Le interviste di ITALIALIBRI VINCENZO CONSOLO

«Devo dire che sono nato in una famiglia piccolo borghese…»
(Vincenzo Consolo)

Gli anni della formazione

Lei è nato in Sicilia nel 1933 sotto il regime fascista e a sette anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Che tipo d’infanzia ha vissuto?

Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

D. La prima domanda è questa: Lei è nato in Sicilia nel 1933 sotto il regime fascista e a sette anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Che tipo d’infanzia ha vissuto?

1933. Benito Mussolini tra la folla
evo dire che sono nato in una famiglia piccolo-borghese. Mio padre era un commerciante, lavorava insieme ai fratelli ed era stato l’unico trasgressore di quelle che erano le regole di comportamento della piccola borghesia di allora, in un paese siciliano. Si era innamorato di una ragazza che era di condizioni economiche un po’ inferiori alle sue. Era senza dote e suo padre voleva che sposasse un’altra ragazza. Mio padre ha insistito, ha voluto quella ragazza di cui si era innamorato e hanno fatto la famosa fuitina, sono scappati e poi hanno regolarizzato il matrimonio successivamente. Mi ricordava mia madre che si erano sposati in sagrestia perché quelli che facevano questo atto trasgressivo non potevano fare il matrimonio in chiesa. Hanno fatto poi otto figli, e questo è un segno del loro amore. Noi eravamo gli unici figli di questa autorità che era rappresentata dagli zii e dal nonno. Eravamo sovrastati da questa plurima autorità. Io ero il sesto di otto figli.
Mio padre non era un intellettuale, era un uomo di poca cultura, pratico, però aveva visto che i fascisti erano le persone meno rispettabili del paese, che sotto il regime avevano trovato la collocazione più giusta e l’alibi per i loro fallimenti personali. I ricordi più vividi sono del periodo della guerra quando, al momento dello sbarco degli americani in Sicilia, comincia il periodo dei mitragliamenti, dei bombardamenti e quindi la paura per queste forme che io bambino non riuscivo a capire. Sentivamo i mitragliamenti di notte, le incursioni e anche i bombardamenti dal mare. Le corazzate americane si piazzavano e bombardavano il paese e tutta la costa. C’era il terrore da parte mia. Per un bambino di quell’età – nel ‘42/’43 avevo 10/11 anni – era una violenza inaudita. Finalmente mio padre si convinse e ci trasferimmo in campagna. Lì mi sentii più rassicurato. Ci furono però dei morti anche in campagna perché le bombe venivano sganciate alla cieca. Mi ricordo la notte terribile, prima che arrivassero gli americani, di questi incessanti cannoneggiamenti, mitragliamenti, bombardamenti. Un mio zio mi fece vedere attraverso un cannocchiale i militari americani che scendevano dalla montagna di San Fratello e quindi ebbi la visione di questi liberatori. Andai con mio padre – ero un ragazzino curioso e petulante – in paese per vedere i danni subiti dalle nostre case. La strada del paese dove si affacciava la nostra casa era ingombra di macerie, fili della luce. Non c’erano state però ruberie. Mio padre, quando finimmo l’ispezione a casa nostra dove era crollato un pezzo di casa, mi disse: tu aspettami qui e non prendere niente in mano. Io ero lì immobile. Passò una colonna di americani. Vidi per la prima volta in vita mia un negro e rimasi sbalordito. Questo nero, vedendo lo stupore del bambino da solo sul marciapiede, mi tirò un tubetto di caramelle. Mi colpì sulla pancia, mi fece male, ma io incuriosito dapprima toccai il tubetto con il piede e poi lo presi in mano. Lo scartocciai e vidi che erano le caramelle con il buco. Quando venne mio padre non gli dissi di aver trasgredito il suo ordine di non toccare niente. Tornammo poi in campagna. Questi ricordi della guerra li ho trasferiti nell’ultimo mio libro, Lo spasimo di Palermo,una sorta di flashback.
Mi ricordo del secondo dopoguerra di noi ragazzini, come eravamo esposti a infiniti pericoli, a causa delle bombe sparse di qua e di là e la nostra occupazione preferita era quella di giocare con queste armi, con le micce che incendiavamo, le bombe a mano che buttavamo. Molti miei compagni sono rimasti segnati per la vita da questi giochi proibiti. Mi ricordo un compagno a cui era saltata una mano, un altro che era diventato cieco. Mi ricordo un ragazzino completamente bruciato perché aveva preso fuoco con le micce. Ho un ricordo terribile di queste ulteriori vittime, che erano i bambini, un po’ come in tutte le guerre. Frequentai la scuola media in un istituto religioso di salesiani dove c’era anche l’oratorio. Questa educazione cattolica forzata, i reduci che tornavano, queste sono le mie memorie che ho raccontato nel mio primo libro in cui mi sono liberato di questa memoria dell’infanzia, e che si chiamaLa ferita dell’aprile.
Finiti gli studi della scuola media la mia scoperta del mondo fu andando a studiare a 80 km dal mio paese dove frequentai il ginnasio e il liceo. Fu la rivelazione di un mondo nuovo e diverso. Barcellona era spagnola, catalana, sia di nome che di fatto, gli abitanti erano diversi da quelli del mio paese. Avevano un senso più libertario, erano delle persone più intraprendenti, meno ancorate a una geometria di accortezza, parca, che era il mondo del mio paese.
C’era un nucleo di anarchici e c’era un anarchico che era un professore di veterinaria dell’Università di Messina, un poeta, che era andato in carcere durante il periodo del fascismo e che poi aveva capeggiato, nel secondo dopoguerra, una rivolta di braccianti, aveva ingaggiato una battaglia con i carabinieri, i carabinieri sparando e lui colpendoli con le tegole del tetto di casa sua. E poi fu imprigionato e liberato dalla prigione da Togliatti che lo fece mettere in lista per le elezioni di ’48. Diventò poi deputato. Questo personaggio mi aveva molto affascinato ed è stato molto importante nella mia vita. Con il suo libertarismo mi aveva fatto conoscere un altro modo per leggere il mondo, un modo più libero, più libertario, soprattutto di opposizione a quelli che sono i periodi di dittatura, di oppressione e di repressione.
D. Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

«Sono capitato in uno scaglione di ex detenuti e di persone che facevano il militare in ritardo, perché magari erano andati all’estero ed erano tornati, quasi tutti analfabeti. Io diventai lo scrivano del plotone, scrivevo le lettere per le famiglie di questi militari».
(Vincenzo Consolo)

Gli anni della formazione

Lei è nato in Sicilia nel 1933 sotto il regime fascista e a sette anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Che tipo d’infanzia ha vissuto?
Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

D. Ha frequentato la facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica. Qual è il tema della sua tesi di laurea?

a tesi, in Filosofia del Diritto, riguardava la crisi dei diritti della persona umana, della dichiarazione della Società delle Nazioni – allora non si chiamava ancora ONU. Verteva sulla crisi di questi diritti dell’uomo. Non mi sono laureato all’Università Cattolica, bensì all’Università di Messina. Qui a Milano, all’Università Cattolica, ho fatto tre anni. Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito. C’era stato il cognatino del mio fratello maggiore che era approdato prima di me alla Cattolica e quando in casa si fece la riunione per stabilire dove mandarmi a studiare, mio fratello maggiore disse: «Lo mandiamo a Milano», perché c’era il precedente del cognatino.
All’Università Cattolica c’erano molti studenti meridionali delle zone più depresse, della Calabria, della Lucania, della Puglia. Molti siciliani. Molti erano «a posto gratuito» perché avevano il certificato di povertà che rilasciavano i parroci. Questi miei compagni di scuola divennero poi, con gli anni, classe dirigente italiana. Molti eminenti uomini politici, democristiani, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco, i fratelli Prodi. Era l’Italia che riprendeva le sue fila. Io sono arrivato a Milano nel ’52 e quindi era ancora una Milano che si stava ricostruendo dopo la ferita della guerra.
Poi ho dovuto interrompere gli studi per un disguido di carattere burocratico – non avevo presentato i documenti di iscrizione all’Università per avere l’esenzione militare – ero stato chiamato militare, sono dovuto partire e sono capitato in uno scaglione di ex detenuti e di persone che facevano il militare in ritardo, perché magari erano andati all’estero ed erano tornati, quasi tutti analfabeti. Io diventai lo scrivano del plotone, scrivevo le lettere per le famiglie di questi militari. Finito il periodo militare che allora era lunghissimo, durava 18 mesi, mi trasferii a Messina dove mi laureai con un professore di filosofia del diritto, uno che aveva fatto parte della Costituente, un socialista. Mi laureai. Come alibi, per ritardare l’impegno con il lavoro, mi mise a fare la pratica notarile, prima presso un notaio del paese e poi andai a fare la pratica presso mio cognato che era notaio a Lipari, e ho vissuto questa bella stagione di peregrinazione per le isole Eolie, dove andavamo a fare i contratti, testamenti, compravendite e così via. Non diventai notaio. Quegli anni mi servirono per coltivare quella che era la mia passione per la lettura. Fu in quegli anni che cominciai a scrivere il mio primo romanzo, La ferita dell’aprile.
D. Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?

«Capii attraverso le letture e l’aggiornamento attraverso le riviste letterarie, cosa era successo: la conclusione di un’estetica letteraria che andava sotto il nome di neorealismo e la possibile collocazione come scrittore sulla linea di una scrittura comunicativa oppure di una scrittura espressiva o sperimentale, che dir si voglia».
(Vincenzo Consolo)

L’avventura della scrittura

Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?
Cosa L’ha spinta a ritornare a Milano, nel 1968? Come all’inizio si guadagnava da vivere? E come questo ritorno a Milano ha influito sulla sua scrittura?
A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?
Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni…

D. Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?

