che non ha saputo costruire dopo la guerra un’Italia civile e si ritrova ora a vivere in un paese franato, tra città stravolte, dove si cancellano memorie e nelle quali esala “un odore dolciastro di sangue e gelsomino”[5]. Segno che l’infezione, ancora, non è passata né che se ne potrà guarire.

Se Bufalino lavorò per decenni alla sua Diceria dell’untore, Consolo intitolò uno dei suoi ultimi libri con il nome dell’antico lazzaretto della città: Lo Spasimo di Palermo. Dalla valle “fetida, infetta” della Conca d’Oro, da questa Palermo immersa in “un sudario molle”, cielo lattiginoso e “mare d’un verdastro torbido”, e “fumi grassi” che s’alzano dalle spiagge, si può risalire fino alla Somalia del sergente di Ennio Flaiano in Tempo di uccidere o all’Algeria di Camus del dottor Bernard Rieux, che aveva proprio l’aria di un contadino siciliano. Lungo questa mappa delle metafore o cosmologia della peste, tutto ritorna all’uomo: la pena, e la rivolta, e il dovere della responsabilità e del bilancio.

Sarà un terremotato di Gibellina, emigrato nelle cave di Meirengen, vicino Basilea, a resocontare in L’olivo e l’olivastro il ritorno nell’isola odiosamata[6] ricoperta ora di gelsomini neri, un sudario di calce al posto del ricordo, una terra di massacro e una terra massacrata, dove di ciclopico è rimasta solo la demenza. Il suo viaggio, speculare a quello del Silvestro di Vittorini[7], è un dialogo con uomini e luoghi trapassati, con l’ansia divorante delle madri, un inoltrarsi nella rovina, un chiedersi cos’è successo, un sapere che si è destinati a ripartire… è l’ultimo mascheramento di Ulisse. Perché più vado avanti e più mi rendo conto che tutto quanto c’era da dire, scriverà in un altro piccolo libro Vincenzo Consolo, era già stato detto da Omero e dopo non si è fatto altro che ripetere: “l’Odissea è matrice di ogni racconto”[8].

Per qualche anno ci scambiammo solo dei biglietti, di tanto in tanto. Perché lo incontrassi  nuovamente, il caso scelse un’occasione privilegiata: il cielo grigio di Parigi e il Salon du livre del 2001. Io ci partecipavo come bibliotecario: quell’anno l’Italia era il paese omaggiato. All’ingresso avevano esposto trentacinque enormi ritratti. In uno di questi, Vincenzo Consolo teneva in mano una lente d’ingrandimento che gli dilatava l’occhio e lo sguardo mentre Rigoni Stern camminava su un sentiero innevato di Asiago. Lessi che teneva una conferenza alla sala Victor Hugo: Une heure avec Vincenzo Consolo. Mi precipitai. La sala era accanto al Padiglione Italia. Una sala gialla, affollata. Dai vetri si vedeva la gente che passava. Entrai mentre un attore stava leggendo un brano di un suo libro. Presi posto e aprii il mio quaderno per gli appunti. Soltanto dopo un po’ mi accorsi che mi ero seduto accanto a Daniel Pennac.

La conferenza di Consolo fu ipnotica. Parlò di molte cose, della letteratura come metafora, delle sue scelte stilistiche, del Sud, di Omero, di Verga e del proverbio siciliano cu nesce arrinesce: chi esce, chi va via, riesce. Alla fine, Daniel Pennac si avvicinò al mio orecchio e mi disse sottovoce, con un gran sorriso entusiasta, che per lui Consolo era semplicemente magnifique. Ci alzammo e andammo ad abbracciarlo insieme.

Nel 2007 lo ritrovai a Siracusa, al Premio Vittorini. Era il presidente di giuria e furono le sue mani a benedire il mio primo romanzo. Ma l’ultima volta che l’ho visto fu a una serata tributo per Pino Veneziano, l’artista siciliano che un giorno dell’84 aveva cantato anche per Borges, commuovendolo. Consolo aveva firmato un appello per Selinunte e l’introduzione a un libretto dal titolo Di questa terra facciamone un giardino[9]. Prese la parola e tracciò un breve elogio della cultura orale. Me lo ricordo così, sotto la luce gialla che illuminava le colonne del tempio, piccolo e incanutito ma con gli occhi che non avevano mai smesso d’essere vivaci, un vecchio cantastorie in piedi tra i ruderi di un’acropoli.

APPENDICE

Un clandestino a Parigi : une journée avec Vincenzo Consolo
(dai miei appunti, Parigi, Salon du livre, 24 marzo 2001)
Sala Victor Hugo, ore 12

La letteratura è metafora. Nostalgia di un tempo e di una patria perduta, desiderio dei personaggi di tornare a un’Itaca che non esiste più. È la nostra condizione. Siamo degli ulissidi che anelano a raggiungere la patria perduta. La memoria di una patria. Io ho sempre avvertito nel mio lavoro di scrittore una discrepanza tra argomento e stile. Sin da quando iniziai a scrivere, nel 1963, capii che dovevo fare una scelta di campo dal punto di vista linguistico e stilistico. Non c’è innocenza in arte, bisogna avere consapevolezza di quello che si sta svolgendo. Io sapevo che gli scrittori della generazione appena precedente alla mia, avevano adottato un registro comunicativo, un codice linguistico comunicativo. Moravia, Calvino, Morante, Sciascia. Io penso che speravano che dopo la fine del fascismo sarebbe potuta nascere in Italia una società civile con la quale comunicare. E questa loro speranza risaliva all’utopia linguistica di Manzoni.
Ma quando cominciai a scrivere io, questa società non si era formata, non esisteva per me. Per questo ho adottato un codice non comunicativo, ma espressivo. Con questa scelta stilistica mi inserivo in una tradizione italiana che partiva da un mio conterraneo, Giovanni Verga. Lui aveva rivoluzionato il codice linguistico manzoniano. Sulla sua linea lo avevano seguito Gadda e Pasolini.
Avevano creato un controcodice espressivo.

In questo sono stato favorito dalla ricchezza della lingua della mia terra, da quel giacimento linguistico che con molta faciloneria viene chiamato dialetto. Nel siciliano sono presenti residui della lingua greca, araba, francese, spagnola e delle altre civiltà transitate dalla mia isola. Io ho utilizzato questo serbatoio, questi residui, per rompere il codice linguistico nazionale, organizzando la prosa in modo ritmico, lirico, più simile alla poesia. Per me non esisteva un rapporto tra testo letterario e contesto storico, situazionale, ma una rottura. L’esempio più efficace lo dà la tragedia greca. Il messaggero appare sulla scena e riferisce quello che è avvenuto in altro tempo e in altro luogo. Solo dopo che lui racconta i personaggi si muovono e il coro commenta. Così, attraverso il rito del teatro, si ottiene la liberazione dalla colpa, la catarsi. Il messaggero, l’anghelos, è lo scrittore. Appare e dice di una vicenda, e cerca di far immedesimare personaggio e lettore. Ma oggi la cavea è vuota. Non c’è più il pubblico. L’unica possibilità è quella di spostare la narrazione sul commento della tragedia che ci riguarda tutti.

Nei miei libri, in tutti i miei libri, ci sono queste parti corali, che i latini chiamavano cantica. Si interrompe il racconto e si alza il ritmo, attraverso l’uso insistito delle assonanze e delle rime. Come dice Bachtin, il romanzo è sempre utopico perché ipotizza un mondo migliore.

Questa è stata la mia ricerca stilistica, una ricerca archeologica e filologica. Noi non abbiamo la fortuna di voi francesi. Leopardi, in un’analisi delle due lingue cugine, l’italiano e il francese, dice che il francese, attraverso la creazione di uno stato e la sua storia unitaria, si è “geometrizzato”. L’italiano, invece, non è una sola lingua, ma tante lingue. Questa è la nostra risorsa ma anche la nostra dannazione, da Dante in poi.

La letteratura, per me, è soprattutto una memoria linguistica. Ho ricercato le radici e usato la tecnica dell’innesto. Ma non ci si deve confondere. Trovo ingiustificato e regressivo l’inserimento dell’elemento dialettale. Come ha scritto Pasolini, Verga usava un italiano irradiato di dialettalità, ma non era un dialetto, era un’altra lingua. Una lingua nuova.

Considero la ricerca stilistica un impegno nei confronti della storia. Capisco che i miei testi non sono di facile lettura. Ma c’è in me un’esigenza di praticare una “letteratura d’intervento” (così l’ha definita Roland Barthes) anche sui giornali. Sento il bisogno di esprimere il mio giudizio sulla situazione politica del mio paese, ma anche su quella internazionale. Domani, insieme ad altri scrittori che fanno parte del Parlamento internazionale degli scrittori, tra cui José Saramago, parto per Tel Aviv e per Ramallah, per portare un appello per la pace. In Francia, l’esempio dello scrittore militante è quello di Zola, che pur pagando di persona alla fine riuscì a far riaprire il processo Dreyfuss. Oggi, in Italia, c’è un ministro della cultura che accusa gli intellettuali di vigliaccheria. Di fronte a tanta volgarità non vale nemmeno la pena di rispondere. Voglio aggiungere che non volevo alcuna ipoteca da parte del governo italiano sulla mia partecipazione a questo Salone del libro. Dopo le nostre dichiarazioni, io, Camilleri e Tabucchi siamo stati cancellati dal catalogo. Non troverete né la nostra foto né la nostra biografia. Per il mio governo, qui sono un clandestino.

Sala Dante Alighieri, pomeriggio. Vincenzo Consolo discute insieme a Erri De Luca, Giuseppe Bonaviri e Raffaele La Capria. Qualcuno gli chiede perché ha lasciato la Sicilia…

Appartengo alla storia infinita di meridionali che hanno abbandonato questa estremità, questo limite, per raggiungere il centro. Alcuni vennero in Francia, nel vagheggiamento di un nord mitico. Il primo è stato Verga. Approda a Firenze, poi a Milano, nella Milano dei salotti e delle contesse. Trova invece un mondo in grande subbuglio. In quegli anni si avvia la Pirelli. Lui rimane spiazzato. E qui si toglie la maschera di scrittore borghese e compie una rivoluzione stilistica. Dopo di lui, a Milano ci piovono Vittorini e Quasimodo. Io ci ho studiato, poi sono tornato in Sicilia. Ho insegnato nelle scuole agrarie. Ma presto mi sono reso conto che la mia presenza nell’isola era un’assurdità. Il mondo che volevo descrivere, il mondo contadino, si stava frantumando. Era in atto un esodo di braccianti che partivano per il nord e diventavano operai. Si pensava ancora che Milano fosse diversa e opposta alla realtà siciliana. Questa mitologia era stata alimentata da Vittorini. Lì ho lavorato in quella che definisco una fabbrica di armi, ossia la televisione, la Rai. Progressivamente il mito di Milano mi si è infranto, stagione dopo stagione, prima con gli anni di piombo, poi col riflusso craxiano, infine con l’era di Berlusconi. Questa è la mia storia.

La sala è strapiena. Gente in piedi, gente seduta per terra. L’affluenza è davvero impressionante. Sembra quella di un concerto. De Luca e La Capria relazionano in francese. Consolo riprende il microfono per spiegare che per la sua isola i Vespri siciliani sono stati una sciagura, al contrario di quanto ha creduto Croce. Perché i francesi se ne sono andati a Napoli, “e oggi i relatori napoletani lo parlano correttamente, mentre da noi sono arrivati gli spagnoli e l’Inquisizione, ma i siciliani non hanno imparato nemmeno lo spagnolo”. Suscita l’ilarità della sala. Poi pacatamente riprende il suo discorso sul recupero di una memoria linguistica, della memoria di un sud più profondo.

Il canale di Sicilia era un canale di grande comunicazione. I pescatori trapanesi andavano a pescare nelle acque del Mahgreb. Poi, con l’inizio dell’età dei conflitti, il Mediterraneo divenne un confine, un luogo di miserie e di atrocità, come ha spiegato Braudel, un mercato di schiavi, il centro di guerre economiche mascherate da guerre di religione. Oggi, purtroppo, assistiamo al ritorno di questi massacri. Ma non bisogna dimenticare che la storia delle civiltà è sempre una storia di incroci e di migrazioni e anche voi francesi ne sapete qualcosa.

L’intensa giornata di Vincenzo Consolo termina la sera, allo stand di France culture. Attorniati dai microfoni e dai giornalisti della radio francese, siedono allo stesso tavolo i membri del Parlament International des Escrivains. Vicino a Consolo riconosco i premi nobel per la letteratura Wole Soynka e José Saramago. Soynka è un po’ invecchiato, con una montagna di capelli bianchi sulla testa. Saramago elegante e autorevole, come sempre. Accanto a loro siedono il sudafricano Breyten Breytenbach, il cinese Bei Dao, Juan Goytisolo per la Spagna e Russel Banks per gli Usa. Con voce ferma e sicura, insieme consegnano a Parigi e al mondo il loro messaggio di pace.

[1] Un sommario elenco delle opere che hanno edificato questa linea siciliana del nostro romanzo comprende: I malavoglia (1881) e la novella Libertà (1882) di Verga, I vicerè (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, Rubè (1921) di Borgese, Il gattopardo (1958) di Tomasi, Il Consiglio d’Egitto (1963) e il racconto Il quarantotto (Gli zii di Sicilia, 1958) di Sciascia. Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) di Consolo è l’estremo tassello di questa antistoria del Risorgimento, un discorso che si protrae da oltre un secolo. Ma, estendendo la riflessione al fascismo, al dopoguerra e al cinquantennio democristiano, bisogna annotare almeno Conversazione in Sicilia (1941) di Vittorini, Il bell’Antonio (1949) di Brancati, Il contesto (1971) e Todo Modo (1974) di Sciascia, Diceria dell’untore (1981) di Bufalino, L’olivo e l’olivastro (1994) e Lo spasimo di Palermo (1998) di Consolo, a cui ora si possono aggiungere le opere e i nomi di Andrea Camilleri, di Giosué Calaciura e di Giorgio Vasta.

[2] L’abate Vella sosteneva “che il lavoro dello storico è tutto un imbroglio, un’impostura: e che c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso che quella di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. «Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. La storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quest’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh, sì, la storia… Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente…. La storia. E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce alta della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fino da sentirlo?»” in L. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Milano, Adelphi, 1989, p. 59-60.

[3] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p. 113.
[4] Così suona, in francese, il titolo della Diceria dell’untore.
[5] V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 115.

[6] Consolo aveva già individuato in un piccolo paese nell’entroterra della Sicilia, Caltagirone, l’epicentro di una epidemia e l’emblema di una nazione, “della vecchia Italia che ha generato dopo i disastri del fascismo, nei cinquant’anni di potere, il regime democristiano, la trista, alienata, feroce nuova Italia del massacro della memoria, dell’identità, della decenza e della civiltà, l’Italia corrotta, imbarbarita, del saccheggio, delle speculazioni, della mafia, delle stragi, della droga, delle macchine, del calcio, della televisione e delle lotterie, del chiasso e dei veleni. Il plastico dell’Italia che creerà altri orrori, altre mostruosità, altre ciclopiche demenze.” (L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 1994, p. 71).
In un altro libro di Gesualdo Bufalino, il Guerrin Meschino, il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 cala addirittura il sipario, si chiude per lutto. L’Oprante, il puparo si ferma, smonta il teatrino, ripone con cura i legni e, alla fine, rompe la noce del collo al più derelitto degli eroi, al desdichado di cui stava raccontando le avventure: è un tempo, ormai, dove nemmeno per finta, nemmeno per gioco, “il buono vive e il maganzese muore”.

[7] Silvetro Ferrauto è il protagonista di Conversazione in Sicilia.
[8] Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introduzione di Maria Corti, Milano, Bompiani, 1999.
[9] Di questa terra facciamone un giardino. Tributo a Pino Veneziano, con CD audio, a cura di Rocco Pollina e Umberto Leone, Trapani, Coppola editore, 2009.

«Noi siàn le triste penne isbigotite».


