L’immensa luce.

Soli andavamo dentro la boscaglia, dentro il verde più cupo e più profondo. Ogni villaggio, comunità, commercio, ogni voce o richiamo non era più ormai che ricordo, eco che si spegneva nel silenzio. Ch’era più fitto, esteso per lo stormir di rami, frulli, il pigolare a tempo d’ascosi uccelli, rari. Negli anfratti s’ammassavano le ombre. In alto, mezzo agli squarci delle foglie, il cielo si colorava pel tramonto. Prima in arancio, in porpora, in viola. E sempre in limpidezza, in infinita trasparenza, di levigata gemma, di cristallo. Quindi successe il bruno, lo scolorir del mondo, e infine il cieco nero del catrame. / Sentivo già nel passo, sotto il piede, che l’aspro suolo, risonante, s’impennava, che erta si faceva la salita su per l’alto monte. Sentivo la stanchezza, il respiro stento, la brezza fredda che sferzava il volto. Egli procedeva avanti, lieve, senza peso e fatica, ombra più nera nel suo manto di

tutto il nero fitto della notte. Avanti ove non era più odor di muschio, d’erbe, frusciare di ramaglie, ov’era solo arido deserto. Egli, avanti già negli anni, avanti nella scienza, nel pensiero, primo sopra tutti. Io l’invocavo, o mi sembrava d’invocarlo. Mi sembrava di chieder pietà, riposo. E s’arresto. Udendo, più che la voce mia, inane, forse il dolente fiato, o forse solo il clamore interno del mio affanno. – Sostiamo – disse. Era il luogo, al contatto del corpo, una conca breve, un esile riparo alle guazze, alle piogge d’acqua, di fuoco, alle furie della notte. Avvolto nell’albagio, la sacca sotto il capo, supino dentro quel duro grembo, ognuno si disponeva al sonno, all’oblio di sè, della fatica. Gli occhi sbarrati contro l’immensa volta.

Ove le stelle in infinita cifra, in scie, luminose nuvole, spirali, in palpiti infiniti, in vario saettare, in un ronzio pareami acutissimo per vorticar veloce, mi tennero abbagliato. E, al par di me, il mio maestro accanto. Il quale, rotto il silenzio, – Sfero – profferi con voce grave. E quindi, come acqua che, trovato il varco nella roccia, sgorga imponente e scorre rigogliosa, si mise a declamare, ora in frammenti, ora in parti intere, brani del Poema. Sì che mi sembrò, quella voce, e le parole e il senso lor e la bellezza, come la statua d’una ignota dea che Il s’ergeva in chiaria bianca nella notte, alta sopra le nere, impietrate lave del formidabil monte, sotto quel cielo basso, vivido per l’ardore degli astri innumerabili. Ek gar thòn… si mise a declamare – .. … tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono: gli uomini e le fiere ed i pesci ed i virgulti, perché, quanto esisteva

prima, anche sussiste sempre; né mai, per causa di uno solo d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto… (*) E s’arrestò per un boato che improvviso ruppe, frantumò quell’armonia, rimbombò e si perse nell’estremo cerchio dello spazio. E l’apparizione sopra la vetta d’un grande rosso, flabello immenso d’infocato magma che infocava il cielo, il bianco delle stelle, delle nevi, il giallo degli zolfi, il nero delle ceneri, della notte. Ora prendiamo a scrutare con ogni organo, come ciascuna cosa si manifesta, riprese con più lena, come esaltato, a dire il mio maestro – senza dare credito a una visione piuttosto che all’udito, o al rimbombo di un suono.. .. Con la terra, in- fatti, noi vediamo la terra, e con l’acqua l’acqua, e con l’etere l’etere celeste, e con il fuoco il fuoco tremendo… E alle sue parole successe un crepitare di pomici, lapilli che sulle nude rocce rica-

scavano, sopra i nostri corpi. Ci coprimmo fino al capo con i manti, contratti come dentro nell’utero materno. E così, vinta per la stanchezza ogni ansia, ogni sgomento, io mi calai senza volere dentro il sonno. Era al risveglio un’alba di stupore, un lucore di vespero che scialba e che rivela il nuovo mondo. Era quel luogo un procelloso mar pietrificato, un fianco rovinoso. Ma di là, all’inferiore balza, era una siepe fitta di ginestre, alte, lente, che per leggera brezza mattutina di dolcissimo odore bagnavano il deserto, schiarivano col solare giallo il bruno ferro circostante. E oltre, al fondo, di là d’altri verdi di boschi, d’altri bruni e rossastri di creste, valli, di piane desolate, era infine il cobalto fondissimo del mare. Che allora allora s’accendeva d’una luce d’oro pel prodigio del sole che dal profondo al cielo risaliva. E s’accendeva il mondo.

