Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la sua vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimentazione linguistica, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazione» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazione è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversato le turbolenze della neoavanguardia con totale simpatia o con totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimentalismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferente e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressiste. Arrivato a Milano negli anni 50 per studiare, attratto dalle sirene vittoriniane, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazione che culmina negli anni 90) ma non smette di tormentarsi sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresenta quasi programmaticamente (e ostinatamente) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria), al Settecento illuminista (Retablo), alla pessima realizzazione unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazionalismo prefascista (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contemporaneità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatti dai delinquenti» (Lo spasimo di Palermo).
La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolineare Gianni Turchetta, curatore dello splendido Meridiano, coordinatore del convegno milanese e autore del saggio introduttivo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratura” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilità, sottoposto a una pressione senza compromessi, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddizione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologici, sprofondamenti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistica. In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasmante tutti contro tutti), organizzato nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratura è memoria – e la letteratura è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronistica, giornalismo – allora diventa anche memoria linguistica. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuamente la memoria». Memoria è anche memoria linguistica: il che significa affidare alla letteratura il compito di resistere al linguaggio «fascistissimo» dell’omologazione. Una visione pasoliniana. Anche per questo è affascinante (e non di rado perturbante) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentate che conducono alla pubblicazione delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussione e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessità del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) – il sorprendente libro d’esordio che restituisce le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese – si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazione espressionistica e un arricchimento stilistico. Un processo che troverà una vera maturazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro del 1976 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (che per una felice coincidenza è in mostra in questi giorni nella rassegna di Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonista, il barone di Mandralisca. Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazione documentaria) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittura, ripensamenti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitazioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto – di totale ammirazione – con il «maestro» Sciascia: ora testimoniato dalla corrispondenza (1963-1988), edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio – con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca – sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazione e la descrizione. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.
Paolo Di Stefano 4 marzo 2019 (Corriere della Sera)
Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolario edito da Archinto. E a Milano il 6 e 7 marzo un convegno sullo scrittore
Il volume «E questa storia che m’intestardo a scrivere. Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura», a cura di Gianni Turchetta, nella collana «Carte raccontate» (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 52, euro 12, disponibile dal 6 marzo)
Il volume «Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988», di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia (Archinto, pp. 84, euro 14)
Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.
Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio. Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.
Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.
Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.
Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.
Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.
“Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.
Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.
A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.
Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.
Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.
“L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.
Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.
Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.
La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.
Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.
Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.
La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.
Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.
Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.
Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.
La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.
In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.
La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].
Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.
L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.
BIBLIOGRAFIA
Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.
Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia.La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa sicilianad’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratoriitaliani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala achiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cosedi Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degliorrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stessoceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.
[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.
L’iniziativa è realizzata in occasione della pubblicazione de L’opera completa di Vincenzo Consolo nella collana I Meridiani di Mondadori a cura di Gianni Turchetta.
Con il patrocinio del Dipartimento di Scienze della Mediazione Linguistica
e di Studi Interculturali dell’Università degli Studi di Milano.
Biglietto TFP cortesia € 3,50
Informazioni e prenotazioni
Teatro Franco Parenti, via Pier Lombardo 14 – Milano
Cesare Segre “Diario civile” A cura di Paolo Di Stefano
Mentre il primo romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile (1963) ebbe scarsa risonanza, fu invece una rivelazione Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto verso il 1969). Qualunque discorso sullo scrittore deve necessariamente partire da qui, perché quel libro, uscito a tanta distanza dal primo, rivela già luminosamente i problemi che Consolo continuerà a dibattere e approfondire e ridefinire, nella sua successiva attività.
Quello che subito venne avvertito (Paolo Milano) è che il libro è una specie di anti-Gattopardo: identico il quadro storico (la Sicilia al tempo della spedizione dei Mille), enorme, a prescindere dalla qualità delle due opere, il divario stilistico e la differenza nella prospettiva della narrazione. Perché se Tomasi di Lampedusa si attiene al rapporto tradizionale tra riferimenti storici, invenzione narrativa e scrittura, Consolo mostrò subito la sua diffidenza (che alla lontana risale al Manzoni) riguardo alla storia come razionalizzazione dei fatti. Ben esplicitando le sue riserve, ci offriva dunque, con il suo non-romanzo, materiali storici che sta a noi rimontare e, se possiamo, razionalizzare.
In pratica, Consolo alternava frammenti di testi storici e cronachistici alle parti d’invenzione, istituendo tra gli uni e le altre una dialettica, che poi si ripresenta, a un livello ideologicamente più alto, nel diverso e pur convergente impianto politico dell’azione dei due protagonisti, il barone Enrico di Mandralisca e il magistrato Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta bene i borghesi e gli aristocratici illuminati, quelli insomma dei moti carbonari; il secondo è un democratico di sinistra, che alla fine assolverà i responsabili dell’insurrezione contadina di Alcàra Li Fusi. I discorsi dell’uno e dell’altro espongono nel modo più efficace le due posizioni tra le quali oscillavano, all’epoca, le menti più consapevoli: la sanguinosa rivolta di Alcàra e la successiva spietata repressione saranno il principale oggetto del dibattito.
Ma la storia non ha solo la colpa di offrirci spiegazioni ingannevoli; essa è responsabile di accogliere la prospettiva dei vincitori, sacrificando, ancora una volta, quelli che non hanno nemmeno il diritto alla parola: i vinti, gli sfruttati, i miserabili. È appunto la prospettiva dei vincitori che farà assimilare (impropriamente) i piemontesi ai detronizzati borbonici. Quest’impostazione storiografica, diffusa negli anni in cui Consolo scrive il suo libro, sulla scia dei saggi di Benedetto Radice e di Salvatore Francesco Romano, produce un’altra serie di conseguenze nell’impianto del romanzo. Per «inventare» la voce di coloro che non hanno avuto voce, Consolo crea un plurilinguismo vivacemente espressionistico, che mette a contatto nobili frammenti latini e forme del siciliano o persino del dialetto galloromanzo di San Fratello (a pochi chilometri da Sant’Agata di Militello, patria di Consolo), canti popolari e barocchismi spagnoli. Da «archeologo della lingua», quale si definiva, ci fa attraversare verticalmente i principali strati della storia del siciliano e della Sicilia, magari grazie ai frammenti di una canzone di Federico ii.
Il collante di questo plurilinguismo non è concettuale, ma prosodico. La scrittura di Consolo si caratterizza infatti per il suo sottofondo di armonie verbali. Si può persino sostenere, e qualcuno l’ha sostenuto, che quanto lui scrive è senz’altro una prosa metrica, con i suoi nessi e le sue pause. La musica unifica dunque materiali così eterogenei. Consolo continuerà la serie di «romanzi storici» con Nottetempo, casa per casa (1992), evocazione, anche autobiografica, degli anni in cui le squadracce fasciste portarono la violenza a Cefalù, e con Lo spasimo di Palermo (1998), presa di coscienza del disastro operato dalla mafia, e celebrazione del Judex che dovrà restaurare la giustizia; mentre L’olivo e l’olivastro (1994) racconta un viaggio di ritorno, o di scoperta, in Sicilia, alla ricerca di una natura e di una cultura devastate dalla modernità. E sulla Sicilia della storia e della contemporaneità sono numerosi i saggi, e le raccolte di saggi, di Consolo: per esempio Le pietre di Pantalica (1988) o Di qua dal faro (2001). A parte vanno considerati i divertissements di argomento settecentesco, come Lunaria (1985) e Retablo (1987), che sono anche omaggi da una parte a Leopardi e a Lucio Piccolo, dall’altra all’Illuminismo milanese.
Con Vincenzo Consolo perdiamo uno scrittore eccezionalmente inventivo, capace di immergersi nella storia ma più ancora di giudicare il suo tempo. Sempre attento e acuto, mai in cattedra.
Isola. L’archetipo omerico delle isole fantastiche, isole di violenza e inganno, di utopie e distopie, di deserti e di silenzi, di linguaggi sorgivi ed ermetici, è scivolato per tutta la letteratura occidentale, è passato per tutti i grandi poeti e scrittori, dall’antichità fino ad oggi. Non è questo archetipo che qui ci interessa, ma l’altro, quello più importante dell’Odissea, di questo grande poema della nostra civiltà: l’archetipo del nóstos, del ritorno. Del ritorno in Sicilia dei narratori moderni.
Ma non è più ora, la Sicilia, la fantasmatica isola della primordiale natura minacciosa e devastante, non è più, il suo isolamento, nella terribilità di quel suo stretto passaggio. Ora l’isola è affollata dei più vari segni storici, antichi e immobili per fatale arresto, quali rovine trasferite in una dimensione metafisica, è ricca di frantumi di civiltà, di frammenti linguistici, è composita culturalmente, problematica socialmente. Tutto questo ha fatto sì che nel tempo, paradossalmente, quel breve braccio di mare che la staccava dal Continente si ampliasse a dismisura e la rendesse più estrema rispetto a un centro ideale, la relegasse, a causa della sua eredità linguistica, della sua dialettalità, ai margini della comunicazione.
Da qui, la necessità, l’ansia negli scrittori isolani di lasciare il confine e d’accentrarsi, di uscire dall’isolamento e di raggiungere i centri storici, culturali, linguistici.