*
«Noi siàn le triste penne isbigotite».
Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo.

di Claudia Minerva

« […] ti trovo bene, un po’ più magro…»

Con l’eccezione di pochissimi interpreti, in linea di massima la critica ricorre ad una approssimazione per definire Lo Spasimo di Palermo (1998) di Vincenzo Consolo: perlopiù schivando il termine ‘romanzo’ (e Consolo ormai dichiarava il genere invilito e impraticabile), chiama questo oggetto letterario per nome (lo Spasimo) oppure nelle varianti di ‘opera’, ‘libro’, ‘testo; e lo dice ‘vicino alla poesia’, o ‘vicino ai silenzi della poesia’, agli ‘approdi della lirica’, avvalendosi di simili locuzioni, tutte versatili e debitamente laconiche, e apertissime alle inferenze del lettore. Espressioni insomma vagamente oracolari, concise e scontornanti insieme: che additano ad uno scarto rispetto ai libri precedenti dell’autore, e forse accennano (ma assai in aenigmate) a uno scavalcamento dei dominî specifici di prosa e poesia e allo squilibrio netto della narrazione in direzione di quest’ultima; ma perifrasi che pure – e anche quando non siano diventate formule abusate (come accade), o maniera collaudata per sbrigarsi da un’impasse, non soltanto classificatoria – pure sembrano aggirarsi, tra allarmate e reticenti, intorno a un nucleo di non detto.
Perché certo è reale la dilagata ‘verticalità’ della scrittura consoliana, la sua innegabilmente cresciuta e fortissima contiguità alla lirica; ma dacché poi sempre poetica è stata la pagina dello scrittore siciliano – cadenzata, assonanzata, rimata; e gremita di echi letterari, colta, rara, di lingua incantata – a voler marcare le differenze rispetto al passato bisognerà mettere da parte la retorica e puntare piuttosto al rasciugamento della lingua e all’accentuarsi della contrazione testuale (della ritrazione autoriale); e dunque al modo ampiamente scorciato ed ellittico, allo ‘spasimo’, che è del periodo e del racconto.

Il mutamento, tuttavia, era annunciato. A guardare indietro, gli indizi stavano nell’acuirsi di un disagio peculiare in Consolo: se vogliamo in una sorta di insicurezza, una perenne quasi scontentezza delle strade già percorse, spesso anche ritentate, ma poi dismesse, accantonate; e in una crescente palpabile desolazione, nella fatica strana della penna. Le avvisaglie erano nei lunghi intervalli tra i libri tutto sommato pochi di questo autore che disperatamente e attardatamente ancora, nel pianeta ignorante e immorale, nel mercimonio globale, si ostinava a voltare le spalle al mercato e a voler fare Letteratura, a voler essere artista e scrittore ‘impegnato’, ‘civile’: un affabulatore, un incantatore, epperò al tempo stesso l’intellettuale utile ad arginare, curare, denunciare: magari a prevenire e a impedire il dolore del mondo, come insegnava una bellissima utopia di Vittorini. Le tracce si leggono nel succedersi dei testi: distanti uno dall’altro non solo cronologicamente, ma veramente poi ognuno a suo modo, nella lingua e nello stile: ogni volta a riprovare la forza della scrittura per piccoli aggiustamenti o inversioni di rotta o a furia di rimaneggiamenti; e con esiti più o meno felici, opachi o splendidi, ma forse, al fondo, con sempre meno entusiasmo. E stanno, le tracce, in una oscillazione tra due poli, nell’opzione combattuta – d’un tratto nettamente divaricata e poi stranamente mischiata, impazzita o violentemente turbata – tra ‘scrivere’ e ‘narrare’, tra certe punte aride, cronachistiche, e un progressivo spostarsi o arroccarsi nella zona della ‘espressione’. E vogliamo dire che il mutamento è andato al passo con l’approfondirsi di una riflessione (o di uno scoramento) che ha una radice antica, se è vero, come sembra a noi, che è dallo squieto interrogarsi del Sorriso dell’ignoto marinaio (1976), dall’assillo della ‘scrittura-impostura’ (ornamento, fiore bizantino, e comunque voce di secondo grado sempre: sempre finzione), se da quel tarlo discende il «rimorso» dello Spasimo. Un «rimorso» che Consolo ha affrontato per gradi, da Catarsi (1989) e Nottetempo casa per casa (1992); e poi ha scandito in due tempi, nell’Olivo e l’olivastro (1994) e qui, nel testo ultimo. Ci ha messo due libri per dircelo o per dirlo a se stesso, e lo ha fatto senza più volute e riccioli e sontuosità barocche, togliendosi la cifra così sua e spettacolare di fasto e di vertigine, elidendo la bellezza. E non perché lo Spasimo non sia bello, al contrario. Ma se nessuno dei testi di Consolo è facile, più degli altri è difficile questo: che porta il nome di un quadro della Passione, di una chiesa votata alla rovina, di un affanno che tortura, di «uno scatto di tendini e nervi» per «allucinato dolore»[1], e che come un dolore è difficile; come la dichiarazione di una colpa, come la confessione di un fallimento, è faticoso.
E davanti a questa scrittura quasi impossibile da realizzare e da sopportare – tutta a risalti e rilievi di pena, terremotata nella sintassi, smagrita nella lingua e nelle immagini, e tenace nella volontà di tormentare se stessa – chiudere la vicenda e frettolosamente siglarla con l’apparentamento spesso meccanicamente ripetuto con la lirica e i suoi «ardui approdi» o i suoi «silenzi», è quasi un non voler guardare, pare il tentativo di aggirare e di scansare il silenzio verso cui davvero Consolo si è mosso (e quanti ‘addii’ ci sono in questo libro?). La storia poi è sempre uguale. Sembra, come davanti al Tramonto della luna di Leopardi, di trovarsi di fronte a un eguale imbarazzo della critica, al non voler prendere atto – allora come adesso – di una messa in liquidazione.

Quando troppo sbrigativamente si afferma che la pagina di Consolo s’è fatta più vicina ai silenzi della poesia, l’impressione è che più sotto ci sia una questione semplicissima ma essenziale di cui si tace, quella di una scrittura che non vuole più incantare. Dov’è infatti la lingua che gremiva ed affollava Lunaria (1985), la «parola suavissima», la «notte di Palermo» («Nutta, nuce, melània / […] deh dura perdura, […] non porgere il tuo cuore / alla lama crudele dell’Aurora»; LUN, 13-14)? Che fine ha fatto la Luna?
Era «lucore», «faro nittinno», «fiore albicolante», la Luna: e cadeva, certo, nel sogno di un malinconico Viceré, come in un sogno famoso di Leopardi (Frammento XXXVII); e veramente pioveva giù dal cielo, lentamente in garze si sfaldava, spariva, moriva, lasciava in alto solo vacuo nero, vuoto. Ma poi dopo, in una Contrada senza nome, in un luogo che aveva conservato le parole antiche, la memoria, magicamente si ricomponeva, bianchissima risorgeva; e favolosamente rifaceva il sipario della quiete, l’inganno del cuore, la malìa, il «sogno che lenisce e che consola», la Poesia.
Per i poeti è un indicatore importante la Luna. Che pure nello Spasimo compare, però fugacemente, e per tre volte. La prima, in una rammemorazione, un idillio accennato e appena bruttato del tempo dell’infanzia. Lei piena ed aprilina splende, e la luce e la sua bellezza spande sopra il mare, il paese, i pesci che vengono a galla affatturati; e sopra un corpo massacrato, un morto ammazzato (SP, 15)[2]:

Era luna lucente in quell’aprile, gravida, incombente, notte di soste per anciove e sarde, di barche  sui parati, di lampare spente, e conche d’ombra ai platani, alle palme. Urlavano donne in cerchio sulla piazza, alzavano le braccia. Era al centro il corpo steso e morto del Muto che pittava sulle prore sirene draghi occhi apotropaici. Il sangue cagliava e s’anneriva torno alla testa disgranata e pesta, al torso, al ventre.

È soltanto un momento, forse istintivamente canonico (ricorda un modo montaliano, o intimamente leopardiano : «E tu dal mar cui nostro sangue irriga, / Candida luna, sorgi […]»): una rapida incarnazione dell’indifferenza – e però c’è quasi una malignità sottesa in quel suo incombere di «gravida», che ce la mostra sovrastante, alta, e minacciosa di cascarci addosso, tutta peso.
Più inquietante è la seconda messa in scena lunare, con il protagonista dello Spasimo che si aggira tra i barboni di Milano, ma il luogo potrebbe essere una qualsiasi metropoli con la sua risacca di rifiuti e di degrado, col suo moderno paesaggio di rovine (SP, 70-71):

Stanno nel tempo loro, nell’immota notte […]. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue che in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro […]. La luna imbianca groppe, balze, il gioco delle mante. Da dove giungono questi pellegrini, quale giorno li vide camminare, eludere dogane, quale raggio scoprì crepe, frane, il velo sopra l’occhio, la patina sul volto, i segni bassi della differenza? Sono gli stanziali dei margini, le sentinelle della voragine […], il segno dello squilibrio ingiusto, del cieco brulichio, dell’ottusa prepotenza. La terrosa schiera, il canto o il silenzio delle rotte senza approdo.

Non ha sempre questa tonalità cupa lo Spasimo, questo colore impastato e vischioso, agglutinato nell’allucinazione: il brano è il rimaneggiamento di un testo composto per un catalogo d’arte, nel 1995[3]; e la tecnica del riuso (che sia recupero, tessitura, accostamento, incollaggio o inserimento spinto delle pagine già scritte, delle proprie vecchie, sparse e disparate cose) è una prassi di Consolo, pericolosamente frequente. Però torniamo alla Luna: Lei che
in un altro tempo era «virgilia», guida e «malofora celeste»; che lieve e greve, malinconica atra o candente, faceva germogliare le parole, leniva la pena, accendeva e affollava il teatro delle meraviglie. E invece adesso sta in un rigo ed è nome senza aggettivi: «imbianca groppe» – non schiene; «balze» – si dice di un rilievo topografico, una roccia, una collina, un cumulo di terra; «il gioco delle mante» di una statuaria desolante. È una cosa, questa luna: un trasudamento o un faro freddo; e pare un sudario, una mano spessa di calcina sopra una umanità cascante imbozzolata in stracci, tra teriomorfa e minerale.
La terza luna (SP, 98-9) sarà di nuovo un simbolo, e la ritroveremo più avanti; ma solamente in parte è quella antica. Perché alla fine è Lei (l’incanto, il sogno, la scrittura) il rimorso di Consolo.

Per fare chiarezza sugli elementi di novità dello Spasimo, proviamo a mettere a confronto due momenti della scrittura dell’autore, gli estremi temporali di una ‘controstoria’ d’Italia costituita da testi autonomi e scandita per epoche di crisi – segnatamente il nodo dell’Unificazione nel Sorriso dell’ignoto marinaio, gli anni dell’avvento del fascismo in Nottetempo casa per casa, e con Lo Spasimo di Palermo quelli dal dopoguerra fino ai giorni nostri, ai giudici ammazzati con le bombe. Specificando che la presenza decrescente di aulicismi e arcaicismi dipende dalla collocazione cronologica delle vicende narrate (dall’età del Risorgimento all’epoca attuale), e sottolineando che i nostri prelievi saranno necessariamente indicativi e non esaustivi, guardiamo dunque al Sorriso, che non è il primo libro dell’autore siciliano ma il testo in cui si palesa la sua cifra stilistica gremita e riconoscibilissima; e quindi allo Spasimo, che della trilogia sta a conclusione. Ne vengon fuori due lingue qualitativamente differenti (una vorticosa, l’altra indurita e come rastremata) e l’esistenza di due diversi tipi o gradi di complessità:

Parlai nel preambolo di sopra d’una memoria mia sopra i fatti, d’una narrazione che più e più volte in tutti questi giorni mi studiai redigere, sottraendo l’ore al sonno, al riposo, e sempre m’è caduta la penna dalla mano, per l’incapacità scopertami a trovare l’avvio, il timbro e il tono, e le parole e la disposizione d’esse per poter trattare quegli avvenimenti, e l’imbarazzo e la vergogna poi che dentro mi crescean a concepire un ordine, una forma, i confini d’un tempo e d’uno spazio, a contenere quell’esplosione, quella fulminea tromba, quel vortice tremendo; e le radici, ancora, le ragioni, il murmure profondo, lontanissimo da cui discendea? (SIM, 125)

Sùbito un murmure di onde, continuo e cavallante, una voce di mare veniva dal profondo, eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole, quelle vaghissime di forma e di colore della classe Univalvi Turbinati e specie Orecchiuto o Bùccina o Galeriforme, Flauto o Corno, Umbilicato o Scaragol, Nicchio, d’una di quelle in somma vulgo Brogna, Tritone perciato d’in sull’apice, che i pescatori suonano per allettare i pesci o richiamarsi nel vasto della notte mare, per cui antique alcuni eran detti Conchiliari o Conchiti, onde Plauto: Salvete fures maritimi Conchitae, atque Namiotae, famelica hominum natio, quid agitis? E Virgilio … Ma che dico? Di echi parlavamo. (SIM, 142- 43)

Il primo prelievo è un campione di mìmesi linguistica accusata con posposizione del possessivo, soppressione di preposizione, elisione di articoli e preposizioni, enclisi, imperfetto debole in –ea, troncamento, e terna anaforica battuta sul deittico (quel /quella); il secondo è un esempio di fascinazione, una piccola cavata elencatoria nel ‘barocco’ di Consolo: un periodo che si slarga e si gonfia, che lievita e si espande; e che parrebbe poter continuare a crescere su se stesso divagando ad libitum, o svolgendosi in volute, a spirale, per tortili virate. Che sia assedio o amore di vertigine (o entrambe le cose), si direbbe che la frase sogna: per incidentali, relative, similitudini e apposizioni.
Questo invece è Consolo adesso, questo è lo Spasimo (SP, 25):

Nella libera vita, elusione di regole e castighi, nel crollo d’abitudini e costumi, rimescolio di stati, cadute di ritegni, privo d’imposizioni e di paure, della voce, dello sguardo che ordina e minaccia, solo con Aurelia, Chino visse, nel marasma del paese, nella casa saccheggiata in ogni stanza, nel dammuso e nel catoio, il tempo suo più avventuroso.

Nel libro lo scrittore impiega pressoché esclusivamente il punto e la virgola[4]: una interpunzione che spesso, o come qui, obbliga alla rilettura, dacché per comprendere il testo occorre trovarne il ritmo e la cadenza. Che non sono affatto intuitivi, ma sono questi:

Nella libera vita, [elusione di regole e castighi,] nel crollo d’abitudini e costumi, [rimescolio di stati, cadute di ritegni,] privo d’imposizioni e di paure, [della voce, dello sguardo che ordina e minaccia,] solo con Aurelia, Chino visse[, nel marasma del paese, nella casa saccheggiata in ogni stanza, nel dammuso e nel catoio,] il tempo suo più avventuroso.

Solo rileggendo, insomma, riusciamo ad impostare la voce, ad abbassare la curva intonativa accordandola al senso dell’apposizione, del non altrimenti segnalato inciso, della parentetica. E si guardi alla costruzione peculiare del brano riportato sotto (SP, 24), al disorientante paritetico allinearsi dei membri di una sintassi tra accidentata e scomposta; e al rallentamento musicale prodotto da punteggiatura e ripetizioni – e qui veramente, con una impostazione grafica diversa, semplicemente andando a capo ad ogni virgola, diremmo che si tratta di una poesia:

Lo strazio fu di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo, vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo  che dispare, di cherosene.