Egli, il maestro, dopo il sonno, se mai al sonno per poco avea ceduto, s’era partito. Lo scorsi in alto, alto sopra un pinnacolo di roccia, fiso a guardare in alto verso la scaturigine del fuoco, l’origine del caos, la gola della caligine che in alto si spandea, rotolava in basso compatta o frantumata dalle sferze gelide dei venti. L’invocai, l’invocai più volte. Ma egli, sordo per la distanza, per l’insonora aria rarefatta, e forse più pei rimbombi cavernosi, pei sibili, restava immobile, apparendo e disparendo fra i rapidi passaggi, i vortici dei fumi. Corsi fino a lui con affanno, impedito dal manto di ceneri, di rene in cui affondavo. Lo scossi. Ei, si volse, e m’apparve più remoto, trasognato, ignaro del mio essere, lontano con la mente, con lo sguardo. E, nel frastuono di rombi, di boati, così parlò, a mozze frasi, ermetiche: … la Discordia sanguinolenta e la limpida Armonia, Bellezza e Bruttezza…

diceva – … e l’amabile Verità e la sinistra Ingannatrice, Crescenza e Distruzione.. Si mosse. Puntando il suo bastone, raggiunse le cortine spesse dei vapori, il ciglio periglioso dell’orrore. – Oh sciagura!, – urlò con voce estrema – o stirpe meschina dei mortali, oppure infelice, da tali contese siete nati e da questi lamenti… – Ritorna! – l’implorai. .. e l’immensa luce.. furono le parole che tornarono sopra il fragor tellurico. E l’incandescenza l’avvolse, inceneri, disperse.

Vincenzo Consolo Milano, maggio 1989
(*) N.B. Questa e le altre battute appresso del “maestro” sono tratte dal Poema fisico e lustrale di Empedocle, a cura di Carlo Gallavotti – Mondadori.


Titoli delle opere Vegetazione – 1988 olio su tela – cm. 160 × 200 Etna – 1989 olio su tela – cm. 200 × 160 Alcantara – 1988 olio su tela – cm. 200 × 160 Tramonto etneo – 1988 olio su tela – cm. 200 x 160 Deserto rosso – 1989 olio su tela – cm. 130 x 160 Untitled – 1989 olio su tela – cm. 130 x 160 Nord-Est – 1989 olio su tela – cm. 200 × 160

Fra contemplazione e paradiso

di Vincenzo Consolo*

Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distaccarmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che fuga infine l’ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo. Inciso nel suo azzurro, nel luglio, nell’agosto, dalle linee nere, dai ferri degli altissimi tralicci, alti quanto quei delle campate ch’oscillano sul mare, dal Faro a Scilla, che sono ormai l’antenne verticali e quelle orizzontali, ritte come spade sui musi delle prore, delle feluche odierne chiamate passerelle. Ferme, in attesa, ciascuna alla sua posta, o erranti, rapide e rombanti, alla cattura del povero animale.

Viene il momento allora, per i vocii e i frastuoni dei motori, sul mare (barbagliano parabrezza d’auto, di camion che lontano corrono lungo i tornanti della costa calabra, sopra Gallico, Catona; barbagliano vetri e lamiere dei grandi gabbiani, degli aerei aliscafi), sulla strada alle mie spalle, che corre, tra le case e il mare, giù verso Messina, il porto, fino a Gazzi, Mili, Galati, su verso Ganzirri, Rasocolmo, San Saba, viene il momento di rintanarmi.

Mi metto allora a lavorare ai modelli in legno dello spada, azzurro e argento, tonno, alalonga, aguglie, ai modelli dei lontri veri, delle feluche antiche, a riparare reti e ritessere ricordi, miei, della mia vita, qui, sopra questo breve nastro di mare, quest’infinito oceano di fatti, d’avventure, o per il mondo.

Sono nato (e chi lo sa più quando?) a Torre Faro, da rinomato padrone lanzatore, padre Stellario Alessi, terzo di cinque figli. I maschi, Nicola, Saro e io, di nome (solo di nome) Placido, ancora quasi lattanti, non lasciavamo in casa a nostra madre forchetta per mangiare, che legavamo in cima a una canna a mo’ di fiocina per infilzare polipi bollaci costardelle, ogni pesce che per ventura capitava a tiro del nostro occhio e braccio. Era l’istinto che ci portava verso il mestiere, come aveva portato nostro padre, suo padre indietro, ci portava verso il destino del mare, dello Stretto, del pesce spada, sopra feluche e lontri, ci portava a lance, palamidare, palangresi.