ì, rifiutai di fare qualsiasi attività di leguleio, avvocato o fare concorso di giudice o notaio. Ho insegnato nelle scuole agrarie. L’insegnamento in scuole sperdute, in paesini di montagna, mi serviva per conoscere meglio il mondo contadino che io volevo raccontare. Negli anni in cui avevo deciso di fare lo scrittore, gli schemi, gli esempi, gli archetipi nostri erano da una parte Carlo Levi con Cristo si è fermato a Eboli e con il libro siciliano Le parole sono pietre, che parlano appunto dei due mondi contadino sotto il fascismo e dall’altra parte i miti di Pavese, diVittorini, soprattutto il Vittorini di Conversazioni in Sicilia. Io volevo conoscere questo mondo, volevo assolutamente rappresentarlo.
L’idea era di una scrittura di tipo sociologico, «alla Carlo Levi», però poi quando mi misi a scrivere, con la consapevolezza che acquisii di quello che era successo letterariamente prima che io cominciassi a scrivere, di quello che si stava svolgendo allora in Italia, in campo letterario, capii attraverso le letture e l’aggiornamento attraverso le riviste letterarie, cosa era successo: la conclusione di un’estetica letteraria che andava sotto il nome di neorealismo e la possibile collocazione come scrittore sulla linea di una scrittura comunicativa oppure di una scrittura espressiva o sperimentale, che dir si voglia. La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava, attraverso altri scrittori, come Gadda e Pasolini di quegli anni. Pasolini nel ’61 aveva pubblicato il suo saggio sulla lingua italiana che si chiamava Nuove questioni linguistiche, dove diceva della trasformazione della lingua italiana. In parallelo, quello che era accaduto nel nostro Paese sul finire degli anni ‘50, inizio ’60, della grande trasformazione italiana, della grande emigrazione.
D. Cosa l’ha spinta a ritornare a Milano, nel 1968? Come all’inizio si guadagnava da vivere? E come questo ritorno a Milano ha influito sulla sua scrittura?

uesto mondo, l’ho espresso in parte con il mio primo libro, il libro dell’iniziazione La ferita dell’aprile, dove ho raccontato quello che era il clima sociale, politico del secondo dopoguerra, le prime elezioni regionali in Sicilia del ’47 e le elezioni del ’48. Sappiamo che in Sicilia si era perpetuato un sistema economico di tipo medioevale che era quello del latifondo e del feudalesimo. Già alla fine dell’800 si erano tentate delle riforme agrarie mai attuate. Il fascismo, trionfalisticamente, aveva cercato di adottare una riforma agraria che andava sotto il nome di «assalto al latifondo» ma era stato un inganno e una finzione. Nel secondo dopoguerra, queste istanze popolari, soprattutto del mondo contadino, si erano di nuovo ricreate. La storia di quegli anni è nota, restituita ormai dai libri di storia, dalla filmografia, l’ultimo film che abbiamo visto in questi giorni è stato Placido Rizzotto ma ci sono stati tanti «Placido Rizzotto» in Sicilia, tanti sindacalisti uccisi dalla mafia alleata con il potere degli agrari. Il movimento indipendentista siciliano cercò un escamotage per staccare la storia della Sicilia dalla storia italiana e farla diventare un’isola indipendente, dove il gioco del potere nella conservazione sarebbe stato più facile.
L’opposizione dei contadini a questo movimento indipendentistico culmina con la storia di Giuliano, il bandito ingaggiato da questi agrari indipendentisti, che insieme alla mafia gli avevano armato la mano per fare sparare sui contadini che a Portello delle Ginestre festeggiavano il Primo Maggio. Questo episodio riguardava l’elezione del ’47, in cui c’era stata la vittoria della sinistra che andava sotto il nome di «Blocco del popolo», seguita dal revanchismo della conservazione alle elezioni nazionali del ’48 e la vittoria della DC, grazie anche all’episodio della strage di Portello delle Ginestre, che aveva fatto da intimidazione alle forze progressiste. Io ho cercato di raccontare questo periodo della storia siciliana in questo mio libro. Poi si era attuata la riforma agraria, nel ’50, ancora una volta una riforma fittizia, perché i contadini assegnatari non avevano modo né strumenti né mezzi per coltivare queste terre, che erano terre che non davano profitto perché erano terre aride, dove mancava l’acqua. Così i contadini sono stati costretti a fare la loro valigia di cartone, a emigrare . E questo è stato il grande esodo meridionale.
Il mito del mondo contadino, mentre ero lì, mi era sparito sotto gli occhi. Il mondo contadino finiva, la gente era costretta ad andare, c’era questo famoso «treno del sole» che si riempiva di emigranti che arrivavano a Milano e venivano smistati nell’Europa centrale, nelle miniere del Belgio, in Francia e in Svizzera oppure andavano a Verona e venivano convogliati in Germania. Da contadini si trasformavano in operai e andavano nelle fabbriche del centro Europa, oppure rimanevano nel triangolo industriale nel Nord Italia. Ci sono tanti libri e inchieste su questa emigrazione interna nostra e su tutto quello che era avvenuto in quegli anni. Ho assistito alla fine, de visu, di questo mondo contadino e ho quindi visto l’inutilità del mio stare in Sicilia. Io volevo vedere da vicino questa grande trasformazione della realtà italiana.
Sollecitato anche da due intellettuali, Vittorini e Calvino, che allora pubblicavano una rivista che si intitolava «Menabò», che invitavano i giovani intellettuali italiani a studiare questa nuova realtà italiana, il processo di industrializzazione del nostro paese, l’inurbamento delle masse meridionali sono arrivato a Milano nel ’68 perché volevo vedere questa grande trasformazione. Mi sono inurbato e prima di partire mi sono consultato con due miei grandi amici, due persone assolutamente diverse e opposte come nascita. Erano due scrittori: uno era Leonardo Sciascia e l’altro era, un poeta, un barone, Lucio Piccolo di Cala Novella, che era cugino diLampedusa e che ho frequentato per tanti anni, perché abitava a Capo d’Orlando vicino al mio paese. È stato un grande maestro per me perché era un uomo sapientissimo, conosceva la letteratura e la poesia mondiale in un modo meraviglioso. Conosceva parecchie lingue, era stato scoperto da Montale, pubblicato da Mondadori. Quando decisi di partire, Sciascia mi spinse a partire, qui non c’è più speranza, se io fossi più giovane e non avessi famiglia partirei anch’io. Io ero più giovane, ero libero e quindi più disinvolto. Piccolo invece, che aveva una concezione romantica della letteratura, mi diceva: non parta, perché rimanendo lontani si ha più fascino, se raggiunge i centri culturali, lì diventa uno come tanti altri. Lui non pensava che potessi avere delle altre necessità, di vedere questo nuovo mondo che stava nascendo.
Sono arrivato a Milano nel ’68 perché volevo vedere questa grande trasformazione. Nel ’67 avevo fatto un concorso alla fatidica RAI. La chiamo fatidica perché gran parte degli scrittori sono passati attraverso questa grande madre corruttrice che è stata la RAI. Io feci questo concorso per funzionari e lo vinsi. Fummo in 5 su una pletora di concorrenti. Nel concorso si chiedeva tutto lo scibile umano: storia della letteratura, storia del cinema, del teatro, con una commissione molto ampollosa dove c’erano Strehler, Paolo Grassi, il Prof. Apollonio, dirigente della Rai, Leone Piccione e tanti altri. Sono stato assunto a 150.000 lire al mese e nel ’68 presi servizio alla sede di Milano.
D. A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?

«Al di qua della morte, mentre siamo in vita, il dovere dell’intellettuale è quello di essere partecipe a quelli che sono i destini di infelicità dell’uomo, che risiedono nelle zone di marginalità della società, nelle classi meno privilegiate, meno abbienti, e quindi bisogna capire quali sono le condizioni di questi emarginati e perché questi emarginati in certi momenti tragici arrivano a dei gesti estremi».
(Vincenzo Consolo)

L’avventura della scrittura

Questo è il momento in cui ha maturato l’idea di diventare uno scrittore di professione?
Cosa L’ha spinta a ritornare a Milano, nel 1968? Come all’inizio si guadagnava da vivere? E come questo ritorno a Milano ha influito sulla sua scrittura?
A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?
Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni…

D. A questo punto, nella sua scrittura sono presenti dei percorsi che Lei stava già evolvendo. Ci può aiutare a individuarli?