È una sorta di procedimento (sklovskiano) della ‘forma oscura’: vale ad aumentare la durata della percezione di un oggetto (uno scritto, una musica, una tela), quindi ad accrescerne la permanenza e l’impressione nella memoria rendendone impegnativa la decrittazione, impervia la comprensione. E può essere che Consolo ci stia sfidando con la difficoltà del testo, che voglia costringerci a restare su ogni pagina e a rileggerla finché non la teniamo a mente (nella memoria, appunto): finché sappiamo recitarla sentendoci dentro le pause, gli scatti, la curva della sua voce (della sua pena). Ma pure è forte il sospetto che Consolo dal lettore abbia già preso le distanze, e stia parlando con se stesso. E che la linea faticosa e ‘spezzata’ della scrittura sia un esteso correlativo oggettivo, o come la traccia di un cardiogramma, la mimesi di uno spasimo che si torce nella penna e spezza la voce, e che in tutto il libro sgrana e frantuma la fabula e il discorso. Perché questo non è il passo disteso di un narratore, non c’è mai quell’agio; e lo annunciava, in    esergo del testo, il Prometeo eschileo :
«Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» – che significa: ogni cosa mi fa male, parlare o tacere; lo si voglia riferire alla persona dell’autore o al protagonista del libro, Gioacchino Martinez.
Torniamo però al nostro confronto. Si potrebbe pensare, e in un certo senso è così, che prevalentemente semantica sia la difficoltà del Sorriso, nel quale, sebbene la narrazione non si svolga piana come in un romanzo tradizionale, resta maggiore la disponibilità al racconto; e che sintattica sia invece quella dello Spasimo, in cui la forma narrativa si contrae accentuando la tendenza a slogare un periodo solitamente paratattico che avanza come a gomiti, veramente si allarga a spigoli, slontanando soggetto verbo e oggetto (normalmente invertendo in iperbato l’ordo naturalis) a mezzo di colate appositive. Ma si tratterebbe appunto di una verità parziale, poiché la complessità sintattica è anche un fatto, per quanto non il prevalente, del Sorriso (SIM, 143-144):

Prendemmo a camminare in giro declinando. Sul pavimento a ciottoli impetrato ricoverti da scivoloso musco e da licheni, tra le pareti e la volta del cunicolo levigate a malta, jisso, a tratti come spalmate di madreperla pesta, pasta di vetro, vernice d’India o lacca, lustre come porcellane della Cina, porpora in sulle labbra, sfumante in dentro verso il rosa e il latte, a tratti gonfie e scalcinate per penetrazioni d’acqua, che dalla volta gocciola a cannolicchi càlcichi, deturpate da muffe brune e verdi, fiori di salnitro e capelvenere a cascate dalle crepe: luogo di delizie origine, rifugio di frescura pel principe e la corte lungo i tre giorni infocati di scirocco, come le cascatelle della Zisa, i laghi e i ruscelli a Maredolce, i giardini intricati di bergamotti e palme, le spalle a stelle di jasmino, trombette di datura e ricci d’iracò, le cube e le cubale dei califfi musulmani, o come le fantasie contorte d’acque sonanti e di verzure, di pietre e di conchiglie dell’architetto Ligorio Pirro pel Cardinale D’Este.
Tutto questo, addio […].

Introdotta da un periodo breve, fiorisce gigantesca su un imprendibile complemento di luogo la frase nominale che fra chiasmi, allitterazioni e paronomasìe procede in corsa, balza in avanti a cascata gonfiandosi di immagini, aprendo ovunque rivoli, spandendo i suoi tentacoli, ingoiando le cose e generandone poi altre, e inarrestabilmente gremendosi, affollandosi. Ma è un procedere, una estroversione: tagliata in barocco, certo; e al fondo e in superficie è ansia: attorcigliata, srotolata o esplosa, è sempre la solita danza su baratri e sbalanchi, una frenesia di copertura, la maschera sul vuoto: infine una modalità del tragico: un movimento disperato e affannoso, si sa, e incantatorio anche: sforzato e lanciato all’infinito come se questo dire-toccare-accumulare fosse prendere e fermare le infinite cose, o salvarle e salvarsi; però resta un movimento verso fuori. Non è quello introvertito dello Spasimo: del periodo che si sfonda o si incava, che si avvolge e rifà all’indietro la sua spira; e non ingoia  le cose, gli oggetti, il mondo, ma se stesso. Si ponga attenzione a questa ipotassi (SP, 52 – la messa in evidenza è nostra), alla parentetica che si dilata tra il soggetto (alla fine della frase)  e il suo complemento (all’inizio della proposizione):

Ma anche per lui, per il padre, che pure della sciagura voleva parlare al figlio, dire finalmente, spiegare, e ora che partiva, ritornava laggiù, nella sua isola, ora che dal figlio di più s’allontanava, da quel fuggiasco costretto nell’esilio, la presenza di Daniela era opportuna

Il prelievo, poco illuminante a livello contenutistico, è esemplare dell’andamento macroscopico del racconto.

Lo Spasimo è la storia di un viaggio dalla Sicilia alla Sicilia, via Parigi e Milano. Consolo narra in terza persona, perlomeno prevalentemente; ma sembra che parli di sé. Gioacchino Martinez è uno scrittore invecchiato che non scrive più perché alla propria scrittura non crede. È un padre che si accusa di non aver saputo salvare il figlio dal disastro di una ideologia manipolata, degenerata poi nella violenza degli ‘anni di piombo’; e a Parigi, nell’ennesimo viaggio verso quel figlio con cui non sa parlare e che poco gli parla, da una fotografia sulla parete di un albergo, inizia a ricordare: l’infanzia sull’isola, lo sbarco degli americani nel ’43, il rifugio suo di bambino: il «marabutto», il posto per starsene lontano, col mondo tutto fuori, a immaginare; e il padre lì viene ammazzato dai tedeschi, e forse per colpa di Gioacchino. E ricorda, Martinez, l’amore per la sposa luminosa e fragile, Lucia; la casa di Palermo con lei e il figlio: l’oasi di una vita chiusa tra gli affetti e la scrittura, nel riparo di quelle mura, difesa dal bellissimo giardino; e poi le piante scerpate e avvelenate, la mafia che con le bombe si prende quella terra per lucrare sul cemento e i condominî; e quindi la fuga dalla Sicilia, il viaggio verso Milano pensata umana e civile ma in breve divenuta un altro luogo di terrore e spari, e poi, craxiana, fatta teatro di ogni mercimonio,  della volgarità più oscena. E dopo, l’impazzire e il morire di Lucia, il figlio accusato di terrorismo che si rifugia in Francia, i tanti viaggi tra Parigi e Milano; e prosegue la storia fino al ritorno di Gioacchino a una Palermo incancrenita, dove lo scrittore muore, salta per aria nell’attentato a un giudice che assomiglia a Borsellino. Questa, per amplissime linee, la vicenda del libro.
Ma non sappiamo dire, con la straordinaria sicurezza che pure è di qualche interprete, che ‘equivocheremmo’ qualora sovrapponessimo le voci e le figure, se insomma scambiassimo l’afasia di Martinez per una possibile (o temibile) afasia di Consolo[5]. Perché in realtà ci pare che sia proprio di Consolo il rifiuto o l’impossibilità di scrivere del tragico protagonista dello Spasimo – una impossibilità che, per questa critica lontana dal dubbio, varrebbe a registrare «un dato antropologico e sociale» nella generalissima questione (almeno così capiamo noi) del senso della funzione intellettuale oggi.
Certo non intendiamo appiattire lo Spasimo alla dimensione esistenziale dell’autore: la separazione tra l’io che vive e l’io che scrive c’è sempre, innegabilmente; e la finzione, l’invenzione, è la condizione di qualunque narrazione, anche autobiografica. Ma pure se non sapessimo nulla di Consolo, anche se non riconoscessimo opaca in queste pagine un’esperienza sua reale, comunque, davanti all’opera che mette in scena uno scrittore che dichiara l’impasse, e con fatica e con durezza ogni volta torna sul proprio fallimento, che le proprie parole sente false e della propria scrittura recita il mea culpa – non potremmo non pensare che chiunque sia l’autore, in qualche modo stia parlando di sé, del suo rapporto con la Letteratura. E a maggior ragione nello Spasimo, che di tutti i testi di Consolo è veramente il più ‘sovrascritto’ dacché qui la «metrica della memoria» – lo sfondarsi della pagina e il precipitare suo in verticale per il sovrappiù di senso di cui la caricano le voci della Letteratura (e sono tante: Omero, Dante, Cervantes, Tasso, Manzoni, Leopardi, Verga, T.S. Eliot, Vittorini, Montale) – è anche e principalmente memoria fortissima di sé, dei propri libri, di una storia letteraria personale e vera che costantemente richiama se stessa e si mostra per lacerti, accenni, rinvii: da Un giorno come gli altri Le pietre di Pantalica Catarsi all’Olivo e l’olivastro.
Neppure sappiamo dire con certezza se lo Spasimo debba chiamarsi romanzo, antiromanzo, o narrazione poematica; e potremmo aiutarci specificando che è insieme tragedia, confessione, racconto del viaggio, o dell’esperienza, oppure un’espiazione, e un addio. Ma la questione dei nomi poi non muta la sostanza dell’oggetto: di questa che è (e rimane) una prosa, con le sue fortissime vibrazioni o fibrillazioni liriche; e che narra una storia, per quanto  destrutturandola – con tristezza o con violenza, con qualche esibita trasandatezza, forse con una strana sprezzatura. Lasciamo quindi la definizione esatta dello Spasimo ai catalogatori esperti, ai teorici della letteratura; e in fondo anche ‘romanzo’ può andar bene poiché il genere, elasticissimo, è per natura aperto a tutti gli attraversamenti, a ibridazioni e contaminazioni[6]; e l’avversione al romanzo, ormai più volte espressa da Consolo, è una polemica nei confronti del suo attuale scadimento, una provocazione e una dichiarazione di non-omologazione al mercato cultural-editoriale che di tale ‘etichetta’ costantemente abusa, amalgamando strame e opere di Letteratura[7]. Ma indipendentemente dalle nostre incertezze classificatorie, e pure dal fatto che Consolo, dopo lo Spasimo, abbia realmente scritto  oppure no (e a quasi due anni dalla sua scomparsa, ancora non vien fuori L’amor sacro, il «romanzo storico-metaforico» (sic) che egli stesso annunciò finito)[8] comunque non crediamo di sbagliare affermando che lo Spasimo di Palermo ha il modo di una parola ultima. E che è difficile per chi lo legge perché è difficile per chi, disperatamente, lo ha scritto.

La disperazione, insieme alla diminuzione di sé, è un tratto distintivo di Consolo: racconta una pena reale, crescente, e ossessivamente presente nell’ultima sua produzione – si guardi, prima che al massacro pervicacemente operato da Gioacchino Martinez nei confronti di se stesso e della propria scrittura, all’odio di sé che già nel 1989 si sbozzava nei toni gridati enfatici dell’Empedocle di Catarsi (lo scienziato-poeta impazzito per la falsità che sente dentro le parole – anche le proprie – e il cui «odio verso il mondo è pari all’odio per se stesso, pari al suo dolore, al suo rimorso»; Cat, 58), o allo svilimento a «infimo Casella», a
«eroe patetico» che è nell’Olivo e l’olivastro (OO, 107). Dentro c’è la coscienza della «cavea vuota», il senso di parlare «arditamente» – e a Consolo dové parere ‘teatralmente’ – al niente; forse il timore di perdersi nell’alessandrinismo, nella tentazione dell’ornato o nel vaniloquio della parola bella; e anche quello di scadere nella querimonia, nell’infinito lamento del vecchio che si sente escluso, estromesso. E con tutto il valore estetico morale e civile di cui sempre ha considerato depositaria e custode la Letteratura, Consolo deve aver fatto fatica a non smarrire il senso del proprio lavoro, la spinta del proprio scrivere, del suo ostinarsi ad additare dei valori al nostro tempo di ignoranze, di coscienze assordite ed avvilite, ottuse. Probabilmente nello Spasimo è il peso del disinganno che spezza e sgrana il racconto, che blocca il farsi del romanzo, della storia levigata e ‘tonda’; pure se indubbiamente esiste (e sarebbe fuorviante escluderlo), insieme al bisogno (ancora) di dire una parola ‘utile’ al mondo, il desiderio di misurarsi (ancora), di sperimentare la via diversa, il taglio che magari incida la corazza dell’indifferenza mentre attinge un risultato alto, una compiutezza di stile. Meno cesellata e preziosa è la lingua dello Spasimo (come già quella delle Pietre, dell’Olivo) rispetto alla voltura ricchissima, alla esuberanza vertiginosa e tortile cui ci aveva abituato la penna dell’autore siciliano; ma liricamente tesa, musicale per assonanze e rime interne, resta una partitura ritmica; e si presenta più facile all’approccio lessicale, porta i segni di una nuova asciuttezza, quasi la tendenza a una semplificazione che in qualche modo va a bilanciare il tratto singolare, internamente terremotato della struttura. Ma la questione è complessa, se la distanza dalla voce antica è aumentata progressivamente, disegnando e chiarendo un movimento, più che di distacco, di rigetto.

Mancano allo Spasimo le pezze d’appoggio del Sorriso, i documenti veri o contraffatti del romanzo di stirpe manzoniana misto di storia e d’invenzione; gli manca l’ironia, anche amara; e la quinta di teatro, la metafora di un tempo altro. Non ci sono i fatti del 1860 o gli anni Venti di Nottetempo per dire ‘in figura’ le cose di oggi, perché siamo nell’oggi, e la Storia non si esplicita per nomi e date, ma sta inscritta nella scena metropolitana o nell’iconografia stringata di una terra rovinata e guasta; e si aggruma ad ogni passo del racconto, lo incide di veloci apparizioni e di rumori (il traffico, gli spari, certi improvvisi boati) orientando e dirigendo la vicenda. E indubbiamente la narrazione mai facile di Consolo qui si fa più sussultoria dacché sfronda e scolla pesantemente la trama fino a darcela esplosa, confondendoci. Spesso, in un unico capitolo, passato prossimo e remoto (Milano e la Sicilia), il presente degli eventi (all’inizio Parigi, Palermo poi) e quello perenne di incubo e dolore stanno insieme: per paragrafi staccati, sì: epperò uno via l’altro e per continui salti, sempre in assenza di segnalazioni o di appigli che dicano chiari i tempi e i luoghi; e anche qui, per capire, siamo costretti a tornare indietro, a rifare la lettura. Pare sconnessa l’architettura, franata[9]. Che sia ormai insofferenza dell’invecchiato autore, sfida orgogliosa a un uditorio assente, fretta o voglia di finire, l’opera somiglia a un disegno impazzito: e costantemente pasticcia la sua struttura, la svisa, la fa sghemba: quasi a voler mostrare che la mano non sa (o non vuole) più reggere i fili di una compiuta fabula, che sta cedendo – ed è vero – alla stanchezza. Ma a guardar bene, il disegno di Consolo è tutt’altro che confuso: lo Spasimo è un congegno ben pensato, tagliato e montato per frammenti, tra analessi e prolessi, flashback e anticipazioni; e mentre gradualmente rivela la sua tramatura di ‘simboli’ (sono figure equivalenti il giudice, il padre, lo scrittore; e tutti i luoghi del rifugio – o della viltà – sono la scrittura) mentre che pare disperdersi o costruirsi quasi casualmente, si serra a cerchio intorno alla vicenda che si snoda nel presente: un’azione che si interrompe già alla seconda pagina del primo degli undici brevi capitoli del libro; che torna a svolgersi, si chiarisce e (provvisoriamente) si conclude tra il terzo e il quarto, che ancora si blocca in una rammemorazione e riprende poi a scorrere dal nono capitolo fino alla conclusione del testo. È insomma il racconto di un viaggio di ritorno che comincia in medias res, ritrova il suo principio per tornare poi al passo col presente, secondo uno schema antico, omerico. E veramente Consolo ha riscritto un’Odissea, dal tempo dell’Olivo e l’olivastro: però nei modi sgangherati e tragici e con le afonie di un cantore moderno.