Primo fu Verga, nella letteratura siciliana moderna, a compiere il viaggio, a lasciare Catania e ad approdare a Firenze, centro di quella cultura rinascimentale che aveva illuminato l’Europa, del neodantismo romantico, di quella lingua attica restaurata da Manzoni dopo la sua esplosione, la sua frantumazione in senso barocco e in senso dialettale, lingua a cui ogni scrittore, da ogni periferia, cercava d’approssimarsi; a Firenze, in quel 1869, capitale del nuovo Regno d’Italia.
Tracce di una certa qual fiorentinizzazione dello scrittore si trovano subito in ambientazioni, in episodi di Eva, Tigre reale, Eros, e maldestre, ingenue assunzioni linguistiche si riscontrano nella Storia di una capinera. Ma non era, Verga, un aspirante al perfezionismo linguistico; a lui il toscano poteva servire per liberarsi da incertezze lessicali e sintattiche, da retaggi dialettali, a farsi padrone di una lingua media, di servizio, per le sue narrazioni. E del resto Luigi Russo afferma che Verga non si mostrò appassionato per la Firenze ben parlante, che in lui era “scarso accademismo linguaiolo e letterario”. “Firenze” dice “fu per lui soltanto un’altra atmosfera, l’orizzonte più largo, qualche cosa di diffuso di cui bisognasse respirare l’aria.”
Ma di diffuso, in Firenze, c’era l’aulicità del suo passato, una certa ritualità mondana e la struttura burocratico-ministeriale che da poco vi si era installata. C’era una società letteraria, i cui componenti più rappresentativi erano Dall’Ongaro, Prati, Aleardi. Altrove, a Milano, era il movimento, la modernità, l’impresa. A Milano erano le case editrici. Qui, da Lampugnani, nel ’71, Verga aveva pubblicato la Storia di una capinera, romanzo alla moda di derivazione diderotiana e manzoniana, che gli aveva dato successo, fama.
Da Milano Verga tornerà in Sicilia, vi tornerà prima con la memoria, con le “memorie pure della sua infanzia”, operando la famosa svolta stilistica, convertendosi a una nuova etica. In Sicilia, a Catania, tornerà realmente nel 1893, ferito per l’incomprensione a cui era andata incontro la sua opera, chiudendosi in un orgoglioso silenzio.
“Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto…” Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia di Vittorini, il romanzo pubblicato nel 1941, che risuonava, in una livida aria, come un rintocco di campana, lento e triste, che dava voce, nell’atrocità della guerra in corso, nel ricordo della guerra di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno.
Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, della madre e delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo dei padri, della ideologia. Ed è insieme, come quello di Ulisse, un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli Inferi, nel regno delle ombre, dei morti, per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, traversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, dopo aver assunto il cibo iniziatico, pane e pecorino, approda in una Sicilia invernale, in un’isola di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma anche di fieri e indomiti “gran lombardi”, di uomini che parlano di “nuovi doveri”, di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblìo del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità, del risentimento e della libertà, è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio nella zona incantata e regressiva dell’infanzia, che lo lascia tornare ai doveri di uomo, al lavoro di linotipista, di compositore di parole.
Vittorini inaugura, con Conversazione, per la prima volta nella letteratura siciliana – letteratura d’interni o di piazza, di stasi – oltre Verga o contro il mondo circolare, chiuso verghiano, oltre Pirandello, il viaggio di ritorno, viaggio non solo memoriale, ma reale. E attinge lo schema, l’istanza, alla grande letteratura, a Omero, Virgilio, ma anche a Cervantes, a Gogol’, Fielding, e soprattutto alla letteratura americana, letteratura di grandi spazi e di quasi incessante movimento. Di questa letteratura ancora, di Hemingway, Steinbeck, Caldwell, facendolo germogliare su ceppo ermetico, riprende lo stile, se non la stilizzazione. Schema di viaggio, movimento, che è esigenza ideologica, necessità etica.
Speculare a Conversazione, di opposto senso e di opposta conclusione, di diverso stile, linguaggio, lontano da ogni mito, simbolo, da ogni utopia, è, dello stesso anno 1941, un altro viaggio di ritorno, quello di Don Giovanni in Sicilia di Brancati.
Già fascista, Brancati entra in crisi ideologica ed esistenziale. A minare le sue certezze c’era già stato il dialogo a distanza con l’esule Borgese. Lasciata Roma, la capitale del potere, torna nel ’37 in Sicilia e lì, nella lucida e impietosa osservazione della piccola borghesia, attraverso la rappresentazione comica, corrosiva di questa classe priva di sicurezza e di cultura, attraverso i suoi tic, le sue follie, la meschinità dei suoi padri e il potere devastante delle madri, le infanzie morbose e ammorbate dei suoi figli, le loro sensuali pigrizie corporali e intellettuali, Brancati restituisce il ritratto di una classe, siciliana e no, italiana e no, che aveva dato potere al fascismo e nel fascismo aveva trovato identità.
Dopo aver pubblicato nel ’38 Gli anni perduti e Sogno di un valzer, pubblica dunque nel ’41 Don Giovanni in Sicilia. Con questo romanzo lo scrittore va al centro della sua polemica, al cuore del problema: al dongiovannismo, al gallismo, al vagheggiamento vale a dire verbale e fantastico, da parte di uomini bloccati in una incancrenita adolescenza, della donna. E non poteva scegliere, Brancati, come teatro della sua vicenda, una città più adeguata di Catania. Una città sotto il vulcano, continuamente minacciata e invasa dalla natura, vitalistica e sensuale, nera e abbagliante. Giovanni Percolla, il protagonista, conduce qui, fino ai quarant’anni, tutelata da una plurima madre rappresentata da tre sorelle nubili, circondata da amici a lui somiglianti, un’esistenza bovina, pigra, torpida, una vita di vischiose abitudini, di sonni, sogni, allucinazioni. In cui è possibile ogni ottundimento, ogni regressione. Sposatosi con la “continentale” Ninetta e trasferitosi a Milano, sembra diventato un altro uomo, attivo, volitivo, raziocinante. Ma tornato in Sicilia, tornato alle sorelle, alle loro malie, subito sprofonda nel letto suo “scivoloso e caldo” di scapolo, rientra nell’utero della terribile madre. “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…” dice Brancati. In quel letto l’anima infantile di Giovanni Percolla rimarrà per sempre isolata, esiliata, come quella del professor La Ciura, del racconto Lighea di Lampedusa, dopo la visione o l’allucinazione della sirena.
Un nóstos classico, un omerico ritorno ad Itaca dell’eroe dalla guerra è il vasto e complesso Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Ma è anche, soprattutto, un viaggio, un ritorno nella lingua, nei linguaggi, come nell’Ulisse di Joyce.
Anticipato, con una parte, che aveva il titolo di I giorni della fera, nel 1960, sulla rivista “Il menabò”, diretta da Vittorini e Calvino, il romanzo veniva pubblicato quindici anni dopo con il nuovo titolo. Ma già Vittorini, in appendice all’anticipazione, pur ammettendo l’alta valenza letteraria del lavoro in corso di D’Arrigo, mette le mani avanti e afferma: “Debbo avvertire i lettori ch’io non ho nessuna simpatia né pazienza per i dialetti meridionali […], i quali sono tutti legati a una civiltà di base contadina, e tutti impregnati di una morale tra contadina e mercantile, tutti portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica”. E conclude: “I dialetti che sarebbe auspicabile di veder entrare nelle elaborazioni linguistiche della letteratura dei giovani sono, a mio giudizio, i padani, i settentrionali, che già risentono della civiltà industriale…”. È evidente, in queste affermazioni, tutto l’antiverghismo di Vittorini, è evidente la sua concezione progressiva della storia – la concezione di Cattaneo, di Michele Amari – la sua fede marxiana e gramsciana, la sua scelta operaistica, la sua utopia industriale. Industria a misura d’uomo, sull’esperienza olivettiana e sulla tenace volontà direttiva, sulla profonda convinzione democratica di un dirigente di stato come Mattei, sulla recente scoperta del petrolio in Sicilia, a Gela, che avrebbero ancora portato lo scrittore siracusano-lombardo a compiere un secondo viaggio in Sicilia con Le città del mondo, pubblicato postumo. Alla luce oggi dei vari crolli, di cui siamo stati partecipi e testimoni, di crolli ideologici, industriali, linguistici, sarebbe lungo qui analizzare le concezioni politiche e culturali di Vittorini, le sue generose e poetiche indicazioni per una risoluzione degli atavici “mali” meridionali.
Di Horcynus Orca dicevamo, di D’Arrigo. Egli, certo, riprende e amplifica i moduli lirici vittoriniani, affolla il testo di corposi simboli, ma il suo linguaggio va verso altre direzioni, va verso quella sperimentazione che, partendo da Verga, arrivava in quegli anni, in estensione, fino a Gadda, in digressione, fino a Pasolini. Ma la ricerca di D’Arrigo è importante nel suo movimento digressivo, nella sua dimensione verticale. Mette in campo davvero una grande Orca linguistica, D’Arrigo. Usando due registri, dialogico e narrativo, partendo da livelli comunicativi, normativi, con scarti progressivi sprofonda nell’espressionistico, in un vortice di dialettalismo, di sicilianismo topologico, con l’infinita iterazione e deformazione lessicale – parole composte, diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi e spregiativi – con indugi, divagazioni, accumuli, innumerevoli approssimazioni che quasi mai si ricongiungono col referente. Si ha l’impressione che D’Arrigo abbia trasformato il cerchio salmodiante dei proverbi verghiani in un vortice, in un gorgo linguistico, simile al gorgo di Cariddi. E ancora, che il suo, oltre quello liminare di Aci Trezza, riproduca ed esalti il linguaggio di una realtà mobile, equorea qual è Scill’e Cariddi, in cui lo iato, per l’incessante furia distruttiva della natura, si è fatto più vasto, più profondo: lo iato fra mito e storia, natura e cultura, individuo e società. Riproduce ed esalta insomma, D’Arrigo, il linguaggio della paura, che è proprio dei pescatori, degli abitanti dello Stretto.