uando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa sarebbero stati gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo.
In quegli anni, negli anni in cui pubblicai il primo libro, era venuto alla ribalta il Gruppo avanguardistico «63», la cui prima riunione si era svolta a Palermo. C’erano nomi che sono poi diventati famosi: c’era Umberto Eco, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi. Io andai a sentire questi avanguardisti nel momento in cui avevo finito di scrivere il mio libro e mi convinsi, ascoltandoli, che non avevo niente da spartire con loro, la mia scelta era diametralmente opposta alla loro. Pasolini ha fatto una chiarificazione molto netta tra sperimentalismo e avanguardia, due cose assolutamente diverse tra loro. La mia scelta stilistica si poneva sul versante, della sperimentazione. Quindi i temi che sono confluiti nel mio secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Lo sfondo del libro è storico. Rievoca il 1860, l’arrivo di Garibaldi in Sicilia, che doveva sottrarre al giogo del regno borbonico le zone meridionali, il Regno delle Due Sicilie, le speranze che si erano accese al suo arrivo, come i contadini siciliani avevano inteso l’Unità d’Italia. L’avevano intesa come trasformazione sociale. Finalmente sarebbe stata restituita loro la giustizia che gli era sempre stata negata. Il protagonista del mio libro era uno scienziato che si chiamava Mandralisca, un personaggio storico che, seppure nel passato, da giovane, avesse vissuto una vicenda da rivoluzionario risorgimentale (aveva partecipato ai moti rivoluzionari del ’48), poi invece si era rinchiuso nella sua casa di Cefalù e si era dato allo studio delle lumache. Era un collezionista d’arte perché la moglie era di Lipari, dove lui comprava o reperiva oggetti archeologici. La sua casa era diventata una sorta di museo. Ma soprattutto il barone possedeva un quadro: un ritratto di Antonello da Messina. Ho fatto convergere questi elementi per imbastire la mia narrazione, in cui il personaggio del mio romanzo, questo Barone di Mandralisca, si discosta dal Principe di Salina deIl Gattopardo, il quale guarda questi medesimi avvenimenti storici con estremo disincanto. Per il Gattopardo niente ha valore perché sempre c’è questo appuntamento col momento della morte, perciò i cambiamenti storici sono assolutamente inutili. C’era una visione metastorica in Salina. Io ho voluto dire il contrario: al di qua della morte, mentre siamo in vita, il dovere dell’intellettuale è quello di essere partecipe a quelli che sono i destini di infelicità dell’uomo, che risiedono nelle zone di marginalità della società, nelle classi meno privilegiate, meno abbienti, e quindi bisogna capire quali sono le condizioni di questi emarginati e perché questi emarginati in certi momenti tragici arrivano a dei gesti estremi. Cercare di capire quali sono i motivi che li spingono a tanto, loro che non hanno il potere della scrittura, perché la storia è una scrittura continua dei privilegiati, la storia la scrivono sempre quelli che vincono, e quindi era anche un meta-romanzo nel senso che la riflessione era anche sul potere della scrittura letteraria e quindi c’era un’impostazione stilistica e strutturale del libro che metteva in luce queste domande che allora si agitavano nei dibattiti culturali e sulle riviste letterarie.
D. Abbiamo detto che la scrittura di questo libro ha preso più di 10 anni…
Per la verità non è che tutta la stesura… la vicenda del Sorriso io avevo scritto i primi 3 capitoli e lì mi ero bloccato, non ero andato più avanti perché non volevo finire questo libro. Racconto questo episodio perché è interessante: mentre io ero giù in Sicilia e lavoravo al giornale «L’Ora», il giornale mi aveva mandato a seguire un processo in Corte d’Assise a Trapani, io dovevo fare la cronaca, e spedire da Trapani, perché c’era una redazione del giornale a Trapani, spedire due articoli. Spedire significava scrivere velocemente in albergo questi due articoli, uno di cronaca, del processo, e poi dirò di che processo si tratta, e uno di considerazioni, di riflessioni. Finiti gli articoli dovevo correre alla stazione per spedirli per treno, perché allora non si dettava al telefono, non c’erano i fax, eravamo ancora in un mondo arcaico.
Il processo era il processo al cosiddetto «Mostro di Marsala» ed era un tipo, uno di Marsala, un alienato che aveva ucciso tre bambine, che non aveva violentato, non era un caso di pedofilia. Questo criminale deficiente aveva preso queste tre bambine e le aveva buttate in una cava, dove erano morte di inedia. Un delitto inspiegabile. Il pubblico ministero in quel processo era un giudice che si chiamava Ciaccio Montalto, che è stato poi ucciso dalla mafia. La sua tesi era che il padre di una bambina, che si chiamava Valente, era un corriere della droga. A un certo punto lui aveva voluto smettere con questi legami, con questi che avevano il monopolio della distribuzione della droga, che erano i mafiosi, e quindi era emigrato in Germania. I mafiosi per fare tornare in Sicilia questo Valente avevano detto a questo deficiente di rapire la bambina. E la bambina usciva di scuola ed era in compagnia di altre due amichette. Lui aveva preso tutte e tre e avevano fatto una fine tragica. Questa era la tesi di Montalto. Un giorno, alla fine di una delle sedute di questo processo, Ciaccio Montalto mi fa segno di avvicinarmi e mi dà una pianta, dicendomi: questa è la pianta di casa mia, dove abito – abitava a Val d’Erice – stasera venga a cena che le voglio parlare. Venga da solo – c’era mia moglie con me. Mi sentivo già in un’atmosfera da romanzo poliziesco alla Sciascia, mi sembrava di vivere dentro un film di Francesco Rosi. La sera, con la mia piccola Dyane, andai a Val d’Erice, a cena da Ciaccio Montalto e lui, dopo cena – abbiamo parlato di letteratura, politica – mi disse: io ricevo minacce, sia con lettere anonime sia per telefono, minacce di morte, se mi capita qualcosa lei lo scriva. Fatto è che il processo finì, io tornai a Milano e dopo non so quanti anni questo poveretto viene ucciso, proprio nel momento in cui decide di lasciare la Sicilia e doveva essere trasferito in Toscana. Lui stava indagando sui rapporti di «Cosa Nostra» trapanese con la mafia americana, sul traffico della droga. Ciaccio Montalto viene fatto fuori e io lo scrivo sul «Messaggero» di Roma e scrivo questa vicenda di lui che mi aveva detto così. Io a Ciaccio Montalto avevo detto: «ma scusi, perché lo dice a me e non ai suoi superiori, ai magistrati?» e lui candidamente mi dice: dei miei superiori non mi fido. Quindi la situazione della magistratura era quella che era. Io ho raccontato la vicenda sul Messaggero e Sciascia allora era deputato a Roma e fa un’interrogazione alla Camera su questa vicenda che avevo raccontato. Il Ministro degli Interni, Rognoni, disse che non gli risultava che Ciaccio Montalto avesse ricevuto delle minacce anonime. Giacomo Ciaccio Montalto era un giovane straordinario, intelligente, colto. Dicevo, che mentre ero lì, mi arrivano le bozze dei primi due capitoli del mio libro che io avevo dato a uno stampatore di Milano che era un bancarellaio, un libraio di origine siciliana, si chiamava Manusei e volevo finire questo libro, volevo spendere questi due capitoli con questi due racconti in un’edizione numerata con un’incisione di Guttuso. Mi arrivano le bozze di questo libro e capita in Sicilia, in quel frangente, un mio amico che era Corrado Stajano. Arriva a Palermo con la moglie, mi telefona e con mia moglie e con lui ci incontriamo a Palermo. Avevo corretto le bozze e le consegno a lui da portare su a Milano a questo stampatore, lui legge questi due capitoli del libro e rimane molto colpito e scrive un articolo su «Il Giorno». Dopodiché io ricevo parecchie lettere da editori, fra cui anche Einaudi, e allora io sono stato costretto, tornando a Milano, a finire questo romanzo nell’arco di poco tempo e quindi dal terzo capitolo in poi la scrittura è stata molto più rapida, veloce.
D. Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto», ossia al caos: invitava alla ricerca di soluzioni razionali di problemi dell’uomo o almeno di un «ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine», nella speranza di «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio», così come scriveva nelle Città invisibili. A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?

«Si arrivava a una sorta di afasia, di impraticabilità della scrittura che era speculare (sia quella dei futuristi che quella del «Gruppo ‘63») alla pseudo afasia del potere. Erano due pseudo afasie che corrispondevano. Gli uni per impraticabilità di questo linguaggio, gli altri per occultamento della verità, perché il potere occulta sempre la verità».
(Vincenzo Consolo)

Poetica di Vincenzo Consolo

Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto». A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?
Lei ha scritto diversi romanzi che sono stati definiti “storico-metaforici” e inRetablo (1976) scrive «Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti…» Lei sente di rivivere nella scrittura la scrittura di altri autori e attraverso il romanzo storico le vicende del presente?
È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?
Per tanti anni, nonostante la sua permanenza in una grande città del Nord Italia, Lei è stato soprattutto testimone di una realtà siciliana e insulare, insieme drammatica e malinconica. In quale punto e in quale delle sue opere sente che queste due realtà si siano avvicinate maggiormente?

D. Negli anni della neoavanguardia e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvinolanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto», ossia al caos: invitava alla ricerca di soluzioni razionali di problemi dell’uomo o almeno di un «ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine», nella speranza di «saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio», così come scriveva nelle Città invisibili. A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?

a mia posizione era perfettamente aderente a quello che era stato il suggerimento calviniano. Io seguivo molto in quegli anni i temi che si dibattevano su questa rivista che era appunto «Menabò», pubblicata da Vittorini e Calvino.
Vittorini aveva visto soprattutto la trasformazione linguistica e pensava alla nascita di una nuova koinè dall’incrocio dei dialetti meridionali con quelli settentrionali. Lui aveva poca fiducia nei dialetti meridionali perché diceva che erano portatori di rassegnazione e anche di furbizia e corruzione morale. Non aveva tutti i torti perché i dialetti meridionali sono quasi sempre ammiccanti, eufemistici mentre lui trovava i dialetti del Nord Italia, proprio perché crescevano su una realtà sociale diversa, molto più espliciti e più leali, più comunicativi. Non immaginava Vittorini, come poi ha visto Pasolini, che su questa ipotetica koinè sarebbe poi sorta una super-koinè che sarebbe stato il nuovo italiano di tipo tecnologico e aziendale che i mezzi di comunicazione di massa, che allora esplodevano, avrebbe diffuso nel nostro paese, trasformando la lingua italiana.
Il suggerimento di Calvino di dare ordine al caos era un suggerimento del tipo razionalistico-illuministico e alla fine anche un suggerimento di ordine etico e morale. Perché io credo che questa sia la funzione dell’intellettuale e dello scrittore, quella di cercare l’ordine, la ragione di fronte al caos di sempre, non solo dell’epoca di cui parlava Calvino. Al contrario c’era in quegli anni un’avanguardia, rappresentata dal Gruppo ‘63, i cui esegeti, i cui teorici proclamavano che bisognava rompere i nessi di tipo semantico o di tipo sintattico perché questa frattura dei nessi, questo caos linguistico e strutturale rappresentava il caos della società. Uno di questi teorici era Angelo Guglielmi. Questo programma del Gruppo ‘63, non faceva altro che ripetere quello che era stato il programma dei futuristi, soprattutto di Marinetti, il quale aveva dettato un decalogo per poter accedere alla scrittura e proclamava: primo, abolire i verbi, mettere i verbi all’infinito, secondo, abolire gli avverbi; terzo, abolire non so che cosa. Si arrivava a una sorta di afasia, di impraticabilità della scrittura che era speculare (sia quella dei futuristi che quella del Gruppo ‘63) alla pseudo afasia del potere. Erano due pseudo afasie che corrispondevano. Gli uni per impraticabilità di questo linguaggio, gli altri per occultamento della verità, perché il potere occulta sempre la verità.
L’ha studiato molto bene Pasolini con il suo saggio del 1961 Nuove questioni linguistiche, prendendo come esempio del cambiamento linguistico italiano un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole. Si capiva che era un linguaggio tecnologico aziendale astratto dove quella che era la realtà e la logicità veniva messa in secondo piano – se c’era – veniva occultata da questo linguaggio assolutamente illogico, di tipo «caotico».
D. Lei ha scritto diversi romanzi che sono stati definiti “storico-metaforici” e in Retablo (1976) scrive «Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti». Per restare alla metafora di Retablo, che è poi la metafora del palinsesto, (che è poi la situazione dell’intellettuale contemporaneo «politically correct», che scrive sul retro di fogli già utilizzati) Lei sente di rivivere nella scrittura la scrittura di altri autori e attraverso il romanzo storico le vicende del presente?

