Incontri (Storie di cause celebri) Mostra fotografica di Giovanna Borgese

Università di Messina, 19 giugno 2003

MOSTRA FOTOGRAFICA DI GIOVANNA BORGESE

Nel 1931 il grande scrittore Giuseppe Antonio Borgese emigrava, per ragioni di antifascismo, negli USA. Da lì inviava al Corriere della sera corrispondenze che, raccolte poi in un volume, presero il titolo di Atlante americano.  Dice, in quei suoi articoli-saggi, di Manhattan, la “città assoluta”, dell’Empire State Building, il grattacielo dello Stato dell’Impero (inaugurato proprio nel 1931), della trasformazione della lingua inglese nell’americano, in quella lingua ch’egli dice monosillabica, della Provincia, della Frontiera americana…  Diceva insomma, Borgese, in quell’Atlante americano, della “prigione”, dell’Incubo ad aria condizionata, come l’ha chiamata Henry Miller, che era, che è oggi più che mai, l’America.
Nel 1936, Borgese in America, in inglese, Golia, marcia del fascismo, pubblicato poi in Italia nel 1946.
Golia era una delle più profonde e severe requisitorie contro il fascismo, l’arringa dottissima di un pubblico ministero nel tribunale della storia contro le colpe di un Paese consegnatosi all’orrore della dittatura, contro il Paese dei tribunali speciali, della pena di morte, della denunzia e della condanna degli oppositori, del loro imprigionamento, del loro confino di polizia, e del loro assassinio.
“Golia”, scrisse Renato Poggioli “è da collocare nella linea italiana del Principe e della Storia di De Sanctis.
Oggi qui ho il privilegio di parlare, se pure inadeguatamente, della Mostra fotografica di una lucida storica, attraverso le immagini, di questo nostro Paese; di parlare delle fotografie di Giovanna Borgese. Il grande scrittore era suo nonno. Giovanna ci restituisce immagini della storia italiana appena passata, l’atroce storia che parte dagli anni Settanta e si fa evidente, si rappresenta sul palcoscenico del teatro giudiziario a cavallo degli anni Ottanta.  Dal ’69, e via via dopo, erano state compiute stragi, in questa Italia che sembra immobile, sempre uguale a se stessa, erano stati compiuti omicidi politici, fra cui quello più tremendo nella sua spettacolarità, più oscuramente emblematico di Aldo Moro; dilagava la corruzione politica, il malaffare, il terrorismo, assassinio di segno nero e rosso, la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la devianza dei servizi segreti, dei poteri dello Stato; prendeva potere la finanza criminale, come quella di Sindona, Calvi o di Marcinkus, e la balzachiana setta dei Devorants con il suo Ferragus, che erano la Loggia Massonica P2 e Licio Gelli.
Il potere politico democristiano intanto, legato alla o sostenuto dalla criminalità, era tetragono, indifferente a ogni nefandezza, continuava a dominare il Paese.  E quindi i responsabili, una minima parte dei responsabili dei crimini, delle nefandezze, arrivava in Tribunale, davanti ai giudici.  E Giovanna Borgese fotografa questa umanità approdata nei Palazzi di Giustizia.  Palazzi che sono quelli di Milano, Torino, Padova, Roma, Cremona, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Bergamo, ecc.
Si legge, in queste immagini, l’angoscia e insieme la pietà della fotografa nei confronti dell’umanità.  Ma si legge anche, nelle immagini, repulsione, ironia, acutezza e trepidazione in un luogo come il Tribunale, dove culmina la tumultuante tragedia, si placa, per prendere astratta e definitiva forma giuridica.  Ed è per questo che le foto, trascendono la cronaca, diventano  prezioso documento umani, libro di storia.
La storia di quegli anni nostri in cui sembrava – sembrava allora, come sembra più che mai oggi, in questa felice tarda primavera del 2003, in un Paese governato da un signore che si chiama Berlusconi – sembrava, dicevo, che una sorta di malattia morale, di peste fosse dilagata: la peste dell’irrazionalità, della disgregazione delle coscienze, della sopraffazione e della violenza.
E come in tutte le epidemie, le pesti, si riempivano le fosse di cadaveri, si affollavano i cameroni dei lazzaretti di contagiati. Così, la malattia di quegli anni sovraffollava le carceri di imputati in attesa di giudizio, stipava i gabbioni di vaste palestre adattate ad aule giudiziarie, per celebrare processi di massa. È qui dunque, e non forzatamente, che cogliamo la rispondenza fra Golia e queste foto. Nel fatto che G.A. Borgese, il nonno, individui le cause della nascita del fascismo, della Grande Involuzione, più che in oggettivi fatti storici, nel soggettivo disordine etico, nella malattia spirituale che di tempo in tempo riaffiora nel carattere italiano.  Riaffiora quello che Carlo Levi ha chiamato “l’eterno fascismo italiano”. E nel fatto che Giovanna Borgese, la nipote, abbia colto nei lazzaretti, nelle aule dei tribunali, sui corpi e sui volti delle persone i segni della malattia riemersa in quegli anni nel nostro Paese, prefigurazione di quella malattia a contatto della quale oggi noi viviamo.
Dicevamo che nei tribunali culmina e si placa la tragedia.  Ma da lì non si può fare a meno di uscire e ripercorrere le fasi del suo svolgersi, di riandare per le strade delle nostre città e rivedere i morti ammazzati dai camorristi, dai mafiosi, dai terroristi; i morti per droga; di leggere nelle facce porcine, da faine o da volpi di politici, generali, finanzieri, le ruberie, le corruzioni, le speculazioni, le esportazioni di capitali all’estero: di tutto lo scialo insomma dei potenti che hanno prostato l’economia del nostro paese.

Gli imputati, da una parte – da Liggio, a Cutolo, a Curcio, a Moretti, a Peci, a Negri, a Fioravanti, a Rizzoli, a Tassan Din, a Sindona, a Calvi ( La sua testa chiusa nel cerchio dei berretti dei carabinieri!) … Gli imputati, da una parte, dall’altra, i giudici – dal procuratore generale di Milano Corrias, al consigliere di Cassazione Scopelliti (che sarà ucciso dalla ?ndrangheta), ai magistrati della Suprema Corte di Cassazione (che sembrano creati dalla fantasia di Daumier), agli allora giovanissimi giudici istruttori Turone e Colombo. Tutti insomma, i grandi e piccoli sacerdoti della giustizia. Fenomeno metafisico, la Giustizia, come la religione, come l’arte. Partecipano, tutti e tre, del mistero della creazione.  Nella Giustizia, il momento creativo è quello della sentenza.  Quando il giudice legge la frase di rito: “In nome del popolo italiano…”, è allora che crea la verità giuridica.  L’altra verità, quella storica, da quel momento non esiste più, non ha più valore. Così i giudici, investiti di questo terribile potere, tendono a formare un corpo separato dal resto della società, a far parte di una casta che sembra procedere su un altro piano, parallelo a quello storico.  Com’è di certi ecclesiastici, di certi artisti.  Sta alla volontà di ognuno di loro di non perdere il contatto con l’altro piano, di fare continue incursioni nella storia.  Si pensi alla vicenda umana di uno scrittore come Kafka, ridottosi in un deserto di vita, nel labirinto dei cunicoli d’una tana per dedicarsi unicamente alla trasformazione della vita in scrittura.
E proprio lui, Kafka, ha avvertito come nessuno la metafisicità della giustizia, ha sentito come la vita umana non è che un intervallo tra un’oscura imputazione e l’attesa di una sentenza. Nei giudici fotografati dalla Borgese si legge la metafisica e la storia.  La prima, negli alti magistrati acconciati nei loro paramenti rituali, “oggettivamente ritratti”, come avrebbe fatto il pittore Titorelli del Processo di Kafka, o come soggettivamente li avrebbe visti, al pari dei cardinali, Francis Bacon.  La seconda, la storia vale a dire, Giovanna Borgese la legge nei giovani pretori e nei giudici istruttori, disarmati e disarmanti, ancora “sporchi” di vita, solitari e dibattuti nella difficoltà d’essere “ “insieme umani e fuori dall’umano”. Abbiamo detto degli imputati e dei giudici.  Dimenticavamo le terze persone del dramma: i parenti delle vittime, il pubblico, i testimoni.  E, fra questi non si possono dimenticare le facce dei grandi del potere politico e di quello finanziario: Agnelli, Bonomi, Mandelli, Spada, Andreotti, Donat Cattin, Emilio Colombo…  Colpevoli e innocenti, puniti e impuniti.  Nella storia giudiziaria di questo paese, si sa, molto spesso le colonne dell’infamia sono state issate solo per i deboli, solo per gli innocenti. E le leggi che oggi si votano nel nostro Parlamento sono solo a favore di un grande imputato e dei suoi coimputati, dei cittadini più uguali davanti alla legge, vale a dire cittadini che nessun tribunale di questo paese può giudicare.

Vincenzo Consolo
Milano 18 giugno 2003

Giovanna Borgese, Vincenzo Consolo, Caterina Pilenga Consolo. Foto di Corrado Stajano

Foto Giovanna Borgese testi di Corrado Stajano
Giudici di Cassazione

Madre Coraggio

Vincenzo Consolo

È accovacciata sul marciapiede sconnesso, le gambe incrociate sotto l’ampia gonna colorata, il fazzoletto bian­co in testa. Ha davanti a sé una cesta piena di mazzetti di ne­pitella, la mentuccia che spontaneamente cresce nei luo­ghi selvatici. Con un rapido gesto della ruvida mano na­sconde sotto la gonna il falcetto. Con quello, chissà in qua­le ora antelucana è andata su per i colli rocciosi e desertici intor­no a Ramallah per raccogliere quell’erba aromatica, il cui infuso rinfresca le viscere e insieme allontana svariati ma­lanni, calma i nervi, toglie ansie, paure. Quella conta­di­na imponente, dalla faccia indurita da calure e da geli, de­ve essere una madre che mantiene i figli vendendo ne­pitelle, vendendo cicorie, cardi, carciofi selvatici. Mi fa venire in mente la Umm Saad, la madre di Saad, dell’omo­nimo rac­conto di Ghassan Kanafani. E le eroiche madri di altri scrittori, La madre di Gor’kij, Madre Coraggio di Brecht, la madre di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Ha un figlio, Saad, che combatte? E un altro figlio bambino, Said, che già si esercita con il fucile? Deve certo abitare nel fan­go di un campo di profughi, in una angusta stanza dalle pareti di latta.