Iperbati, anafore, assonanze e rime interne sono frequenti nello Spasimo; consueta è la cadenza degli endecasillabi e pure di senari, settenari, ottonari e novenari mascherati e fitti nel tessuto della prosa: ma è un dato acquisito che ritmi e procedimenti topici della poesia da sempre contraddistinguano la pagina di Consolo. Lirica è la pagina iniziale, quasi una protasi, amara e splendida; lirico e commovente l’addio alla donna morta; e veramente mirabile (un gioiello da antologia) l’addio a Milano (SP, 93-4) così lucido e fermo e dolente (e quanta vita, quanta fede letteraria, quante cose ci sono in questo addio fatto di luoghi di persone di scrittori di poeti) ma che poi cambia il tono suo pacato, si gela e si strozza in   una maledizione, in uno sputo – ma potremmo continuare a lungo. E sporgenze, affacci e approssimazioni ai modi della lirica stanno nelle aggettivazioni, parche e però puntute, folgorate, tutte rapprese; e nelle inserzioni citazionali di versi, nelle incongruenze sintattiche violente, in certa fortissima icasticità di dettato; e nei cataloghi dei nomi che adesso non sbocciano fastosi ed opulenti e non si affoltano in vorticosa danza a coprire il vuoto, ilaro-tragici e infebbrati di vertigine, ma in quello cascano o colano gravi, disanimati e nudi. Resta colta e non omologata la lingua di Consolo, però si è incrudita: non gronda più umori densi o olii soavissimi, non si espande per volute, non ricama i suoi vecchi e splendidi arabeschi, ma vuole incidere e pesare, come una pietra: a tratti si fa rasposa per asciuttezza e sempre ha in gola una dissonanza aspra, una caduta, uno stridore, la disarmonia che spezza l’illusione la malìa il lenimento del canto (la tentazione dell’incanto). Per distillazione e smagrimento, per erosione si è rappresa in una bellissima economia verbale che coniuga torsioni incongruenze e lapidarietà sintattiche allo sfondamento in profondità e in espansione, all’appiombo verticale della parola poetica. Ma veramente quel che più rileva e fa la differenza, rispetto al passato, di questa lingua sfrondata, è l’ispessirsi delle sue zone di silenzio: tanti sono gli spazi bianchi che si aprono fra i capoversi o fra i paragrafi staccati; e le virgole, anche ravvicinatissime, che spezzano il fluire del racconto, isolano segmenti quasi versicolari: sono pause che si leggono come se ci fosse un salto d’aria in mezzo, come gli ‘a capo’ della poesia. E questo ispessimento deriva dal ricorrere di un procedimento che appunto porta in sé il silenzio perché implica un margine di non detto, di non spiegato: l’ellissi, che è il vuoto su cui rallentiamo, ci fermiamo; che siamo chiamati a interpretare, o di cui dobbiamo prendere atto.

Elide i nessi Consolo, spesso la consequenzialità narrativa; avanza per associazioni sue, per saltum, e sembra (voler) perdere il filo, o volerlo ingarbugliare a noi. Agisce ellitticamente quando ci confonde sovrapponendo le maschere, le personae in cui si scorpora e parla la voce narrante (io, tu, egli: nello Spasimo è lo stesso); o quando proditoriamente ci spiazza nel giro di una frase o di un capoverso con una posposizione che è un repentino cambio del soggetto (SP, 26):

Ricominciò a poco a poco a frequentare l’intrico dei vicoli dietro la sua casa, il quartiere tra la chiesa e la piazza di fondachi e di antri, casupole col mulo nella stalla, carretti ad aste all’aria, gabbie d’animali, buffette di scarpari, forge fumose, fermenti grassi, fioriture d’untumi, afrori da porte e lucernari, lippi e limaglie tra i ciottoli, ai bordi dello scolo. Sulla soglia, mischiavano le donne vasellina e zolfo per la rogna. Si negava a quel meandro in ogni tempo, come posto dentro una caverna, sotto perenne nuvola di cenere dell’Etna o sabbia del deserto, il sole che nelle cadenze, nel giro naturale temperava questa fascia del mondo, governava i giorni, le stagioni.

Ellittico è il discorso in cui tutte le parole funzionano come una stenografia e hanno dentro un’eco, allargano e sfondano la pagina col peso; ellissi è l’accostamento straniante dei frammenti, oppure l’omissione del verbo, o il comparire suo con impressionante ritardo (è la prassi con cui Consolo sistematicamente ci disorienta) come nel fraseggio apparentemente nominale in chiusura di questa pagina che riportiamo intera ad esemplificare in sequenza quanto appena detto (SP, 42-3):

Oblio di tempo e luogo in quella sosta di ristoro, estraniamento, ritaglio d’un mondo prossimo e lontano, e Abdelkrim mostrò il tramonto, il vuoto intorno, significò la chiusura del giardino, delle porte.
«A demain, monsieur, à demain» il sorriso sul viso nobile, caprigno.
Ancora spinto dal caso, nel cieco vagolare, nelle luci e nelle ombre della sera.
Portavano i passi verso il luogo dov’era la ragione del viaggio, del suo persistere nel mondo, verso quell’uomo esplicito e sfuggente, quel figlio che si negava a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento.
Furtivo avanti la libreria a spiare nella sala fumosa e affollata, lui con altri al tavolo, sorridente e ironico, accanto al profetico scrittore riccioluto.

“Piangevi per le nuvole, pei tuoni, ti stringevi a me forte, le nule le nule – lamentavi –, t’ostinavi a contare le stelle, a scovare le cicale, dicevi del veliero sopra il Monte, dei fuochi sopra l’onde, e lei che ridendo più in dentro ti spingeva nelle fole.”

Dentro frotte, masse, che non credea non credea che tante, notturne e inebetite, per viali passaggi impasses, angoli scuri, insegne lampeggianti, video e ordigni sessuali, negre maestose e vecchie consumate, club, guardiani ch’afferrano pel braccio, spacciatori, giovani piegati e barcollanti, uno stordimento, un fiume trascinava, in fondo, fino alla foce calma, alla penombra sotto un arco, ombre immobili e scorrenti.

Il periodo in apertura della citazione mostra due maniere allineate: quella nominale («Oblio di tempo → lontano») e quella predicativa («e Abdelkrim → delle porte»); elidono i verbi
«A demain → caprigno» (e ci lampeggia dentro Saba), «Ancora spinto → della sera», «Furtivo avanti→ riccioluto»; e sono modi scorciati e rappresi, intervallati dall’ordito più tradizionale di «Portavano → chiarimento» (con le anaforiche riprese melodrammatiche e l’euritmia retorica della terna sinonimica in chiusa) e dal frammento di sapore pascoliano
«Piangevi → fole».
In questo contesto, l’eliotiano-dantesco «Dentro frotte, masse → scorrenti», ci sembra immediatamente anch’esso privo di predicato; ma è un’impressione indotta dalla sintassi che procede centripeta tra slogature e agglutinazioni, per membri sbrancati. Il periodo infatti ha
«fiume» per soggetto, «trascinava» per verbo, «ombre» come oggetto e tre complementi di luogo: «dentro», «per» e «fino»; il primo («dentro») complicato dalla citazione che dovrebbe contenere e riportare il commento del protagonista Gioacchino, di cui il libro narra in terza persona; e che però innesta un ulteriore effetto di sbandamento per l’ambiguo sovrapporsi di soggetto narrato e voce narrante, e forse per l’improvviso baluginare o il chiarirsi della identità delle personae grammaticali, di egli-Martinez e di io-Autore-Consolo, dacché l’imperfetto debole credea indubbiamente vale per entrambe le persone, terza e prima; ma appunto la memoria dantesca ed eliotiana (e sono presenze capitali nello Spasimo) generano o rivelano la ‘confusione’; e istintivamente leggiamo come se a parlare fosse la prima («e dietro le venìa sì lunga tratta |di gente, ch’i’ non averei creduto |che morte tanta n’avesse disfatta»; If, III, 54-57; «A crowd flowed over London bridge, so many, /I had not thought death had undone so many»; WL, 61-63; la sottolineatura è nostra).
Ad ogni modo, reputare omesso il predicato è un errore che Consolo ci spinge a compiere. O meglio, lo commettiamo perché lo Spasimo ha una orchestrazione sinfonica, una sua musica: l’autore prende un tema, cambia strada, lo lascia, e poi a distanza, magari dopo molti altri toni e altri motivi, ci ritorna, lo riprende, lo continua. A rigore infatti, nel caso appena esaminato, Consolo sta continuando un ‘tema’ precedente, e ad essere più precisi avremmo dovuto parlare della elisione di un avverbio o di un periodo (o di una serie di periodi) che stanno due pagine prima di quella citata: «Via fino al Quais des Célestins […]. Via da quella zattera di pietra […], dentro borghi, strade, piazzette di dimenticanza, bistrots e librerie, volumi aperti su pagine istoriate, inchiostri multicolori, scrittura ondosa e sibillina. Quindi davanti al muro bianco, alla cupola smagliante, al minareto della moschea» (SP, 40); ma potremmo anche fare come se fosse sottinteso il «girovagò» dell’inizio del capitolo (è lontanissimo, a pagina 33); oppure, veramente, ‘andava’: perché il continuo e affannoso   movimento, il desolato e interminabile peregrinare è un motivo che ritorna (ma ce ne sono altri: la colpa, il rimorso, il rifugio, l’addio), una nota dolorosa che lo Spasimo (questo libro che racconta un viaggio) perde e poi riprende. E ‘andava’ sarà il predicato saltato più avanti, in un diverso tempo e luogo della vicenda, a Milano anziché a Parigi; ma il modo ellittico – la ripresa del tema che compare a distanza, come fosse un refrain, in pagine differenti – è analogo a quello indicato in precedenza:

«Andava nell’ora antelucana per la città ignota, per vie, larghi senza nome, per scale, passaggi pedonali, nel neutro lampare dei semafori. Gli egri ippocastani attorno al monumento marcivano le bacche […]» (SP, 69).

E dopo altri coagulati motivi, altri rappresi pensieri (la fiumana del progresso, il Gran Ballo Excelsior, Verga che torna in Sicilia, gli scontri degli anni ’70 a Milano) ‘andare’ torna in anafora (SP, 70) in un altro capoverso:

«Andava in quel crepuscolo, fra lo sbarramento di portoni, di serrande, nel giallo dei fanali, nel vuoto, nell’arresto mattutino. Guardie infilavano i biglietti[…]»;

E più giù, dopo la descrizione della città desolata, la comparsa in scena di Manzoni[10], l’apocalissi dei barboni (questa pagina, che in parte abbiamo citato, staccata dal racconto, separata e chiusa tra due spazi bianchi) lontano insomma, ma ancora eliso, sottinteso, c’è il predicato, ‘andava’:

«Dentro il fitto intrico della cerchia e la curva larga in cui nei muri, negli accessi, erano ancora i segni del Naviglio» (SP, 71).

E muovendoci anche noi per salti, arriviamo all’avvio del testo, che è prologo o protasi o una specie di ‘a se stesso’, o un ‘a parte’: leggiamo l’incipit della scrittura «poematica» dolorosa e franta, l’inizio del viaggio (SP, 9):

Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, andiamo.

Ma più indietro – ché questo libro è un perenne ritornare di Consolo su di sé, sul suo mestiere, i suoi libri, la sua funzione di scrittore – c’è l’andare, il fermarsi, lo scendere, l’entrare, il correre del reduce «patetico» e «smarrito», del viaggiatore disperato di una Sicilia perduta:  c’è l’odissea spezzata e fallimentare dell’Olivo; e Consolo doveva tornare su qualcosa che lì, con quel cammino, aveva incominciato a dire.

La parola «rimorso» sta all’inizio e alla fine dell’Olivo e l’olivastro; poi compare (ed è un indicatore di rotta) nell’avvio dello Spasimo; e in realtà sono numerose e tutte rilevanti le occorrenze del termine in queste due variazioni tragiche sul tema della colpa e sul viaggio di matrice omerica, sull’impossibile ritorno a un’Itaca scomparsa.
Si chiama così L’Olivo e l’olivastro perché fra quegli arbusti, nell’intrico fitto e armonico di selvatico e coltivato, ripara Ulisse quando scampa al suo lungo naufragare e tocca un mondo solido, o comunque più solido del mare: Scherìa incantata, la terra dei Feaci. Al personaggio del mito Consolo dedica un intero capitolo (il secondo del libro) rendendo esplicito il parallelismo tra due viaggi che si svolgono nel testo, entrambi di ritorno, epperò segnati  da esiti differenti. Perché se Odisseo alla fine del suo travaglioso peregrinare raggiunge Itaca, il protagonista dell’Olivo approda invece a un’isola mutata, devastata: una Sicilia sconciata cementificata incancrenita dannata, ormai dominio dei Proci, del selvatico soltanto, della barbarie. E certamente narra di sé, Consolo: a descrivere il disastro è un personaggio senza nome di cui parla in terza persona ma che in tutto gli somiglia. Prescindendo tuttavia in questa sede dal moltiplicarsi dei ‘giochi a nascondere’ (e qui gli specchi dell’autore sono tanti), ci interessa il carattere espiatorio del cammino dei due erranti: l’antico eroe greco e il moderno protagonista dell’Olivo accomunati dal «rimorso» (otto sono le occorrenze del lemma, solo a contarle da pagina 9 a pagina 28 del testo) e dunque dall’aver commesso una colpa. E però quale?
Ulisse è l’ideatore degli inganni, l’inventore dell’idolo di legno che nasconde nel ventre la morte feroce, le braccia armate che distruggono Troia; e lui che ha coltivato métis techné  per un fine letale (questa è la lettura di Consolo) è il più colpevole degli Achei ma pure l’unico a salvarsi. Non è il guerriero più forte, o il più degno, il più valoroso; e lo sa. Perciò è il più carico di rimorsi: quelli che dovrà affrontare (per una sorta di contrappasso) materializzati in mostri (Ciclopi, Lestrìgoni, Sirene, la «rovina immortale» di Scilla e di Cariddi); e prima ancora, quelli che deve propriamente confessare nella reggia di Antinoo: perché nello
«strazio» del racconto è l’ammenda per cui l’eroe è assolto (OO, 45); e questa specifica ‘catarsi’ è necessaria (dire, narrare, confessare la colpa) acché il ritorno in patria possa compiersi. Ulisse dunque piange e narra: «narra fluente la sua odissea […] diventa […] l’aedo e  il poema […] il narrante e il narrato, l’artefice e il giudice, diventa l’inventore d’ogni fola, menzogna, l’espositore impudico e coatto d’ogni suo errore, delitto, rimorso» (OO, 19); e ne vien fuori una strana mistione di vero e falso, confusamente l’impressione che dentro il racconto si insinui e stia acquattata una simulazione, una menzogna di fatto imprescindibile; ma la questione (metaletteraria) della possibile «impostura» della scrittura (che è un assillo tipicamente consoliano) pare solamente accennata qui, nell’Olivo, e si svilupperà poi, dolorosamente, nello Spasimo.
Quanto all’autore che nell’Olivo dice di sé in terza persona – che in apertura del testo dichiara l’impossibilità a narrare («Ora non può più narrare») e tuttavia, in furia o in pianto, pure dietro una maschera, racconta – anch’egli porta una colpa: «con un bagaglio di rimorsi e pene » (OO, 9) lasciò l’Isola bellissima e terribile (lei che tra calcinacci e tufi, corsa dai randagi e abitata dai corvi, è già terra votata all’abbandono, pare fatta di polvere); e se ne andò via, lontano (lontano anche da quella ingombrante imbattibile Natura: rigogliosa o riarsa o minacciosa di lave e terremoti e sempre troppo imparentata con qualche Assoluto: sempre comunicante con l’inutilità del fare, con un impietramento, con l’oblio); via verso la Storia, il cambiamento, una vita di impegno, di lavoro; epperò adesso, dopo tanti anni, lo schiaccia un peso più gravoso e sono «rimorsi», ancora: ma «un infinito tempo» di quelli e di «orrori, fughe, follie, vergogne» (OO, 16). Sembra insomma accusarsi, Consolo: lui che dalla Sicilia partì per andare a vivere, per scrivere a Milano. Si accusa di essere fuggito – ma non crediamo che intenda semplicemente dall’Isola; piuttosto, ci sembra, di non aver fatto quanto andava fatto, o comunque non abbastanza per evitare la frana di una civiltà, di una cultura (ma poi che cosa può in concreto sulla vita, sulla Storia, per la manutenzione del mondo, la penna di uno scrittore, la parola della Letteratura?). E nello smarrimento e nella indignazione, per tagli, in un lunghissimo e angoloso plahn tra cronaca e poesia, veramente nell’Olivo Consolo corre l’Isola intera in un frenetico andare senza soste, con l’urgenza di dirla tutta e dirne lo scempio, quasi che nominare il male lo potesse veramente fermare, o come fosse a salvamento: di lei (Isola e cultura e Storia e mondo) e di sé, di un impegno civile, del lavoro di chi scrive. Però, dall’ira che a volte con fatica monta, e forse ripete le sue parole quasi uguali (pare infatti di stare come fermi, per quanto sempre ci si muova, in questo inferno), da un affanno che è nel dire e maledire, dal lamento continuato, dalla sintassi narrativa che si spezza e ti inciampa (e ti stanca anche, con qualche pesante monotonia) senti che si è incrinata, che è diventata disperata quella superstizione volontaria (o era la fede letteraria) antica.
Certo ha degli slarghi narrativi l’Olivo: a tratti prende la forma e il ritmo del racconto breve e incastona le vicende di nativi, reduci o pellegrini di Sicilia – e tutti come toccati dall’Isola, ammalati (ci sono Verga e Caravaggio, Maupassant, Zummo, von Platen, fra questi  ulissidi incupiti o pazzi o moribondi); e pure Consolo continua una sua intenerita o storta e tragica Odissea. Ma il libro è principalmente la cronaca del viaggio dentro una ‘terra guasta’, tutt’altro che vittoriniana: offesa da ignoranza cemento liquami speculazioni e mafie, e chiamata – con l’attuale degrado e con la bellezza violentemente deturpata – a far da emblema di una devastazione in atto, del macroscopico processo che ovunque azzera e imbarbarisce le coscienze cancellando insieme Storia, memoria, umanità e cultura. Più avanti ci fermeremo sui luoghi di questo nervoso periplo siciliano che da Gibellina parte e lì ritorna così chiudendo il suo percorso irregolare e zigzagante: e tante sono le tappe, accomunate dallo stesso orrore, e generalmente articolate sullo schema del confronto, della visione sincronica di un abominevole presente e di un passato splendido e svanito. Però a Segesta, in cima al teatro, lontano dal rumore, dallo spettacolo della reliquia violata e offerta alle mandrie dei turisti distratti, lontano dalla scena in cui si compie simbolicamente una diuturna e commercialissima dissacrazione – a Segesta il viandante dell’Olivo si ferma e sogna; e come sempre accade a questo tristissimo innamorato dell’antico (o potremmo dire del lontano, del perduto) «prova sollievo nella fuga, nel rapimento» (OO, 127). Ma un’altra volta – la terza e ultima sta alla fine del libro – Consolo qui dentro dice ‘io’ (per quanto provi ancora a confonderci indossando un’altra maschera, di un altro ulisside).
Leopardiana al fondo, ma più cupa che in Retablo, è la contemplazione dell’architettura del tempio che si spalanca al cielo «come porta verso l’infinito o come pausa, sosta d’un momento, quale la vita dell’uomo nel processo del tempo inesorabile ed eterno» (OO, 128). E la voce che dice ‘io’ mentre che si smarrisce a guardare il tempio, la notte, le stelle, questa che adesso parla in prima persona (e forse sta ripetendo una cosa che era già dentro le Pietre di Pantalica), sta esprimendo un desiderio di fine, di morte (OO, 128):