ì. La scelta dei temi, che sono temi storici metaforici e la scelta di questo tipo di linguaggio che è un linguaggio di tipo palinsestico, che è una scrittura su altre scritture, è quello che distingue lo scrittore, del mio tipo, impegnato con la storia, impegnato con le vicende della società e d’altra parte anche uno scrittore di tipo sperimentale, molto attento alla forma, che non ha una scrittura di tipo razionalistico-illuministico. Voglio dire che gli scrittori illuministi come Moravia, Calvino, Sciascia usano, indifferentemente per qualsiasi tipo di argomento, questo strumento linguistico estremamente razionale, referenziale, comunicativo. Lo scrittore di tipo sperimentale usa un controcodice, che è un codice espressivo che tiene conto della tradizione letteraria e linguistica e quindi cerca di portare nella sua scrittura tutti gli echi che fanno parte della nostra tradizione letteraria. Gli avanguardisti al contrario operano una sorta di azzeramento dei linguaggi e su questo azzeramento poi costruiscono un linguaggio artificiale, che è quello di cui parlavo prima e che diventa un linguaggio poco praticabile e incomprensibile. Lei ha riportato quella frase di Retablo che è emblematica. Gli sperimentalisti tengono conto di quello che è la tradizione letteraria e su questa tradizione cercano di elaborare sperimentando e cercando di far coincidere quelle che sono le istanze del nostro tempo e di trasferirle sulla scrittura, di far coincidere cioè il libro con il tempo in cui opera, anche se il romanzo è di sfondo storico, in cui vi sia quella vitalità, quella gente che attualizza il romanzo storico attraverso la metafora e lo fa sembrare lo fa essere specchio della contemporaneità, del momento in cui lo scrittore si trova a rappresentare un fatto, a raccontare un evento. Il padre del romanzo storico nella letteratura italiana moderna è stato Alessandro Manzoni, lui ci ha insegnato cos’è il romanzo storico metaforico. Naturalmente c’è un’assoluta diversità tra i romanzi di Walter Scott da cui sembra che Manzoni abbia preso l’idea e I promessi sposi del Manzoni. In Scott non c’è metafora, sono delle storie romanzate, mentre il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché si parla del passato per illuminare il presente perché i fatti di quel passato che si è scelto di raccontare somigliano terribilmente ai fatti della nostra contingenza, del nostro presente: Manzoni parlava del ‘600 per parlare dell’800 perché nell’800 c’erano gli stessi rischi C’erano i rischi delle stesse follie, degli stessi marasmi sociali, degli stessi fanatismi, delle stesse pesti, delle stesse condanne, delle stesse torture.
D. È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?

«Il romanzo storico è un romanzo immediatamente metaforico perché si parla del passato per illuminare il presente perché i fatti di quel passato che si è scelto di raccontare somigliano terribilmente ai fatti della nostra contingenza, del nostro presente».
(Vincenzo Consolo)

Poetica di Vincenzo Consolo

Negli anni delle neoavanguardie e della seconda rivoluzione industriale, sulle pagine di «Menabò», Calvino lanciava alla letteratura contemporanea la famosa «Sfida al labirinto». A quel tempo qual era la sua posizione al riguardo?
Lei ha scritto diversi romanzi che sono stati definiti “storico-metaforici” e inRetablo (1976) scrive «Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti…» Lei sente di rivivere nella scrittura la scrittura di altri autori e attraverso il romanzo storico le vicende del presente?
È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?
Per tanti anni, nonostante la sua permanenza in una grande città del Nord Italia, Lei è stato soprattutto testimone di una realtà siciliana e insulare, insieme drammatica e malinconica. In quale punto e in quale delle sue opere sente che queste due realtà si siano avvicinate maggiormente?

D. È questo un modello su cui sente sia impostata anche la sua vita?

ì, la consapevolezza di sapere che la storia è maestra di vita anche se poi continuiamo a fare gli stessi errori. Se guardiamo la storia vediamo però che gli uomini, in un determinato momento, si sono comportati in un determinato modo, hanno fatto quegli errori e allora la consapevolezza storica può suscitare una certa saggezza, evitare gli errori, dal punto di vista personale ma anche dal punto di vista collettivo. Questo nostro tempo è un tempo in cui il passato e la storia diventano uno scandalo, qualcosa da rimuovere e da cancellare, perché il potere politico ci impone di vivere in un infinito presente, dove non si ha consapevolezza del passato, della storia. Era Pasolini che parlava dello scandalo del passato, della rievocazione del passato e invitava a rievocarlo, a trasferirlo nel presente e questo passato diventa scandaloso e ingombrante, irritante da parte del sistema del potere. La letteratura in sé, in questo nostro contesto, è qualcosa di perturbante, qualcosa che crea scandalo perché non è dominabile.
D. Per tanti anni, nonostante la sua permanenza in una grande città del Nord Italia, Lei è stato soprattutto testimone di una realtà siciliana e insulare, insieme drammatica e malinconica. In quale punto e in quale delle sue opere sente che queste due realtà si siano avvicinate maggiormente?

ho espresso, ho cercato di raccontarlo nel mio libro L’olivo e l’olivastro che è un libro al di fuori della finzione narrativa, in cui il protagonista non ha nome. È scritto in terza persona ma si capisce che l’io narrante è il protagonista di questo viaggio nella realtà. Non c’è finzione letteraria. È un viaggio in Sicilia, una ricognizione della mia terra, vedere quali sono stati i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori. Però nel libro Ho raccontato la fuga, dopo un terremoto, quello della Valle del Belice nel ’68, l’anno in cui sono arrivato a Milano. Era un terremoto anche metaforico. Il ritorno del protagonista che non fa che verificare con questo viaggio in Sicilia, che le realtà, sia pure economicamente diverse, le realtà che si chiamano di desiderio sono assolutamente uguali. Si desiderano le stesse cose, si parla lo stesso linguaggio e quindi c’è l’omologazione assoluta, l’uniformità in tutte le dimensioni sia nella terra del terremoto sociale sia nella terra della ricchezza. Ci sono solo differenze economiche anche se Sicilia e Lombardia, se Sicilia Nord Est fanno parte dello stesso contesto di primo mondo. All’interno ci sono differenze: maggiore disoccupazione, meno consumi, ma quello che gli economisti chiamano la «offlimità», cioè i desideri provocati, indotti sono uguali sia al Nord che al Sud. Al Sud c’è forse più frustrazione perché i desideri non si possono soddisfare. Non si può avere la macchina o la cucina o la seconda casa. Al Nord ci sono altri tipi di infelicità. Il fatto di ridurre l’uomo soltanto alla dimensione del lavoro, della produzione e del consumo, dove non si aprono altri spazi, spiragli di libertà, come quella sorta di visione kafkiana della colonia penale. Le società sviluppate, affluenti, pagano duramente questo prezzo di venire condannate alla colonia penale. Ogni tanto mi viene di pensare alla società giapponese, a queste creature, questi uomini che vivono roboticamente in questa assoluta condanna al lavoro, al consumo senza nessuna libertà. Mi sono accorto, durante l’ultimo viaggio, come questa nostra nevrosi, questa alienazione, in Spagna non è arrivata del tutto. La gente ama ancora stare insieme, chiacchierare, andare nei bar, perdere tempo. Forse è dovuto al ritardo loro, alla dittatura di Franco, non c’è il dominio della televisione. La gente sta in mezzo alla strada, non si chiude in casa a vedere la tele. Eppure Madrid è una città fredda, è un clima continentale.
E quindi poi tutto questo l’ho trasferito con la finzione narrativa che diventa Lo spasimo di Palermo, questo ritorno nell’isola da parte di questo protagonista che si chiama Gioacchino Martinez, che ritorna nella sua Itaca, da cui era stato costretto a scappare. Sono due libri che bisogna mettere insieme, un primo e un secondo tempo.
D. Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo è chiuso nel silenzio e non riesce più a scrivere. Lei stesso ha affermato, riferendosi all’opera teatrale Catarsi, che scrisse nel 1989: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…

«È necessario comunque scrivere, ma scrivere in una forma che sia non più dialogante, riducendo la parte dialogica, comunicativa , spostarsi sempre di più verso la parte espressiva, la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo».
(Vincenzo Consolo)

Dalla parola al silenzio

Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Lei stesso ha affermato: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…
Si può dire cheCatarsi non sia un esperimento isolato…
In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?
Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

D. Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Anche il protagonista de Lo spasimo di Palermo è chiuso nel silenzio e non riesce più a scrivere. Lei stesso ha affermato, riferendosi all’opera teatrale Catarsi, che scrisse nel 1989: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…

o sento molto che oggi lo scrittore è stato espulso dalla società e quindi non ha più parole per comunicare con questa società e quindi la tentazione è proprio l’afasia, nel senso che si è rotto il rapporto tra il testo letterario e il contesto situazionale. Questo tema dell’afasia l’ho espresso in questa mia operetta che si chiamaCatarsi dove prendevo spunto dalla morte di Empedocle e parlavo di un Empedocle moderno, contemporaneo, che tenta il suicidio sulle falde dell’Etna. È un Empedocle che si trova in una situazione estrema. Estrema perché è vicino al cratere di un vulcano ed estrema perché è sul punto di chiudere la sua vita con il suicidio. Quindi il suo linguaggio è un linguaggio che non è più comunicabile. Perché sono arrivato a questa conclusione? Perché penso che oggi il testo letterario, naviga nell’assoluta insonorità di un contesto situazionale. Non trova più il suo referente, non trova più l’ascolto. Portavo l’esempio della tragedia greca perché lì c’è un personaggio l’«Anghelos» (il messaggero) che arriva sulla scena e racconta agli spettatori presenti nella cavea un fatto accaduto in un altro momento, in un altro luogo. Da questo racconto, molto comunicativo, del messaggero, può avere inizio la tragedia, cioè i personaggi della tragedia si muovono e poi c’è il coro che commenta in un tono più alto, con un tono poetico e con il canto e con la danza commenta e lamenta l’azione scenica. Questo è la tragedia per esempio moderna di Euripide dove dice Nietsche ne La nascita della tragedia che c’è appunto nella tragedia di Euripide, in questa articolazione della tragedia del messaggero dei personaggi e del coro, c’è l’irruzione dello spirito socratico, c’è il ragionamento. Il ragionamento è quello del messaggero, che si rivolge ai personaggi della cavea. Oggi dico che nel nostro contesto, nella civiltà di massa, il pubblico della cavea non c’è più. La tragedia si svolge in un teatro vuoto. Non ci sono più spettatori. L’unico modo per rappresentare la tragedia è quella di relegarla nella zona del coro, con un lamentare e commentare la tragedia del nostro tempo in un tono alto, con una forma musicale. Cioè far agire soltanto quello che Nietsche chiama lo «spirito dionisiaco», che è proprio della poesia. Io credo che questa forma letteraria che si chiama romanzo, narrazione, oggi si possa praticare soltanto in una forma poematica. Non è più possibile praticare una scrittura comunicativa che era quella del messaggero, che era lo scrittore di una volta, che narrava e narrando faceva poi delle riflessioni sull’azione narrativa. Quello che faceva Manzoni con le sue riflessioni o tutta la letteratura dell’800. Era lo scrittore che interveniva con la sua autorevolezza e commentava la vicenda che stava raccontando. Oggi non si può più raccontare. Io contesto le teorie di Milan Kundera che considera il romanzo come una commistione di narrazione e filosofia. Io credo che questo spirito socratico, riflessivo e comunicativo oggi non sia più possibile. Credo che si possa narrare soltanto in forma poetica e quindi nella forma meno mercificabile e meno comunicabile possibile.
D. Si può dire che Catarsi non sia un esperimento isolato…

on è isolato perché poi questa idea l’ho sviluppata ed esplicitata maggiormente ne Lo spasimo di Palermo dove nell’epigrafe Prometeo incatenato dice: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». Significativamente il protagonista è uno scrittore che ha praticato un tipo di scrittura sperimentale (naturalmente è autobiografico) espressiva che decide di non scrivere più perché arriva all’ultimo stadio della sua sperimentazione, non solo letteraria ma anche all’ultima esperienza della sua vita. Decide di tornare nell’isola da cui era partito e che aveva lasciato anni prima, dovuto a necessità, a distacco da una terra che era diventata invivibile, barbarica. Torna e trova la sua conclusione, la sua fine. È un Ulisse che viene ucciso dai Proci, da quelli che Pirandello ha chiamato «i giganti della montagna» che possono essere di qualsiasi tipo. Quindi è uno scrittore afasico, uno scrittore che decide di non scrivere in forma narrativa e di scrivere in altre forme: saggistica, ricerca storica… e si propone di fare delle ricerche su altri temi.
È necessario comunque scrivere, ma scrivere in una forma che sia non più dialogante, riducendo la parte dialogica, comunicativa , spostarsi sempre di più verso la parte espressiva, la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo. Questa forma più alta che non sia la forma comunicativa. Parlo di forma non di contenuto, la forma poetica. Per questo la mia prosa è organizzata in senso ritmico, come se fossero dei versi.
D. In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?

Ho scelto questo argomento degli anni ’20, della nascita del fascismo perché mi sembrava che nel momento in cui scrivevo il libro ci fossero tutti i segni che corrispondessero a quei segni di allora, nel senso di crisi delle ideologie, si parlava allora di riflusso e quindi insorgere di nuove metafisiche, di settarismi, … … si cominciava a parlare di new age e queste cose qui, che mi sembrano tutte forme di irrazionalismo che preludono – speriamo che non avvenga – a delle forme fascistiche di assetti politici di tipo fascistico».
(Vincenzo Consolo)

Dalla parola al silenzio

Alcuni dei personaggi dei suoi romanzi si muovono al confine dell’afasia. Lei stesso ha affermato: «La tragedia rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Un esito in forma teatrale e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intelligibilità, tenda al suono, al silenzio»…
Si può dire cheCatarsi non sia un esperimento isolato…
In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?
Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

D. In un certo senso anche Lunaria era un esperimento?

nche quello era un esperimento, nel senso che c’era un rifiuto. Questo l’ho sempre teorizzato e praticato, il rifiuto della forma romanzesca, perché credo che oggi non si possono scrivere romanzi. Chi scrive romanzi è in malafede o è ignorante. Voglio essere radicale, per un volta, credo che nel nostro contesto non si possa più praticare questa forma narrativa che è stata di nobilissima tradizione in Europa e non solo. In questa mia concezione della narrazione non romanzo si inquadrano queste due opere che vengono dette «teatrali» ma molto teatrali non sono, nel senso che non hanno una loro rappresentabilità ma sono opere da leggere. In Lunaria che è una sorta di racconto fantastico dove si riprende un tema leopardiano della caduta della luna che significa la caduta di una cultura, di una civiltà, non ho voluto adottare la forma narrativa e ho ridotto il racconto alla forma dialogica per cui fatalmente prendeva un aspetto teatrale. Quindi io nego che l’operetta possa essere rappresentata perché è un teatro di parola secondo il Manifesto pasoliniano, è un linguaggio molto alto e pieno di riferimenti culturali. È stato senz’altro rappresentato, ma io non parto da presupposti teatrali, parto da presupposti narrativi e dico che è una fiaba raccontata in forma dialogica, senza quelle parti diegetiche che ci sono nelle narrazioni tradizionali.
Io ho cercato di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese.
D. Nel 92 Lei ha scritto Nottetempo casa per casa.

uesto è il secondo momento della trilogia, dell’arco storico che ho voluto rappresentare. È un romanzo che si svolge negli anni ’20 e che vuole raccontare la nascita del fascismo vista da un paesino della Sicilia. Per la seconda volta mi sono trovato il paese di Cefalù come teatro per i miei personaggi. Personaggi storici veri e come sempre succede nei romanzi storici anche con personaggi di invenzione, come diceManzoni, personaggi che debbono avere il colore del tempo. La vicenda è presto detta: c’è una famiglia che si chiama Marano, il protagonista è un giovane maestro di scuola che si chiama Pietro Marano. Ho adottato questo nome perché ha due significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura meridionalista. Questo maestro ha una famiglia infelice, malata, perché oltre alla memoria genetica di questa violenza iniziale della costrizione a cambiare cultura e religione, c’è anche il passaggio di classe di questa famigliola che da contadina diventa famiglia di piccoli possidenti, grazie a un eccentrico signore locale, un barone, un libertario, un tolstojano, che aveva privilegiato questa famiglia, piuttosto che il nipote, che era un perfetto imbecille, uno di questi baronetti di provincia. Questo cambio di classe da contadini a piccoli proprietari terrieri li porta a dover ubbidire alle regole della piccola borghesia, per cui i comportamenti devono essere assolutamente diversi, il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione: nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari. Il padre di questo ragazzo soffre di depressione, malinconia e, preso da questo lacerante dolore dell’esistere, la notte esce. La sorella che si chiama Lucia non può sposare il giovane pastore di cui è innamorata perché non appartiene più alla sua classe e quindi c’è questa sorta di mutilazione sentimentale e la ragazza impazzisce. Il ragazzo si trova di fronte a questa infelicità familiare e immagina – in questa sua solitudine, nel sopportare questo peso di dolore – che in una società più giusta e più armonica, questo dolore privato e familiare si possa distribuire nella società, trovare consolazione nella società. Quindi abbraccia il credo socialista di quegli anni e trova inganno anche lì perché trova dei massimalisti, degli estremisti che lo portano verso deviazioni per cui questo giovane maestro è costretto a scappare e a rifugiarsi in Tunisia, esule, perché ricercato dalla polizia. Intanto fallisce il socialismo in questo primo dopoguerra, c’è la crisi delle ideologie, una crisi sociale, disoccupati, reduci che reclamano diritti e c’è un decadentismo culturale, l’insorgere di nuove metafisiche, di sette religiose. Un personaggio emblematico è un inglese satanista che approda a Cefalù, dopo una vita di peregrinazioni per il mondo inseguendo questi esoterismi, e immagina che a Cefalù, creando una chiesa, l’Abbazia di Telema, si possa soppiantare il cristianesimo ed instaurare l’era di Satana. Questo personaggio inglese che si chiamava Aleister Crowley, che aveva conosciuto tutti i maggiori intellettuali dell’epoca, del primo dopoguerra, da Ferdinando Pessoa a Yates a Katherine Mainsfield, faceva parte di sette segrete, era approdato in Sicilia. Questo personaggio storico è simbolico di un certo decadentismo culturale, dell’insorgere in certi momenti di crisi ideologica, di nuove metafisiche, di nuovi misticismi sia di segno nero sia di segno bianco. Quando si sceglie un argomento storico non è che si sceglie a caso. Io ho scelto per Il sorriso dell’ignoto marinaio il 1860 perché mi sembrava che il tempo corrispondesse al tempo che stavamo vivendo in Italia negli anni ’70 e ho scelto questo argomento degli anni ’20, della nascita del fascismo, perché mi sembrava che nel momento in cui scrivevo il libro ci fossero tutti quei segni che corrispondessero ai segni di allora, nel senso di crisi delle ideologie, si parlava allora di riflusso e quindi insorgere di nuove metafisiche, di settarismi, si cominciava a parlare di new age e queste cose qui, che mi sembrano tutte forme di irrazionalismo che preludono – speriamo che non avvenga – a delle forme fascistiche di assetti politici di tipo fascistico. Ho cercato di raccontare cosa sono i decadentismi culturali e cosa sono le forme politiche che insorgono quando ci sono queste forme di decadentismo culturale e di crisi ideologiche.
D. Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”, intendendo il collegamento e l’intertestualità della sua scrittura con la scrittura di altri grandi scrittori, Gadda,Verga, Pirandello, Sciascia, Manzoni e così via. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?