Sono qui nel centro di Ramallah, con lo scrittore spa­gnolo Juan Goytisolo, il poeta cinese Bei Dao e il pa­le­stinese Elias Sanbar, traduttore in Francia de La terre nous est étroite di Mahmoud Darwish. Ci aggiriamo nella ro­ton­da piazza principale di questa città dimessa, ferita, dov’è la fontana secca con quattro leoni di marmo. Sanbar ci fa notare una stranezza: alla zampa di uno dei leoni l’ar­tista ha voluto scolpire un assurdo, surreale orologio. Qua­le ora segna? Della guerra, della pace, della fine dello strazio infinito di questa terra martoriata? Facciamo parte, noi tre, della delegazione del Parlamento internazionale de­gli scrit­tori giunta qui ieri da Tel Aviv. Siamo partiti la mat­tina del 24 marzo da Parigi (scrittori, registi, gior­na­listi), sia­mo giunti a Tel Aviv nel pomeriggio. Su un pullman ci dirigiamo verso Ramallah. È un paesaggio, quel­lo che at­tra­versiamo, di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia. Ci fermano per controlli ai checkpoint israeliani, postazioni in cemen­to armato co­per­te da teli mimetici, dalle cui feritoie sbu­cano le canne del­le mitragliatrici. Presi in consegna dai palestinesi, sia­mo preceduti da una vettura della polizia con i lam­peg­gianti e un lugubre suono di sirena. All’al­bergo incon­tria­mo Darwish e altri palestinesi, fra cui Laila, portavoce dell’OLP, che sarà nostra guida per tutto il viaggio. Di Dar­wish, obbligato dagli israeliani a rimanere, come Ara­fat, prigioniero a Ramallah, Goytisolo aveva scrit­to qual­che giorno prima su Le Monde che il poeta è la metonimia del popolo palestinese. Popolo scacciato da que­sta “stretta terra”, costretto nei campi profughi, prigio­niero in questa Palestina straziata da conflitti senza fine.

“Il mio indirizzo è cambiato.

L’ora dei pasti,

la mia razione di tabacco, sono cambiati,

e il colore dei miei vestiti, la mia faccia e la mia sagoma. La luna

cosí cara al mio cuore qui,

è piú bella e piú grande ormai”,

scrive Darwish in La prigione.

Una luna piena, luminosissima campeggia nel cielo terso quando usciamo la sera. Qualcuno ci indica, alte su un colle, le luci di un insediamento di coloni da cui piú volte hanno sparato su Ramallah. Partiamo l’indomani per Bir Zeit. Facciamo sosta al campo profughi Al-Amari, che porta lo stesso nome di Michele Amari, lo storico dell’Ot­to­cento, autore de La storia dei musulmani di Sicilia. Il cam­po è misero, squallido. Le sue stradine sono piene di bam­bini, nugoli e nugoli di bambini dagli occhi neri, vivaci. Dice un palestinese, ironico: “Gli israeliani con­trollano tutta la nostra vita, ma non riescono a controllare la nostra sessualità”. Anche questa della demografia è una lotta con­tro l’occupazione, occupazione territoriale, urba­nistica, ar­chitettonica, agraria, linguistica…

Ci fanno vedere la sede di un’associazione sportiva sventrata dagli israeliani all’interno, stanza dopo stanza, de­vastata, l’arredo ridotto ad ammassi informi. Raccolgo da terra un manifesto in cui è effigiata una squadra di cal­cio: giocatori in maglia rossa e pantaloncini neri. Chissà chi è vivo e chi è morto di quei giovani, chi è libero o in prigione. Lo stesso gesto, di raccogliere un foglio tra le ma­cerie, l’avevo fatto a Sarajevo, nella redazione distrutta dalle cannonate del giornale Oslobodjenje (Liberazione).

In uno strettissimo vicolo tra le baracche, quattro an­ziane donne sono sedute una accanto all’altra. Al nostro passaggio, parlano tutte insieme a voce alta, cadenzano le parole con gesti delle mani: un flusso fra il lamento e l’in­vettiva in cui si distingue chiaro solo il nome di Sharon. Sembra, questo delle anziane donne, il coro d’una tragedia greca.

Dopo una lunga attesa al checkpoint, dove è ferma una colonna infinita di macchine e autocarri, una lun­ghis­sima fila di gente appiedata, raggiungiamo l’uni­ver­sità di Bir Zeit. Gli studenti ci accolgono festosi, ac­colgono con gioia soprattutto il loro poeta, Darwish. Sono 1500 gli stu­denti, ci dicono i professori, che ogni giorno, a causa dei blocchi stradali, fanno grande fatica per rag­giungere l’uni­versità. Abbiamo un incontro con scrittori e intellet­tuali palestinesi e una conferenza stampa al Pa­le­stina Me­dia Center.

Di ritorno a Ramallah, siamo condotti al quartier ge­nerale dell’Autorità della Palestina, per incontrare Ara­fat. Il quale appare, dopo un po’, nel suo ufficio. Riconosce Soyinka e Saramago. Il presidente del Parlamento interna­zionale degli scrittori, l’americano Russell Banks, gli dice del nostro appello per la pace dif­fu­so il 6 marzo scorso, gli dice quale messaggio ci vuole affidare. Risponde Arafat: “Fra qualche giorno è la Pasqua giudaica, la ricorrenza della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitú in Egitto. Sono loro adesso che devono ten­dere la mano agli schiavi di oggi, a noi palestinesi. Dite agli ebrei americani che domandiamo agli israeliani la li­berazione dei territori occupati e il riconoscimento dello stato palestinese. Quan­do ero bambino,” aggiunge, “abi­ta­vo a Gerusalem­me, vi­ci­no al Muro del pianto. Per tutta la mia infanzia ho gio­cato coi bambini ebrei. Dite agli ame­ricani che qui, nel mio ufficio, vicino al mio tavolo di la­vo­ro, tengo la meno­rah” e si alza, Arafat, va a prendere il pic­colo candelabro a sette braccia e ce lo mostra. Poi ri­cor­da che ventuno donne han­no partorito in macchina al checkpoint, che due di esse lí sono morte, che è morto un neonato.

Avevo incontrato quest’uomo nel novembre del 1982 (vent’anni fa!) ad Hammam-Lif, vicino Tunisi, dove si era rifugiato dopo la fuga dal Libano, la strage di Sabra e Chatila. Ed era là, a cercare di ucciderlo, il suo nemico di sempre, Ariel Sharon. Quello che ancora oggi, nel momen­to in cui scrivo, lo assedia con i suoi carri armati, spara contro il suo quartier generale, lo costringe in due stanze, senza luce elettrica, senza acqua. E intanto, ragazze e ra­gazzi imbottiti di tritolo si uccidono e uccidono in questa terra santa che è diventata infernale. Intanto, la pervicacia e la violenza del duellante Sharon, il silenzio assenso dell’alleato Bush provocano la reazione dei paesi arabi, fan­no temere il peggio. “Fanno la guerra alla pace” ha det­to, quasi in pianto, il Papa di Roma.

E qui al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appe­na tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci no­tizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Pie­ra, un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione fra questo mio dovere di scri­vere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato, e la grande tragedia che si sta svolgendo laggiú.

Ma si ha il dovere di scrivere. Partiamo l’indomani per Gaza. Lunga attesa al checkpoint di Erez, sul confine del­la Striscia. Ci attendono di là le macchine con le ban­diere dell’ONU. Nella Striscia di Gaza, come in una di­sce­sa nei gironi infernali, arriviamo ai due estremi vil­laggi di Khan Yanus e di Rafah, villaggi recentemente rioccu­pati e distrutti. Rafah soprattutto, sul confine con l’Egitto, rasa completamente al suolo dai bulldozer. Ci rac­coman­dano di stare sempre uniti al gruppo, di non iso­larci, se no ri­schiamo d’essere colpiti da una qualche pal­lottola spara­ta dagli alti fortini di cemento là sul confine. Mentre salia­mo sul terrapieno di macerie, un uomo con le stampelle ac­canto a me cade, si ferisce il viso, le mani. Lo aiutiamo a rialzarsi. E l’uomo, tenace, arriva al centro del gruppo, co­mincia a dire, a raccontare. Qui, dove sono le macerie, era la sua casa, la casa dove abitava con la moglie e i sette figli.

Alle due di notte sono giunti i carri armati, i bull­dozer, che in un paio d’ore hanno abbattuto e spianato tut­te le case del villaggio. Sotto quelle macerie sono ora sep­pelliti tutti i loro ricordi, i libri, i quaderni di scuola dei figli. Una donna accanto, forse la moglie, con voce acuta gli fa eco, riprende il racconto.

A Khan Yanus, poco dopo, si sente una nenia dif­fu­sa da un altoparlante. In una stradina, addobbata a drap­pi e festoni, si sta svolgendo una cerimonia funebre per uno di quei combattenti e terroristi che loro chiamano “marti­ri”. La cerimonia, ci spiegano, dura tre giorni, con visite ai parenti, con offerte di cibo e musiche. È l’antica cerimonia funebre mediterranea, quella che Ernesto De Mar­tino ha illustrato in Morte e pianto rituale.