Siamo qui ancora, in questo scrittore di assoluta vocazione e dedizione letteraria, nella sfiducia nei confronti della storia, siamo nel pessimismo, nel fatalismo verghiano. In Horcynus sembra che ’Ndria Cambria sia il giovane Luca Malavoglia che, sopravvissuto alla battaglia di Lissa, ritorna al paese e non trova più la casa del nespolo, la Provvidenza, trova Aci Trezza sconvolta, i familiari, i compaesani scomparsi o perduti, degradati. Siamo qui ancora nella siciliana non speranza, nell’assenza di una civile società in cui l’individuo possa riconoscersi, con la quale stabilire il linguaggio logico della comunicazione.
Sullo schema del ritorno si svolge anche la vicenda del mio libro L’olivo e l’olivastro, in cui l’archetipo omerico del nóstos non è messo en abîme, ma esplicitato, fin nel titolo. È riletto, ripercorso anzi succintamente, il mito del ritorno dell’eroe greco nel tentativo di scoprirvi ulteriori significati, per dare significato al mio viaggio, alla mia narrazione. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definita Walter Benjamin in Angelus Novus. Dice in sintesi, il critico, che la narrazione è antecedente al romanzo, che essa è affidata più all’oralità che alla scrittura, che è il resoconto di un’esperienza, la relazione di un viaggio. “Chi viaggia, ha molto da raccontare” dice. “E il narratore è sempre colui che viene da lontano. C’è sempre dunque, nella narrazione, una lontananza di spazio e di tempo.” E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità.
L’olivo e l’olivastro è il naturale e necessario esito di una ricerca letteraria. È uno spostare il romanzo, che presuppone, nella sua struttura, nelle scansioni riflessive, comunicative l’esistenza di una società, verso la narrazione, verso il poema narrativo.
Nei libri che fin qui abbiamo esaminato, da Conversazione in Sicilia a Horcynus Orca, non è mai presupposta l’esistenza di una società; nessuno di quei libri può dirsi dunque romanzo, ma dirsi invece narrazione, poema narrativo. In Sicilia, questo, priva da sempre di una società, in quest’Itaca desiderata, raggiunta e rifiutata. In altri luoghi di questo Paese era presupposta la società, in Toscana, in Piemonte, in Lombardia. Ma oggi, in questa nostra civiltà di massa, in questo mondo mediatico, esiste ancora la possibilità di scrivere il romanzo? Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la situazione sociale, non si possano che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo.
“La racine de l’Odyssée c’est un olivier” dice Paul Claudel.
Sappiamo che dopo l’uccisione dei Proci, dopo il rito di purificazione con lo zolfo dei luoghi della strage, il riconoscimento e il ricongiungimento di Ulisse e di Penelope avviene dopo la rivelazione del segreto: il loro talamo era costruito su un tronco di ulivo.
Nel viaggio di ritorno degli scrittori siciliani manca questa conclusione, manca questo alto simbolo della civiltà.
Anche nel mio ritorno. E l’assenza più clamorosa dell’ulivo si incontra a Gela, in questo luogo di mitizzazione e di speranza del vittoriniano Le città del mondo. Anche nel mio ritorno. E l’assenza più clamorosa dell’ulivo si incontra a Gela, in questo luogo di mitizzazione e di speranza del vittoriniano Le città del mondo.
Foto di copertina di Giuseppe Leone
Vincenzo Consolo Di qua dal faro. Mondadori Editore – 1999
L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.
E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato. Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso ladialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro. Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 3 settembre 1994 ** Consolo (Mondadori, pagine 149,) Gibellina: un sudario di calce di Vincenzo Consolo
Da «L’olivo e l’olivastro»
Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza,nella memoria dissolta, nell’estraneità,nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro dimarmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfaltoil fiore stridente, la stella texana, la porta perla fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghestrade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge,vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliatidall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardinidi pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli,cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillinialfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata delframmento, l’arco il portale il timpano infranto.L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre,fra le astratte sculture imponenti, le architetture dellacittà costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansiaperenne (…).Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori dauna casa del nuovo paese, cammini sullastrada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo.«Sono nato a Gibellina, di anni ventitré…», rispondi. «Che dico?… Mi chiamoNicola, sono nato a Gibellina, holavorato nelle cave di Meirengen. vicinoBasilea. Ho là moglie, figli che non voglionopiù tornare in questo paese». «Tiriconosco, Nicola, e son passati tanti anni,sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione diMilano…».«Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una facciadiversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamoper quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce,di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, airuderi spianati e coperti da un’immensa colata dicemento, da una coltre bianca, da un sudario dicalce.Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello,la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola. L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggiola violenza, la corruzione delle coscienze:«La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»
Ho sentito il bisogno di
incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due
dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto
marinaio del 1976 e Nottetempo casa
per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è
servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il
sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il
grande entusiasmo che mi era nato.
“Perché li hai letti uno di seguito
all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli
accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo
(Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione
diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica, nell’altro c’è il racconto del crollo di
questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è
il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il
secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”
Non so neppur io perché abbia letto proprio
quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino
mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:
Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne
quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale
della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto,
provocatoriamente contro la Lega.
Dolcevita di lana e golf (vestito allo
stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una
fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa
caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.
Allora penso subito al calore della sua
terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo
grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un
fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a
Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)
Le pareti della stanza sono coperte da
semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno,
segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di
Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione
illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione
marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo
Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e
libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della
Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di
maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno
dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente
l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della
cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)
si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger,
autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare,
completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di
conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa
misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono
esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno
ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti
plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.
Tra novembre e dicembre due sono stati
gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua
vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un
paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e
profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.
Il titolo di questo articolo è,
naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e
tanto amata.
Dove è nato, professore? A Cefalù?
C.: Sono nato in un paese vicino a
Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine
letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il
mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più
strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e
tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista,
perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla
natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello
dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho
potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente
diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia
occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al
canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di
Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna,
con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un
discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.
Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni,
come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte.
Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era
estremamente lirico. D’Arrigo, per
esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno
formale più accentuato.
Dalla parte occidentale, invece, gli
scrittori sono più logici.
All’inizio, quando mi sono
trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi
due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia
identità cercando di far unire questi due mondi: partire da un presupposto storicistico,
razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e
formale.
Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?
C.: Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto
a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo
fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare
lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di
tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…
Quando è arrivato a Milano?
C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che
avrei ritrovato più tardi.
Una città però molto viva, allora.
C.:
Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare
l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario.
Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho
scelto legge come via di compromesso.
In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano
tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i
De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era
Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!
Io approdai lì casualmente, seguendo
l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una
stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo
ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.
L’Università Cattolica era allora
frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo
cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e
tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai
parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato
di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.
Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi
ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà
importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il
Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio
convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di
Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di
meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate
lì.
Portate in questo Centro
Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei
vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in
Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in
Germania. Venivano raccolti a Verona.
A noi studenti poteva capitare di
incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da
poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba. Io ho incontrato un compaesano che giocava
con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col
manganello. Io non so se quelli che sono
diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io
osservavo.
Allora sarei potuto rimanere a Milano,
perché in quegli anni il lavoro si trovava.
Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e
c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…
C.:Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia
milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e
inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di
altri artisti.
Li conosceva già?
C.:No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato
conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…
Al finire degli studi, poi, me ne sono
tornato in Sicilia, per scrivere.
Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole
agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con
paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia;
erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava
Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto).
Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano
destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri
erano già emigrati.
Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60.
I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da
ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo
bene quella realtà.
C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta
la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le
terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le
pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di
industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.
Comunque io avevo preso questa decisione
di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63,
però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che
erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un
altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una
connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della
storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.
Nel primo libro parlavo degli anni di me
adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del
fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime
elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni
del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva
essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle
ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del
come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni
da noi…
E il libro narrava proprio questo, ma
visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto
trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono
costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono
immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San Fratello ed è un’antica colonia lombarda,
un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri,
anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle
Pietre di Pantalica e questo per
dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per
approdare poi alla lingua, al toscano.
Istintivamente, allora mi collocai proprio
come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che
era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica
nell’estrema diversità siciliana quindi).
Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice
linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro,
questa sorta di impasto linguistico.
Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle
parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i
diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la
pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno
que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e
giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti
dalle cose».
C.: Sì, e queste parole nuove sono parole
antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice
della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo…
Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la
letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito
codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta
di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere
così, la forma deve corrispondere ai contenuti.
Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68,
perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati
fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che
non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare;
l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere,
e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.
Quindi sono andato via.
Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche
due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone
emblematiche della mia formazione. Uno
era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta,
purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di
morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì
Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a
completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato
dall’esplosione del fenomeno Gattopardo. Lui veramente, quando lo nominavano come il
cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è
mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.
L’altra persona che ho frequentato è stato
Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo
mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a
Caltanissetta); poi siamo diventati amici.