Nicola morì soldato e Saro nel suo letto, di spagnola. E io non mi ricordo più quando salii sul lontra e lanciai l’arpione la prima volta. Ho solo negli occhi la vista della draffinera, di quelle preziose del ferraro mastro Nino, che s’inchioda nella pelle lucida, colore dell’acciaio, nel cuore della carne, del pesce che s’impenna, che s’inarca, alta la spada sopra il fior dell’acqua, e s’inabissa, sferzando forte con la luna della coda, rapido sparendo con tutto il filo della sàgola, il filo del sangue che disegna la sua strada. Strada che finisce nella morte. Ho negli occhi la ciurma che lo tira in barca, grande, pesante, inghiaccato alla coda, la bocca aperta, la spada in basso, come un cavaliere che ha perso la battaglia; negli occhi, l’occhio suo tondo e fisso, che guarda oltre, oltre noi, il mare, oltre la vita. Ho nell’orecchio le voci di mio padre, i suoi comandi, le voci della ciurma: «Buittu, viva san Marcu binidittu!». Dopo la femmina, fu la volta del maschio, che s’aggirava, pesante e rassegnato, come in offerta, torno alla barca, a tiro del mio ferro.

Da allora, ho negli occhi e nel ricordo una schiera infinita di pesci indraffinati, di spade a pezzi succhiate nel midollo, di teste, di pinne, di code resecate.

Mio padre, vecchio e privo d’altri maschi, privo ormai di vista e resistenza, fu costretto a scender dall’antenna, ad ingaggiare, per la stagione che arrivava, uno di Calabria, dove sono gli antennieri più acuti dello Stretto, pur se i comandi, in vista dello spada, li fanno in lingua tutta loro. «Appà, maccà, palè, ti fò…» urlano.

Il giovane, Pietro Iannì, che sempre da caruso era stato guida sulle postazioni delle rocche alte di Scilla, di Palmi, di Bagnara, sposò poi Assunta, mia sorella, e se ne tornò al paese. Fu per il loro primo figlio, pel battesimo, ch’io conobbi quella che divenne poi la mia sposa. Figlia di padrone di barche, padre Séstito, era picciotta bella e assennata. Muta e travagliante. Ma non di fora, come le bagnarote libere e spartane che vanno a commerciare pesce, intrallazzare sale, avanti e indietro sempre sui traghetti, ma, di casa, e al più sulla spiaggia, tra le barche dei suoi. Bruna, il fazzoletto in testa, gli occhi sfuggenti che spiavan di traverso, stretta alla vita, i fianchi dentro quel maremoto di pieghe della gonna, il busto che sbocciava in sopra ardito e snello: così m’apparve in prima a quella festa. Il matrimonio, con tutti gli accordi e i sacramenti, si fece nella chiesa bella del Carmelo, e il trattamento, nella casa capace della sposa. Fu quel giorno che mio padre, in presenza dei Séstito, pronunciò il testamento, disse che le barche, gli attrezzi per la pesca, tutto passava a me, ch’io sarei stato da quel giorno il padrone nuovo.

Poco durò lo spasso per le nozze. Me la portai, Concetta, la mia sposa, nella casa nostra, lì vicino alla chiesa, davanti al monumento con l’angelo di marmo a cui la guerra tagliò di netto un’ala, in faccia alle barche nostre, al mare, alla rocca di Scilla dall’altra parte. Le feci conoscere Messina, il porto, con tutta la confusione dei bastimenti fermi, delle navi in movimento, dei ferribotti, la Madonna lì alla punta della falce, alta sopra la colonna, sopra il forte del Salvatore; il Duomo, dove restò incantata, a mezzogiorno, per il campanile e l’orologio, ch’è una delle meraviglie di questo nostro mondo: suonano le campane, canta il Gallo, rugge il Leone, la Colomba vola, passa il Giovane, il Vecchio, passa la Morte con la falce; sorge la chiesa di Montalto, passa l’Angelo, San Paolo, torna l’Ambasceria da Gerusalemme, la Madonna benedice… Me la portai per i viali, a Cristo Re, a Dinnammare, su fino a Camaro, a Ritiro, ai colli di San Rizzo. Ma lei, lei, sempre pronta, sottomessa, era però come restasse sempre straniata, come legata con la mente alla terra di là, oltre lo Stretto. E più mi dava figli (tre volte partorì in cinque anni) più sembrava crescere in lei il silenzio e lo scontento. C’era fra noi, che dire? come una distanza, uno stretto, una Scilla e Cariddi fra cui non si poteva navigare. Eppure, santissima Madonna!, la trattavo con ogni cura e affetto, l’adornavo di vesti, di ori; la portavo alla festa di Ganzirri, alla processione di San Nicola sul Pantano, alla trattoria di don Michele; e a Messina, alla festa dell’ Assunta a Mezzagosto. Una volta tirai anch’io per voto (voto che si capisce quale fosse, d’avere finalmente quella donna, per cui potevo morire, indraffinato come un pescespada), tirai per la corda la gran Vara, scalzo, senza camicia, e lei accanto a me, sciolti i capelli, certo per un voto suo segreto che mai mi rivelò.