Sono ancora notizie di morte e pianto mentre scri­vo, delle occupazioni delle città palestinesi; di esplosioni di tritolo, di suicidi e stragi in ogni dove. Notizie di an­go­scia. E devo scrivere del nostro viaggio, della breve, fortu­nata sospensione della violenza in cui esso si è svolto. Ma il ricordo ora si fa confuso, come un sogno di cui al ri­sveglio non ci rimangono che frammenti. Frammenti so­no ora l’incontro a Gerusalemme con David Grossman, la vi­sita alla città vecchia, la processione di padri francescani in una stretta via, la corsa degli ebrei ortodossi, con cap­pel­loni e palandrane neri, verso il Muro del pianto, l’ag­girarci nel quartiere arabo. Frammenti, nella grande hall dell’al­bergo di Tel Aviv, la visione di tenere fanciulle e di giovi­netti vestiti da soldati di Sharon. Ma nitido m’è ri­masto il viso del poeta Aharon, un israeliano dissidente, e il viso del suo figliolo David, disertore dell’esercito. Sono loro due, padre e figlio, che davanti all’albergo, con mesto sor­riso e timido cenno della mano, ci salutano mentre sul pullman ci muoviamo per andare all’aeroporto. Aharon e Da­vid ricordo, e la madre di Ramallah, quella accovacciata a terra, con accanto il suo falcetto e i mazzi di nepitella.


[i] In Viaggio in Palestina, Roma: Nottetempo, 2003, pp. 65-72; «Odis­sea», maggio-giugno 2003. Il racconto è datato in calce: «Milano, 3 apri­le 2002». Una prima versione abbreviata è uscita con il titolo: Fra le ma­cerie dei Territori ho visto dolore, orgoglio, tenacia, «Cor­riere della se­ra», 5 aprile 2002 [occhiello: «Medio Oriente sfida senza fine/ Il viag­gio di uno scrittore»; sottotitolo: «La madre-coraggio con la mentuc­cia, il poeta che fa sognare gli studenti»], subito seguita da quel­la in­tegrale in spagnolo: Las palabras y la tragedia, «El País», 13 aprile 2002; e in francese: Mère courage, in Russell Banks, Breyten Breytenbach, Vincenzo Consolo, Bei Dao, Juan Goytisolo, Chris­tian Salmon & Wole Soyinka, Le voyage en Palestine, Mont­pel­lier: Climats, 2002, pp. 69-77.

La testa tra i ferri della ringhiera

Piazza Vittorio Emanuele *, e come altrimenti?, si chia­mava, e si chiama tuttavia, la piazza principale del mio paese. Si svolgeva, la rettangolare piazza, lungo la stra­da statale che attraversava il paese, la via Medici (ga­ribaldino generale Giacomo Medici del Vascello), partiva dal secentesco castello dei Lanza di Trabia, già degli spa­gnoli Gallego, e finiva con la quinta della palazzina liberty del circolo Dante Alighieri, altrimenti detto circolo dei ci­vili o nobili. Uno di quei circoli siciliani frequentati dai piccoli proprietari terrieri che non lavoravano, campavano di rendita, “ammazzavano” il tempo e la noia con chiac­chiere e gioco delle carte, e l’unico segno che lasciavano del loro passaggio su questa terra era un fosso nella pol­tro­na del circolo, come dice Brancati. Era bordata, la piaz­za, di alti, possenti platani e corredata di sedili di pietra. Il fondale, lungo il rettangolo della piazza, era formato da bei palazzotti ottocenteschi di uno, due piani, separati, uno dall’altro, da stradine acciottolate che in precipitosa discesa finivano nel quartiere dei pescatori, davanti alla spiag­gia, al mare. Al di qua della via Medici, di fronte alla piazza, era l’altra fila di case: il Municipio, i palazzotti de­gli Zito, dei Bordonaro, dei Cupitò… Fra queste case era anche la mia, con i balconi che s’affacciavano sulla piazza. Al piano terra c’era il tabacchino delle signorine Mòllica – una di esse era la mia maestra – tabacchino ceduto poi al signor Calcaterra, e c’era la bottega del sarto Befumo.

Al piano terra del palazzo che stava di fronte alla mia casa, di là della piazza, era la sede del Fascio. Ho visto al­lora, da uno dei balconi di casa mia, la testa infilata tra i ferri della ringhiera, adunate e parate che si svolgevano davanti a quella sede, in piazza. Ed erano i civili del cir­colo, con figli e campieri, tutti in divisa, che formavano il cor­po di quelle parate. Ho sentito, dagli altoparlanti appe­si sull’arco della porta di quella sede, i discorsi di Musso­lini. Ho sentito la dichiarazione di guerra del giugno del ‘40. “Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie ne­re della rivoluzione e delle legioni!” sbraitava il Mascel­lone “…Ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria…”

Il destino, sì, di milioni di morti, di sterminati pae­saggi di rovine che la dichiarazione di guerra di quel cri­minale avrebbe provocato. “Incoscienti, mascalzoni!” dice­va mio padre guardando giù la folla che applaudiva, mio padre, che la guerra l’aveva già fatta, la Prima mondiale, in trincea, sul Carso. E questa Seconda toccò poi al mio fra­tello maggiore, chiamato alle armi e mandato in Lom­bardia, a Sesto Calende.

Vidi poi le colonne dei tedeschi passare per quella via Medici. E una colonna un giorno si fermò, sostò su quella piazza Vittorio Emanuele per il rancio dei soldati. Mangiavano lardi e cotiche infilate dentro fettoni di pane nero. Arrivò allora sulla piazza, venendo dal suo palazzo di fronte al castello, la baronessa F., seguita da una schiera di servi che reggevano cestoni di mandarini e arance, che depositarono là al centro della piazza. Un ufficiale tedesco allora s’appressò alla baronessa e non finiva più di inchi­nar­si, le baciò poi la mano nel salutarla. Si disse poi in pae­se che il maggiore tedesco aveva parlato in un bell’ita­liano con la baronessa, le aveva detto: “Madonna, il dono vostro sì dolce e sì gentile colma d’allegranza lo core de’ guerrieri .,.”

E poi via, via in campagna da quella casa e da quel­la piazza per i cannoneggiamenti dal mare, i mitraglia­men­ti e i bombardamenti dal cielo. Poi, arrivati gli ame­ricani, tornati in paese, vidi quella via Medici, quella piaz­za Vittorio Emanuele ammantate di macerie, piene di fili della luce elettrica.

E di mio fratello, soldato in Continente, più nessuna notizia, da mesi, con mia madre che piangeva, smaniava. Vidi poi dal balcone passare per la via schiere e schiere di soldati italiani laceri, sfiniti, che chissà da quali lontananze a piedi tornavano alle loro case. Io scendevo in strada e chie­devo a uno, a un altro: “Avete per caso incontrato un soldato che si chiama Consolo?” E quelli mi guardavano, sorridevano mestamente e tiravano avanti. Ma un giorno, partendo da Roma, dove s’era rifugiato, intruppato in quel­la schiera di reduci disfatti, arrivò a casa anche mio fratello.

Vidi poi passare per la via Medici colonne e colonne d’inglesi e di americani, vidi per la prima volta su quei ca­mion, blindati e anfibi i primi soldati neri e signorine con l’elmetto da cui veniva giù una cascata di biondissimi ca­pelli.

E sentii quindi, dopo qualche anno, in quella piazza Vittorio Emanuele, i primi comizi per le elezioni regionali. Sentii il comunista del paese Peppino Vasi, ch’era stato sot­to il fascismo mandato al confino nelle Eolie (in villeg­gia­tura, dice oggi Berlusconi), denunziare le malefatte dell’ul­timo podestà e dei suoi scherani, inveire contro quei fascisti parassiti del circolo Dante Alighieri (il cameriere, a quelle parole, ritirò le poltrone dalla piazza e chiuse porte e finestre del circolo). E sentii ancora Nenni e Girolamo Li Causi, il separatista Finocchiaro Aprile, che ebbe un vigo­roso contraddittorio da parte del giovane avvocato Gino Fresina, che era stato tra i partigiani in Piemonte.

Il socialista Achille Befumo, che aveva la sartoria sot­to casa mia, litigava con Peppino Vasi e sosteneva che Nen­ni era più bravo a parlare di Li Causi. “Questo Li Cau­si che fa comizi in siciliano…” diceva. “Ma non lo sa l’ita­liano?” E il Vasi ghignava, ghignava.

I democristiani, quelli, gli Aldisio, gli Alessi, e i “mi­crofoni di Dio”, padre Lombardi e frate Alessandrini, comiziavano invece nella piazza della Matrice, dai balconi dell’Istituto Maria Ausiliatrice delle suore salesiane.

Ma dal balcone mio sulla piazza Vittorio Emanuele io vidi altro, vidi scioperi dei braccianti e il corteo di pro­testa per la strage di Portella della Ginestra…

Vidi e vidi, da quel mio balcone, in quel lontano tem­po della mia infanzia e della mia adolescenza. E dico og­gi che la grande storia, la Storia, passa anche, spesso, dai luoghi più ignoti, può mostrare la sua faccia anche in un piccolo spazio, quale può essere la piazzetta di uno sper­duto paesino, può essere osservata dagli occhi ancora limpidi di un fanciullo ed imprimersi indelebilmente nella sua memoria. E può essere, la storia, da quel fanciullo di­ve­nuto adulto, anche narrata. Non nel modo scientifico de­gli storici di professione, ma in tutt’altro modo.


  • La piazza dal 2015 è intitolata a Vincenzo Consolo
    [i] «La Sicilia», 29 dicembre 2003, «Milano, 13 dicembre 2003/ © Consolo· La Sicilia».