Quando l’uno era il poeta puro, un barone,
con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di
tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico,
limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.
Per me sono stati veramente come due
maestri, due poli.
E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia,
presi le valigie e ritornai a Milano.
Non a Roma?
C.: No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono
due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese
che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia
politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era
la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in
qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al
luogo antitetico alla Sicilia.
A Roma invece approdavano degli scrittori
a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello. Un Pirandello che, con quella sua scrittura,
aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola
borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A
Milano sarebbe stato fuori posto.
E poi Sciascia, naturalmente, con il suo
discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo
senso, anche Moravia.
Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo
parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli
autori della parte occidentale.
C.: Per la parte occidentale, a fronte dei Verga,
dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome
che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un
romanzo, I vecchi e i giovani. In
Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie
locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma
forse, dopo l’uscita de I Viceré di
De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi
dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche
lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole
in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica
siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una
Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo
dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto
sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con
l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i
proprietari delle medesime.
È la rappresentazione amara, da parte di
Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono
tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via
discorrendo.
Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.
C.: Prima che
andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul
piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome
di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal
piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza,
dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in
antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo
immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il
suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era
impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto. E tutta la tematica verghiana è la tematica
dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.
Pirandello ha cercato, ha tentato di
ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi
metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un
contrasto verbale con l’entità destino.
E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere
questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello
diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi
chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che
tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro
l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in
una ricerca continua dell’ identità.
È poi anche, se si vuole
guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi
siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta
anche alla nostra storia.
Noi siamo tante culture messe insieme,
siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo
vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica
all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza. E in questa incertezza sta il nostro dramma,
ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico):
in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il
nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di
tutto questo.
Pirandello attinge proprio al modo
d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua
filosofia, la sua concezione. Nel Mattia
Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo
dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di
questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo
a furia di ammaccature.
L’io siciliano è ammaccato, e quindi
arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il
rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il
crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere
la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si
arriva con le ammaccature.
Quelli che precipitano da questo crinale
sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di
vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è
estremamente difficile ed è una fatica continua.
Ma, per tornare al romanzo storicistico,
oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore
storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la
letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con
la storia.
Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a
quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del
Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono
cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il
tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.
Quando vede, in Sicilia, quello che era il
grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e
affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa
diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive
tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica
del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il
rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi
stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora
non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del
potere mafioso.
Quando ha conosciuto Sciascia?
C.: Dal punto di vista biografico, avevo
conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le
mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono
tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo. Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è
sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando
io pubblicai il mio primo romanzo (La
ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo
con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché
era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio
Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e
di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi,
quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana
dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad
andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici. Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è
stato un continuo dialogo.
Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile?
C.: C’era uno
strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si
parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che
accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere
il titolo di un libro che si era letto…
Un suo rammarico era che io scrivevo poco.
Voleva che scrivessi di più.
Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di
Sciascia?
C.:
Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per
essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca
di distruggere la letteratura siciliana.
Il mio diventa quindi un impegno con la
letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà
di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le
imposture. E queste cose non sono sopportabili…
Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche
questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e
civile.
C.:Lui
era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una
scrittura di intervento, sui giornali. Scritti
corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di
intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.
Mentre lei ha sempre sentito la necessità della
letteratura come mediazione?
C.: Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i
tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta
più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui
anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece
Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui
giornali.
Lei appare come un signore pacato, ma la passione con
cui scrive denuncia una…
C.: No, non lo
sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta
di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché
desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste
masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come
Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.
Lei era venuto come insegnante?
C.: No. Avevo
fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in
treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.
Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.
C.: Sì. Allora
c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino
(“Il Menabò”), che dibatteva
proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo
mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione
sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra
rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare
le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e
altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo
vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.
Vittorini, per esempio, invitava a studiare i
nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale,
dall’incrocio dei dialetti coi dialetti
del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste
non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe
l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei
media e che si sarebbe sovrapposta…
Insomma l’Italia è un paese
veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così
rapidamente e radicalmente le vicende italiane.
È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e
contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di
masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che
è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di
Pasolini, questo…
Quando si fanno questi discorsi, sembra
che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano
a Pasolini era: «Ma come?».
No, nostalgia del mondo contadino credo
non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza,
di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo
progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di
atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il
senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi
politici che si dibattevano erano del mondo operaio.
Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un
isolato.
C.: Sì, erano
isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano
angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia
si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma
di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle
solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci
siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.
Io non ho nostalgia del mondo contadino
(questo l’ho anche raccontato nelle Pietre
di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo
avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.
Qui, invece, i valori umani
sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini
chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non
«progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo
sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di
petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano
innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.
In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono
ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739
a.C.). Io sono andato a rivederli,
ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni
culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.
Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori. Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato… Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord. I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie. La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.
Poi, quando ci si chiede dei mali
meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le
responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.
Non si deve pensare, come fanno certi
signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico,
quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della
‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.
Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di
manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato
sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più
rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.
Al potere politico interessava soltanto
fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei
feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare
il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre),
con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.
Ancora poco nel Sud, mi pare.
C.: Perché ci sono
state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene
di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al
secondo sipario, il sipario del malaffare.
Io spero che vengano
coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa,
perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.
C.: C’è ora nella
gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche
vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è
un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a
Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente
importanti.
Questo è un momento molto, molto delicato,
per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.
Delicato, ma, lei dice, di speranza.
C.: Di speranza, sì. È un momento di passaggio,
dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di
togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del
delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella
gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e
c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era
ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano
referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle
elezioni politiche il risultato era un altro.
Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe
di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.
C.: Sì. È saltato
anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.
Poi, al Nord, è venuta fuori anche la
Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del
resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti
in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.
Io queste forme, queste rivendicazioni
locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento
Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che
cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.
Quando, dopo tutti i disastri
democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord
un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra
che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono
un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono
visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle
scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme
perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano
questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di
aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come
quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha
cancellato il dialetto. Questo
rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso
«politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto
dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del
potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far
capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato)
al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla
incomunicabilità totali.
(Il dialetto si può scandagliare in
letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il
linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).
Ora, queste considerazioni, secondo me,
sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia.
L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie! Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le
hanno degenerate, questo è un altro discorso.
Queste forme regressive sono le «vandee»
di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri
Siciliani. Vespro Siciliano che, sulla
scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo
e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava
i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.
Il problema degli intellettuali in Italia è un triste
problema, mi pare.
C.: È un triste
problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese,
è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui
l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre
successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e
che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere
coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del
principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole
essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.
È successo sempre, fino a Pasolini, a
Sciascia e altri.
Tanti altri no.
C.: Durante il
fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in
tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese,
che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare
in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto
in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.
Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua
posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli
avvenimenti?
C.: No, guardi,
quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto
legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un
mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra
memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo
industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto. E quindi sopperivo a questa afasia letteraria
facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il
tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche
molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre
Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.
Poi ho capito che per tornare a scrivere e
raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma
almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale.
E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una
necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il
presente.
Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?
C.: A parte Gadda,
Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che
mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione
linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice
toscano.
La sua conversione è avvenuta proprio a
Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872
venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti
romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione
industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni
ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i
primi conflitti.
A Lodi si faceva un giornale
che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte,
c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle
masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il
Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.
Verga subì una sorta di spaesamento e da
questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella
di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e
intatta». Era una Sicilia un poco
cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo,
quella della irredimibilità del destino umano.
Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.
Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori. La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.
La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…
C.: Ci sono due
forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia,
compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è
un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo
risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina
proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire
fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere
anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).
E quindi l’assunto dal quale io sono
partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo
sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia
creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.
Oppure per la disgregazione della ragione,
dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di
questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come
personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di
Annunciazione.
L’ambizione mia è stata di dare una
struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo
ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda. Il mio romanzo parte dall’assunto
dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la
storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura
insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè
quello storiografico e quello letterario.
Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può
aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.
C.: Sì. Vorrei
dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente.
Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi
interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del
Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si
scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci
ha insegnato il Manzoni.
Altrimenti diventano storie romanzate e
allora si possono prendere infinite storie.
Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In
questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero
d’archivio, di lettura documentale?
C.: Ma i romanzi
storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla
lezione manzoniana. Il suo Consiglio
d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura
della Colonna Infame: niente di più
attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne,
della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento
perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica
per poter raccontare l’Ottocento.
Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter
raccontare…
C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia,
altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo,
della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di
tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.
Quello di Manzoni e di Sciascia è
chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un
assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso
anche di classe.
E di speranza nella storia.
C.: Di speranza
nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli
strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia,
l’utopia da cui parto io.
E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo
introduttivo alla relazione sui fatti…
C.: Sì. Il libro
parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella
sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi
sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico,
entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo
di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un
personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.
C’è un po’ di autobiografia in questo?
C.: Io sono
tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel
libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale
di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare
anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere
un romanzo storico.
Nottetempo, casa per casa è
ambientato invece negli anni Venti.
C.: Questo libro
l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di
tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica.
Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in
prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man
mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.