[…] all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo […] nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti […]. Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti, nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.

Lo stesso che torna nella pagina finale dell’Olivo, quando tra i ruderi, nel teatro allestito sul colle della scomparsa Gibellina antica, si recita un episodio della guerra romano-giudaica,  un moderno adattamento della tragedia di Masada narrata da Giuseppe Flavio. Consolo è di nuovo dietro uno schermo, ma in qualche modo crediamo di riconoscerlo nel tono e nei gesti di questi assediati che scelgono di togliersi la vita (OO, 148-9):

Avanza dal fondo Eleazar, il comandante della fortezza, in mezzo ai soldati.

– Da gran tempo avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del dio… In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna…Siamo stati i primi a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo sia una grazia concessa dal dio questa di poter morire con onore e in libertà…Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù…

Narra una voce.

– Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli, sollevavano sulle braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono ad effetto il loro disegno.

Tirano poi a sorte chi di loro avrebbe ucciso i compagni.
E così l’ultimo, anche per l’orrore, il rimorso, rivolge il ferro contro se stesso.
I romani, con tute di pelle, con caschi, irrompono sopra motociclette, corrono rombando dentro le crepe del cretto, squarciano il buio coi fari.
Trovano corpi, fiamme, silenzio.

Lo «strazio» del racconto non è dunque servito al viaggiatore dell’Olivo per ritrovare la sua Itaca – mutata è l’isola: non si torna a un mondo che ha smesso di esistere. E l’ultimo soldato di Masada, che uccide i compagni per risparmiare loro il peggio che sicuramente verrà, può solo morire, si uccide. E può essere che il «rimorso» sia in questa resa, in questo abbassare le armi e rivolgerle contro se stesso, nel dovere alle fine ammettere che non c’è speranza o letteratura che tenga.

Guardiamo adesso le occorrenze del termine «rimorso» all’interno dello Spasimo di Palermo. Superato l’esergo eschileo, il testo si apre con una pagina in corsivo che è insieme fuori e dentro il racconto, e in certo modo è la sua chiave. Il nostro lemma è nel paragrafo iniziale (che abbiamo già citato), e tuttavia il proemio vogliamo leggerlo intero. Il tema è ancora quello del viaggio e della colpa, e il ‘tu’ dell’allocuzione non è il lettore (SP, 9-10):

Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del tuo lungo viaggio, andiamo.
Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale.
S’è placata la tempesta, nella grotta, sulla giara sepolta s’aggruma la falda della spuma. Speri che il cerchio – stimme, macule, lèuci ferventi – quieto si richiuda. Ignora il presagio, il dubbio filologico se per te lontano o dal mare possa giungere. Il segreto che sta nelle radici, nel tronco di quell’albero non sai a chi svelarlo, è vuota la tua casa, il richiamo si perde per le stanze. Avanzi in corridoi di ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza:

In the beginning is my end

Ma pure in questa cala urlano sirene, aggallano carcami, approdano navigli clandestini, l’alba apre il volo a uccelli di passaggio. A coppie vanno gendarmi e artificieri, a schiere anime disciolte, a volte si confondono voci volti vie porte d’ingresso e di sortita.
Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadite, angoscia è il deserto, la pista che la sabbia ha ricoperto. T’assista l’eremita l’esule il recluso, ti guidi la fiamma di lucerna, il suono della sera, t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento.

Le marche letterarie forti, l’attacco, slogato in Consolo epperò riconoscibilissimo della Love song of J. Alfred Prufrock («Let us go then, you and I […]») e la memoria aggettivale dantesca (è Virgilio chi «per lungo silenzio parea fioco»; Inf., I, 63) operano già per accumulo, orientandoci contemporaneamente in due direzioni apparentemente divergenti ma contigue e sovrapponibili: un moderno girovagare metropolitano in assenza di senso, e un antico viaggio penitenziale; in entrambi i casi (considerata anche l’epigrafe ‘infernale’ di PrufrockInf., XXVII, 61-66) un viaggio nella desolazione, o comunque nel dolore; e a compierlo (almeno così sembra) due viaggiatori tristi ancora sfocati: un ‘tu’ con l’ansia tormentosa di arrivare – ha con sé i doni inconsistenti di ospiti che pare lo abbiano deriso e un viatico che non serve (è la provvista del pellegrino, o la benedizione che si dà ai morenti?): è un ‘tu’ che non ha niente e porta un peso, un carico di «rimorsi» che non gli è riuscito di chiudere da nessuna parte, dentro nessun bagaglio (gli fanno una bufera intorno, devono essergli esondati addosso, perché non ci sono gabbie o sbarre che tengano l’acqua, o che fermino il vento); e poi c’è un ‘io’ di voce «fioca», dice parole che non si sentono nell’aria strepitosa, piena di rumori: e non è nessun Virgilio (sbagliavamo): è un relatore insufficiente, uno che riporta, però a strappi e a brani – forse con poco talento («[…] mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono […].»; SP, 88) – il lungo andare dell’altro.
Qualcuno insomma stanco o forse vecchio (canonicamente «tarda veleggia» la sua imbarcazione) viaggia per qualche placato mare, metaforico o reale (nella «corrente scialba» sembra purgatoriale), naviga verso un «porto fermo», una quiete; e viene da pensare a quella definitiva, alla morte (indipendentemente dai ricordi letterari, che ci sono, cominciando da Petrarca e Foscolo) perché la metafora è semplice: il cerchio che il ‘tu’ spera si richiuda, che non ha ancora concluso il proprio giro e che contiene, come in un crogiuolo, quello che lo ha composto: piaghe e macchie, ma pure luci abbaglianti bianche e ribollenti, può essere la vita; e può essere che il viaggio sia della memoria, che il porto fuori da ogni scorrere, fuori dal mutamento, sia quello che è stato, il passato, i fantasmi – che a riguardarli rivelano una storia «sempre uguale», come fissata in una ripetizione. Pare finita l’erranza, e prende terra questa barca in un riparo, la grotta in cui affiora una «giara sepolta», lambita dalla schiuma – un relitto appropriato alla scena marina, o magari una memoria infantile, un pezzo di storia privata di questo reduce, che è inutile affannarsi a interpretare. Anche se rileva notare che il lemma «sepolta», nello Spasimo, torna due volte soltanto, e sempre associato ad una colpa («colpe sepolte e obliate», SP, 47; «colpa sepolta», SP, 98).
E diventa criptico il discorso rivolto al ‘tu’ dal suo cronista, si fa ellittico: «Ignora il presagio, il dubbio filologico se per te lontano o dal mare possa giungere». Manca infatti il soggetto della proposizione ipotetica: il «relatore manco» non dice cosa possa giungere «dal mare» (evidentemente, lui e questo ‘tu’ silenzioso condividono un codice, si capiscono benissimo), anche se per il lettore l’appiglio alla comprensione sta probabilmente nella figura precedente, nella metafora del cerchio che si chiude. Ma c’è un’indicazione, una traccia letteraria palese che aiuta a sciogliere la contrazione della scrittura mentre che ispessisce e complica la fisionomia del viaggiatore triste. Il «segreto che sta nelle radici» è quanto fonda  e tiene la casa di Odisseo: il «letto ben fatto» (Od, XXIII, 189) che non si può spostare e  che Ulisse scolpì solido nel tronco di un ulivo centenario («C’era un tronco ricche fronde, d’olivo, dentro il cortile, / florido, rigoglioso; era grosso come una colonna: / intorno a questo murai la stanza […]»; Od, XXIII, 190-192) – la radice è la casa: ciò che uno è, che ha costruito e che trasmette: la vita la storia gli affetti l’esperienza la cultura. Ed è la marca omerica a gettare luce all’indietro sul presagio, la profezia ambigua di Tiresia a Ulisse: la morte (perché era lei il soggetto saltato della proposizione) ti verrà εξ άλός (questo il «dubbio filologico»): «dal mare» oppure da fuori del mare, «lontano» da quello; anche se poi, per questo nostro navigante, solo dal mare la morte può arrivare dacché veramente per lui non c’è terra: l’Odissea è (come nell’Olivo) rovesciata, l’approdo è apparente, imperfetto è il ritorno e la casa è vuota: non c’è nessuno con cui parlare («il richiamo si perde tra le stanze»), nessuno a cui tramandare un «segreto» che non serve.
Forse sulla maceria, nel vuoto, in questa nicchia di niente, ora che non c’è più da andar per mare, affrontare la tempesta, ancora cercare; forse ora che non c’è neanche la rabbia inquieta della giovinezza, ora, nella vecchiezza, in questo porto abborracciato, si può provare a rifare la storia (nella memoria) a cercarne il senso o la crepa: ora che da dove si era partiti si è tornati, per finire. «In my beginning is my end», nel mio principio è la mia fine – e la citazione dai Four quartets di Eliot qui non significa nessuna trascendenza, non allude a nessuna rinascita: sta solo nella pars destruens, come un’epigrafe; ci sta rappresa un’incombenza: un’imminenza (la conclusione è prossima, è vicinissima) e una necessità (l’impossibilità di una conclusione diversa da quella che stava scritta nel principio, o anche il dovere di ripensare a partire da quel principio).
Però la cala del rifugio non ripara dalla pena e non isola dal mondo: a urlare qui non sono  le sirene del mito, ma, più prosaicamente, quelle di ambulanze e polizie; e le carcasse che nell’acqua «aggallano» potranno anche essere metaforicamente i punti morti, gli errori, le colpe che mordono il ‘tu’ che si è messo a ricordare, ma assomigliano alle carogne reali del Mediterraneo odierno, le navi a quelle degli attuali contrabbandi e degli sbarchi clandestini. E la ronda di «gendarmi e artificieri», il presidio della zona minacciosa e minacciata dagli ordigni, camminata da «schiere» di «anime disciolte» (significa vaganti? sbrancate? che si disfano? liquefatte?) svelano il quadro presagito dall’inizio (schiere di anime dannate si ammucchiano in attesa di Caronte [Inf, III, 120]; a «schiera larga e piena» [Inf, V, 41] vanno «di qua, di là, di giù, di su», come le mena la bufera) e mostrano la terra desolata dell’approdo,  la ‘città irreale’ che in questo libro farà spesso da sfondo (Parigi, Milano, Palermo è lo stesso: «A crowd flowed over London Bridge, so many […] »; «[…] ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]»); e forse il rischio ora è l’allucinazione, la confusione – o il non voler vedere, l’astrazione.
Ma anche se l’inferno batte vicinissimo, pure se la casa è vuota, sparita, anche se non c’è  più nessuno ad ascoltare, «riparti»: fruga nella polvere, scava nella sabbia la «pista» che il deserto ha ricoperto (mantieni la memoria) – così dice il cronista di «voce fioca» al reduce sperduto, al cercatore di mappe e di reliquie che dovrà essere assistito dagli angeli strani dell’isolamento e dell’esclusione («l’eremita, l’esule, il recluso») e avrà per guida solo una «fiamma di lucerna» e il «suono della sera»: questo ‘tu’ che nella solitudine, dentro il silenzio, forse nel breve cono di luce di una lampada, somiglia a uno scrittore nel suo studio (l’attitudine è quella, l’immagine è topica);  e immediatamente abbiamo pensato a Montale,  a lui che con la sardana fuori scatenata, chiuso dentro il guscio, la sfera luminosa del suo pensiero, componeva un diverso (ugualmente amaro, ma quanto più fiero) Piccolo testamento («Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero […]. Solo quest’iride posso/ lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta […].»); e ci siamo ricordati di Fortini, che mentre fuori la stessa follia imperversa, la stessa tempesta, in una stanza, al proprio tavolo, traduce le parole di un poeta, si obbliga a farle parlare ancora, a non lasciarle morire:
«Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / […]. La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi» (Traducendo Brecht). Non siamo lontani da Consolo: pure se tutto è perduto, scrivi; anche se è dolore, racconta: questo l’invito al viaggio che dà avvio al libro («Allora tu [ed io [andiamo»), l’esortazione rivolta al ‘tu’ che forse è semplicemente un doppio dell’ ‘io’, forse è uno scrittore, forse è il protagonista dello Spasimo, forse è Consolo che parla a se stesso. A un ‘tu’ dolente e smarrito che cerca assoluzione («[…] t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento»). E deve raccontare una colpa, come Ulisse nell’Olivo – deve scrivere questa storia. Che inizia subito dopo, ma disorientandoci (SP, 11):

E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati – le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto.