La biblioteca è il luogo dell’incontro

La biblioteca è il luogo dell’incontro, la parola e poi la vita.
Ecco, la vita è il libro. Tu non riesci a leggere il mondo se non leggi il libro;
puoi leggere il mondo attraverso il libro, questo è il senso.
Però il libro è anche il contrario del libro: c’è il falso libro, il libro retorico
e inutile; c’è poi il libro vero, il grande libro che ti fa leggere la vita,
il mondo e la società.
Parlo di Dante, Shakespeare, Tolstoj, Dostoevskij, Stendhal, Proust , Flaubert, Manzoni, Verga, Pirandello …

appunti dall’agenda del 22 aprile 2003
Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo, Cochlias Legere

Nello spirito informale di questo convegno preferisco esprimere pensieri “spettinati”, come diceva il polacco Stanislaw Jerzy Lec. Le mie esperienze di letture infantili sono state profondamente diverse da quelle ricordate da alcuni dei relatori di oggi. Non ho avuto l’opportunità di incontrare personaggi straordinari, professori, scrittori nell’estrema provincia siciliana in cui sono cresciuto. Sono vissuto nel vuoto, in una solitudine assoluta sino a un’età matura. Nessuno, durante l’infanzia, mi ha letto I promessi sposi e tanto meno La Divina Commedia. Anzi, mio padre, che era un piccolo borghese commerciante con otto figli, e con l’assillo di mantenerli decorosamente, non concepiva proprio che al mondo ci fossero dei libri. Io dormivo in una stanza accanto a quella dei miei genitori, la sera da ragazzino, leggevo con un’abat-jour accesa fino ad ora tarda, clandestinamente. Mio padre vedeva filtrare la luce sotto la porta della sua stanza, allora si alzava e veniva a spegnerla. Non lo faceva per avarizia, ho capito solo dopo che questo bambino che leggeva era per lui motivo di inquietudine. Vedeva in me un deviante, probabilmente si chiedeva «ma questo chi è? di che razza è uno che legge?». Naturalmente mi voleva uomo pratico, commerciante come lui, o magari piccolo industriale, perché l’ambizione del mio clan – la famiglia Consolo era una sorta di clan – era quella di diventare piccoli industriali dell’olio. Quindi questo ragazzino che leggeva libri di letteratura appariva anomalo, diverso dai fratelli più grandi. In casa non avevamo una biblioteca, c’erano solo i libri di scuola delle mie sorelle e dei miei fratelli, neanche in paese c’era una biblioteca pubblica, e i preti, presso i quali studiavo, conservavano solo opere rare, libri ecclesiastici, vite di santi.,. La mia grande voglia di sapere, di conoscere, di leggere restava immancabilmente inappagata. Avevo sviluppato, in quegli anni, una sorta di ossessione per la lettura, che sola mi avrebbe permesso di conoscere il mondo, di sapere chi ero, da dove venivo, dove volevo andare. Mi venne in soccorso un cugino di mio padre che viveva davanti a casa nostra: don Peppino Consolo, proprietario terriero e originale figura di scapolo, forse un po’ folle, Possedeva una grande biblioteca, molto partigiana. Tolstojano e vittorhughiano, aveva libri fondamentali, come Guerra e pace, I miserabili. Quando capì che questo ragazzino era un deviante, mi chiamò, dicendomi: «Vincenzino, vieni qua ho dei libri, se tu vuoi leggere». Allora io presi l’abitudine di attraversare la strada e di andare da lui. Mai mi diede un libro in prestito, mi faceva leggere solo a casa sua, in cucina, su un tavolo di marmo: questo fu il mio impatto con il mondo dei libri (non prendo in considerazione quelli di scuola che, oltre ad essere noiosissimi, erano contrassegnati dal marchio della dittatura fascista). Il primo che lessi fu I miserabili, mi sconvolse la vita, mi aprì straordinari. orizzonti. Don Peppino Consolo, ripeteva spesso «Victor Hugo, non c’è che lui!». La seconda biblioteca in cui mi sono imbattuto, all’epoca delle scuole medie – gli americani erano già arrivati – è stata la biblioteca del padre di un mio compagno che si chiamava Costantino. Era il figlio dell’ultimo podestà del mio paese, diventato, ovviamente, sindaco democristiano. Io andavo a casa sua a fare i compiti, cioè ero io a fare i compiti a Costantino. Nello studio con le poltrone di pelle, suo padre aveva una biblioteca ricchissima, i libri erano tutti rilegati. Costantino, di nascosto, in cambio dei compiti che io facevo per lui, me li prestava. Lessi dei libri importanti che a quell’età, undici, dodici anni, non riuscivo a capire nella loro profonda verità, nella loro bellezza. Quei libri mi sono serviti moltissimo, per il mio nutrimento adolescenziale e per diventare un uomo con un’ossatura abbastanza accettabile, per non restare gracile. Quando in età adolescenziale ci si imbatte in libri importanti come Guerra e pace, La Certosa di Parma di Stendhal, Shakespeare, Don Chisciotte, anche se non si coglie il loro significato profondo, li si attraversa come quando da giovane si attraversa un bosco e senza rendersene conto si incamera l’ossigeno che serve per la costruzione dello spirito e del corpo. Quindi, in qualsiasi modo la lettura dei libri importanti, di quelli che si chiamano classici. in ogni caso e a qualsiasi età può servire per formare la struttura del pensare. Leggere e scrivere sono per me elementi inscindibili, e in parte sono la stessa cosa. Credo che derivino dalla consapevolezza o dalla sensazione che noi uomini siamo persone fragili, finite, esposte a qualsiasi tipo di insulto e qualsiasi tipo di offesa. Io credo che da questa stessa debolezza e impotenza sia nato il bisogno del metafisico, siano nate 1e religioni. Forse sarò blasfemo, ma credo che le religioni scaturiscano da questa esigenza che ci sia altro, al di là di noi che possa soccorrerci, da qui nasce anche quella che Leopardi chiama <<da confederazione degli uomini fra di loro», perché proprio a causa di questa fragilità l’uomo sente il bisogno di mettersi insieme e darsi delle regole per un reciproco aiuto. La stessa esigenza genera le società, la storia, la letteratura. I grandi scrittori sono i teologi che hanno elaborato per noi il sistema religioso della letteratura. Perché la letteratura è una religione, l’ho sentito e capito da adolescente, raggiungendo uno stato febbrile di piacere della lettura, di incandescenza dello spirito, paragonabile all’estasi dei santi. La lettura di quegli anni felici era assolutamente gratuita e disinteressata, disordinata, caotica, poteva capitare il capolavoro come il libraccio orrendo e sbagliato. Ma anche il libro peggiore, non quello falso ma quello mancato, serviva. In quell’età irripetibile dell’adolescenza, nessuno può consigliarti cosa devi leggere, è uno stato di assoluta libertà. Virginia Woolf ha detto: <<l’unico consiglio che si può dare ad un giovane lettore è quello di non accettare nessun consiglio». Ma il tempo della lettura disinteressata e gratuita, come diceva Pavese «della libera fame», si riduce sempre di più, soprattutto per noi che abbiamo scelto il mestiere di scrivere. Siamo obbligati a letture che chiamiamo professionali, fatte con razionalità, consapevolezza, funzionali al lavoro. Certo ci sono anche le riletture, grazie alle quali scopri delle cose che ti erano sfuggite: attraversare per la seconda volta La ricerca del tempo perduto, Don Chisciotte, Shakespeare, sono esperienze straordinarie che, in età matura, nell’età della consapevolezza, nell’età del lavoro, danno un’altra felicità, diversa da quella adolescenziale, assolutamente inconsapevole, gratuita, anarchica e libera. Del resto, si parte quasi sempre dai libri per scrivere un altro libro, che si configura come una sorta di palinsesto costruito sull’esperienza di altri libri. Pensiamo al Don Chisciotte, il più grande libro della letteratura occidentale: tutto comincia con la lettura dei libri di cavalleria per cui don Chisciotte impazzisce, diventa quell’hildalgo dalla trista figura che noi conosciamo. C’è un episodio chiave, a proposito di libri; al ritorno di don Chisciotte dal primo viaggio, la nipote e la governante cercano di eliminare tutti i libri rischiosi e pericolosi che 1o avevano indotto a credere di essere un cavaliere. Come Minosse, le due donne destinano questi libri al Paradiso, al Purgatorio o all’Inferno. Alcuni infatti vengono salvati, altri vengono tenuti in sospeso, quelli condannati, vengono subito eliminati e buttati via. Un criterio di ripartizione molto saggio, a mio avviso. Tutti abbiamo avuto i nostri libri dell’inferno, nel senso dell’erotismo, dell’enfer francese, i libri dannati, da eliminare, da bruciare. Anche se i libri non si dovrebbero mai bruciare, purtroppo oggi il loro livello si abbassa sempre di più, in quest’epoca della visualità in cui si tende ad intrattenere piuttosto che a far capire che cosa è la bellezza della poesia, la bellezza della parola scritta. A ragione Aldo Bruno ha parlato di libri da supermarket, che ci vengono propinati dall’industria editoriale le cui scelte sono sempre di più all’insegna del profitto e non della qualità. Ho dedicato al tema dei libri utili e dei libri inutili, alcune pagine di un mio romanzo, che io chiamo narrazione, nel senso in cui la intende Walter Benjamin. Credo che il romanzo oggi non sia più praticabile, perché non è più possibile fare appello a quello che Nietzsche, a proposito della tragedia greca, chiama lo spirito socratico. Lo spirito socratico è il ragionamento, la riflessione sull’azione scenica. Parlando del passaggio dalla tragedia antica alla tragedia moderna, dalla tragedia di Sofocle e di Eschilo a quella di Euripide, Nietzsche sostiene appunto che in quella di Euripide c’è l’irruzione dello spirito socratico, cioè l’irruzione del ragionamento e della filosofia. Nel romanzo tradizionale settecentesco-ottocentesco l’autore usava interrompere il racconto con le sue riflessioni. Pensiamo alle celebri riflessioni manzoniane sull’azione scenica. Io credo che oggi questa riflessione non si possa più fare, lo spirito socratico non può più esserci nelle creazioni moderne perché l’autore non sa più a chi rivolgersi in questa nostra società di massa. Ho teorizzato perciò lo spostamento della narrazione verso la forma della poesia; la narrazione non è più un dialogo ma diventa un monologo, con l’aspetto formale di un’organizzazione metrica della prosa. La pagina che vi propongo è tratta dal mio romanzo che si chiama Nottetempo, casa per casa, dove narro dell’imbattersi in libri inutili, in libri fasulli e di un’erudizione che non appartiene alla cultura, non appartiene alla letteratura e che forma quella che è La zavorra del sapere, a volte l’errore del sapere. Il protagonista è un giovane intellettuale socialista, nel periodo de1’avvento del fascismo, che per il suo impegno politico, sarà costretto ad andare in esilio in Tunisia. Il suo antagonista è un barone decadente dannunziano che, nella ricca biblioteca di famiglia, cerca insistentemente un libro sui mormoni che non trova e allora dice:
Erano primieramente libri ecclesiali, per i tanti monaci, parroci, arcipreti, canonici, ciantri, provinciali, vescovi dentro nel suo casato, dalla parte dei Merlo e dei Cìcio. Erano controversie storiche, teologiche, vite di santi, di  missionari martiri, dissertazioni, apologie, come ad esempio, e solo fra quei in volgare, Delle azioni eroiche, virtù ammirabili, vita, morte e miracoli del B, Agostino Novello Terminese capi dieci, Apologia dell’Accademico Tenebroso fra i Zelanti intorno alla nascita di santa Venera in Jaci contro gli argomenti del p. Giovanni Fiore, L’ardenza e tenacità dell’impegno di Palermo per contendere a Catania la gloria di aver dato alla luce la regina delle vergini e martiri siciliane S.Agata, dimostrate nell’intutto vane ed insussistenti in vigor degli stessi principi e dottrine de’ Palermitani scrittori.