Certo ci sono anche dei capitoli di
sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di
connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è
la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa
perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa,
quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il
dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io
non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita,
che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore,
e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli
uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico,
con lo stare civilmente assieme.
Se, però, questo non avviene, allora
abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e
l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a
Marano. Ci sono tanti significati,
insomma. Il nome Marano viene da «marrano».
«Marrani» in Sicilia, come in
Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare
alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per
non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria
di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola
di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri
grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo
cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e
il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio
da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e
rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo
cambio di classe, a questa negazione all’amore.
E il senso, e qui è metaforico, il senso è
che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di
classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e
siamo diventati «massa».
E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo
perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa
forma di follia, di alienazione.
Questo voleva essere, non so se ci sono
riuscito…
Il ragazzo Marano è un piccolo
intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare,
aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era
impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova
anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba
ed è costretto a scappare, ad andare via.
L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva
sofferto, che aveva visto.
Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza
marxiana nella storia è ancora in vita?
C.: C’è stato il
crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci
eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa
grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.
Non c’è ancora un lume di speranza.
Le uniche cose che vedo, di
questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà
spontanea, come il volontariato dei giovani…
E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio,
che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.
Queste sono cose che veramente mi lasciano
sperare molto, però il ceto politico…
A cura di Lia De Pra Cavalleri Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994
*Colloquio tenutosi il 5 dicembre 1988 nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in una serata organizzata dall’Associazione dei Siciliani nel Ticino e da «Bloc Notes». a cura di Paolo Di Stefano
Giunto a Milano nel 68, all’età di trentacinque anni, Vincenzo Consolo non è emigrante per necessità, ma per scelta. Questa scelta da quali ragioni è stata determinata?
«Devo dire che questa emigrazione a Milano, del 1968, era la mia seconda emigrazione. Emigrazione, naturalmente, tra virgolette, perché era un’emigrazione da privilegiato. Io avevo la possibilità di studiare e quando si trattò di fare gli studi universitari, decisi di compierli a Milano. Studiai diritto all’Università cattolica. Credo che in tutti i siciliani ci sia l’ansia di uscire dall’isola e di vedere il mondo, perché -almeno da parte delle persone che non sono strettamente necessitate- c’è come un bisogno di conoscere il «continente». Io avevo scelto Milano perché sin da allora offriva sollecitazioni letterarie: era la città dove era stato Verga, era soprattutto la città dove viveva Elio Vittorini. Speravo, quindi, andando a studiare a Milano, di conoscere Vittorini. L’incontro in realtà non avvenne a causa della mia timidezza. Mi ricordo che odiavo un mio compagno di università che era diventato amico di Vittorini e poteva liberamente accedere a casa sua e pranzare con lui. Ma voglio ricordare un episodio significativo per quegli anni. Piazza Sant’Ambrogio, dove si trova l’Università cattolica, era allora, parafrasando Calvino, la piazza dei destini incrociati: in quella piazza c’era, oltre alla basilica e all’Università, una caserma della celere -allora il ministro degli Interni era Scelba-, e un centro ricavato da un grande monastero, per l’orientamento degli emigrati. Negli anni Cinquanta c’erano grandi masse di meridionali che arrivavano alla stazione centrale, venivano convogliati su tram speciali e portati in Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti a visita medica ed equipaggiati di casco e tuta, per essere poi mandati all’estero, in Francia, in Svizzera, ma soprattutto nelle miniere di carbone del Belgio. Allora, a studentelli piccolo-borghesi come me, o come Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi o altre persone che oggi appartengono alla classe dirigente italiana, poteva capitare di incrociare il compaesano contadino che emigrava, oppure il compaesano poliziotto. I destini dell’Italia si determinavano in quegli anni della ricostruzione. Finiti gli studi, capii che volevo fare lo scrittore. Pur avendo la possibilità di lavorare a Milano, decisi di tornare in Sicilia: per quelli della mia generazione, che non hanno fatto in tempo a fare la guerra, essere scrittori significava scrivere di problemi sociali, avendo letto la grande letteratura meridionalista del dopoguerra, da Conversazione in Sicilia alla saggistica, da Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre a D’Orso, a Gramsci. Decisi allora di tornare in Sicilia, per insegnare, per fare lo scrittore e testimoniare di quella realtà contadina.»
Perché, allora, il ritorno a Milano, una città con la quale, come tu stesso hai detto più volte, non hai avuto un rapporto facile?
«Tornai a Milano quando il mondo in cui avevo creduto e che pensavo di testimoniare era scomparso davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutti. Si erano verificati grandi movimenti di masse dal Sud verso Nord, che coincisero con la fine della civiltà contadina. Il grande esodo verso l’industria settentrionale mi spinse a fare le valigie per assistere a quella grande trasformazione. Mi sembrava che in Sicilia la storia fosse finita, che si fosse chiuso un capitolo e che al Nord se ne aprisse un altro. In quegli anni c’erano alcune riviste molto attente a quelle trasformazioni, sia dal punto di vista sociale che linguistico: ad esempio, il «Menabò» sollecitava a studiare le commistioni che nascevano dall’incontro dei meridionali con le aree urbane, stimolava l’attenzione verso le nuove koiné che si sarebbero formate. Nel 1968, di fronte al rivolgimento culturale che si stava verifican-do, mi trovai spaesato e spiazzato, perché, provenendo dal mondo contadino, non capivo il linguaggio e la realtà di quella Milano. In molti anni di osservazione e di riflessione capii che non avrei mai potuto narrare di una realtà che non mi apparteneva e di cui non avevo memoria. Quindi l’unico modo per rappresentare quel mondo che non conoscevo era metaforico, rivolgendomi al mio bagaglio di memoria, alla mia storia e alla mia cultura. Cosi, dopo un silenzio di tredici anni, motivato dal momento di spaesamento e di osservazione, viene fuori il secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinato.»
Farei un passo indietro, per ricordare due figure determinanti per la tua cultura, entrambe siciliane, ma rappresentanti di due diverse Sicilie. Che cosa hanno significato per te Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia?
«Devo premettere che io parlo di microcosmi, ma credo che quel che dico possa applicarsi anche a realtà più ampie. Io ho sempre immaginato la la letteratura siciliana -che ha una sua precisa fisionomia, fortemente connotata storicamente e linguisticamente- come divisa in due parti: quella occidentale e quella orientale. Credo che ci sia una linea ideale che divide da una parte, a Ovest, narratori interessati al mondo storico e sociale -perché li son più forti i segni della storia-, dall’altra, a Est, scrittori più portati verso una visione esistenziale e verso una sorta di lirismo -perché il mondo orientale è più compromesso con la natura, una natura spesso violenta qual è, ad esempio, quella delle eruzioni vulcaniche o dei terremoti, con un continuo azzeramento della storia e la necessità di ricominciare sempre daccapo. Penso che questa distinzione sia valida non solo per gli scrittori ma anche per gli altri artisti. Io mi sono trovato a nascere e a vivere al centro di questi due mondi, in una specie di zona di confluenza, in un terreno franco dove c’erano segni labili della storia e segni labili della natura. Per me questi due poli erano rappresentati da Leonardo Sciascia e da Lucio Piccolo. Sciascia lo conobbi quando pubblicai il primo libro, La ferita dell’aprile; mi scrisse invitandomi ad andare a trovarlo. Andare a Caltanisetta fu per me come andare a New York, perché era un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abitavo: per noi che viviamo nella fascia settentrionale della Sicilia è molto più semplice prendere un treno verso il Nord, che esplorare quello che ci sta alle spalle, oltre quella barriera di Appennini rappresentata dai Nebrodi e dalle Madonie. Quindi conoscevo attraverso la letteratura il feudo e le zolfare, ma andando a trovare Sciascia mi accorsi che era una gente e una cultura diverse dalla mia. D’altra parte ho avuto in fortuna di stare vicino a un poeta come Lucio Piccolo, un cugino di Lampedusa, coltissimo, barone, che scriveva poesie altissime. Mi sono trovato, insomma, tra due bastioni, a combattere contro l’uno o contro l’altro.»
Nel 63 esce La ferita dell’aprile: la sintesi, che hai sempre cercato, tra questi due poli di cui parlavi, è già, almeno in parte, realizzata con il primo romanzo?
«Credo di sì. Sin dal primo libro mi sono scoperto una forte tentazione al canto. La ferita è concepita come una ballata, come un poema narrativo, come un romanzo fortemente ritmato. Ma tutto questo e corretto da tante malizie di tipo retorico, come l’ironia, le sprezzature, molte rotture interne e falsetti che ho messo in campo proprio in contrasto con questa propensione alla lirica. Oltretutto i temi trattati non erano per nulla assoluti o esistenziali o idilliaci. Erano argomenti drammatici: ho voluto raccontare con un linguaggio adolescenziale la storia dell’ennesima adolescenza della Sicilia del dopoguerra: la caduta del fascismo, la ricostituzione del partiti, la possibilità di avere una nuova storia sociale, il fallimento di tutto questo e il ritorno all’impostura eterna. È una falsa autobiografia, tanto che io lo considero un romanzo storico.»
Gli anni Settanta per te non sono anni di partecipazione. Eppure, nel ’76 esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, da cui però emergono i segni del tempo. Qual è il rapporto tra storia e attualità?