Un luglio, ad apertura della pesca, per l’ammalarsi dell’antenniere mio, fu lei a suggerirmi, come per caso, quel nome d’un parente suo lontano, Polistena Rocco, rinomato fra Bagnara e Scilla. E arrivò quest’uomo snello, alto, d’una chioma riccia come quella del gigante Grifone sul cavallo. Tanto che là, in cima, stava per tutte l’ore senza un cappello, solo riparo quel suo casco nero di chiocciole o di cozze. Lo vidi e l’odiai. Non so perché. Forse per il suo portamento, il suo sorriso, la fama per cui ognuno rideva e mormorava, d’una sua dote fuori d’ordinario, la fama, scapolo com’era all’età sua, di grande ladro, d’amatore tenace e senza cuore. Mi parve che Concetta, al suo arrivare, mi parve che appena appena mutasse nell’umore, nel modo suo di fare; parlava più frequente, con me, coi figli, sorrideva finanche qualche volta. L’odiai. E quando alzavo il braccio per colpire il pesce, che lucido e dritto guizzava sotto l’acqua con la spada, mi sembrava di colpire, di piantare in quell’uomo la draffinera. E il mare lo vedevo tutto rosso, poi argento, poi blu, poi nero come la notte.

Pel tempo che durò la sua presenza al Faro (due, tre estati, non ricordo), pur senza un segno, un fatto, un motivo vero, cresceva sempre più la mia pazzia, l’ossessione dell’inganno. E sì che non eravamo più di primo pelo, né io né quello né Concetta. Durò fino a quell’anno in cui cominciò il grande mutamento, l’anno vale a dire in cui passarono in disuso remi, lo ntri, feluche, si mutarono le barche in passerelle. E ci vollero quindi, per i motori, l’antenne, tanti soldi. Decisi per questo (ma forse fu una scusa) di sbarcare, disarmare tutto, licenziar la ciurma, il calabrese.

Per mantenere la famiglia m’imbarcai come marinaio, io padrone, sopra il Luigi Rizzo, il vaporetto che collegava Milazzo a Lipari, Vulcano … Fuori dal porto, costeggiando la penisola del Capo, oltre il Castello, davanti alla casa di quell’ammiraglio che nella Grande Guerra era stato eroe, assieme a un poeta, per una impresa ardita contro il nemico, il battello che portava il suo nome, lanciava il fischio di saluto. Allora qualcuno, una serva, un parente, rispondeva sventolando dal terrazzo un panno bianco. Il battello d’estate era sempre pieno di turisti: scoprii così il mondo. Mi feci, per cancellar l’amore per Concetta, gran traffichiere, facile predatore di straniere. D’inverno, nelle soste a Lipari sotto il Monastero, nelle soste forzate per il brutto tempo, m’intrecciai con una di là, ché sono, le donne di quell’isola, svelte, calamitose, seducenti.

Tornavo al Faro, a casa, a ogni turno di riposo, tornavo per le feste. E lei, Concetta, era sempre chiusa nel suo mondo, sempre indifferente. In più ora sembrava solo presa dai figli, ch’erano ormai cresciuti e le davano maggior lavoro.

Il colmo della sua freddezza nei confronti miei lo provai un’estate. Forse per sfida o forse nell’intento di smuoverla allo scontro, portai una straniera fino a Torre Faro, fino alla punta estrema del Peloro, all’incrocio dei mari, dove la rema forma i gorghi, quelli che la tedesca chiamava del mostro di Cariddi. Passammo davanti alla mia casa. Lei ci vide, da dietro la finestra, ed ebbe come un riso di sprezzo, di compatimento.