L’afflato lirico, il modo scorciato (e il viaggio, la solitudine, gli addii) sono ancora quelli del proemio e difatti sembra che il testo si stia sviluppando esattamente di lì: un’impressione che non dura, perché già al secondo rigo ci accorgiamo di non capire ‘chi’ stia parlando e  ‘di chi’ stia parlando. Non c’è più insomma né l’‘io’ né il ‘tu’, bensì qualcuno (un autore)   che dice di una terza persona: il soggetto sottinteso (egli) che cammina solo e silenzioso  con «le braccia lungo i fianchi» (ha le mani vuote, abbandonate, non ha niente) e che scambia per un-altro-a-fianco-a-sé la sua stessa «ombra prolissa» (che si stampa grande o lunga  su una strada o contro un muro di questo paesaggio che non si connota e pare quasi uno spazio metafisico; ma possiamo anche pensarla sovrabbondante quest’ombra, e quindi cascante, stanca). È Gioacchino Martinez il soggetto narrato in terza persona, e certo assomiglia agli attori del proemio: è vecchio, è solo, è uno scrittore smarrito; anche lui tornerà (per finire) alla sua terra (al suo principio), in Sicilia, e non ritroverà la sua isola; e anche lui, che porta un carico di «rimorsi», cerca «remissione» (SP, 12).

Un’altra occorrenza del termine «rimorso» abbiamo incontrato esaminando la sintassi dello Spasimo. Siamo intorno al ’43, dopo lo sbarco americano in Sicilia, quando Martinez  ha circa dieci anni. Il padre (con cui il bambino ha un rapporto conflittuale) aiuta un disertore, lo porta in un rifugio; ma i tedeschi li scovano e li uccidono. A rivelare il nascondiglio probabilmente è lo spaventato Gioacchino (SP, 24):

Lo strazio fu di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo, vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo  che dispare, di cherosene.

La colpa di cui Martinez sente il peso è quella di aver determinato, «cosciente o meno», la morte del padre (di averla anche in certi momenti, per rabbia, desiderata); ma a noi interessa questa specie di ‘sintomatologia dell’arresto’: l’immobilità, la paralisi, l’«estraniamento» che stanno insieme al «rimorso» e nello Spasimo gli si accompagnano sempre; e dacché il libro tesse una rete sotterranea di simboli, forse non è senza importanza che il posto in cui viene ammazzato il padre di Chino (il posto che da questo momento rappresenta e significa il «rimorso») sia proprio quello in cui il bambino realizza il suo isolamento volontario, la sua fuga dal reale. Ma dobbiamo essere più chiari.

C’è un luogo che si ripete nello Spasimo, un luogo che ogni volta si rifà e torna magari con un nome diverso, ma in fondo è sempre lo stesso, quello in cui Gioacchino si nasconde e sogna. È il suo rifugio segreto, il «marabutto» (viene dagli arabi la parola antica: indicava la dimora dell’eremita, la sua tomba): uno stanzone vuoto – lo strame a terra, la volta a cupola, una parete con le figurine saracene: un ricovero di capre mezzo sepolto dal terriccio, celato dalle frasche. Qui corre e si ripara Chino, ombroso, senza madre; qui si intana in odio  al padre o a tutto il mondo, deciso a stare sempre lontano, solo; e nella finta caverna, nella solitudine, dentro la mezza luce la pena si quieta, vengono le figure; e inizia ogni racconto,  il cinema, l’incanto (SP, 20):

Corse al marabutto, al rifugio incognito, segreto, ov’era deciso a rimanere sempre, solo, fuori da tutti, il mondo, sempre fino alla morte, avrebbe visto il padre, sì, avuto scorno, rimorso infine, pentimento.
S’accucciò in un lato, contro il muro, riguardò ogni cosa, le figure sul fondo celestino, le tortore fra i rami, i veli trasparenti della donna, i seni tondi, la sciarpa svolazzante intorno al corpo, e il cielo cavo della cuba. Ora la lama non piombava netta traverso la fessura, ma s’effondeva in chiaria lieve, lambiva le pareti, i lippi secchi e freschi, i fiori di salnitro, i gechi squamosi e palpitanti.
Gli si fecero appresso ad una ad una, e insieme circonfuse, tutte le donne, la giovane maestra che leggeva a scuola il suo componimento, Urelia col suo caldo e l’ansia acuta d’aglio, la siracusana bella e pregna di confetto, Lucia dorata e crespa, e la madre bianca più del letto, smunta, straziata, che lenta se n’andava.

Tanti nomi per dire una tendenza alla separatezza che è peculiare di Martinez: questa «tana» (SP, 18), lo «stanzino» in cui si chiude da bambino (SP, 21), il «capanno» che si inventa da ragazzo tra le radici pendule di un ficus: la sfera di «separazione, occultamento, letture fantasie proponimenti, nel meriggio pieno, nel silenzio», la cortina che lo cela e lo protegge mentre spia e vede le cose fuori, da sé distanti (SP, 47); e poi l’oasi «degli innesti e delle chimere sorprendenti» (si badi: in tutta la produzione consoliana il ‘luogo degli innesti’ ha sempre valenza metaletteraria): il giardino della casa di Palermo con le infinite piante e i fiori esorbitanti chiamato a fare da barriera intorno alla «quiete fragile» di Gioacchino ormai adulto (SP, 75), al suo sogno di una «vita sequestrata» (SP, 78) difesa dalla violenza e dall’orrore del presente, conclusa tra gli affetti e la scrittura; e ancora, in certo modo, l’Isola stessa, la Sicilia in cui, anziano, sente il bisogno di tornare per «chiudersi, occultarsi, finire nell’oblio» l’avventura della vita (SP, 53). E una separatezza, seppure differente, è il «silenzio» del vecchio: il rifiuto di scrivere detto in questo lamento come a spigoli d’affanno, con una sorta di precipitosa stanchezza nel modo cumulativo, negli incisi che di primo acchito non si distinguono, nella punteggiatura ‘difficile’ dell’avvio (SP, 37):

S’era chiuso nel silenzio, nel dominio della notizia, invasione del resoconto, scomparsa di memoria, nell’assenza o sordità dell’uditorio, vana era ormai ogni storia, finzione e rimando del suo senso diceva e si diceva. Ma sapeva che suo era il panico, l’arresto, sua l’impotenza, l’afasia, il disastro era nella sua vita.

Vanità dunque è raccontare ancora, ostinatamente parlare quando nessuno ascolta; vanità continuare a fare il ‘letterato’ in mezzo a «chiasso» e «scadimento» (Sp, 37), la «voce fioca» contro l’urlo potente delle mode, dei giornali, delle televisioni, del mercato culturale coi  suoi mille imbonitori – per la Letteratura non c’è posto; ma resta che a produrre l’afasia è l’«impotenza» propria, la scrittura insufficiente, che non è servita a niente.
E un’ultima variante. Sempre nella vecchiezza, un giorno, a Parigi, scampando a un’aggressione, Martinez di nuovo si nasconde: trova riparo «in una cantina fatiscente, davanti a un film osceno»; ed è solo una contingenza, da quel luogo uscirà immediatamente, però pronunciando un ‘atto di dolore’ o una sorta di anatema, inorridito, più che dalla scena squallida, da se stesso: «Viltà di sempre, fuga dal reale, menzogna e adattamento. Via dalla caverna del rifugio, fuori per la porta d’emergenza […]» (SP, 43). Forse insomma nella
«caverna del rifugio» si annida il ‘vizio’, la viltà, la colpa che sta al fondo.

«Rimorso» ed estraneazione appaiono di nuovo affiancati, e cominciano a chiarire un legame stretto, nel colloquio tra lo scrittore e Mauro, da tempo rifugiato in Francia; il figlio nei cui confronti Martinez sente di aver fallito come padre, e che lo giudica con una punta di sufficienza, forse di disprezzo. La prima battuta è di Gioacchino (SP, 53-54):

« […] Il tempo, la memoria esalta, abbellisce ogni pochezza, ogni squallore, la realtà più vera. Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore.»
«Ne hanno combinate i letterati!» ironizzò Mauro.
C’era stata ancora intenzione nella frase? Sospettava o aveva conoscenza? Rapida si presentò, unita come sempre al suo rimorso, emblema fisso d’ogni astrazione, latitanza, la sagoma bianca del fantastico bibliotecario, del cieco poeta bonaerense ch’era andato quella volta ad ascoltare nell’affollato anfiteatro.
«Che c’è, s’è risentito lo scrittore?» fece il figlio.
«Sai bene che non sono più scrittore, se mai lo sono stato. Ma perché ti rivolgi sempre a me in modo impersonale? Mai per quel che sono, tuo padre.»
«Padre si trova solo nei romanzi, nelle tragedie […]. Ma che discorsi, che discorsi… siamo tornati indietro di un po’ d’anni, tu giovane, io adolescente…» e rise Mauro.
«È il mio vizio, lo sai, la mia paralisi.»

Viene punto nel vivo il «letterato»; e il suo trasalire ha a che fare con le pratiche della trasfigurazione artistica, della compensazione estetica, col tarlo di una ‘finzione’ che intimamente lo rode; ma probabilmente c’entra anche il «tornare indietro», lo stare sempre fermo sui  suoi assilli; e c’entra che il figlio non lo chiami ‘padre’, gli neghi quel nome, la funzione di chi indica la strada, educa, guida, addita una direzione. Il «vizio», la «paralisi» che Martinez confessa è poi la scrittura, questo luogo suo di arresto (la sua compensazione, il suo rifugio); e sta direttamente in rapporto con un «rimorso» di cui Borges è l’«emblema»: la «sa goma bianca» (quasi una apparizione, uno spettro) in cui si incarnano del pari «astrazione» e «latitanza». Borges che incantava con gli scacchi, gli specchi, le immense biblioteche impossibili e sperdenti, i labirinti, i libri magici, i giochi della mente: con l’infinito proliferare della Letteratura da se stessa, l’autofecondazione inarrestabile (mostruosa) che partorisce favole, trame, sogni, enigmi irrisolvibili, in una condizione di totale autosufficienza – di allontanamento dal mondo, di separatezza. E non a caso Borges più avanti ritornerà associato a  una «illusione rovinosa» (SP, 80): quella di Mauro perduto dietro l’esaltazione politica negli anni della contestazione studentesca, ma più in profondità la propria, quella di lui, Martinez: «inerte, murato» e ugualmente perduto nell’inseguimento di un miraggio, dietro a un «folle azzardo letterario» (SP, 126). E nel continuato ‘esame di coscienza dello scrittore’ che è lo Spasimo, durissimo e costante (ossessivo) è l’autoaccusarsi del protagonista. Si guardi a questo stranito e quasi-teatrale dialogo ancora tra il padre e il figlio. Le parentesi valgono a riportare il non detto, il non espresso nel colloquio; ma forse siamo di fronte a una specie di Secretum. Inizia Mauro (SP, 35):

« […] ti trovo bene, un po’ più magro…»
«La vecchiaia… […] anticipa poi l’ulteriore smagrimento, e assoluto.»
«Di chi queste allegrie?»
«Mie, solo mie.»
«Fai progressi. Ancora un poco e sei alla poesia.»
(Sempre uguale la tua ironia, costante il tuo rifiuto d’ogni incrinatura, cedimento) (Il tuo lamento, il tuo bisogno di aggrapparti)
(Ti sei nutrito d’astrazioni, dottrine generali, ed ostinato credi che ancora possano salvare)
(Le parole con cui ti mascheri e nascondi sono solo una pazzia recitata, un teatro dell’inganno)

Si può dedurre che Martinez rimproveri al figlio l’eccessiva durezza e una pervicace astrazione ideologica (ma il testo è volutamente ambiguo: «nutrito d’astrazioni», in fondo, è pure lo scrittore con la sua chimera, la sua ‘missione letteraria’); e che a sua volta Mauro ferocemente e silenziosamente irrida il padre, il costante suo «lamento», il tono da tragedia, il patetico ostinarsi a interpretare un ruolo intellettuale mancato o inconsistente, l’insufficienza ad agire sulla storia, i destini, il presente; che disprezzi le parole dietro le quali il vecchio ha mentito e si è nascosto (e dopotutto ancora e sempre è evaso, si è consolato, dal reale si è allontanato: fuori del mondo ha sognato come nella tana antica, nel marabutto). E certo potrebbe essere così: ma dimenticheremmo che molta parte del dialogo (tutto il sottinteso) si svolge in interiore homine, e che probabilmente è solo Martinez a riempire i vuoti della conversazione coi suoi implacati assilli, con l’orrore che ha di sé. Tanto più che nello Spasimo, ad ogni occasione, questo scrittore che non può e non vuole più scrivere, di sé fa strazio: non salva niente. Impietosamente liquida la propria opera: poco talentuosa, perduta «nel ri stagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…» (SP, 88); e tutti i suoi libri (che poi, richiamati dal testo, sono veramente i libri di Consolo) definisce «storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri resti della sua illusione, del suo fallimento» (SP, 66).
Ha «ripugnanza» della propria scrittura Martinez (SP, 66): di un piacere estetico atteggiato a impegno intellettuale e che invece era latitanza, astrazione, mascherata viltà. E non ha salvato nessuno: la moglie dalla paura, il figlio dalla violenza, il presente dal disastro.

«Rimorsi» assalgono Gioacchino che ancora pensa al figlio, al «candido ribelle» col quale non ha mai saputo parlare e che non è stato in grado di sorreggere, di aiutare, di avvisare  dei rischi di una ideologia che poi tutti i più puri ha tradito; pensa a Mauro che scampando il carcere è fuggito dal paese e «da ogni padre imbelle, ipocrita e impotente» (SP, 89) – si è allontanato da lui, Martinez (SP, 81):

S’affrettarono i giudici a dichiarare «il padre no, non c’entra». E invece sì. Come ogni padre, ogni complice allora di quel potere, di quello stato, ogni responsabile della ribellione, dei misfatti di quei giovani.

È un nodo importante dello Spasimo questa tragica e inabile figura paterna: è un’immagine speculare dello scrittore che ha fallito il suo compito, il suo dovere di guida. Poi fallirà anche l’altro che lo stesso dovere incarna, il giudice – all’inizio del libro, Judex, il personaggio di un film muto, è l’eroe del bambino Chino: un portatore di giustizia, un riparatore di torti; e nella conclusione dello Spasimo un magistrato in carne ed ossa che ne ricorda un altro da vicino, che come Borsellino muore in un attentato (e insieme a lui Gioacchino) e soccombe non per sua incapacità o viltà, ma perché lo uccide la mafia, perché è più forte il mondo.
Come scrittore, come padre e come giudice ‘insufficiente’, Martinez si accolla la responsabilità e porta il peso della rovina che non ha fermato – l’attuale degrado, l’involuzione culturale, la perdita di valori, la bestialità e la volgarità imperanti; e lo sbando di una generazione «incenerita», sì, «da un potere criminale», ma smarrita e perduta perché «figlia di padri illusi» anch’essi naufragati (SP, 39): quelli che dopo la guerra «avrebbero dovuto ricostruire […] formare una nuova società, una civile, giusta convivenza» (SP; 126).
Alla fine prende la penna, Gioacchino, e scrive al figlio (SP, 126-128):

Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo.
Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione che ha sempre improntato la tua parola, la tua azione. Ragione che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre in casa nostra tenacemente rovinava, nell’innocente tua madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle azzardo letterario.

In quel modo volevo anch’io rinnegare i padri, e ho compiuto come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.
[…] rimaneva in me il bisogno della rivolta […] nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta […] il mio parricidio, di compierlo con logico progetto […] per mezzo d’una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli – confrères – più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale.
Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.
Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza d’un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente, di chiarire.

La lettera poi si interromperà, forse la confessione non è intera; ma il «rimorso» di Martinez lo conosciamo ormai: la coscienza di non aver salvato niente, di non aver fatto abbastanza col proprio mestiere letterario (ed era già la colpa dell’Olivo) che si accompagna a un acre giudizio di sé, alla condanna feroce della propria scrittura tutta ridotta a menzogna, autoinganno, fuga dal reale, sonorità e cascame.