«Questo libro l’ho potuto scrivere solo perché mi ero trasferito a Milano, dove ho potuto osservare la realtà operaia e industriale, e solo perché avevo visto i conflitti sociali, che in quel momento erano molto acuti. Volendo parlare di questo, mi sono rivolto alla storia siciliana e ho descritto un passaggio storico importante come il 1860, una data che tutta la tradizione narrativa siciliana ha trattato. In effetti gli scrittori siciliani si sono sempre chiesti i motivi della propria storia: per questo il tema del 1860 è stato trattato da Verga, da Pirandello, da De Roberto, da Lampedusa, da Sciascia. È quasi un passaggio obbligato. Io l’ho affrontato volendo trattare un argomento che mi stava molto a cuore: che cos’è la storia, da chi è scritta, qual è il dovere e l’atteggiamento dello scrittore e dell’intellettuale di fronte alla storia, in determinati momenti acuti. E giusto e morale, quando fuori le masse sono impegnate in lotte molto accese, che lo scrittore rimanga chiuso nella propria stanza a scrivere di se stesso o di squisitezze? Il protagonista di questo libro, il barone Mandralisca, è investito da questi interrogativi nel momento in cui in Sicilia avvenivano le rivolte popolari. Allora ho voluto raccontare l’atteggiamento di questo studioso, amante di oggetti d’arte, collezionista di quadri e studioso di malacologia, che si trova ad essere testimone di fatti atroci e di massacri.»
La presenza del documento originale, intercalato al racconto, può essere interpretato come il segno di un’insufficienza della narrazione?
«Direi che è un senso di colpa dell’arte nei confronti della storia e della vita. Io sento molto il privilegio della scrittura e il piacere della narrazione, ma anche un bisogno di verità nei confronti della grande menzogna che è la letteratura. Per questo, nella struttura del Sorriso, ho immaginato, insieme all’invenzione, l’inserimento di documenti, per mostrare la verità e la sublime impostura della letteratura legate in un tessuto unitario che desse un quadro complessivo. Raccontare in modo rotondo una storia come quella mi sembrava ingiusto. Ho voluto far veder e il disegno accanto al dipinto finito.»
Un aspetto fondamentale per comprendere la scrittura di Consolo è il linguaggio adottato. Che atteggiamento assume lo scrittore di fronte a questo argomento? A cosa si deve la scelta di quella «plurivocità» di cui ha parlato Cesare Segre?
«Il discorso sul linguaggio è molto complesso. Per quanto mi riguarda credo che ogni scrittore, se appartiene ad aree linguistiche periferiche dove Litaliano è una lingua che si acquisisce -come è stato nel mio caso-, debba inventarsi una lingua, non possedendo quella nazionale. A questo si aggiungono esigenze di tipo estetico-letterario. Da quando cominciai a scrivere io capii che non dovevo scrivere in italiano, proprio perché gli argomenti che volevo affrontare cozzavano con una lingua che parlava d’altro. Quindi volevo adottare una lingua che si opponesse a quella centrale, una lingua, se vogliamo, di contropotere. Questo, ovviamente, non è stato un problema solo mio, ma appartiene alla storia letteraria siciliana e non solo siciliana. Manzoni, quando decide di scrivere i Promessi sposi, un romanzo prettamente lombardo, in lingua toscana, lo fa per ragioni politiche, contro il potere austriaco. L’operazione linguistica del Verga è di segno opposto: rifiuta il toscano e sceglie una lingua altra per fare scoprire una realtà periferica che l’unità italiana ignorava: per questo Verga, prima di scrivere, studiò le tradizioni popolari, si documentò su inchieste parlamentari e no, fu molto colpito dal sondaggio di Sonnino e Franchetti sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, soprattutto il capitolo finale in cui si parlava del lavoro infantile nelle miniere di zolfo, che fu una rivelazione per tutta l’Italia. Verga, per questo, scrisse in una lingua, come disse Pasolini, irradiata di elementi dialettali. Lo stesso Pasolini, provenendo dal Friuli, dovette affrontare lo stesso problema; non a caso le prime sue opere furono in dialetto e quando si trasferì a Roma scrisse in una lingua particolare, realizzando un processo retorico contrario a quello di Verga che abbassava a livello dialettale la lingua nazionale. Viceversa Pasolini, attraverso la digressione, partiva dalla lingua italiana per inserirvi elementi dialettali. Ci sono due modi per evitare di scrivere in italiano: un processo di irradiazione e un processo di innesto.»
Quando in Italia si parla di espressionismo linguistico nel Novecento si pensa a Gadda. In che termini si pone la tua ricerca linguistica rispetto all’esperienza gaddiana?
«Direi che ha agito non più di tanto, non credo che mi abbia influenzato, anche se, naturalmente, ho letto Gadda con interesse. Credo che l’unico aspetto che ci accomuna è il fatto che sia in Lombardia sia in Sicilia 111
è presente l’elemento spagnolo. Forse certo barocchismo proviene da questo retaggio culturale. Una volta hanno chiesto a Gadda le ragioni del suo barocco: rispose che barocco è il mondo e lui non faceva che rappresentarlo. La stessa tradizione siciliana è barocca, è composita, per nulla lineare e razionale. Brancati, commemorando Giuseppe Antonio Borgese, gli rimproverava di non aver praticato il barocco sino in fondo. Parlando del barocco siciliano, Brancati disse che è una linea retta che uscendo da un ghirigoro rientra subito in un altro ghirigoro. Questo significa che esiste la consapevolezza nel voler rappresentare una realtà e una tradizione che è in sé barocca.» Alla ribellione contro la lingua e contro la storia, si aggiunge in Consolo una opposizione rispetto ai generi letterari acquisiti. Il sorriso dell’ignoto marinaio, come è stato detto, è un romanzo che distrugge il romanzo.
«Sì. Io ho sentito in un certo senso la colpa di scrivere. Per questo ho cercato di negarmi sempre a qualsiasi tipo di inquadramento. Il sorriso ha una struttura così rotta, franta, è un assemblaggio di elementi talmente di- versi, che pensavo che il lettore potesse sentirsi frustato ad ogni pagina. Soprattutto per certo linguaggio presente nelle parti narrative, un linguaggio in negativo, cioè talmente mimetico e ironizzato che vuole negarsi nel momento in cui nasce. Cercavo di fare la parodia del linguaggio erudito dell’Ottocento. Inoltre il documento storico, diversi livelli linguistici e alla fine le scritte a carbone, che sono quanto di più sintetico, duro e incisivo si possa immaginare. Era un modo di sottrarsi al romanzo storico leggibile di fila, e quindi il tentativo di richiedere al lettore volenteroso di partecipare alla ricreazione del romanzo.»
Una costante dei libri di Consolo è la presenza, in diverse forme dell’immagine, del documento iconografico: Il sorriso parte da un quadro di Antonello, Lunaria contiene addirittura un corpus di riproduzioni ico-nografiche, Retablo ha per protagonista un pittore contemporaneo calato in ambiente settecentesco. Che significato ha questo rapporto con l’immagine?
«Forse la consapevolezza dell’insufficienza della parola e un bisogno di icasticità e di visualità. Nel Sorriso il Leitmotiv del quadro di Antonello si presenta in termini opposti: in un primo momento come presenza positiva, poi in senso rovesciato. In Retablo già il titolo appartiene alla categoria pittorica: «retablo» significa polittico, cioè insieme di storie raccontate in più scomparti. È un termine che si estende anche al teatro; in Cervantes «retablo» significa proprio teatrino. Io ho preso lo spunto da questa suprema ironia cervantina che richiama il senso dell’arte come impostura. Inoltre il protagonista è un pittore: il segno del falso storico che ho voluto rappresentare è proprio nel fatto che un pittore vivente assume vesti settecentesche.»
Fabrizio Clerici ha raccontato, in un’intervista, il pretesto che ha dato spunto al libro: un viaggio in Sicilia realmente accaduto…
«Una volta ci siamo trovati a Palermo per un fastoso matrimonio della nobiltà cittadina, a cui indegnamente ero stato chiamato a fare da testimone. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un viaggio, con Clerici e altri, percorrendo l’itinerario classico di tutti i viaggiatori stranieri dal Settecento in poi. Da Palermo si approdava a Segesta, testimone della grecità, a Selinunte, poi ad Agrigento, spingendosi a volte fino a Siracusa, per fare il giro completo dell’isola. Fu quel giro a suggerirmi un libro che raccontasse di un viaggiatore lombardo in Sicilia. Ho scelto Clerici, che è di origine lombarda ed è un pittore tra il surreale e il metafisico. Inoltre in anni lontani aveva dipinto un quadro dal titolo «Confessione palermitana», dove comparivano le damine settecentesche di uno scultore che lavorava gli stucchi, il Serpotta, accanto alle quali aveva riprodotto gli scheletri delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tutti questi elementi mi hanno spinto a inserire la figura di Clerici come protagonista del libro. Del resto Clerici e un personaggio già visitato dalla letteratura, essendo apparso in un libro di Savinio su Milano, Ascolta il tuo cuore città, in cui l’autore individua in Clerici un personaggio stendhaliano.»
In Retablo si raggiunge una sorta di sintesi tra l’elemento illuministico, rappresentato da Clerici, e la coralità siciliana barocca.