Dopo quel fatto, decisi di sbarcare, di tornare al mio mestiere della pesca. Anch’io, come gli altri, misi da parte remi e lontri, comprai un motore per la mia feluca e cominciai a correre, a inseguire lo spada sullo Stretto. Avevo preso un’antenniere nuovo di Fiumara Guardia, e il mio braccio di vecchio lanzatore era tornato ad essere forte e preciso come nel passato. Fu in uno di questi erraggi, nell’inseguire il pesce dalla posta mia, che mi scontrai con una passerella che per abuso aveva catturato il pescespada. Lì, sull’antenna della feluca pirata, rividi allora dopo tanto tempo il calabrese. La questione della preda fu portata davanti al Consiglio, che sentenziò naturalmente a mio favore. Ma al Polistena, che seppi era il padrone della passerella, feci sapere che il giudizio per me, oltre il Consiglio, era nel riparar lo sfregio col duello: che si facesse trovare sulla spiaggia, proprio sotto il Faro. Fu lì puntuale, come convenuto. Stavamo appressandoci, quando, a un passo l’uno dall’altro, cominciarono a fischiare sopra le nostre teste le palle dei fucili. Eravamo proprio sotto il campo del tiro al piattello. Ci buttammo per terra, la faccia contro la rena. E restammo così, impediti a muoverei, non so per quanto tempo. Ci spiavamo con la coda dell’occhio. Poi improvviso fu lui a ridere per primo, a ridere forte, e trascinò me nella risata, mentre i piatti in aria venivano dai colpi sbriciolati. Dopo, quando ci fu il silenzio, ed era quasi l’imbrunire, ci alzammo, ci guardammo in faccia. Fu lui, Rocco, a tendermi la mano. Non lo vidi più. Sparì dalla mia vista e dalla mia vita. Anche perché sparì in uno con Concetta tutto il rancore mio e la gelosia.

Mi disse lei, là all’ospedale Margherita, affossata nel letto, gli occhi negli occhi, la mano serrata nella mia: «Ah, Placido, come si può passare una vita senza capire!»

Da allora, quando mi lasciò la mia Concetta, sentii che cominciavo a farmi vecchio. Donai tutto, passerella e reti ai miei figli, lasciai il Faro e venni qui ad abitare in una nuova casa.

Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come un trapassato… Ma vivo nei ricordi. E vivo finché ho gli occhi nella beata contemplazione dello Stretto, di questo breve mare, di questo oceano grande come la vita, come l’esistenza.

Dicembre 1988
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LE PIETRE FERITE (Intervista a Vincenzo Consolo)*

*Colloquio tenutosi il 5 dicembre 1988 nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in una serata organizzata dall’Associazione dei Siciliani nel Ticino e da «Bloc Notes».
a cura di
 Paolo Di Stefano



 Giunto a Milano nel 68, all’età di trentacinque anni, Vincenzo Consolo non è emigrante per necessità, ma per scelta. Questa scelta da quali ragioni è stata determinata?

«Devo dire che questa emigrazione a Milano, del 1968, era la mia seconda emigrazione. Emigrazione, naturalmente, tra virgolette, perché era un’emigrazione da privilegiato. Io avevo la possibilità di studiare e quando si trattò di fare gli studi universitari, decisi di compierli a Milano. Studiai diritto all’Università cattolica. Credo che in tutti i siciliani ci sia l’ansia di uscire dall’isola e di vedere il mondo, perché -almeno da parte delle persone che non sono strettamente necessitate- c’è come un bisogno di conoscere il «continente». Io avevo scelto Milano perché sin da allora offriva sollecitazioni letterarie: era la città dove era stato Verga, era soprattutto la città dove viveva Elio Vittorini. Speravo, quindi, andando a studiare a Milano, di conoscere Vittorini. L’incontro in realtà non avvenne a causa della mia timidezza. Mi ricordo che odiavo un mio compagno di università che era diventato amico di Vittorini e poteva liberamente accedere a casa sua e pranzare con lui. Ma voglio ricordare un episodio significativo per quegli anni. Piazza Sant’Ambrogio, dove si trova l’Università cattolica, era allora, parafrasando Calvino, la piazza dei destini incrociati: in quella piazza c’era, oltre alla basilica e all’Università, una caserma della celere -allora il ministro degli Interni era Scelba-, e un centro ricavato da un grande monastero, per l’orientamento degli emigrati. Negli anni Cinquanta c’erano grandi masse di meridionali che arrivavano alla stazione centrale, venivano convogliati su tram speciali e portati in Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti a visita medica ed equipaggiati di casco e tuta, per essere poi mandati all’estero, in Francia, in Svizzera, ma soprattutto nelle miniere di carbone del Belgio. Allora, a studentelli piccolo-borghesi come me, o come Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi o altre persone che oggi appartengono alla classe dirigente italiana, poteva capitare di incrociare il compaesano contadino che emigrava, oppure il compaesano poliziotto. I destini dell’Italia si determinavano in quegli anni della ricostruzione. Finiti gli studi, capii che volevo fare lo scrittore. Pur avendo la possibilità di lavorare a Milano, decisi di tornare in Sicilia: per quelli della mia generazione, che non hanno fatto in tempo a fare la guerra, essere scrittori significava scrivere di problemi sociali, avendo letto la grande letteratura meridionalista del dopoguerra, da Conversazione in Sicilia alla saggistica, da Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre a D’Orso, a Gramsci.
Decisi allora di tornare in Sicilia, per insegnare, per fare lo scrittore e testimoniare di quella realtà contadina.»