Il barone tirava fuori dagli scaffali i volumi con disgusto, 1l fazzoletto al naso per la polvere che s’alzava da quelle carte. E c’era poi tutto quanto riguardava Cefalù, il suo Circondario, da Gibilmanna a Gratteri, a Castelbuono, a Collesano, fino a Làscari, a Campo Felice, a Pòllina… E copia del Rollus rubeus dei diplomi del Re Ruggero, degli atti del processo al vescovo Arduino, le storie di Cefalù del Passafiume, dell’Aurìa, del Pietraganzili… Libri di scienza come la Flora palermitana, la Stoia naturale delle Madonie, I Catalogo ornitologico del Gruppo di Malta, il Catalogo dei molluschi terrestri e fluviali delle Madonie e luoghi adiacenti, il Catalogo dei Crostacei del Porto di Messina, il Trattato sui novelli pianeti telescopici… E ancora le istruzioni per adoperare gli specchi inclinati, i rimedi contro la malsanìa dell’aria, la memoria intorno ai gas delle miniere di zolfo… Che puzza, che polvere, che vecchiume! Ne avrebbe volentieri fatto un grande fuoco don Nené, per liberare, ripulire, disinfestar la casa. E pensò ad altre case del paese in cui v’erano simili libri. Alle antiche case di tutta la mastra nobile, da la guerra fino ad oggi serrate, fredde come tombe, abitate da mummie, da ombre, da cucchi spaventati dalla maramaglia dei reduci, dei villani, che di questi tempi s’eran fatti avversi, minaccianti. Pensò alla casa del Bastardo con tutti quei libri i, ogni stanza, di filosofia, di politica, di poesia, alla villa a Santa Barbara che lo zio don Michele, un pazzo! aveva lasciato a quel Marano, al figlio della gna Sara. Pensò ai gran, palazzi di Palermo, alle canoniche, ai monasteri, ai reclusori, agli oratori, ai conventi. Pensò a Monreale, a San Martino delle scale, all’Arcivescovado, allo Steri, all’Archivio Comunale, ad ogni luogo con cameroni, studi, corridoi, anditi tappezzati di stipi traballanti, scaffali di pergamene scure, raggrinzite, di rìsime disciolte, di carte stanche, fiorite di cancri funghi muffe, vergate di lettere sillabe parole decadute, dissolte in nerofumo cenere pulviscolo, agli ipogei, alle cripte, alle gallerie sotterranee, ai dammusi murati, alle catacombe di libri imbalsamati, agli ossari, allo scuro regno r6so, all’ imperio ascoso dei sorci, delle càmole dei tarli degli argentei pesci nel mar del1e pagine dei dorsi dei frontespizi dei risguardi. E ancora alle epoche remote, ai luoghi più profondi e obliati, ai libri sepolti, ai rotoli persi sotto macerie, frane, cretti di fango lave sale, aggrumati, pietrificati sotto dune, interminate sabbie di deserti. Oh l’incubo, l’asfissia! Dalla sorda e inarrestabile pressura di volumi inutili o estinti, dai cumuli immensi di parole vane e spente sarà schiacciato il mondo, nell’eloquio demente d’una gran Babele si dissolverà, disperderà nell’universo. Per fortuna, don Nené aveva come antidoto, contrasto, il suo segreto enfer, aveva per sollazzo il suo Micio Tempio, e aveva soprattutto, per nutrimento d’anima, di vita, il suo D’Annunzio.

E dove siete, o fiori

strani, o profumi nuovi?

Don Nenè, l’eccentrico pazzo tolstojano – ecco il cugino di mio padre che ritorna
nella narrazione – lascerà in eredità la sua preziosa biblioteca a Pietro Marano, il protagonista, figlio di contadini. Il ragazzo attingerà a questi libri, realizzando la sua educazione sentimentale: <<E i libri, tutti quei libri in ogni stanza lasciati dal padrone don Michele, ‘Vittor Ugo”, diceva ‘Vittor Ugo…” e “Gian Valgiàn, Cosetta…” “Tolstòi” e ‘Natascia, Anna, Katiuscia…”, e narrava, narrava le vicende, nell’inverno, torno alla conca con la carbonella. Narrava ancora di fra Cristoforo, Lucia, don Rodrigo… dei Beati Paoli, Fioravanti e Rizziere, Bovo d’Antona…>> (ecco che ritorna il nostro Manzoni). Ci si può imbattete talvolta nei falsi libri, nei libri ammuffiti, pietrificati, che non significano nulla ma si può avere la fortuna, di incontrare, di attraversare i libri che Harold Bloom chiama canonici. Certo si leggono i libri per la trama, per quello che rappresentano; si legge Stendhal per la passione d’amore, per la sua visione di energia del mondo; si legge Proust per la rappresentazione di un mondo che stava declinando; si legge Kafka per quanto Kafka abbia di profetico, di entusiastico. L’entusiasmo viene da en-theòs, si dice quando si è posseduti dal Dio e molto spesso gli scrittoti sono entusiasti, sono quelli che riescono attraverso la metafora ad essere profetici. A proposito, io ho capito il senso della parola metafora una volta, mentre mi trovavo  ad Atene, invitato dall’Istituto Italiano di Cultura, e mi sono visto sfilare davanti agli occhi un camion su cui c’era scritto netaforòi, cioè trasporti! I libri che hanno questa vita – Vittorini diceva che sono libri arteriosi -, che hanno la forza della metafora, riescono ad essere profetici perché con il passare degli anni diventano veramente interpreti del tempo che stiamo vivendo. Don Chisciotte o I promessi sposi, o le opere di Pirandello diventano sempre più attuali in quest’epoca in cui stiamo smarrendo la memoria, l’identità, in cui il potere ci costringe a vivere in un infinito presente, privandoci della conoscenza dell’immediato passato, impedendoci di immaginare l’immediato futuro. Ho intitolato questo mio intervento Cochlias legere, in antico si diceva questo quando si andava per i lidi a raccogliere le conchiglie come un gioco dilettoso. Io credo che la parola “leggere” significhi andare dentro i libri per raccogliere conoscenza, raccogliere raccogliere, sapienza, bel1ezza, poesia; noi leggiamo queste chiocciole che raccogiamo sulla spiaggia, che ci portano dentro il labirinto dell’umanità., dentro il labirinto della storia, dentro il labirinto dell’esistenza. Capire questo significa esorcizzare la nostra consapevolezza della finitezza, la nostra paura, perché io credo che le aggregazioni umane, le società, nascano proprio da questi sentimenti di insicurezza, dalla debolezza della nostra condizione umana. La lettura dei classici ci conforta, ci arricchisce, ci apre nuovi orizzonti. Oggi, in questa epoca della visualità, sembra che i libri non siano più tanto praticati, soprattutto in questo nostro paese che ha avuto una storia particolate. II nostro è un paese culturalmente terremotato che ha avuto una storia diversa da ogni altro paese europeo. La nostra cultura era una cultura in cui affluenti venivano da una cultura alta e da una cultura popolare. L’incrocio di questi due affluenti formava quella che era la cultura tout court. La trasformazione radicale, profonda e veloce del nostro paese – Pasolini ce l’ha spiegato a chiare lettere – da plurimillenario contadino a paese industriale, lo spostamento di masse di persone dal meridione ai settentrione, verso le zone industriali, ha generato uno sconvolgimento culturale: la cultura popolare è stata cancellata: nessuna nostalgia, ma era comunque una ricchezza. Il mondo contadino era un mondo di pena, di sofferenza, di ignoranza, però la cultura popolare era una vera cultura. Poi c’era la cultura alta. Oggi viviamo una cultura media che è stata sicuramente appiattita dall’ossessione per la comunicazione, per la velocità. Io credo che oggi i classici, da Cervantes a Shakespeare a Dante, siano veramente, come dire, i segni, i monumenti di una gande civiltà che nel nostro contesto, nel contesto occidentale è al tramonto. Non sappiamo cosa avverrà dopo questa nostra epoca. Bill Gates ha profetizzato già che il libro sparirà e questo mi ricorda una frase di Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, che riguardava l’invenzione della stampa: «ceci tuera cela», questo ucciderà quello, cioè il libro avrebbe ucciso l’architettura. Questo non è avvenuto,
 l’ architettura ha continuato ad essere insieme al libro, una delle grandi espressioni umane dell’arte; ma oggi con la comunicazione assoluta, con i mezzi di informazione di massa (internet, televisione) non so quello che avverrà, se la tecnologia, l’elettronica uccideranno il libro, la carta stampata. Ci auguriamo che questo non avvenga e che ci saranno ancora, come diceva Stendhal, «i felici pochi» che possano attingere a questi monumenti dell’umanità che sono i libri di letteratura e la poesia, i romanzi, il teatro. Speriamo che le nuove generazioni, voi, possiate continuare, come i monaci del medioevo, a trascrivete i codici importanti della nostra cultura, della nostra civiltà, del nostro sapere e della nostra poesia.