«Io penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza».
(Vincenzo Consolo)

La questione linguistica

Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?
In un’intervista Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione alManifesto in difesa della lingua italiana.Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?
In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…
A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

D. Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”, intendendo il collegamento e l’intertestualità della sua scrittura con la scrittura di altri grandi scrittori: Gadda,Verga, Pirandello, Sciascia, Manzoni e così via. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?

o penso a un lettore che mi somigli, che sia simile a me, che abbia lo stesso tipo di conoscenza. Io credo che capiti a tutti gli scrittori di immaginare un altro da sé, che sia un suo doppio. Calvino addirittura diceva che lui pensava a un lettore che la sapesse più lunga di lui. Qui c’è tutta l’ironia calviniana. Lui pensava a un lettore che avesse la stessa consapevolezza, la stessa conoscenza della letteratura che aveva lui ed era molto difficile. Io penso a uno che sia veramente il mio doppio che abbia la mia stessa storia, la mia stessa cultura, le mie stesse letture che faccia parte di una stessa sfera culturale. Quello che non mi riesce di fare, perché mi sembra ingannevole, è di essere condiscendente, di mettere in atto delle cose, delle strategie che diventano delle trappole, questi sono confini che non riesco a valicare. Questa rigidità però paga poco.
D. In un’intervista a «La Libreria di Dora» Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione all’iniziativa promossa dall’Associazione «La bella lingua» che si è concretizzata nel Manifesto in difesa della lingua italiana. Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?

ì, io non credo al dirigismo nella lingua. I francesi hanno tentato in tutti i modi di arginare l’invasione dell’americano con il solito loro sciovinismo, Nell’introduzione del mio libro avevo adottato un vocabolo inglese che si adattava benissimo al contesto, al tipo di racconto. L’hanno censurato e hanno messo un vocabolo francese.
La mia adesione a quel movimento per la salvaguardia della lingua italiana era un po’ mettere un allarme, di dire: stiamo attenti che questa nostra lingua sta sparendo. E in effetti è così. C’è però, paradossalmente, da una parte l’invasione della nostra lingua, che è una lingua fragile, perché la nostra è una società fragile dal punto di vista economico, rapportato ai paesi più potenti. Noi non abbiamo dei bacini di utenza della nostra lingua vasti come quelli inglesi o come quelli spagnoli. Non abbiamo avuto colonie, per fortuna, e quindi l’italiano si parla solamente in questa nostra piccola penisola. Dove avviene che con la rivoluzione tecnologica, con lo sviluppo economico questa nostra lingua, che è una lingua bellissima, una lingua complessa, forse una delle lingue più belle che esistano al mondo, che è una lingua complessa, è anche una lingua fragile, che sta per essere invasa da lingue che non appartengono alla nostra storia.
La bellezza della nostra lingua risiedeva nel fatto che aveva due affluenti: la lingua colta delle accademie, la lingua di cultura, quella che Dante chiama «la lingua grammaticale» e dall’altra parte le lingue popolari, i dialetti, che confluivano verso la lingua centrale. Due affluenti che determinavano un arricchimento continuo.
Oggi questi due canali sembra che si siano essiccati e così la nostra lingua è diventata una lingua orizzontale, rigida e anche fragile perché invasa da un super-potere che è un potere economico, che non è il nostro. Questa lingua viene assunta così, senza nessuna critica, matericamente da alcuni scrittori, soprattutto giovani, che non tengono più conto di quello che è l’aspetto linguistico. Da una parte abbiamo questo tipo di letteratura giovanile, giovanilistica, che diventa quasi una scrittura di tipo verbale, che mi ricorda un po’ i neonaturalisti, se si può usare questo termine, di assumere passivamente sulla carte quelli che erano i segni della società, senza nessun vaglio, nessuna ricreazione. Dall’altra c’è il bisogno, da parte di scrittori ma soprattutto dei poeti, di non praticare questa lingua e usare un’altra lingua, che è una lingua di ricerca, che è assolutamente diversa dal gergo di consumo che usiamo normalmente per cui un personaggio come Edoardo Sanguineti che viene dal Gruppo 63 può paradossalmente dichiarare di «fare l’elogio della lingua di Maurizio Costanzo» (popolare conduttore televisivo ndr), proclamando contemporaneamente che la lingua letteraria italiana, di alcuni scrittori italiani, credo del mio tipo, o di tipo sperimentale o meno, è una lingua paludata.
Questa esigenza di una lingua ormai impraticabile la sentono di più i poeti, infatti oggi i poeti sono tornati a scrivere in dialetto, che non è il dialetto che usavano i poeti dialettali, oggi si chiamano poeti «in dialetto” perché lo scelgono con molta consapevolezza e molto rigore per la necessità di trovare una lingua altra che non sia l’italiano impraticabile di oggi. Quando Pasolini scriveva in friulano, allora c’era una realtà dialettale che era quella della sua regione, fortemente connotata linguisticamente perché non era un dialetto ma quasi una lingua, il ladino o friulano che si parlava nella sua zona. L’adozione per esempio del romanesco o la polifonia gaddiana, questo orchestrare tutti i dialetti, perché sentivano che la lingua italiana era fortemente compromessa con il dannunzianesimo, aveva altri tipi di compromissioni, quindi perGadda c’era l’esigenza di orchestrare la polifonia dialettale italiana.Leopardi diceva che la ricchezza della nostra lingua stava nel fatto che non era una sola lingua ma tante lingue.
D. In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…

Portavo l’esempio anche di una mia esperienza personale nel secondo dopoguerra in questo saggio su «Autodafé», di come i preti all’oratorio dove ho frequentato le scuole medie ci impedivano di parlare in dialetto».
(Vincenzo Consolo)

La questione linguistica

Lei, Consolo, è considerato uno scrittore “colto”. Per poter apprezzare pienamente la sua scrittura occorre avere una padronanza di questa mappa letteraria. A quale lettore ideale Consolo scrittore pensa quando scrive?
In un’intervista Dacia Maraini ha affermato: « [La] separazione tra lingua scritta (l’italiano delle Accademie) e lingua parlata (il dialetto) ha impedito lo svilupparsi di una letteratura realmente popolare e nazionale». Lei ha dato la sua adesione alManifesto in difesa della lingua italiana.Non pensa che ogni intervento di tipo dirigistico non faccia altro che mantenere questa situazione e aggravarla?
In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…
A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

D. In un articolo sulla rivista «Autodafé» Lei riporta questa citazione di Roland Barthes: «la lingua non è né reazionaria né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo infatti non è impedire di dire ma obbligare a dire»…

a trovavo quanto mai attuale. Portavo l’esempio anche di una mia esperienza personale nel secondo dopoguerra in questo saggio su «Autodafé», di come i preti all’oratorio dove ho frequentato le scuole medie ci impedivano di parlare in dialetto. Ed era un retaggio del periodo fascista perché il fascismo voleva cancellare i dialetti e dare una lingua unica a questo paese. Dare una lingua unica a una società che unica non è, che armonica non è… Questo si è potuto verificare in alcuni paesi dove c’era armonia sociale, per cui si è creata una lingua unica, uguale per tutti, senza queste digressioni dialettali, mi riferisco a un paese come la Francia. L’affermazione di Barthes scaturiva da un’affermazione di Renard, che diceva che la lingua francese è incapace di assurdi, di paradossi, perché è una lingua razionale, ma vivaddio è una lingua democratica, contestandola. Barthes diceva che la lingua in sé, il codice linguistico non è reazionario, né progressista, è semplicemente fascista. Appunto perché il codice linguistico che ci è imposto, ci impone di parlare in un determinato modo. Oggi più che mai la lingua che noi usiamo è una lingua fascistica perché appunto è elaborata soltanto dal potere economico e quindi dalla tecnologia. Oggi la lingua la impone il sig. Gates. I ragazzini assorbono tutta l’idiozia dei messaggi pubblicitari, nel linguaggio quotidiano ripetono passivamente questi messaggi. Quello è fascismo. Non sono linguaggi elaborati da loro, loro li ripetono come delle macchine, dei pappagalli.
D. A sei mesi di distanza dalla presentazione del «Manifesto in difesa della lingua italiana » ha rilevato sintomi che fanno presagire un’inversione di tendenze nell’uso dell’italiano?

on ci sono sintomi. Mi fa impressione sentire – in confronto all’analisi che aveva fatto Pasolini sul politichese di Aldo Moro, su questa lingua astratta di tipo tecnologico aziendale – sentire i discorsi dei giovani politici di oggi. Già Aldo Moro aveva un background di tipo umanistico. Sentire oggi parlare signori come Berlusconi [Berlusconi Silvio, cavaliere, magnate dei mezzi di comunicazione, deputato, controverso fondatore del partito-azienda «Forza Italia» ndr], sembra di ascoltare il linguaggio dei robot. I suoi slogan, mi sembrano appartenere a un linguaggio robotico, pubblicitario, di assoluta forza persuasiva, con un’articolazione ridotta al minimo. I nessi sintattici sono pressochè inesistenti. Non c’è articolazione di pensiero, sono solo affermazioni apodittico che servono solo a intimidire e a persuadere. Così erano gli slogan che aveva coniato il nostroD’Annunzio per il Sig. Mussolini. Erano delle urla, delle frasi che cercavano di intimidire e persuadere.
D. Che origine ha e come si colloca l’influenza artistico visiva sulla sua opera e che reazione generò questo suo avvicinamento al mondo della storia dell’arte? Come si è sviluppato a come prosegue ai giorni nostri?