«Direi di si. La storia racconta di un personaggio, Clerici, innamora-to, non corrisposto, di Teresa Blasco, una fanciulla bellissima, secondo le testimonianze storiche rimaste, figlia di un militare spagnolo e di una siciliana. Nella realtà Teresa sposa Cesare Beccaria. Quindi, nella mia immaginazione, questa vicenda rappresenta l’incontro tra la ragione illuminista e la poesia della ragazza. Dall’incontro emerge la figura di Manzoni, di cui Teresa è la nonna, avendo generato, con Cesare, Giulia Beccaria. Il senso era questo: l’unione tra logica e irrazionalità. Clerici si allontana dalla cultura illuminista per pene d’amore; incontra in Sicilia un ex-frate, Isidoro, in preda anch’egli al delirio d’amore. Allora intraprendono insieme, come don Chisciotte e Sancio Panza, un viaggio per la Sicilia. L’intento di Clerici è di prendere le distanze dalla donna, immettendosi, lui dice, in una dimensione di «stasi metafisica», senza però riuscirci. Ma soprattutto è travolto dalla vita, quindi si crea questa tensione tra la ragione e la poesia.»
Torniamo indietro: in Lunaria (1985) come si combinano i richiami a Lucio Piccolo e a Leopardi?
«In effetti la dedica è molto importante: «A Lucio Piccolo primo ispiratore, con ‘L’esequie della Luna’. Ai poeti lunari. Ai poeti.» Lucio Piccolo, l’ho già detto, era un bravissimo e purissimo poeta scoperto da Montale, che aveva esordito nel 56, prima del Lampedusa. Le cronache letterarie si occuparono subito di questo signore eccentrico, barone, che esordiva già in età matura. Poi, però, fu commessa una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Quando esplose il fenomeno del Gattopardo, scritto dal cugino, se ne senti quasi come schiacciato, perché ogni volta che si parlava di lui veniva citato come il cugino di Lampedusa. Questo lo amareggiò molto e una volta, come racconta Sciascia, disse che era Lampedusa il suo cugino e non viceversa. In effetti la critica italiana non gli ha mai reso omaggio, mentre all’estero è molto tradotto. In anni lontani aveva intrattenuto corrispondenze con poeti stranieri importanti, come Yeast e Ezra Pound. Era un uomo di una cultura sterminata, aveva vissuto sempre appartato ed era molto autocritico. Il mio libro, Lunaria, è stato scritto in omaggio a lui, perché aveva scritto un’operetta in prosa che era una sorta di canovaccio da cui voleva ricavare un balletto. Infatti aveva mandato quel canovaccio a Ilde-brando Pizzetti che poi non ne fece nulla. Il tema di queste Esequie della Luna è la caduta della luna, è un tema leopardiano. In una poesia, Spavento notturno, Leopardi dice di un sogno in cui, appunto, la luna era precipitata. Io riprendo questo argomento facendone un’opera teatrale. In realtà ero molto disgustato per certa romanzeria di consumo che si faceva in quegli anni e che purtroppo continua a farsi. Allora ho voluto spingermi oltre Il sorriso dell’ignoto marinaio, proponendo un’opera in cui venisse eliminata tutta quella parte che è la radice del romanzo, la parte diegetica, riducendo all’osso la descrizione con brevi didascalie. La mia preoccupazione era che l’opera fosse più vicina alla poesia, con un rovesciamento di ruoli, per cui le parti scritte in versi sono più prosastiche, mentre le didascalie in prosa sono più ritmate e rimate. Ancora una volta era quindi un libro scritto in polemica rispetto all’industria culturale.»
A proposito dell’ultimo libro, Le pietre di Pantalica, alcuni critici hanno avvertito una sorta di sentimento nostalgico che lo pervade. Tu accetti questa osservazione?
«Non credo che ci sia nostalgia. Il libro è strutturato in tre parti, «Teatro», «Persone», «Eventi». Non so dove si possa avvertire questa nostalgia. Non credo certo nella terza parte, che è la più diaristica, la più violenta: si fonda sui miei ritorni in Sicilia di questi anni, sulla constatazione di un degrado, di un processo di imbarbarimento e di atrocità. Nella prima parte ho voluto raccontare gli ultimi bagliori dell’epopea contadina, a partire dall’arrivo degli Americani sino agli anni Cinquanta, il tentativo fallito di avere una riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il mondo contadino non era assolutamente un mondo felice, per cui non credo se ne possa nutrire nostalgia. Tuttavia cerco di dimostrare che c’erano alcuni valori che si sono perduti: un senso immediato della realtà, senza schermi, e un’alta considerazione della vita umana. Credo che nel processo di imbarbarimento d’oggi sia avvenuto innanzitutto un distacco dalla realtà, per cui non se ne ha più la percezione. Tutta la storia della civiltà, secondo me, è contrassegnata da un oscillare continuo di accostamento e allontanamento dalla realtà. Nei momenti di distanziamento si verifica quella che noi chiamiamo alienazione, che ci costringe a guardare delle false realtà: momenti storici come quello che stiamo vivendo mi fanno pensare al ritorno dentro la caverna platonica, dove ci sono gli uomini che guardano le loro ombre sulle pareti della caverna credendo che quella sia la realtà, mentre la realtà è alle loro spalle. L’altro tema è la perdita del valore della vita umana, che oggi, osservandola dalla Sicilia, mi pare svilita in tutti i sensi. Allora ho parlato delle violenze siciliane, della mafia, in un anno preciso in cui sono successe atrocità incredibili. Era l’estate del 1982, dove un delitto si susseguiva all’altro. In luglio c’era la festa della patrona, santa Rosalia: io ho assistito alla processione, a cui era presente anche il prefetto Dalla Chiesa, incontro Camilla Cederna, che doveva intervistare lui e sua moglie. Quando sono tornato a Palermo, in settembre, il prefetto e la moglie erano stati uccisi. Si è trattato di un anno terribile, in cui sono state uccise più di cento persone. Ho voluto raccontare il degrado di questa città, ma anche di Siracusa, che è un luogo che appartiene a tutti, una città di grande valore civile e culturale, circondata da una enorme fascia di industrie dove interi paesi sono stati evacuati perché nascevano bambini deformi.» Come sono stati strutturati, nell’insieme, i diversi testi, in gran parte concepiti come estravaganti?
«La prima parte, «Teatro», è un nucleo narrativo unitario che avevo concepito come romanzo storico e dopo abbandonai perché non mi interessava più come genere. Quindi ho utilizzato solo una parte di questo roman-zo, che ho sforbiciato, perché mi importava allontanare nel tempo quella civiltà, senza rappresentarla ravvicinata. Poi ho raccolto altre cose che avevo scritto, ma era un periodo in cui guardavo e pensavo con quegli stessi occhi. Quindi ho messo in scena delle persone di quel mondo, come Lucio Piccolo o l’etnologo Antonino Uccello, che rappresenta il personaggio portante di tutto il libro, poi Leonardo Sciascia e Buttitta. A questo ho aggiunto il diario che ho tenuto durante i ritorni in Sicilia. Mi sembra che, più che racconti, il libro, per gli slittamenti che esistono tra una sezione e l’altra, per i rimandi, abbia un’unità e una struttura molto aperta ma anche coerente. Il sigillo del libro è dato dall’ultimo racconto, un racconto-verità, desunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, che si intitola «Memoriale di Basilio Archita». È un racconto che si svolge in pieno oceano su una nave greca, dove vengono scoperti dei clandestini kenioti che vengono gettati a mare in pasto agli squali, per decisione del capitano e degli ufficiali di bordo. Sono stato molto colpito da questo fatto e ho voluto riprodurlo immaginando che a bordo ci fosse un mozzo di origine siciliana, Basilio Archita, che, dopo essere sbarcato al Pireo, raccontasse questo delitto terribile, come testimone. Ho voluto dire che questo processo di imbarbarimento non è solo in Sicilia, ma sta all’origine della nostra civiltà che, come tutti sappiamo, ci viene dalla Grecia.»
All’inizio del racconto dedicato a Sciascia hai posto come epigrafe una sua frase che dice: «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.» Questa affermazione è valida anche per te?
«Sì, certo. Sciascia, però, quando parla della sconfitta della ragione pensa soprattutto all’aspetto storico e sociale: parla dell’inquisizione, dei fallimenti politici, delle offese all’uomo. Io porto la sua affermazione alle estreme conseguenze e penso alla disgregazione della ragione come follia. Una componente che è stata poco sondata dalla narrativa siciliana è proprio la follia del siciliano. Per questo ho paragonato la realtà siciliana a una tempesta alla quale è estremamente difficile sopravvivere. Quando ci si salva si approda, secondo me, a una sorta di maturazione anticipata. Ho paragonata la maturazione di cui parla Pirandello nel Fu Mattia Pascal («Così l’anima mia venne a maturazione ancora acerba…») a quei frutti che si producono artificiosamente fuori stagione in Sicilia e che si chiamano verdelli. Si portano le piante di limone, nell’agosto inoltrato, sull’orlo della morte, privandole dell’acqua, le foglie rischiano l’essiccazione e sono sul punto di cadere. Quando l’albero è «patuto», come si dice, viene immessa l’acqua nel mezzo degli agrumeti e l’albero fiorisce di colpo, mette la zagara e immediatamente cresce il frutto, un frutto fuori tempo, profumatissimo e gustosissimo che si chiama verdello. Per il siciliano è la stessa cosa: arriva all’orlo della morte e, se riesce a sopravvivere, acquista una saggezza prematura, una disperata intelligenza e una dolorosa consapevolezza.»
Pensi che oggi persistano, nell’ambito della letteratura prodotta in Sicilia, alcune caratteristiche tipiche che si possono definire siciliane a tutti gli effetti?