Perché, allora, il ritorno a Milano, una città con la quale, come tu stesso hai detto più volte, non hai avuto un rapporto facile?

 «Tornai a Milano quando il mondo in cui avevo creduto e che pensavo di testimoniare era scomparso davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutti. Si erano verificati grandi movimenti di masse dal Sud verso Nord, che coincisero con la fine della civiltà contadina. Il grande esodo verso l’industria settentrionale mi spinse a fare le valigie per assistere a quella grande trasformazione. Mi sembrava che in Sicilia la storia fosse finita, che si fosse chiuso un capitolo e che al Nord se ne aprisse un altro. In quegli anni c’erano alcune riviste molto attente a quelle trasformazioni, sia dal punto di vista sociale che linguistico: ad esempio, il «Menabò» sollecitava a studiare le commistioni che nascevano dall’incontro dei meridionali con le aree urbane, stimolava l’attenzione verso le nuove koiné che si sarebbero formate. Nel 1968, di fronte al rivolgimento culturale che si stava verifican-do, mi trovai spaesato e spiazzato, perché, provenendo dal mondo contadino, non capivo il linguaggio e la realtà di quella Milano. In molti anni di osservazione e di riflessione capii che non avrei mai potuto narrare di una realtà che non mi apparteneva e di cui non avevo memoria. Quindi l’unico modo per rappresentare quel mondo che non conoscevo era metaforico, rivolgendomi al mio bagaglio di memoria, alla mia storia e alla mia cultura. Cosi, dopo un silenzio di tredici anni, motivato dal momento di spaesamento e di osservazione, viene fuori il secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinato.»

Farei un passo indietro, per ricordare due figure determinanti per la tua cultura, entrambe siciliane, ma rappresentanti di due diverse Sicilie. Che cosa hanno significato per te Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia?

«Devo premettere che io parlo di microcosmi, ma credo che quel che dico possa applicarsi anche a realtà più ampie. Io ho sempre immaginato la la letteratura siciliana -che ha una sua precisa fisionomia, fortemente connotata storicamente e linguisticamente- come divisa in due parti: quella occidentale e quella orientale. Credo che ci sia una linea ideale che divide da una parte, a Ovest, narratori interessati al mondo storico e sociale -perché li son più forti i segni della storia-, dall’altra, a Est, scrittori più portati verso una visione esistenziale e verso una sorta di lirismo -perché il mondo orientale è più compromesso con la natura, una natura spesso violenta qual è, ad esempio, quella delle eruzioni vulcaniche o dei terremoti, con un continuo azzeramento della storia e la necessità di ricominciare sempre daccapo. Penso che questa distinzione sia valida non solo per gli scrittori ma anche per gli altri artisti. Io mi sono trovato a nascere e a vivere al centro di questi due mondi, in una specie di zona di confluenza, in un terreno franco dove c’erano segni labili della storia e segni labili della natura. Per me questi due poli erano rappresentati da Leonardo Sciascia e da Lucio Piccolo. Sciascia lo conobbi quando pubblicai il primo libro, La ferita dell’aprile; mi scrisse invitandomi ad andare a trovarlo. Andare a Caltanisetta fu per me come andare a New York, perché era un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abitavo: per noi che viviamo nella fascia settentrionale della Sicilia è molto più semplice prendere un treno verso il Nord, che esplorare quello che ci sta alle spalle, oltre quella barriera di Appennini rappresentata dai Nebrodi e dalle Madonie. Quindi conoscevo attraverso la letteratura il feudo e le zolfare, ma andando a trovare Sciascia mi accorsi che era una gente e una cultura diverse dalla mia. D’altra parte ho avuto in fortuna di stare vicino a un poeta come Lucio Piccolo, un cugino di Lampedusa, coltissimo, barone, che scriveva poesie altissime. Mi sono trovato, insomma, tra due bastioni, a combattere contro l’uno o contro l’altro.»