«Man mano negli anni ho capito che la visualità, la pittura, era per me un modo per fare da contrappeso alla mia ricerca stilistica nel campo della scrittura, nel senso che io inseguo una sorta di musicalità della frase, della prosa, di dare una scansione, un tempo, un ritmo alla frase, di modo che la mia scrittura si avvicina molto a quella che è la scrittura poetica e di bilanciare questa sonorità con una parte visiva, di creare una sorta di equilibrio fra suono e visione».
(Vincenzo Consolo)

Letteratura e arte figurativa

Che origine ha e come si colloca l’influenza artistico visiva sulla sua opera e che reazione generò questo suo avvicinamento al mondo della storia dell’arte? Come si è sviluppato a come prosegue ai giorni nostri?
Quale luogo scenario, ambiente interno o esterno, ricorre più frequentemente nei suoi romanzi e che funzione/valore viene ad assumere nei suoi testi?

D. Che origine ha e come si colloca l’influenza artistico visiva sulla sua opera e che reazione generò questo suo avvicinamento al mondo della storia dell’arte? Come si è sviluppato a come prosegue ai giorni nostri?

Raffaelo, Lo spasimo di Palermo (dettaglio)

a avuto un’importanza enorme l’arte visiva, la pittura. Io sono nato in una sorta di deserto culturale, in un paesino della provincia siciliana dove non c’era una biblioteca, una pinacoteca, niente, insomma. Le uniche cose che vedevo erano le pitture religiose nelle chiese, per le quali non avevo molta attenzione. Da ragazzino andavo in villeggiatura a Cefalù e per la prima volta varcai un museo, il Museo Mandralisca, come il protagonista del mio romanzo e per la prima volta mi sono trovato davanti a questo ritratto di Antonello da Messina che mi impressionò molto Io ero un adolescente, avrò avuto 15-16 anni. Mi impressionò molto perché era un ritratto enigmatico un po’ sul tipo della Gioconda. Quando uno si trova davanti a questo quadro ci sono delle cose che ti muovono, che ti impressionano, che ti emozionano. Io non sapevo spiegare perché il sorriso di questo ignoto signore, detto popolarmente «l’ignoto marinaio», mi incuriosisse tanto. Perché notavo delle fisionomie che mi erano familiari: poteva essere la faccia di mio padre, dei miei zii, di mio nonno, era il tipo mediterraneo. Questo sguardo acuto del personaggio e questo sorriso ironico era un archetipo.
Da lì cominciò la mia curiosità nei confronti della pittura. Quando venni a studiare a Milano cominciai a frequentare le gallerie, le pinacoteche, ero molto incuriosito dalla pittura. Poi il ritratto di Antonello diventò per me un elemento di narrazione molto importante, fa da filo conduttore di tutto il romanzo (Il sorriso dell’ignoto marinaio NdR), e poi man mano negli anni ho capito che la visualità, la pittura, era per me un modo per fare da contrappeso alla mia ricerca stilistica nel campo della scrittura, nel senso che io inseguo una sorta di musicalità della frase, della prosa, di dare una scansione, un tempo, un ritmo alla frase, di modo che la mia scrittura si avvicina molto a quella che è la scrittura poetica e di bilanciare questa sonorità con una parte visiva, di creare una sorta di equilibrio fra suono e visione. Questa era l’esigenza.
In Retablo c’è addirittura un pittore come protagonista del romanzo, ma anche in Nottetempo, casa per casa c’è ancora il ritorno di Antonello da Messina, e ci sono anche altri riferimenti pittorici.
Ne L’olivo e l’olivastro ci sono due squarci narrativi, dove si entra nella finzione letteraria. Uno è il racconto della fuga di Caravaggio dall’Isola di Malta quando approda in Sicilia, arriva a Siracusa e gli viene commissionato dal Senato il Seppellimento di Santa Lucia. Io cerco di raccontare in forma narrativa questo soggiorno a Siracusa di Caravaggio, il momento in cui lui dipinge questo grande quadro che oggi si trova al Museo Bellomo. Infine poi ne Lo spasimo di Palermo c’è un quadro di Raffaello che si chiama Lo spasimo di Sicilia, un quadro che Raffaello aveva dipinto per la chiesa degli Olivetani di Palermo e che poi andò al re di Spagna Filippo IV ed ora si trova al Prado. Questo quadro commissionato dai padri olivetani era destinato alla chiesa che si chiama «Lo spasimo di Palermo». Raffaello intitolò il quadro Lo spasimo di Sicilia e questa parola «spasimo» prende una connotazione quasi universale, lo spasimo del mondo, quello che è il dolore del mondo.
D. Quale luogo scenario, ambiente interno o esterno, ricorre più frequentemente nei suoi romanzi e che funzione/valore viene ad assumere nei suoi testi?

è questo ipogeo, c’è la visione dell’ipogeo continuamente e credo che sia dovuto al fatto che io cerco di partire sempre dalle radici più profonde e quindi anche le immagini di questi luoghi sotterranei, di queste caverne, siano un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia. Andare fino alle radici per poi risalire verso le zone della comunicazione, le zone della società. Sono luoghi che mi hanno sempre affascianto. È indecente raccontare i propri sogni, però devo dire che un mio sogno ricorrente è un sogno archeologico, un sogno che poi ho scoperto faceva anche il padre della psicanalisi assieme a Freud che era Jung. Nel sogno io mi calo in dei sotterranei dove scopro degli oggetti antichi, vasi o rotoli di pergamena, che mi danno molta gioia. Ho interpellato un mio amico psicanalista e mi ha detto che è un sogno positivo e quindi evidentemente questo sub-conscio emerge nella mia scrittura. La mia ricerca linguistica anche in quel senso, io cerco le parole che vengono da lontananze storiche, di lingue antiche, greco, latino, arabo e quindi c’è questo bisogno di ripartire dalla profondità. In tutti i miei libri c’è l’evocazione di questi luoghi sotterranei.
D. Arriviamo all’attualità…

Non pensa che sia la faziosità nevrotica a condannare i cittadini alla dipendenza da personaggi incapaci o corrotti? E infine non pensa che questa stessa faziosità fosse già insita nel DNA degli italiani, quando si fronteggiavano Guelfi e Ghibellini?
Mauro, il figlio terrorista de Lo spasimo di Palermo si fa portare in carcere arance e libri. Quali libri chiederebbe che le si portassero in un’analoga situazione?
Emilio Tadini sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?
Lei, vive con un disagio gli intervalli, talora anche consistenti, che intercorrono tra l’uscita dell’uno e l’altro dei suoi romanzi?
Il teatro non è un genere che Lei abbia esplorato gran ché. Come mai?

D. Arriviamo all’attualità. Lei sembra vivere la politica in maniera viscerale. Siamo alla vigilia di un’elezione che verrà vinta al 90% dall’opposizione. Non pensa che sia a destra sia a sinistra in Italia sembri contare di più la fedeltà ad oltranza ad uno schieramento (o lo spregio per uno schieramento opposto) che la capacità di determinare l’effettiva competenza e affidabilità di una squadra di governo? Non pensa quindi che sia proprio questa faziosità nevrotica a condannare i cittadini alla dipendenza da personaggi incapaci o corrotti? E infine non pensa che questa stessa faziosità fosse già insita nel DNA degli italiani, quando si fronteggiavano Guelfi e Ghibellini?