estratto da Sincronie VII,13
Rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero
Vecchiarelli Editore 2003




Roma 18/2/2003
Università Tor Vergata

La Sicilia di Vincenzo Consolo

di Valentina Pinello

Di Vincenzo Consolo si sente già la mancanza. Era una presenza, un punto di riferimento, un’intelligenza sulla quale poter contare per avere una riflessione lucida e illuminante su quello che sta succedendo nel nostro paese e nella sua Sicilia. Da Milano scrutava, studiava, rifletteva e, solo quando aveva qualcosa da voler comunicare, parlava o scriveva. Non è mai stato uno scrittore prolifico, tra “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e “Retablo” sono passati dieci anni. La Sicilia era il suo chiodo fisso anche se aveva deciso di lasciarla, come racconta in un’intervista inedita, che adesso vogliamo riproporvi, di qualche anno fa, ma di estrema attualità perché, come diceva Consolo, «c’è un impegno morale nel rappresentare il nostro tempo da parte dello scrittore; anche se scrive libri di storia, non deve essere la storia romanzata, deve essere una storia metaforica come ci ha insegnato Manzoni, cioè si parla del passato per rappresentare la nostra contemporaneità».

A distanza di una settimana dalla sua morte, ci manca il suo modo di saper cogliere e raccontare la realtà, avremmo voluto chiedere il suo punto di vista su tanti temi di estrema attualità, dal movimento dei Forconi che agita da settimane la Sicilia fino all’immigrazione, al quale è stato sempre particolarmente sensibile. Alcune di queste domande trovano una risposta in quell’utile, unica e senza tempo chiacchierata di qualche anno fa, nella sua casa siciliana a Sant’Agata di Militello, di fronte alle Isole Eolie.

LA SICILIA DI VINCENZO CONSOLO.
INTERVISTA  ALLO SCRITTORE DEL “SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO”  

Trascorrere un paio d’ore conversando con Vincenzo Consolo è stato come aver riletto pagine significative di storia e di letteratura della Sicilia e averle fatte proprie. Il suo modo di parlare con semplicità di fatti non sempre comprensibili ai non siciliani,, denota una linearità di pensiero che solo un attento conoscitore di quell’Isola può possedere. Ascoltarlo provoca un piacere diverso rispetto a leggere i suoi libri, noti invece per una prosa ricercata, non di immediata comprensione, anche se musicale, intessuta di riferimenti linguistici che derivano radici culturali della terra siciliana.

Consolo vive a Milano da più di trent’anni, ma torna spesso a Sant’Agata di Militello, suo paese d’origine, dove l’abbiamo incontrato.

«Ormai siamo diventati degli Ulissidi, espropriati della nostra identità e alla ricerca della nostra Itaca. Quando torniamo però Itaca non c’è più; la patria è ormai diventato un luogo interiore .Vedendo la realtà siciliana fatta di ingiustizie ho deciso di spostarmi a Milano, patria di Beccaria. Qui da noi il diritto si trasforma in favore che ti lega ad una persona, in alcuni casi,  anche per tutta la vita. Sono andato via per questo. Lo sradicamento (solamente fisico, le mie memorie sono qui) è doloroso, però alla fine necessario. Non è facile ricostruire legami in luoghi che non sono i tuoi. Ma  stando qui si fa un danno a se stessi. Bisogna però tornare e quando si torna si è più forti, forse anche meno vulnerabili, o meglio, meno ‘ricattabili’».

“Sciascia è lo scrittore che è perché è nato a Racalmuto”, si legge in uno dei suoi saggi; e anche per quanto riguarda Pirandello lei sottolinea la sua provenienza dalla provincia di Agrigento, una zona ricca di miniere di zolfo. La vita delle miniere entra in molti romanzi siciliani, a tal punto che si parla di una “letteratura dello zolfo”. Dopo questa premessa, com’è stato influenzato lei dalle sue zone d’origine, sempre presenti nei suoi romanzi?

«Tutta una serie di scrittori di cui io parlo sono stati influenzati dalla condizione delle zolfare, in cui esisteva un rapporto di assoggettamento totale dell’operaio al padrone. La realtà delle zolfare poggiava principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso.  Dalla condizione di carusi, sfruttati come servi  della gleba, era quasi impossibile riscattarsi. Col tempo però questi  presero coscienza della loro condizione e dal mondo delle zolfare si sollevarono le prime proteste operaie. La prima riunione di sindacati (allora si chiamavano Società di Mutuo Soccorso) avvenne a Grotte. Per l’occasione vennero gli operai del nord a portare la loro solidarietà, come oggi avviene per gli operai della Fiat di Termini Imerese.

Nella Sicilia occidentale è nata una letteratura diversa rispetto a quella orientale. Così Pirandello parla del mondo delle zolfare e dei primi scioperi (ne “I vecchi e i giovani”); ma non è l’unico. Altri esempi sono Alessio Di Giovanni in “Gabrieli lu carusu” o Angelo Petix, nel dopoguerra, in “La miniera occupata”. Anche Verga ne parla, in “Dal tuo al mio”o in “Rosso Malpelo”; ma lo scrittore catanese non è un uomo di zolfo e per lui la lotta di classe non serve a niente. Verga parla piuttosto di una metafisica della roba e la sua è una concezione conservatrice.

In scrittori della parte orientale della Sicilia, anche se di forte impegno civile, mi riferisco a Brancati o a Vittorini, è invece più marcata la propensione ad una scrittura lirica (vedi “Conversazione in Sicilia”).

Arrivando a me: quando ho deciso di intraprendere questa strada, provenendo da un paese intermedio tra queste due realtà da me descritte seguendo una sorta di geografia ideale, ho dovuto decidere da che parte stare. Nella mia zona, quella di Sant’Agata di Militello, non c’è stato il problema del latifondo, della distruzione della natura; c’era la piccola proprietà terriera, ma non ci sono mai stati grandi scontri sociali. Per me si pose quindi il problema se rimanere chiuso in quest’ambito, sviluppando temi di tipo esistenziale, oppure avvicinarmi alle zone di Messina o Catania, oppure ancora spostarmi verso le zone occidentali. Bene, alla fine ho concepito una sorta di ibrido, una ‘chimera’ , tra mondo occidentale, di impegno civile, e mondo orientale, lirico».

Al di là dei suoi orientamenti stilistici, di quale Sicilia ama parlare?

«Si ha della Sicilia un’immagine eccessivamente colorata, nel senso più negativo. Un po’ come avviene per il sud America: del Brasile, per esempio, si parla per il Carnevale di Rio e si rischia di non andare oltre. La Sicilia vera, quella di cui mi piace parlare, è quella dell’uomo che ha cercato di riscattarsi, di ritrovare la sua identità. Niente colorismo alla Camilleri! Rischiamo di farci espropriare del nostro patrimonio umano. L’identità non deve però essere compiacenza di sé, ma comprensione dell’altro partendo da una migliore conoscenza di noi stessi».

Al tema dello scontro tra civiltà, non pensa che la storia della Sicilia abbia dato una risposta, intessuta com’è di cultura e di tradizioni arabe? Basti pensare alle tecniche per la coltivazione degli agrumi o ai sistemi di pesca del tonno.

«Chi solleva lo scontro di civiltà mostra ignoranza e malafede. Confondere l’integralismo islamico con la religione islamica è lo stesso di confondere il Cristianesimo con l’Inquisizione e l’Autodafè. Parlare di crisi dell’Islam significa alimentare razzismi e xenofobie. Sciascia, citando Amari, “Storia dei musulmani in Sicilia”, dice che la storia della nostra isola inizia con l’arrivo degli arabi musulmani, nell’827; da lì è iniziato un risveglio culturale, economico e artistico. Non si può cancellare questa storia. I normanni, intelligentemente, non hanno cancellato questa dominazione. Nel periodo normanno a Palermo c’erano ancora numerose moschee , oltre che sinagoghe e chiese cristiane, e un riconoscimento reciproco. Con gli spagnoli è venuta meno questa pacifica convivenza.

Nel corso degli anni ci sono stati degli intellettuali che hanno cercato di creare dei fossati di odio e di vendetta; la Fallaci appartiene a questa schiera e purtroppo interpreta il pensiero di molti».

Nella Sicilia attuale, dei condoni edilizi, delle case costruite sulla Valle dei Templi, del clientelismo, delle coste sempre più deturpate dal cemento (da cui anche i tonni sono scappati!), pensa che “l’olivastro”, il selvatico, abbia completamente asfissiato “l’olivo”, usando la distinzione presente nel suo libro, “L’olivo e l’olivastro”, appunto.

«Credo di sì. Ho paragonato Falcone e Borsellino a persone che hanno cercato di disboscare, con l’ascia della legge, il selvatico. Ma sono stati uccisi. A Palermo si è diffuso un clima di assoluto fastidio verso i magistrati. Si è passati dall’indignazione degli anni di Falcone, alla dimenticanza. E’ un brutto segno quando in una società non si riconosce l’importanza della magistratura e quando non si riconosce l’indipendenza dell’Antimafia».

Valentina Pinello
15 gennaio 2012 pubblicata su Golem

Foto di Giovanna Borgese

La Lingua della scrittura a Vincenzo Consolo

a cura di Annagrazia D’Oria

La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria.
Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?