E siamo arrivati all’ultima occorrenza del «rimorso» e finalmente alla terza e ultima luna di Consolo, con Gioacchino che ritorna in Sicilia:

Tornava nell’isola, il porto da cui era partito, in cui si sarebbe conclusa la sua avventura, la sua vita. Disvio, mora, sottrazione, anestesia, tormento della sorte […]. Vita ferita […]. Spoglia sospesa alla fronda lenta, all’inganno, al miraggio letterario.
Ma ogni viaggio, sapeva, era tempesta, tremito, perdita, dolore, incanto e oblio, degrado, colpa sepolta, rimorso, assillo senza posa.
Era la notte placida, le stelle, l’immacolata luna, la primavera dei risvegli, l’alba della promessa, l’amore che invade, trasfigura […].
Era il miracolo dell’arte, la consolazione della ginestra, il fraterno affetto, la mano porta al naufrago, l’idea fresca, collettiva di volgere la storia, lenire l’esistenza.

È vero che lo Spasimo somiglia alla poesia: lo attesta anche la struttura grafica di questa pagina (SP, 98-9) in cui l’a capo è quello di una composizione in versi liberi, non di un romanzo o di un racconto. Bisogna intendere: «ogni viaggio […] era tempesta […] era la notte placida […] era il miracolo dell’arte […]»; e il «viaggio» del testo, dello scrittore e padre fallito Gioacchino Martinez e della sua vita «sospesa […] all’inganno, al miraggio letterario», è  la scrittura: la fabbrica delle consolazioni, l’incanto artificiale, il sogno indotto della «immacolata luna». Lei che è astrazione e latitanza, rifugio, oblio colpevole e «rimorso, assillo senza posa», Lei questo spasimo.

Sull’inutilità e il danno della letteratura, sui consuntivi amarissimi, disperatamente in negativo, in tanti hanno già fatto storia: Verga fingeva di scrivere, chiuso nel silenzio offeso degli ultimi anni a Catania; e prima di lui Foscolo scomponeva e ricomponeva nevroticamente le Grazie senza poterle mai finire; Manzoni disprezzava e negava il suo romanzo – «tiritera» lo chiama, «cantafavola»[11], menzogna; l’elegantissimo Leopardi gettava al macero tutte le illusioni col Tristano, e nel Tramonto della luna faceva precipitare l’astro bianco, a morte metteva la sua Regina antica, la seppelliva: e con lei la propria voce, il desiderio, il canto,  il cuore. C’entra naturalmente l’esperienza, la maturità (che «senz’altra forza  atterra»), c’entra anche la vecchiezza in Consolo, la perdita fisiologica dell’entusiasmo. Ma la scrittura dello Spasimo, o diciamo meglio, la questione dello spasimo di questa scrittura faticosa e contratta, e difficile per dolore, non può andar disgiunta da un particolare malessere che si produce in chi si ostini, oggi, a fare Letteratura alta e civile – cose, oggi, entrambe azzardate e anacronistiche.
Può essere che in assenza di un uditorio reale, a furia di parlare per o con se stesso, il poeta moderno finisca col dimenticare o col prendere per favola l’urgenza stessa e il valore del  suo dire; che addirittura finisca col credere di aver recitato (di aver mentito) per vanità e gusto di esibizione, per il piacere solitario della forma splendida e sonante. E può essere che il disincanto che sta in ogni vecchiezza, assieme alla indisponibilità totale e vera della contemporaneità, abbiano spinto Consolo ad una severità eccessiva, e come a travedere: ad accusarsi, intendiamo dire, di colpe che forse aveva anche rasentato, ma che non gli appartenevano. Perché non era finta la sua disperazione, e neppure erano finti l’impegno, l’arte, l’indignazione; eppure questo autore non ha avuto nessuna pietà per la sua opera, per il suo mestiere: «lasche prosodie», ha detto delle sue cose, lo ripetiamo, «rifugio», «vizio dell’assenza», «vanità», «colpa», «malattia».
Lasciamo stare quanto potesse essere necessario a Consolo un rasciugamento, o quanto la ‘autocorrezione’, lo scarnimento dello Spasimo lo abbiano preservato dal rischio di farsi eco di sé, della lamentazione estenuata o di una barocca e vorace esmesuranza. La parabola di questa scrittura, il suo ridursi a una nuova e scabra essenzialità rinunciando all’alone favoloso, alla meraviglia e anche all’orpello, è un approdo che comunque sorprende, pure se viene dalla stanchezza; ed è una evoluzione, uno scatto, un movimento anomalo e vitale all’interno dell’ambito generalmente conservativo della prosa. Un modo diverso, che già faceva le prove nelle Pietre e nell’Olivo, assai lontano dai lenimenti classici e barocchi, dai sogni della luna, dai fasti tutti d’oro e neri al fondo di Retablo, del Sorriso; ed è la forma più dura e acuminata di una tragedia da sempre percepita ma che adesso alza i toni; e nella sua bellissima nudità è la voce più dolente dell’autore, e la più sincera.
Però resta l’impressione che Consolo abbia attinto la sua nuova maniera come punendosi, tagliandosi la vena che era sua di vertigine e cascame, di febbrile incessante e  violentissimo rigoglio; e che della lingua propria abbia finito col provare fastidio, quasi il rimorso di una cosa falsa; e per questo abbia preso a resecarla, fino al rischio di cancellarla. Come con l’intento di adeguarla al silenzio furioso che si è sentito intorno.

Claudia Minerva

Note:

[1] E. SICILIANO, Lo Spasimo di Palermo, «La Repubblica», 11 novembre 1998; poi in L’isola. Scritti sulla letteratura siciliana, Manni, Lecce 2003.

[2] Tutte le citazioni da Consolo recano tra parentesi la sigla e il numero arabo che individuano il luogo da cui la citazione è tratta. Queste le sigle (tra parentesi quadre indico la prima edizione; fuori della parentesi quadra  è data l’edizione di riferimento):
SIM    Il sorriso dell’ignoto marinaio  [1976],  Mondadori,  Milano 2002.
LUN  Lunaria  [1985],  Mondadori,  Milano 2003.
PP       Le pietre di Pantalica  [1988],  Mondadori,  Milano 1990.
OO     L’olivo e l’olivastro  [1994],  Mondadori, Milano 1999. SP             Lo Spasimo di Palermo [1998],  Mondadori, Milano 2000.
Altre citazioni sono da OMERO, Odissea (trad. R Calzecchi Onesti), Einaudi, Torino 1963; DANTE ALIGHIERI,
Inferno; T.S. ELIOT,  The Waste Land. Le sigle adoperate sono rispettivamente OdInfWL.

[3] Sulle molte versioni del testo I barboni, scritto da Consolo per il catalogo dell’artista Ottavio Sgubin, cfr. D. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italiá», 13, 2008, pp. 161-184. Riassumendo: Barboni, simbolo inquietante del nuovo medioevo, «Il Messaggero», 3 marzo 1996; poi, Barboni e Natura morte, in Sgubin, Opere 1988-1997, Marsilio, Venezia 1997; poi, in Ottavio Sgubin, edizioni Mario Jerone, ottobre 1999; poi, Barboni, segno dei nostri fallimenti, «L’Unità», 29 Ottobre 2003; infine I barboni di Ottavio Sgubin, in Ottavio Sgubin pittore, aprile 2003.

[4] Sono del tutto assenti nello Spasimo i due punti e il punto e virgola; raro è l’impiego del punto interrogativo, dell’esclamativo e dei puntini di sospensione fuori delle (poche) battute di dialogo; sporadico (ricorre una decina di volte) l’uso del trattino.

[5] Cfr. M. ONOFRI, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in (a cura di) E. PAPA, Per Vincenzo Consolo, Manni, Lecce 2004, pp. 59-67. Diversamente, ci sembra, all’indomani della scomparsa di Consolo e sull’aver presentito, nello Spasimo, un «congedo» dell’autore, cfr. ancora M. ONOFRI, Vincenzo Consolo, scrittore antagonista in lotta con il potere, «La Nuova Sardegna», 24 gennaio 2012.

[6] Cfr. G. FERRONI, Il mondo salvato da uno scriba, in «Corriere della Sera», 30 novembre 1998. Di ‘romanzo’ parla Ferroni (di una «dizione essenziale» dello Spasimo) e insieme di pagine «volte verso una liricità lacerante», di una «prosa poetica» che addensa su di sé la fatica dell’esistenza, della storia, della cultura, dell’alterarsi del mondo»: una spinta a narrare continuamente controllata dal «rifiuto dell’illusione del narrare», contigua alla fluida disponibilità al racconto tipica di certa disinvoltura postmoderna. In questo libro che «sgomenta», tuttavia, il critico legge tuttavia un segno di speranza nella «ostinata narrazione poetica», nel dialogo con la grande Letteratura, nell’ostinarsi delle parole, nel loro insistere e resistere a cercare giustizia e verità, come mostrerebbe la preghiera muta con cui il libro si chiude: «O gran manu di Diu, ca tantu pisi, / cala, manu di Diu, fatti palisi!». Cfr anche L. CANALI, Che schiaffo, la furia civile di Consolo, «l’Unità», 7 ottobre 1998. Lo Spasimo è forse «il più bello» dei libri di Consolo, dice lo studioso; è «il più duro e compatto»; ed è «un violento schiaffo» a tanta odierna «letteratura di basso consumo». È testo «impervio», «orgoglioso», «difficile»; simile (dice Canali) a una alternanza di deverbia e cantica, come nella tragedia e nella commedia antiche; ed è pieno di una poesia amarissima, «consapevole della inesorabile sconfitta, non solo personale, ma collettiva, delle istituzioni, dello Stato, dei pochi giusti destinati a soccombere alla violenza criminale o alle tresche segrete dei potenti. E questa attitudine è un altro schiaffo dato a chiunque, nel ‘mondo delle lettere’ non creda più nell’impegno civile e anzi talvolta lo beffeggi. È dunque una singolarità, questo ‘romanzo’ di Consolo: ad un massimo di tensione stilistica, semantica, lessicale, culturale, che potrebbe sfociare in un parnassianesimo fatto di essoterismo estetizzante, corrisponde invece un massimo di denuncia sociale sia pure consapevole della probabile inutilità del proprio sacrificio. Mai, come in questo libro, la furia, questa sì dissacrante, di Consolo, e il romanticismo idealistico della sua ispirazione, si erano tanto avvicinati alla lezione dei ‘classici’».

[7] Riportiamo la bella intervista rilasciata da Consolo ad A. Properi nel 1992 (V. CONSOLO, Il suddetto e i parrucconi, «L’Indice», 5, 1992). Sul mondo della letteratura di oggi e i suoi meccanismi editoriali così si esprime lo scrittore siciliano: Diciamo letteratura, ma dobbiamo intendere narrativa, romanzo o racconto. Ché, la poesia, imperturbata e ignorata, procede sempre più nella sua sacra lontananza, nel suo infernale Eliso o nel suo celeste Olimpo. Procede, lei figlia della Memoria, verso l’oblio, in questo nostro presente immenso dell’estrema frontiera del profitto. Presente che ha mutato ogni valore in merce, ogni espressione in assoluta, squallida comunicazione. Il romanzo sta morendo o è già morto (no, non è il ritornello avanguardistico) e mai come oggi si sono prodotti tanti romanzi, mai se ne sono consumati così tanti. E ognuno d’essi è imbonito come capo d’opera, come sommo frutto della più autentica letteratura, ognuno è imposto come indispensabile all’esistenza o quanto meno alla permanenza nello stato sociale in cui ci si è posti. Produce così, l’industria, come avviene per ogni altra merce, il romanzo per le masse, tristi e misere imitazioni d’altri tipi di moderne narrazioni, giornalistiche o televisive, e il romanzo di lusso per l’élite, riproposte di vecchie, già sepolte squisitezze letterarie, neorondismi di professori pensionati o neomanierismi di anemici o brufolosi scolaretti. I quali, professori e scolari, frenetici cottimisti, solitari e alienati lavoratori a domicilio, sono obbligati a produrre sempre più affannosamente per essere sempre più presenti nell’affollata e vociferante borsa dei “titoli”, sempre disponibili nel modesto mercatino rionale o nelle grandi fiere internazionali; sono obbligati a calcare pateticamente ribalte, a cavalcare tigri, a urlare, farsi inverecondi finanche nelle finte, recitate ritrosie. Chi in questa sede è invitato a confessarsi dichiara allora che, dotato di una forte inclinazione a delinquere, ha cercato, fin da quando ha mosso i primi passi nel territorio letterario, di violare le leggi oppressive della comunicazione e del mercato. Ha scritto poco e in un modo in cui la comunicazione era ridotta al minimo necessario, spostando proditoriamente la sua scrittura verso l’espressione, la forma incongrua e irritante della poesia, praticando un linguaggio che fa a pugni, stride fortemente con il codice linguistico stabilito dal potere; s’è tenuto sempre igienicamente lontano dalle accademie, dalle consorterie, dalle massonerie, dai gruppi d’ogni sorta, d’avanguardia o retroguardia. Tutti questi delitti hanno fatto sì che i tutori dell’ordine lo punissero, che i gendarmi lo tenessero sotto controllo come elemento antisociale. Così a ogni rara uscita, a ogni nuovo libro del suddetto, i parrucconi, i piazzisti della merce, istericamente si scompongono, cominciano a urlare: “È siciliano, non scrive in italiano, è barocco, è oscuro, è pesante come una cassata, le sue narrazioni non sono filate, fruibili: ma chi crede di essere, ma come si permette?.

[8] Cfr. «Il Piccolo», 11 giugno 2011; «La Repubblica», 30 giugno 2011.

[9] Una stroncatura viene da C. TERNULLO, Vincenzo Consolo, Dalla ‘Ferita’ allo ‘Spasimo’, Prova d’Autore, Catania 1998: parla di «scadimento», il critico; di una «pertinace sentenziosità» dell’autore che insisterebbe a «farsi ‘cattiva coscienza’ dei tempi» senza però possedere l’equilibrio di Sciascia; e di una «chiara disunità» del libro, di un «accostamento forzato e insincero dei segmenti narrativi» (p.66-7), di un rasentare l’horror nella descrizione della vecchiaia (p. 69) – giudizio ingeneroso e quasi intemperante, come si vede; e del resto, ognuno ha il proprio (ricordiamo comunque a Ternullo che le «voci di dannunziana memoria» alle quali si riferisce a p. 42 del suo libretto, sono leopardiane).

[10] SP, 70: «Quel contrapposto di gale e di cenci, di vanità e miseria»; segnalata dalle virgolette basse, è citazione dal capitolo XXVIII dei Promessi sposi, con la carestia a Milano.

[11] È quanto Manzoni scrive a Monti (15 giugno 1827) e a Cioni (10 ottobre 1827); lo leggo in A. LEONE DE CASTRIS, L’impegno del Manzoni, Sansoni, Firenze 1965, p. 246.