Orologio geo-politico
La copertina di questo autorevole settimanale britannico, in edicola nei giorni in cui è esce l’intervista, colloca l’Italia, di fronte all’incognita del voto del maggio 2001, in un’atmosfera di evidente apprensione, condivisa anche dalla comunità internazionale.
ontesto il fatto che io viva in modo viscerale la politica. Ho sempre cercato di esercitare la razionalità, ho avuto sempre i miei principi politici e la mia ideologia nella quale ho sempre creduto e ho cercato di interpretare la mia azione nella società rimanendo fedele alla mia ideologia. Sono stato e sono un marxista, più gramsciano che marxiano. Penso che questo sia un Paese che non ha mai avuto un’effettiva democrazia. Parlavamo poco fa della mancanza di una società. È un Paese che vive in una sorta di immobilismo seicentesco, in una sorta di eterno controriformismo. Facciamo dei passettini avanti nel senso della democrazia e della uguaglianza e poi immediatamente c’è una sorta di ritorno indietro e tutto questo diventa disperante.
Da qui nasce la faziosità della nostra civiltà ancora comunale di guelfi e ghibellini e da questa continua crisi italiana nascono i mestatori, i profittatori, gli opportunisti, i vili, i trasformisti, i delatori e tutto quanto di orrore c’è in questo paese. Non siamo arrivati con la dittatura fascista alla teorizzazione dell’orrore assoluto come in Germania, però si sono scatenati in questo Paese tutte le meschinità, le vigliaccherie, con l’avvento della dittatura fascista, che sono proprie del carattere italiano. Quindi possiamo diventare feroci. Siamo considerati «italiani brava gente» quando bravi non siamo. Il nostro segno più evidente penso sia quello della viltà, siamo un popolo vile e questo lo dico non mitizzando l’eroismo, ma siamo un Paese irrazionale, un Paese che nella sua storia non ha mai raggiunto la maturazione o la maturità. Non ci sono state forme di ribellismo, non c’è mai stata una rivoluzione, ci sono stati tentativi di illuminismo, in Piemonte e in Lombardia e a Napoli che sono naufragati perché erano delle forme elitarie che non hanno mai raggiunto gli strati popolari e quindi destinati al fallimento.
Ci sono stati degli ideologi, come Mazzini e Pisacane che hanno cercato di liberare gli strati popolari e sono stati uccisi, come Pisacane, da quegli stessi popolani che loro volevano liberare. La storia italiana è fatta di questa viltà, di questa ignoranza, di questa incomprensione. Un Paese dove non c’è stata una rivoluzione borghese e ancora adesso piangiamo di questa mancata rivoluzione.Moravia riportava una frase molto bella di Brancati. Pronunziata nel secondo dopoguerra, parlando della Sicilia diceva: «In Sicilia per essere almeno liberali bisogna essere comunisti».
Questa frase si può estendere a tutta l’Italia. Per essere almeno liberali bisogna essere comunisti. Non comunisti nel senso in cui lo dice Berlusconi (1) con orrore, ma nel senso di pensare a una società giusta dove non ci sia il sopraffattore, il feudatario, non ci sia quello che ti fa lavorare in nero, quello che sfrutta, lo xenofobo e così via.
D. Mauro, il figlio terrorista de Lo spasimo di Palermo si fa portare in carcere arance e libri. Quali libri chiederebbe che le si portassero in un’analoga situazione?
Chiederei il libro assoluto, letterario, che per me è La Divina Commedia. Chiederei il Don Quijote de la Mancha con il rammarico di non poterlo gustare nella sua lingua originale, non conosco lo spagnolo. Voglio essere partigiano e ritornare alla mia terra: rileggerei I Malavoglia e mi piacerebbe rileggere I promessi sposi di Manzoni. Questi credo siano l’ossatura della nostra cultura, della nostra letteratura. Non tralascerei naturalmente Leopardi sia nello Zibaldone che nella poesia. Credo che sia una continua ossigenazione del nostro pensiero e del nostro sentimento.
D. In un elzeviro dal titolo I testi di valore salvati dalla rete, pubblicato venerdì 2 febbraio 2001 sul «Corriere della Sera», Emilio Tadini, dopo aver fatto una distinzione tra testo e libro ed aver affermato la priorità del primo sul secondo, sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?

«In internet credo che avvenga questo: chiunque può immettere un proprio testo senza nessun vaglio perché non c’è il vaglio dei lettori editoriali delle case editrici, non c’è il vaglio della critica per cui il prodotto pseudo-letterario viene immesso subito alla fruizione dei lettori e non ha nessuna griglia e quindi, come si fa a giudicare un prodotto così? Non so se siamo di fronte alla democrazia assoluta in questo senso. Io credo che nella cultura, in letteratura non possa esistere la democrazia. Ci vuole una aristocratica selezione».
(Vincenzo Consolo)

Conclusione

Non pensa che sia la faziosità nevrotica a condannare i cittadini alla dipendenza da personaggi incapaci e corrotti? E infine non pensa che questa stessa faziosità fosse già insita nel DNA degli italiani, quando si fronteggiavano Guelfi e Ghibellini?
Mauro, il figlio terrorista de Lo spasimo di Palermo si fa portare in carcere arance e libri. Quali libri chiederebbe che le si portassero in un’analoga situazione?
Emilio Tadini sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?
Lei, vive con un disagio gli intervalli, talora anche consistenti, che intercorrono tra l’uscita dell’uno e l’altro dei suoi romanzi?
Il teatro non è un genere che Lei abbia esplorato gran ché. Come mai?

D. In un elzeviro dal titolo I testi di valore salvati dalla rete, pubblicato venerdì 2 febbraio 2001 sul «Corriere della Sera», Emilio Tadini, dopo aver fatto una distinzione tra testo e libro ed aver affermato la priorità del primo sul secondo, sostiene che il sistema attuale e dell’editoria e della distribuzione, puntando sui bestseller, abbia finito per escludere i testi di valore – testi, invece, che vengono accolti da Internet, dove vi sono siti che grazie alle loro migliaia di contatti stanno creando intorno al Testo una comunità capace di discutere e di «abbozzare ciò che noi si chiamerebbe “ critica”». Qual è la sua opinione al riguardo?

on conosco, ed è una mia mancanza, il mondo di Internet. Questa osservazione di Tadini ho l’impressione che riprenda un discorso che faceva pochi giorni fa Yaroslaw Kapuchinsky, questo giornalista straordinario e bravissimo che parlava della globalizzazione. Lui poggiava l’accento sui libri e sulla cultura. Oggi non importa più sapere se un libro è buono o cattivo ma importa sapere, con un criterio di tipo merceologico, quante copie ha venduto. La stessa cosa si può dire dei dischi, della musica.
Oggi vale più il numero della qualità. Questo è un andazzo che mette in apprensione. Non vi sono criteri estetici, etici per giudicare un libro. Il discorso del bestsellerismo è un discorso che si morde la coda per cui non importa più se il libro ha dei contenuti, del valore letterario o meno, importa che un numero di lettori abbia raggiunto questo libro, per cui diventa una reazione a catena, un elemento di persuasione per tutti gli altri per cui i lettori, o almeno gli acquirenti, diventano sempre di più. Ho detto tanti anni fa questo: il momento della mutazione è avvenuto in Italia tanti anni fa con il fenomeno de Il nome della rosa. Il fenomeno de Il Gattopardo aveva altri significati, altre spiegazioni, Il nome della rosa ha segnato il momento della mutazione, è diventato un bestseller a carattere internazionale, poi è venuta la Tamaro, oggi c’è Camilleri, si potrebbe andare all’infinito, Baricco ecc. Non discuto sul valore intrinseco del libro parlo come fenomeno di bestseller. Diventa una reazione a catena. Ci sono tanti motivi per spiegare il fenomeno ma c’è qualcosa di extra-letterario che induce, persuade, che innesca questo fenomeno della reazione catena per cui bisogna comprare quel libro e il fatto che lo comprino in centomila, ci sono altri centomila che vogliono quel libro. Si va poi all’infinito. Moraviacercava di dare una spiegazione al fenomeno del bestseller. Cos’è il bestseller? Lui diceva che non è che uno scrittore si cala dall’alto e cerca di mettere in atto gli elementi per creare il bestseller. Questo non riesce quasi mai. Invece una persona che dal basso dà il meglio di sé in quel momento, incontra il gusto corrente di quel momento. Così avviene il bestseller.
Al di là di questo ci sono anche fenomeni di induzione oggi. I messaggi pubblicitari, i fatti extra-letterari, che sono la presenza dello scrittore nelle ribalte mediatiche, il fatto di essere personaggio, sono tante connotazioni che possono spiegare il fenomeno del bestseller. Questo discorso di Kapuchinsky è stato ripreso pochi giorni fa da Arbasino su «la Repubblica» e quindi credo che il discorso di Tadini sia la conseguenza di questo articolo di Kapuchinsky. Io parlavo della fine della letteratura in questo senso, parlavo delle sacche di resistenza di fronte a questa globalizzazione. In Internet credo che avvenga questo: chiunque può immettere un proprio testo senza nessun vaglio perché non c’è il vaglio dei lettori editoriali delle case editrici, non c’è il vaglio della critica per cui il prodotto pseudo-letterario viene immesso direttamente alla fruizione dei lettori e non ha nessuna griglia e quindi, come si fa a giudicare un prodotto così? Non so se siamo di fronte alla democrazia assoluta in questo senso. Io credo che nella cultura, nella letteratura non possa esistere la democrazia. Ci vuole una aristocratica selezione.
D. Lei, vive con un disagio gli intervalli, talora anche consistenti, che intercorrono tra l’uscita dell’uno e l’altro dei suoi romanzi?
Non sono uno scrittore con l’assillo della pubblicazione annuale o semestrale. Io penso di pubblicare un libro quando penso che il libro sia necessario, che abbia una sua necessità ma soprattutto che abbia una sua consequenzialità nel senso che si possa riallacciare a quello che era stato il mio libro precedente.
D. Io aggiungerei solo una cosa. Nonostante la tragedia sia il genere che potrebbe maggiormente classificare i suoi testi – e in effetti è una strada che Lei ha percorso, d’altra parte Lei utilizza decisamente una metrica nei suoi scritti e, in un certo senso si tratta di versi, anche se non si presentano in forma di poesia, ma di prosa – eppure il teatro non è un genere che Lei abbia esplorato gran ché. Come mai?
Le zone deputate al teatro sono impraticabili perché è un mondo così invaso dal profitto e dagli estetismi che è impraticabile. Le mie opere sono tragedie, Lo spasimo di Palermo è una tragedia e questo l’hanno detto i critici, sia italiani che francesi. È appena uscita la traduzione spagnola e un critico sul «El País» ha parlato di tragedia in prosa. L’ho fatto esplicitamente con Catarsi ma anche con altri pezzi che ho scritto per dei musicisti. Ho scritto Elegia per note musicata da un musicista, morto di recente, Francesco Pennise. Mi piace scrivere questi testi che hanno una destinazione per gli oratori, per la musica che è una forma molto alta e bella e che mi riporta alla tragedia greca, con questa parte di composizioni cantate e recitate. Ultimamente anche un giovane musicista che si chiama Matteo D’Amico ed è un pronipote di Pirandello ha musicato dei brani de Lo spasimo di Palermo. Mi ha fatto tradurre lo Stabat Mater di Jacopone da Todi in italiano e ha fatto un oratorio, delle parti musicate, delle parti recitate da un’attrice molto brava che è Maddalena Crippa. Sono andato a Roma per sentire questo concerto e devo dire che era di grande efficacia. Si svolgeva nell’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma. Forse in futuro svilupperò questa mia propensione verso l’espressione musicale, fornire dei testi per dei compositori.

Gennaio,febbraio,marzo2001
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