Nel 63 esce La ferita dell’aprile: la sintesi, che hai sempre cercato, tra questi due poli di cui parlavi, è già, almeno in parte, realizzata con il primo romanzo?

 «Credo di sì. Sin dal primo libro mi sono scoperto una forte tentazione al canto. La ferita è concepita come una ballata, come un poema narrativo, come un romanzo fortemente ritmato. Ma tutto questo e corretto da tante malizie di tipo retorico, come l’ironia, le sprezzature, molte rotture interne e falsetti che ho messo in campo proprio in contrasto con questa propensione alla lirica. Oltretutto i temi trattati non erano per nulla assoluti o esistenziali o idilliaci. Erano argomenti drammatici: ho voluto raccontare con un linguaggio adolescenziale la storia dell’ennesima adolescenza della Sicilia del dopoguerra: la caduta del fascismo, la ricostituzione del partiti, la possibilità di avere una nuova storia sociale, il fallimento di tutto questo e il ritorno all’impostura eterna. È una falsa autobiografia, tanto che io lo considero un romanzo storico.»

 Gli anni Settanta per te non sono anni di partecipazione. Eppure, nel ’76 esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, da cui però emergono i segni del tempo. Qual è il rapporto tra storia e attualità?

 «Questo libro l’ho potuto scrivere solo perché mi ero trasferito a Milano, dove ho potuto osservare la realtà operaia e industriale, e solo perché avevo visto i conflitti sociali, che in quel momento erano molto acuti. Volendo parlare di questo, mi sono rivolto alla storia siciliana e ho descritto un passaggio storico importante come il 1860, una data che tutta la tradizione narrativa siciliana ha trattato. In effetti gli scrittori siciliani si sono sempre chiesti i motivi della propria storia: per questo il tema del 1860 è stato trattato da Verga, da Pirandello, da De Roberto, da Lampedusa, da Sciascia. È quasi un passaggio obbligato. Io l’ho affrontato volendo trattare un argomento che mi stava molto a cuore: che cos’è la storia, da chi è scritta, qual è il dovere e l’atteggiamento dello scrittore e dell’intellettuale di fronte alla storia, in determinati momenti acuti. E giusto e morale, quando fuori le masse sono impegnate in lotte molto accese, che lo scrittore rimanga chiuso nella propria stanza a scrivere di se stesso o di squisitezze? Il protagonista di questo libro, il barone Mandralisca, è investito da questi interrogativi nel momento in cui in Sicilia avvenivano le rivolte popolari. Allora ho voluto raccontare l’atteggiamento di questo studioso, amante di oggetti d’arte, collezionista di quadri e studioso di malacologia, che si trova ad essere testimone di fatti atroci e di massacri.»

La presenza del documento originale, intercalato al racconto, può essere interpretato come il segno di un’insufficienza della narrazione?

«Direi che è un senso di colpa dell’arte nei confronti della storia e della vita. Io sento molto il privilegio della scrittura e il piacere della narrazione, ma anche un bisogno di verità nei confronti della grande menzogna che è la letteratura. Per questo, nella struttura del Sorriso, ho immaginato, insieme all’invenzione, l’inserimento di documenti, per mostrare la verità e la sublime impostura della letteratura legate in un tessuto unitario che desse un quadro complessivo. Raccontare in modo rotondo una storia come quella mi sembrava ingiusto. Ho voluto far veder e il disegno accanto al dipinto finito.»

Un aspetto fondamentale per comprendere la scrittura di Consolo è il linguaggio adottato. Che atteggiamento assume lo scrittore di fronte a questo argomento? A cosa si deve la scelta di quella «plurivocità» di cui ha parlato Cesare Segre?