«Fino alla mia generazione è esistita. Adesso c’è una sorta di uniformazione. Io, negli anni settanta, ho fatto per anni il lettore per Einaudi e mi sono accorto che c’è stato un momento di passaggio da una scrittura a un’altra. Avevo chiesto a Einaudi di occuparmi soprattutto di letteratura meridionale. C’erano scrittori che in quel periodo erano portatori di realtà sociali ben precise, poi, passando a generazioni più giovani, notavo che i dattiloscritti che arrivavano da Palermo erano sempre più uguali agli altri. Come è avvenuta l’uniformazione linguistica, è venuta l’uniformazione dei temi. Cadeva l’interesse verso il mondo esterno, si tendeva sempre più a parlare dei propri problemi. Inoltre da una scrittura di conquista, una scrittura-scrittura, si passava a una specie di trascrizione di un parlato uguale per il Meridione come per il Nord. Le piccole culture si stanno distruggendo, ma è un processo di omologazione che avviene dappertutto, in Occidente attraverso la forza dell’economia e all’Est per forza di carri armati. Mi sono trovato una volta a Palermo a un convegno internazionale di scrittori. C’erano due scrittori emblematici del cosiddetto socialismo reale, Evtusenko e Kundera. Naturalmente non si amavano e lo mostrarono subito. Ma il primo a provocare fu Evtusenko: disse che gli astronauti sovietici gli avevano detto che dallo spazio le piccole patrie non si vedevano, si vedevano solo le grandi terre, i grandi continenti, alludendo al fatto che la Cecoslovacchia dall’alto non esisteva. Kundera rispose che è probabile che dallo spazio non si vedano le piccole patrie, ma dagli oblò dei carri armati si vedono benissimo. È questo il tema doloroso di Kundera, la sparizione della patria boema.»
Domande del pubblico.
Lei ha citato molti nomi di autori siciliani, ma non ha parlato di Gesualdo Bufalino. Che opinione ha di questo scrittore?
«Lo conosco benissimo, ma lo considero uno scrittore che non appartiene in modo totale alla tradizione siciliana. E un autore, secondo me, che si rifà un po’ a certa scrittura degli anni Trenta, di tipo centrale, rondista, i cui esponenti maggiori, per intenderci, erano Emilio Cecchi e Cardarelli, prosatori d’arte. In lui non vedo sperimentazione, la sua è una scrittura che appartiene, sia pure in modo magistrale, al codice nazionale, non c’è una parola che non sia nel vocabolario italiano, anche se si tratta di una scrittura di livello molto alto ed elegante. Quando cita una parola in dialetto la mette tra virgolette o in corsivo e le sue tematiche assolute non appartengono alla tradizione letteraria siciliana. Per questi motivi Bufalino potrebbe anche essere nato a Roma.»
Che rapporto c’è per lei tra la Sicilia come piccola patria e il suo tentativo di recupero della ricchezza culturale e linguistica della sua terra?
«Ci sono due modi di guardare alle piccole patrie. Un modo regressivo, per cui ci si chiude dentro al grembo materno senza crescere al mondo dell’agorà e della discussione: quindi il compiacimento della chiusura. Per me le radici, le storie e la cultura locale servono come metafora, come metro per misurare il resto del mondo. Faccio un esempio emblematico per essere più chiaro. C’era un poeta siciliano della fine dell’Ottocento, Alessio Di Giovanni, figlio di un notaio, che una sera rimase ammaliato dal canto in siciliano di un carrettiere, uno di quei canti che somigliano molto alle nenie arabe. Da allora si mise a studiare il mondo siciliano dialettale, scrivendo anche romanzi e poesie in siciliano. Quando uscirono I Malavoglia, rimproverò all’autore di avere scritto quel libro in italiano e si propose a Verga come traduttore in siciliano del romanzo. Naturalmente Verga si oppose. Quello di Alessio Di Giovanni era un modo compiaciuto di guardare al sicilianismo, e in questi casi non è difficile arrivare a chiusure assolute e a forme politiche molto dubbie: non per nulla questo Di Giovanni confluì nel movimento provenzale di Mistral che era molto di destra. Per me non è compiacimento del localismo, ma è misura del mondo data dalla propria cultura e dalle proprie radici.»
Il suo secondo libro è uscito a tredici anni dal primo. Pietre di Pantalica è apparso un anno dopo Retablo. I suoi tempi di lavoro sono cambiati o sia mettendo a frutto quanto ha fatto in passato?
«Prima avevo molti più dubbi, Forse, adesso, tante preoccupazioni sono cadute. Ma sento anche l’urgenza di dire alcune cose che prima non sentivo la necessità di comunicare. Nell’ultimo libro ho voluto ribadire lo
stesso discorso di Retablo con un linguaggio diverso, in termini molto più chiari. L’ho messo assieme, lavorando molto, proprio per riproporre quel discorso della scrittura con altre parole. Ma anche per mostrare che, al di là del barocchismo, in Retablo c’erano argomenti di fondo che mi stavano a cuore. Il tema di fondo, quindi, rimane uguale: cioè certa cultura e certa civiltà che nel mondo d’oggi si stanno perdendo.»
Che sentimenti nutre rispetto alla società letteraria d’oggi: non sente di compromettersi anche lei nell’industria culturale?
«Finora ho potuto rimanere appartato, rinunciando ad aderire alla società letteraria, negandomi. Dal primo al secondo libro sono passati tredici anni. Il sorriso è stato quel che si dice, in termini molto volgari, un successo editoriale, i critici ne hanno parlato moltissimo. Sull’onda di quel libro avrei potuto scrivere tanti altri romanzi uguali o simili, ma mi sono ritirato, fino a pagare con l’oblio questo mio silenzio. Nell’85 ho pubblicato un libretto che era la negazione del romanzo e del suo consumo. Adesso sento la necessità di scrivere di più. Oggi non è più cosi facile starsene appartati, anch’io subisco quelle che sono le dittature dell’industria e dei mezzi di comunicazione. Anch’io vado per librerie a fare presentazioni, anch’io mi nono assoggettato, con malagrazia e con molte remore, alle leggi della pubblicità e del consumo. Comunque ho cercato almeno di non perdere dignità e classe, di non arrivare a certi spettacoli degradanti. Oggi la letteratura, come la politica o la religione, è spettacolo. Le sorti nostre si decidono sulla base di spettacoli televisivi come quelli delle elezioni americane.»
Come può un siciliano vivere a Milano?
«Le posso rispondere con un’altra domanda: come può un siciliano oggi vivere a Palermo? È terribilmente difficile. Quando vado a Palermo e incontro Sciascia, il quale mi dice del suo dolore e della sua pena di stare in una città e in una terra come quella, mi accorgo di quanto sia atroce vivere li. Ma oggi è altrettanto terribile vivere a Roma e forse in tutta Italia. Ma credo che per i siciliani, quando potevano scegliere, come me nel 68, c’erano due modi di uscire dal loro paese: c’era una corrente che li portava a Roma e una corrente che li spingeva a Milano. Questo non era casuale, dipendeva da due modi di concepire il mondo: non per nulla Brancati approdò a Roma, mentre Vittorini scelse Milano. Milano era l’opposto della Sicilia, era la città della organizzazione sociale, mentre noi venivamo da una terra di disgregazione e di disordine atavico. Quando, nel 68, ho scelto Milano, l’ho fatto pensando che a Milano ci fosse un progetto sociale e culturale.
Oggi questa speranza è fallita e mi costa moltissimo rimanere a Milano. Ho detto, fra virgolette, che Milano è oggi la città più volgare d’Italia perché da Milano parte il messaggio pubblicitario, lì si organizza il messaggio che riduce il resto d’Italia in grandi masse di consumatori di oggetti inutili. Ma è volgare anche perché ci sono le case editrici, le case di moda, regno della futilità, i giornali, le televisioni. Eppure, se mi trovo a immaginare una città in cui mi piacerebbe abitare, non so pensare ad altre città se non a Milano. Quando ci si sradica a trentacinque anni, come è capitato a me, si finisce per non appartenere più a nessuna terra. Io vado spesso in Sicilia, ma quando arrivo mi arrabbio e non vedo l’ora di tornare a Milano; quando sono a Milano mi arrabbio con Milano e cerco di tornare in Sicilia.»
Lei crede che la letteratura debba avere soprattutto un compito sociale?
«Credo che lo scrittore abbia il dovere di essere estremamente critico anche in una ideale società perfetta. C’è un modo di dire dei tedeschi, riferito a scrittori come Böll o Enzesberger: si dice che sono scrittori che hanno sporcato il nido, perché parlano male del loro paese. Ma io credo che sia questo lo scopo della letteratura, sporcare il nido. I politici non lo fanno certo, sporcano eventualmente le coscienze. Ma soprattutto penso che sia questa la funzione del romanziere, perché il romanzo è uno strano ibrido, una unione di discorso logico e di discorso poetico. Ora, io dico che i poeti, i fanciulli e i re non hanno questo dovere proprio perché mancano dell’aspetto logico, che implica il contesto di cui facciamo parte. Nel momento in cui parliamo degli altri, facciamo un discorso critico e oppositivo. Perciò questo non è possibile ai bambini, né ai poeti, i quali non sono chiamati a fare i conti con il discorso logico. Ma neppure chi ha il potere possiede questa facoltà logica, perché non può andare contro i propri interessi. Per me il romanziere che non esercita la critica è uno scrittore di corte e perciò non esercita l’opposizione, perché ambisce ad essere abbracciato dal rе.»