In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.

C’è una soluzione per continuare a scrivere?

Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”.

Che cosa intende per “spirito socratico”?

Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.

  Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.

Parlaci di Catarsi…

E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o  suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.

Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza…
Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.

Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente…
Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.

C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”

, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.

E la Sicilia di Pirandello?

Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono.
Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera…
E negli altri scrittori siciliani?

La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di

Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).

E Sciascia?

Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al  potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non  vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?

Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.

Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.

Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale.
Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo..
Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.

Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione.
E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso.
Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.

Vincenzo Consolo

Prologo

Un velo d’illusione, di pietà,
come il sipario del teatro,
come ogni schermo, ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia è la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola scritta e pronunciata.’
Al di là è la musica. E al di là è il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là è il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; è il dolore nero,
 senza scampo, l’abisso smisurato;
 è l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
 gli estremi: le forze naturali
 il deserto di ceneri, di lave
 e la parola che squarcia ogni velame,
 valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
 vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles
malinconico e ribelle d’Agrigento,
 ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
 per la dura sordità del mondo,
 la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
 e di Memoria, alle Muse trapassate,
 chiediamo aiuto a tanti, a molti,
 poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
 necessaria più che mai la catarsi.
Tremende sono le colpe nostre
 e il rimorso è un segno oscuro
 o chiaro che in questa notte spessa
 tutto non è perduto ancora.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse Pasolini,
 il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva.
Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone,
 la chiara nudità, il gesto largo,
che tutto l’aere abbraccia,  l’armonia,
del soave mimo, del santo mattaccino.

1 Pasolini, Affabulazione
da Catarsi in Oratorio, 2002

Isole Dolci Del Dio.

Vincenzo Consolo


Isola è termine d’ogni viaggio, meta della grande
via per cui ha navigato la civiltà dell’uomo. E anelito e
approdo, l’isola, remissione d’ogni incertezza, ansia,
superamento, scoperta, inizio della conoscenza, progetto
della storia, disegno della convivenza.
Ma isola è anche sosta breve, attesa, pausa in cui rinasce la fantasia dell’ignoto,
il bisogno di varcare il limite, sondare nuovi mondi.
E metafora di questo nostro mondo: scoglio nella vastità del mare, granello nell’infinito spazio;
grembo materno, schermo, siepe oltre la quale si fingono <<interminati spazi e sovrumani silenzi>>. In isole e per isole si svolse la prima e più fascinosa avventura,
il primo poetico viaggio della nostra civiltà.

Per isole di minaccia andò vagando Ulisse, per luoghi di mostruosità e violenza fermi in un tempo precivile; approdò in isole d’incanto e di oblio, di perdita di sé, d’ogni memoria; giunse in isole d’utopia,
di compiuta civiltà. Il regno di Alcinoo nella terra dei Feaci è per Ulisse il luogo di salvezza e insieme di rinascita. Qui, l’ignoto naufrago, rivela il suo nome e narra la sua avventura, opera lo scarto dall’utopia alla storia, dall’idealità alla realtà, dalla dimensione mitica a quella umana.

Dice:

        Itaca è bassa, è l’ultima che in mare
        giace (…)
        rocciosa, aspra, ma buona ad allevare
        giovani forti. Non conosco un’altra
        cosa più dolce della propria terra!
Da isole del mito e insieme della realtà è circondata la più grande isola, la Sicilia,
l’estremo lembo di terra che il furioso Nettuno, lo Scuotiterra, separò con il suo tridente dalla penisola, creando il canale ribollente dello Stretto, dominato, da una parte e dall’altra,
dalle funeste Scilla e Cariddi.

Le Eolie, le Egadi, le Pelagie sono pianeti di quella Trinacria dove, come scrisse Goethe, si sono incrociati tutti i raggi del mondo. Dalla costa tirrenica di Sicilia, si ha davanti dispiegato, fisso e di continuo cangiante, 1o spettacolo delle Eolie. E dal teatro greco sul promontorio del Tindari si gode meglio lo straordinario spettacolo. Per il loro fantasmatico apparire e disparire, per il loro ritrarsi e avanzare, per il mutare loro continuo di forma e di colore, i naviganti preomerici, fenici soprattutto, formidabili esploratori e mercanti, trasferirono quelle isole nella leggenda, nel mito, e le immaginarono vaganti come le Simplegadi,

le chiamarono le Planctai, le chiamarono Eolie, sede dei venti e dominio del re che i venti comanda. Questo mito raccolse Omero – quel flusso di memoria collettiva, quella pluralità di aedi ciechi, che si tramandavano e cantavano le vicende dei loro dei e dei loro eroi, che convenzionalmente chiamiamo Omero – e in questa luce ce le narra per bocca di Ulisse: Quindi all’isola Eolia noi giungemmo dove il figlio d’Ippota, Eolo abitava, caro agli dei immortali: è galleggiante l’isola, un alto muro d’infrangibile bronzo e una roccia liscia la circonda.

In Eolia l’eroe è ospite per un mese e riceve in dono, alla partenza, un otre ben sigillato, che gli stolti compagni aprono liberando i venti dell’atroce tempesta che li allontana dalla patria, allunga il tempo della peregrinazione e dell’espiazione.
E certo che la geografia poetica non corrisponde quasi mai alla geografia reale, ma è certo che quella dell’Odissea si può spesso collocare ad occidente della Grecia, nell’ignoto centro del Mediterraneo, che corrisponde alla geografia siciliana nella etnea terra dei Ciclopi, nello Stretto di Messina,
nella piana di Milazzo, dove pascolano gli armenti

del Sole, in Lipari e nelle Eolie, regno di Eolo .,. Il muro di bronzo che cinge Eolia, la liscia roccia a picco sul mare non può non far pensare alla roccia scoscesa della cittadella di Lipari, alle gran mura megalitiche che la circondano. Perché preomerica, antichissima è la civiltà di Lipari e delle altre isole nell’arcipelago, risale al neolitico, conta cinque millenni di storia. Una storia scritta e leggibile, come su un manuale, nei vari strati archeologici del Castello, della contrada Diana e Pianoconte di Lipari, in contrade di Filicudi, di Panarea, di Salina: un grande archivio, come quello grafico di Ebla,

un grande libro di pietre e di cocci di ceramica, di selci e di ossidiana, di gironi d’inumazione e di urne cinerarie, di sarcofagi fittili e di pietre, di crateri e di statue, di monili e di maschere .,. Fin dalla seconda età della pietra sono state abitate le Eolie. Le quali diventano prospere per via del commercio dell’ossidiana. Poi i reperti ci dicono di una violenta distruzione, di incendi e di crolli, di abbandono delle isole, e poi di nuovo del loro risorgere con la colonizzazione greca. E Diodoro Siculo a narrarci nella sua Biblioteca storica la colonizzazione greca delle Eolie. Ci fa conoscere, lo storico, una società di

contadini e di guerrieri, in una netta divisione di ruoli, in una comunione di beni e di consumi da primitivo socialismo; una Lipari prospera e bella, con porti accoglienti e bagni d’acqua salutari. Finisce questa età felice degli eoliani con i saccheggi subiti da parte dei Siracusani e dei Romani. Dopo, in età cristiana, bizantina, araba e quindi normanna, le Eolie vivono una loro lunga epoca di civiltà appartata e autosufficiente. Sospinti dal grecale, navighiamo ora verso occidente, verso le altre isole che coronano la Sicilia. Ustica è la prima che incontriamo (Lustrica, in siciliano, Egina ed Egitta è chiamata da Tolomeo, Strabone e Plinio).

Aspra, inospitale, formata da lave basaltiche e rufi, era in antico disabitata, rifugio ideale di pirati barbareschi. A metà del Settecento i Borboni la popolarono concedendo ai nuovi abitanti franchigie d’ogni sorta, fortificando l’isola, munendola sulle coste di torri di guardia. L’isola allora risorse, venne rimboschita e coltivata. Sospinti ancora da un benefico vento, doppiato il Capo San Vito, incontriamo le isole dello Stagnone, fra Trapani e il Lilibeo, e per prima Levanzo, la più piccola delle Egadi, calcarea, montuosa, che denuncia il suo tempo profondo, i segni primi dell’uomo, nella Grotta del Genovese,

con i disegni e i graffiti preistorici sulla parete dell’ampia caverna. Ma a Favignana però, isola più vasta, ospitale, gli uomini del neolitico escono dalle grotte marine, costruiscono capanni, cacciano e lavorano forse anche la terra, seppelliscono i loro morti in grotticelle a forno scavate nella roccia calcarea. Il tonno propiziatorio dipinto nella grotta di Levanzo qui a Favignana dà il frutto più copioso e duraturo. La tonnara di Favignana, ancora oggi operante, ha scritto la storia più importante della pesca nel Mediterraneo. Marettimo << ultima che in mare giace, rocciosa, aspra>>, è stata da sempre,

come l’Itaca di Ulisse, buona per allevare forte gente di mare. Lo Stagnone ancora contiene, protetta dall’Isola Grande, la gemma più rara: l’isola di Mozia. Stazione degli avventurosi Fenici, ha mantenuto nei millenni intatti le sue mura, i suoi edifici, il suo porto, il suo tofet o necropoli. I Siracusani sconfiggendo i Fenici di Sicilia nella battaglia di Imera, imposero nel trattato di pace di mai più sacrificare i bambini ai loro déi, alla gran madre Tànit o Astante e al gran padre Baal Hammon. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, esultava (<< Chose admirable! >>) per quel salto di civiltà e di

umanità che Gelone di Siracusa aveva fatto compiere a quei Fenici. Un vento leggero e propizio gonfi ora le nostre vele per portarci più a sud, nel mezzo del canale di Sicilia, farci approdare a Pantelleria. È stato da sempre il ponte, quest’isola, tra la vicina lfriqia, oggi Tunisia, e la Sicilia. Ponte per ogni scambio di cultura fra il mondo cristiano e quello musulmano, ponte per scorrerie piratesche, di conquiste, d’emigrazione, nell’uno e nell’altro senso, di lavoratori in cerca di fortuna. Bassa, nera, rocciosa, sferzata dal vento, l’antica Cossira fa pensare alla Tàuride, alla terra d’esilio di Ifigenia.

