Sì, che bisogna scappare, nascondersi. Che bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati.
A cerchi, ad
ellissi, avanzano, ad onde avvolgenti, nella notte isterica, le trombe stridule.
II respiro, mòzzalo. Sfiorano
a parabola – lacera la curva le libre – declinano, a corno svaniscono, schiere di
cherubini opachi («Toh, sfaccime, toh!.,.»), le bùccine d’acciaio, feroci.
Sul blu’ in diagonale, in vortice di dramma, le mani tra i capelli sulle guance, virano, cabrano, picchiano, occhi a fessura,
piccole animelle
colombine, agli Scrovegni. Aggelati nel Giudizio, fermi nel cerchio d’oro della
testa… << Per San Michele, tu dal nulla generi la colpa!».
E qui, in questa
muffa d’angolo… Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con sirene lame
della notte. Perchè il silenzio, la pausa ti morde.
Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. <<…La rabbia resa spietata da una
lunga
paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle
di mano; o il tirnor di mancare a un’aspettativa generale…; il tirnor fors’anche
di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono
state issate le colonne dell’infamia. Ma tu aspetta, fa’ piano. Deponi le mutrie,
gli orpelli, i giochi insensati d’ogni giorno, lascia scolare nelle fogne la miseria,
concentra la tua mente: sii uomo per un attimo.
Poggia il tuo
piede qui, su questa tela, entra, fissa la scena: in questo spazio invaso dalla
notte troverai i passaggi, le fughe. Esci, esci, se puoi, dalla maledizione della
colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda dal corpo in prospettiva, mantegnesco.
L’uomo è caduto su punte di cristallo.
Mart! Cam t’affuoddi stumatin
Chi t’arcuogghi
u garafu ‘ntra u sa giggh! (1)
Le buro-barecrazie
innalzano poi barriere, muri, labirinti. E dalle pietre del forte, stella di terrore,
il soave mattaccino murato vivo (hanno fermato il piede che disegna per l’aria libere
buffe spirali) urla nella notte: <<.,,Questa nostra lenta agonia che è già morte civile…
». E l’urlo rimbalza di casa in casa, per scaloni di porfido, cortine di damasco,
su per ciscranne, podi, teche opalescenti.
«Che si laccia tacere!» gridano, alzando sulle teste manti, pluviali,
cappe, palandre
d’ermellino.
Ma vi fu un tempo idillii. Tempo d’arie e d’acque, di erbe e d’animali, di baite romite, masi. Luce in ritmi, equilibri, scomposizioni, essenze: vuoto bianco e schiene di purezza, braccia. Cattedrali d’aria vagano per luci di granato, smeraldine, martire impalato e fraticello matto invetrati (…per sora acqua e frate sole…), illusioni a suoni flautati di canne gotiche e ghirigorì barocchi di fumi orientali. Tempo di tessere smaltate, di giochi bizantini, veloci impasti,
guizzicromie
su fresche scialbature, segni, graffi su mollezze caglianti.
E tempo di
maestri. Punto e linea, luce ferma. Oltre la greppia euclidea, fughe,
profondità, aggetti.
Del chierico
diafano non t’inganni la sua luce di febbre: il sacco copre croste, piaghe,
sozzure, orgogli. Schizofrenia gli cela il flusso degli eventi, condizioni
coatte. Estraneo alla dimora della famiglia dei polli.
ln stie sotterranee,
tra fumi d’arsenico e scoli di cianuro, per il mio e il tuo, beccano il vuoto
tondo dilatato ebete occhio, segano vene, tendini, polpe. In ciclo di crusca e sterco,
crusca e sterco. Sfiora il tao ventre ora, dallo sterno al punto del cordone, con
dita ferme: senti la stimma del tuo gastrosegato, la tacca per la fuga della
bile. E qui, dove le fughe? In pesi squilibrati di colori, in dissonanze, chiusure
dimensionali. In trittici distorti ti rifiuto la tua crusca e il mio sterco. A te,
dalla razza degli angeli!
Ma all’estremo della notte, già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli.
Viene fuori
l’eretico, prendetelo! Caricatelo di catene e mùffole, di torcia, di mitra e sambenito,
stringetegli al collo la corda di ginestra.
E nell’immensa piazza, grida il capitano: «Vivo abrugiato, le sue ceneri al vento siano sparse ».
Vincenzo Consolo
(1) «Morte! Come t’affolli stamattina – A coglierti il garofano dal suo calice!».
postille al margine “nasce 1971 in Il sorriso pa,103-105 cap. VII-1976 modificato”
dal catalogo della mostra di Luciano Gussoni
Villa Reale di Monza 10 novembre – 30 novembre 1971
Barecrazie 71
Volo da una finestra 1°
Luciano Gussoni