“AMOR SACRO”CRONACA DI UN ROMANZO MAI NATO

di Sergio Buonadonna
Dopo dieci anni di silenzio Vincenzo Consolo torna al romanzo. Considerato l’erede di Vittorini e Sciascia, ma dai più accostato a Gadda per la sua scrittura espressiva, il grande narratore siciliano (78 anni, più di quaranta vissuti a Milano, “il luogo dell’emigrazione come fu per Verga”) si ripropone con una metafora storico-sociale e una scrittura palinsestica (cioè scrittura su altre scritture) come nella sua famosa trilogia: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” tema il Risorgimento, “Nottetempo casa per casa” (il fascismo), “Lo Spasimo di Palermo” (la contemporaneità fino alle stragi Falcone e Borsellino). Al grande ritorno sta accudendo da anni, ne è segno la fitta libreria d’epoca accumulata accanto al suo tavolo da lavoro che domina l’ampio studio carico di volumi, quadri e disegni tra cui quelli a lui carissimi di Guttuso e Pasolini. Racconta Consolo: “Il titolo di questo romanzo storico, lo dico con molto pudore, è Amor Sacro, è un processo d’Inquisizione di cui ho trovato i documenti all’Archivio di Madrid: una storia che si svolge in Sicilia. La vicenda riguarda un monaco e quindi Amor sacro direi che è appropriato. Ma non voglio aggiungere altro ché sarebbe impudico. Il secolo è la fine del Seicento, tempo, luogo e stagione di furori e misteri. Tuttavia non dico come Arbasino: sapesse signora mia la mia vita è un romanzo. I miei libri sono sempre storico-metaforici. Spero”. Si parla del passato per dire del presente? “Sans doute, come dicono i francesi. Senza dubbio”. Sicché – pubblicato questo libro tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – dovremmo vedere finalmente il Meridiano che raccoglierà la tua opera?“ Tutta l’opera completa, questo è l’accordo con Mondadori anche se devo chiarire che ho atteso a lungo perché il mio contratto iniziale era con Arnoldo Mondadori. Berlusconi è arrivato dopo e come si sa io non ho molto piacere di lavorare per il cavaliere. Ma rispetterò i patti. Nel Meridiano ci saranno anche i miei scritti giovanili. Giorni fa è venuto a trovarmi un professore dell’Università di Gerona, bravissimo, che sta curando tutti i miei racconti. Il primo risale al 1952”.È giusto definire un tuo libro romanzo o narrazione? Ne “Lo Spasimo di Palermo” appare infatti il tuo manifesto letterario quando avverti: ‘il romanzo è un genere scaduto, corrotto, impraticabile…’“Quando negli anni Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, ho visto cos’era accaduto nel nostro Paese soprattutto dal punto di vista linguistico, ma anche in campo letterario, politico, civile. C’era stata una forte mutazione, l’esodo dei contadini del sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé. La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata perciò il mio scrupolo è stato reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni, recuperare vocaboli immettendoli nel codice italiano. In Sicilia questi giacimenti linguistici significano greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno un dialettologo dell’Università di Catania mi chiese dove hai preso la parola “calasía” perché nei vocabolari siciliani non c’è? Gli risposi: viene dal greco kalós che vuol dire bello. Nella mia zona tra le province di Messina e Palermo, che è greco-bizantina si dice che calasía, che bellezza”. Insisto. Che cosa distingue il romanzo dalla narrazione? “È la distinzione che fa Walter Benjamin. Nella tragedia greca c’era l’anghelos, il messaggero che arrivava in scena, si rivolgeva al pubblico della cavea e narrava quello che era successo altrove in un altro momento. Oggi io dico che la cavea è vuota, non ci sono più i lettori. Quindi non sai a chi rivolgerti e perciò l’anghelos non appare in scena. Sono i lettori che scelgono l’autore”. Tu in Sicilia avevi scelto Lucio Piccolo e Sciascia. Come si collocano nella tua formazione? “Per me Piccolo e Sciascia erano due riferimenti fondamentali. Quando ho pubblicato “La ferita dell’aprile” l’ho mandato con una missiva a Leonardo Sciascia e lui mi ha risposto con una bellissima lettera invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta. È nato un rapporto di amicizia, quando ci incontravamo le nostre conversazioni sulla Sicilia erano davvero intense e avvincenti. Dall’altra parte c’era Lucio Piccolo, che era di Capo d’Orlando, stava nella villa in campagna con il fratello Casimiro, un esoterico, e la sorella Giovanna una botanica, Lucio poeta era cugino di Tomasi di Lampedusa col quale aveva un antagonismo incredibile. Quando andavo da Piccolo lui mi diceva salutami il caro Sciascia e quando andavo da Sciascia, Leonardo mi diceva salutami Piccolo. Poi ho fatto in modo di farli incontrare. Piccolo, che stava quasi sempre chiuso nella sua magione, quando arrivavano ospiti dava il meglio di sé. Era di una cultura infinita. Anni dopo Sciascia dichiarò che i due personaggi che più l’avevano colpito nella sua vita erano stati Borges e Lucio Piccolo. Poi è esploso il fenomeno del Gattopardo. In un’altra circostanza ho saputo che in un alberghetto di campagna vicino al mio paese c’era Salvatore Quasimodo con un’amica che presentava come figlia, sono andato a scovarlo e ho fatto in modo di accompagnarlo per fargli conoscere Lucio Piccolo, ma siccome questi era stato scoperto da Montale, acerrimo nemico di Quasimodo, allora il Nobel, uscendo dalla villa, mi fa: questo piccolo poeta”. Al nord stringi invece intensi rapporti con Pasolini e Calvino. Che cosa succede nella cultura italiana perché oggi sia così difficile trovare dei riferimenti che segnano veramente il tempo e la cultura? “Non voglio essere profeta di sventure ma credo che la letteratura italiana ormai sia al grado zero. Mi arrivano parecchi libri di esordienti. Leggo le prime pagine e rimango allibito dalla banalità della scrittura, delle storie, tutti che guardano il proprio ombelico, la propria infanzia, il papino, la mammina, le vicende personali, familiari, sessuali, non c’è uno sguardo nella storia nostra. La società è assente e ci si chiede ma ‘sta letteratura dov’è andata a finire? Negli anni Sessanta, dopo un’infelice esperienza alla Rai, che mi aveva cacciato perché mi ero rifiutato di mandare in onda un’autointervista su Cavour dell’allora direttore generale Italo De Feo (suocero di Emilio Fede), grazie a Calvino sono stato per più di dieci anni consulente della casa editrice Einaudi. Quando arrivavano i dattiloscritti, io dovevo essere il primo a leggerli, fare la relazione scritta e leggerla alla riunione del famoso mercoledì. Se io approvavo il libro, passava a Calvino. Quindi se lui l’approvava passava a Natalia Ginzburg per il giudizio conclusivo. Oggi basta andare alla televisione a sculettare o a fare il cantante, si scrive il romanzo e subito diventa best-seller. Questa è la letteratura italiana attuale”. La letteratura può far paura perché non è dominabile? “Senz’altro. La letteratura vera non è dominabile, se poi invece aspetti l’applauso e il successo sei dominabilissimo. Fai la volontà del padrone”. La Sicilia è sempre il cuore delle tue storie anche quando racconti il male di vivere, in certo modo l’inutilità di stare in Sicilia. “Diceva Verga che non ci si può mai allontanare dai luoghi della propria memoria. Lui l’ha fatto per parecchio tempo, i cosiddetti romanzi mondani quand’era a Milano, poi c’è stata la famosa conversione quando comincia il ciclo del verismo, ma anche Pirandello ha scritto che noi siamo i primi anni della nostra vita, cioè che quei segni sono incancellabili”. La distanza ti ha consentito una messa a fuoco migliore della realtà siciliana?“ Anche questo diceva Verga, e Capuana scriveva che la lontananza serviva a vedere più obiettivamente il luogo in cui si era nati e vissuti, il luogo della memoria”. E l’infinito presente del nostro tempo che cosa ci sta rubando? “Sia la memoria del passato che la visione di quel che può essere l’immediato futuro. Viviamo in questo infinito presente”.

Pietha de Woogd ,traduttrice di Retablo in lingua olandese. Intervista Vincenzo Consolo Il 3 marzo 2011.

Guttuso. Pittura e letteratura (di Vincenzo Consolo)

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Renato Guttuso, La notte di Gibellina

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, ’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta. Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione  – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione. Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi un velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagheria, si trovo a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ‘30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà di ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano, avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti. Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello, sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano. La fuga dell’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix. Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Gòngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificabile, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati [..] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee..” scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “io ero quell’inverno in preda ad astratti furori..” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato deLa zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dell’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.
L’articolo è stato pubblicato con il titolo L’enorme realtà in “asud’europa”, Anno V, n.5, 14 febbraio 2011 – rivista del Centro Studi Pio La Torre

Pubblicato da Salvatore Lo Leggio

Le musiche della mia vita, intervista a Vincenzo Consolo, Raitre Milano, 22 febbraio 2009

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana

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Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009

1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto

Estratto.

Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo”  da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo  e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini  La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

Giuseppe Tornatore fotografo Vincenzo Consolo

 

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Bisogna subito dire di Bagheria, paese dove è nato e cresciuto Giuseppe Tornatore, questo regista della seconda generazione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra. Dire di Bagheria e di Giuseppe Tornatore fotografo, della sua fotografia come telemachia, prima educazione artistica, primo passo verso il mondo delle immagini, verso il cinema.
Bagheria, singolare paese, rispetto agli altri paesi di Sicilia per il motivo e per il modo in cui  esso è nato, si è formato. “Bagheria – latino, Bayharia – Siciliano, Baaria (Val di Mazara). Estesissima ed amena campagna, ad oriente del territorio di Palermo, adorna all’ultima eleganza di casine suburbane di signori; lungo sarebbe descriverle, dirò tuttavia delle primarie. E prima occorre l’amplissima villa del principe Butera (…) Sovrastà ad una altura, a mezzogiorno di quella terra, al villa Valguarnera, dove nulla desideri che tenda alla delizia dell’animo; magnifica altresì quella di Aragona né quella di Cattolica, Filingeri, Palagonìa, Lardaria, sottostanno per fabbriche, ornamenti e disegno; sono palazzi degni tutti di grande città”. Così scrive Vito Amico nel suo Lexicon Siculum (1757), tradotto dal latino e postillato da Gioacchino di Marzo (Dizionario Topografico della Sicilia, 1858). E partiamo dunque dal primo che fece costruire la sua villa in quella “estesissima e amena campagna”, il principe Butera. Un emistichio del Tasso, O corte a dio, e una quartina in lingua spagnola faceva incidere sul primo e sul secondo arco di ingresso alla sua villa a Bagheria don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino e principe di Butera. A capo di una congiura contro il re di Spagna, Filippo IV, e contro i viceré di Sicilia, don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore – la sua delazione, insieme a quella del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati – il Butera si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso.

Ya la esperanza es perdita
Y un solo ben me consuela
Que el tempo que pasa y buela
Lleverà presto al vida.

Congiuravano contro il re di Spagna, i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Epigrafava la sua villa, il principe di Butera, con versi tratti dalla Galatea di Miguel de Cervantes. Dopo il Butera, come ci dice l’Amico, costruirono  ville nell’amena plaga molti altri nobili, tra di loro in gara di delizia, di sfarzo, fino al rovesciamento nel delirio del barocco, nell’allucinazione pietrificata, nel capriccio goyesco della villa dei Mostri del principe Palagonìa, da cui Goethe, in cerca in Sicilia di una Ellade di luce e d’armonia, si sarebbe allontanato inorridito. Scrive nel suo Viaggio in Italia: “Palermo, lunedì 9 aprile 1787. Abbiamo sciupato tutta la giornata d’oggi dietro le pazzie del principe di Palagonia. (…) Quando il padre del principe attuale costruì la villa, (…) ha concesso libero sfogo al suo capriccio e alla predilezione per il deforme e per il mostruoso”. Certo, per un Goethe che viaggiavo in Sicilia con il metro di Winckelmann in tasca, quella villa Palagonìa non poteva che suscitargli orrore.Le ville di Bagheria. “Di ville, di ville!…di principesche ville” avrebbe esclamato con ironia Gonzalo – Carlo Emilio Gadda, riferendosi a quelle di Lukones, vale a dire della Brianza, ne La cognizione de dolore. Le ville di Bagheria non le hanno certo costruite con le loro mani i nobili, i Gattopardi di Sicilia, il loro progetto villesco, nella loro gara di sfarzo, di lusso, oltre agli architetti, ha attirato là, da Palermo e da altre zone della Sicilia, masse di murifabbri, scalpellini, falegnami, manovali e artigiani, oltre a braccianti, a contadini, per lavorare negli estesi giardini. Gli abitanti di Bagheria,  abitanti al di qua delle ville cinte di gran mura come fortezze, erano, ci dice il Di Marzo, nel 1852 quasi diecimila. E oggi sono più di quarantamila. Al di qua delle alte mura delle ville i cui padroni, i famosi “leoni e i gattopardi” lampedusiani sono per la maggior parte tramontati, finiti per isolamento, dissennatezza o alienazione, al di qua sono nati e cresciuti a Bagheria, tra quello che si chiamava il popolo, gli spiriti più acuti, più intelligenti, gli artisti e gli intellettuali più dotati. Facciamo per tutti tre nomi: il poeta Ignazio Buttitta, il pittore Renato Guttuso e il fotografo-regista Giuseppe Tornatore. E qui vogliamo dire, dell’autore di famosi films, come  Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, L’uomo delle stelle, La sconosciuta, e altri, e, in fase di produzione, l’ancora inedito Baarìa, di cui qui compaiono immagini delle riprese. La Baaria funestata oggi da quella mala pianta che si chiama mafia, da quelle “iene e sciacalletti” che sono subentrati ai principi e ai baroni delle famose ville. Giuseppe, anzi Peppuccio Tornatore, muove dunque i primi passi per le strade di Bagheria con una macchina fotografica in mano. La Sibilai, le città e i paesi siciliani, per la loro profondità storica, sono stati da sempre interessanti e “urgenti” per i viaggiatori stranieri, per gli incisori prima, incisori come Houel e Saint-Non, e quindi, con l’avvento della fotografia, è divenuta interessante e “urgente” per fotografi stranieri e per gli stessi siciliani. Ai primordi, verso la fine dell’Ottocento, vale a dire, otografano la Sicilia l’inglese Samuel Butler, l’eccentrico autore de L’autrice dell’Odissea, la grande triade quindi dei veristi siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, che nella fotografia vedevano confermate le loro tesi letterarie. E ancora i fratelli Alinari, Giacomo Brogi, l’esteta von Gloeden, Giorgio Sommer. Robert Capa, poi, sbarcato nel ’43 con gli Americani in Sicilia, fotografò la Sicilia di quel momento della Liberazione. Vi fu poi la scuola di fotografi palermitani, da Interguglielmi a Giusto e Nicola Scafidi a Enzo Sellerio, a Ferdinando Scianna, a Melo Minnella. A questa scuola e a questa tradizione ha appartenuto il giovane fotografo Peppuccio Tornatore. Scrive Tornatore nel libro Giuseppe Tornatore fotografo in Siberia: “Dopo mesi e mesi vissuti in moviola, al buio, gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere…Ero in questo limbo dell’immaginazione, mentre mi avviavo a concludere il montaggio di La leggenda del pianista sull’oceano, quando un bel giorno, inaspettatamente, la voce nordica e gentile di Alberto Meomartini giunge a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico: “So che da ragazzo lei è stato fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?”. Il Meomartini lo invita dunque ad andare in Siberia con la sua Rolleicord. Sono quelle fotografie di una Siberia innevata, quasi desolata, una terra di Dostoevskij o Solzenicyn, ma sono anche foto di bimbi, di donne, di uomini di grande dignità. E poi, in giro per la Russia, Tornatore ha fotografato Mosca, e in giro per il mondo, la Cina, il Giappone, l’America, la Tunisia. Sono foto che in parte compaiono in questa mostra. Ma a chi qui scrive, da siciliano e sicilianista, senza nessuna ombra di regionalismo, interessa molto il fotografo che “da ragazzo” fotografava la Sicilia, fotografava la sua Baaria, Porticello, Palermo, Portella della Ginestra…Sono fotografie degli anni Sessanta-Settanta di una Baaria ancora povera, contadina, ancora non mutata antropologicamente, fuori ancora crediamo dalla contaminazione corleonese: una Baaria priva di ville, ma nobile, ricca di umanità.

Indiscrezioni
Giuseppe Tornatore fotografie
Edizioni Fratelli Alinari 2008

Giuseppe Tornatore e Vincenzo Consolo a Venezia
foto di Giovanni Giovannetti

Giuseppe Tornatore, Vincenzo Consolo world copyright Giovanni Giovannetti/effigie