<<Giace vicina alla steril Cossira / Malta feconda .,.>> ha scritto Ovidio. Ha un lago salato nel centro e soffioni solfiferi, acque termali sparse dovunque. Ma pur così aspra, l’isola è stata da sempre contesa dai Saraceni e dai Cristiani. E’ stato Ruggero il normanno a restituire l’isola alla cristianità. Ma toponomastica, onomastica e lingua sono nell’isola ancora un incrocio di siciliano e di arabo. Ancora più a sud, più vicina alla Libia è Lampedusa. un isolotto di pescatori che la fantasia dell’Ariosto ha innalzato nel cielo della poesia. A Lampedusa l’autore dell’Orlando furioso fa svolgere il celebre duello di tre contro tre, dei saraceni Agramante, Sobrino e Gradasso e dei paladini Orlando, Brandimarte e Oliviero.   
      Una isoletta è questa, che dal mare
        medesmo che la cinge è circonfusa.
Dice di Libadusa o Lampedusa Ariosto. <<I passi dei nostri eroi che finora hanno spaziato sulla mappa dei continenti, adesso (.,.) fanno perno sulle isole piccole e grandi del Mediterraneo>> commenta Italo Calvino. E sembra di tornare, in quest’ultima parte del poema ariostesco, agli spazi, alle isole omeriche delI’ Odissea, a quel primo poema, a quei miti da cui siamo partiti.



Note

pag. 11 “Itaca è bassa, ecc.” Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro IX versi 25 -26-27 -28 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 15 “Quindi all’isola Eolia ecc.”Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro X versi l-2-3-+-5 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 35 “Una isoletta è questa, ecc.” Ludovico Ariosto, Orlando Furioso canto XL versi 57-58 Einaudi, Torino 1962 “I passi dei nostri eroi ecc.” Italo alvino, Racconta l’Orlando Furioso capitolo XXI Einaudi Scuola, Torino 1997

I quindici disegni di Giorgio Bertelli (tutti del formato di 14 x 20,5 cm), realizzati a penna su carta uso mano, sono stati ultimati nell’agosto 2000.

Viaggio in Palestina, con il Parlamento Internazionale degli Scrittori.

Nel marzo 2002, su invito del poeta palestinese Mahmoud Darwish, da mesi assediato a Ramallah dall’esercito israeliano, una delegazione del Parlamento Internazionale degli Scrittori si reca nei territori palestinesi. Sono otto autori provenienti da quattro continenti: il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka, il sudafricano Breyten Breutenbach, il poeta cinese dissidente Bei Dao, il romanziere americano Russell Banks, il premio Nobel portoghese José Saramago, l’italiano Vincenzo Consolo, lo spagnolo Juan Goytisolo e lo scrittore francese Christian Salmon, presidente del P.I.S. I testi pubblicati per rompere l’isolamento di scrittori e poeti palestinesi sono il racconto di una realtà che la cronaca ha consumato al punto da impedire una vera presa di coscienza.

***

Giorno 24.03.2002

Partenza ore 9.30 – 10 da Charles De Gaulle

Controlli e controlli.
Arrivo con tutti gli altri scrittori e il seguito dei giornalisti a Tel Aviv alle 15 (ora locale).
Controlli a non finire.
In pullman partenza per Ramallah. Segni della guerra. Selvaggio come quello del tavolato degli Iblei. Posti di blocco, soldati armati e con fucili puntati dietro muretti di cemento e sacchi di sabbia. Controlli rigorosi.
Ti salutano sorridendo.
Dopo il secondo controllo veniamo presi in consegna dai palestinesi.
Ci precede una macchina della polizia coi lampeggianti e con un suono lugubre della sirena. Ci conducono, non si capisce perché, dentro il recinto di una caserma.
Chi ci guida è un addetto del consolato francese.
Usciamo dal recinto militare e quindi, attraversate le strade desolate di Ramallah, arriviamo all’Hotel che si chiama Grand Park.
Ci offrono all’arrivo, nella hall succo d’arancia. La camera è confortevole.

…….. è molto gentile con me. Mi spiega tante cose. Egli è stato qui durante la prima intifada, già due volte.
Mi avvertono al telefono dalla portineria che alle 20 incontriamo qui in albergo il poeta Maḥmūd Darwīsh .
Incontro con Maḥmūd Darwīsh a cena in un altro albergo. Molti intellettuali invitati.
Uno mi fa vedere un ….. di coloni da cui hanno sparato.
Risveglio a Ramallah. Paesaggio della mia infanzia, macerie e cose sparse, macchine che vanno su strade sterrate.

Giorno 25.03.2002

Visita al centro culturale. Noi parliamo, parlano in tanti di loro.
Visita al centro di Ramallah con Juan Goytisolo
Visita al campo profughi di al-Am’ari
  Visioni terribili
Centro sportivo sfondato da parte a parte.
Quattro donne, sedute, sono come una casa greca. Tanti, tanti bambini.
Visita all’Università di Bir Zeit. 
Checkpoint Ragazze quasi tutte col foulard in testa.
Acclamazione di Darwish. Incontro al teatro, strapieno, letture di nostri poeti.

Ore 12

Incontro al centro della Stampa – Saramago
Vice di campo di concentramento (Auschwitz)
Una giornalista israeliana che sta in Palestina, dice “dove sono le camere a gas?”

L’indomani incidente nei giornali. Polemiche
Soldati di guardia nel pianerottolo.

Giorno 26.03

Partenza per Gaza (60 km) Paesaggio collinare roccioso e desolato.
Villaggi coloniali. Oppressione agricola.
Arrivo al checkpoint.
Ci attendono le macchine dell’ONU con il rappresentante Bressan (francese)
Dopo tanta attesa scortati partiamo per Gaza. Hotel Beach

Ore 11-14

Visita al campo dei rifugiati a Khan Yunis e Rafah –
Scritte sui muri, foto di uccisi.
C’è una cerimonia funebre (tre giorni) sulla strada improvvisata. Mangiano e fanno musica.
Vado a vedere con Soyirca
Ritorno a Gaza. Checkpoint.
File di macchine, perenni.
Incontro con intellettuali per i diritti umani.

Giorno 27.03

Partenza per Jerusalem –
Ore 10 – Partiti di nuovo con i pullman dell’ONU –
Intanto son partiti, ieri sera, Breitenbach – Bei Dao(Cinese) e…
Sappiamo che Peres s’incontra con Soiynca e Breitenbach
Lunga attesa al checkpoint.
Controlli minuziosi
Sul pullman finalmente, Laila al microfono fa l’imitazione di una guida
turistica israeliana.
Ci fanno vedere lungo la strada, installazioni di colonie israeliane.
Dappertutto venivano rasi al suolo i villaggi palestinesi e la gente massacrata,
seppellita in fosse comuni, su una di queste forse hanno costruito un manicomio.
Il responsabile del massacro, anche, lui alla fine è divenuto pazzo
1948 Jerusalem Begin

Arrivo a Jerusalem alle 12 – American Colony Hotel di lusso

Pranzo – Due israeliani dissidenti con noi.
Visita alla città vecchia.
C’è con noi la moglie del Console francese, Darla, una bella ragazza cubana che ha studiato a
Firenze e parla italiano.
Un professore iraniano dell’Università di Bir Zeit ci fa da guida.
Visita al Santo Sepolcro, ai quartieri palestinesi e israeliani.
Visita al Muro del Pianto. Gli ortodossi, nelle loro fogge nere, coi cappelloni di pelo in testa,
corrono per l’ora della preghiera.
Ritorno in albergo
Sera: ricevimento al Consolato francese
C’è anche il Console italiano.
(Incrociamo la processione dei francescani)

Giorno 28.03

Telefono a Caterina e mi dice terrorizzata dell’attentato a Netanya.
Siamo nella hall dell’albergo molto tristi. Arriva, con passo svelto, David Grossman.
Si appresta a parlare con Russel. Dovremmo ora tutti insieme riunirci con Grossman.
Ma non si sa.
Telefono alla corrispondente dell’Ansa, Barbara Alighiero, che è qui in albergo, e mi dice
che sono arrivati a Tel Aviv 100 pacifisti italiani, con tre parlamentari Verdi, e sono stati bloccati.
Adesso loro stanno facendo un sit-in all’aeroporto.
Incontro alle 10.30 con Grossman

Ore 11.30

Laila ci lascia (teme per la vita)
Ora Saramago, Cecità Goya, Il sonno della ragione

(loro chiamano Hitler Arafat) la Direttrice della Cinematheque dice a Saramago di ritirare la parola
Auschwitz. Replica Direttrice Van Leer – Soyinka.  Teologia della morte.

Ore 12

Partenza in pullman per Jaffa. Incontro il giornalista …
Elias Sabar dice che Sharon ha ordinato a tutte le autorità non governative di evacuare Ramallah
(significa che ha intenzione di bombardare)
Conferenza stampa a Jaffa.
Mangiato a un ristorante palestinese sulla spiaggia che poteva essere povero e di cattivo gusto
(ma in cui si mangiava bene), di una qualche spiaggia siciliana, napoletana o laziale (come quella di Ostia). E in più è grigio e piove.

Ore 16.30 (italiane)

Mi telefona da Ramallah Piera Redaelli, mi dice che sono chiusi in casa da 2 giorni, senza luce, che hanno ucciso 5 palestinesi, che sono circondati dai carri cingolati.

Il prodigio

*


Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale dei limoni, granato di mezzelune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.

Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.

“Il prodigio” Con una Considerazione sulla forma racconto , prefazione
di Ambrogio Borsani.
in copertina: disegno di Manuela Bertoli.