«Il discorso sul linguaggio è molto complesso. Per quanto mi riguarda credo che ogni scrittore, se appartiene ad aree linguistiche periferiche dove Litaliano è una lingua che si acquisisce -come è stato nel mio caso-, debba inventarsi una lingua, non possedendo quella nazionale. A questo si aggiungono esigenze di tipo estetico-letterario. Da quando cominciai a scrivere io capii che non dovevo scrivere in italiano, proprio perché gli argomenti che volevo affrontare cozzavano con una lingua che parlava d’altro. Quindi volevo adottare una lingua che si opponesse a quella centrale, una lingua, se vogliamo, di contropotere. Questo, ovviamente, non è stato un problema solo mio, ma appartiene alla storia letteraria siciliana e non solo siciliana. Manzoni, quando decide di scrivere i Promessi sposi, un romanzo prettamente lombardo, in lingua toscana, lo fa per ragioni politiche, contro il potere austriaco. L’operazione linguistica del Verga è di segno opposto: rifiuta il toscano e sceglie una lingua altra per fare scoprire una realtà periferica che l’unità italiana ignorava: per questo Verga, prima di scrivere, studiò le tradizioni popolari, si documentò su inchieste parlamentari e no, fu molto colpito dal sondaggio di Sonnino e Franchetti sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, soprattutto il capitolo finale in cui si parlava del lavoro infantile nelle miniere di zolfo, che fu una rivelazione per tutta l’Italia. Verga, per questo, scrisse in una lingua, come disse Pasolini, irradiata di elementi dialettali. Lo stesso Pasolini, provenendo dal Friuli, dovette affrontare lo stesso problema; non a caso le prime sue opere furono in dialetto e quando si trasferì a Roma scrisse in una lingua particolare, realizzando un processo retorico contrario a quello di Verga che abbassava a livello dialettale la lingua nazionale. Viceversa Pasolini, attraverso la digressione, partiva dalla lingua italiana per inserirvi elementi dialettali. Ci sono due modi per evitare di scrivere in italiano: un processo di irradiazione e un processo di innesto.»

Quando in Italia si parla di espressionismo linguistico nel Novecento si pensa a Gadda. In che termini si pone la tua ricerca linguistica rispetto all’esperienza gaddiana?

 «Direi che ha agito non più di tanto, non credo che mi abbia influenzato, anche se, naturalmente, ho letto Gadda con interesse. Credo che l’unico aspetto che ci accomuna è il fatto che sia in Lombardia sia in Sicilia 111 

è presente l’elemento spagnolo. Forse certo barocchismo proviene da questo retaggio culturale. Una volta hanno chiesto a Gadda le ragioni del suo barocco: rispose che barocco è il mondo e lui non faceva che rappresentarlo. La stessa tradizione siciliana è barocca, è composita, per nulla lineare e razionale. Brancati, commemorando Giuseppe Antonio Borgese, gli rimproverava di non aver praticato il barocco sino in fondo. Parlando del barocco siciliano, Brancati disse che è una linea retta che uscendo da un ghirigoro rientra subito in un altro ghirigoro. Questo significa che esiste la consapevolezza nel voler rappresentare una realtà e una tradizione che è in sé barocca.»

Alla ribellione contro la lingua e contro la storia, si aggiunge in Consolo una opposizione rispetto ai generi letterari acquisiti. Il sorriso dell’ignoto marinaio, come è stato detto, è un romanzo che distrugge il romanzo.


«Sì. Io ho sentito in un certo senso la colpa di scrivere. Per questo ho cercato di negarmi sempre a qualsiasi tipo di inquadramento. Il sorriso ha una struttura così rotta, franta, è un assemblaggio di elementi talmente di- versi, che pensavo che il lettore potesse sentirsi frustato ad ogni pagina. Soprattutto per certo linguaggio presente nelle parti narrative, un linguaggio in negativo, cioè talmente mimetico e ironizzato che vuole negarsi nel momento in cui nasce. Cercavo di fare la parodia del linguaggio erudito dell’Ottocento. Inoltre il documento storico, diversi livelli linguistici e alla fine le scritte a carbone, che sono quanto di più sintetico, duro e incisivo si possa immaginare. Era un modo di sottrarsi al romanzo storico leggibile di fila, e quindi il tentativo di richiedere al lettore volenteroso di partecipare alla ricreazione del romanzo.»

Una costante dei libri di Consolo è la presenza, in diverse forme dell’immagine, del documento iconografico: Il sorriso parte da un quadro di Antonello, Lunaria contiene addirittura un corpus di riproduzioni ico-nografiche, Retablo ha per protagonista un pittore contemporaneo calato in ambiente settecentesco. Che significato ha questo rapporto con l’immagine?

 «Forse la consapevolezza dell’insufficienza della parola e un bisogno di icasticità e di visualità. Nel Sorriso il Leitmotiv del quadro di Antonello si presenta in termini opposti: in un primo momento come presenza positiva, poi in senso rovesciato. In Retablo già il titolo appartiene alla categoria pittorica: «retablo» significa polittico, cioè insieme di storie raccontate in più scomparti. È un termine che si estende anche al teatro; in Cervantes «retablo» significa proprio teatrino. Io ho preso lo spunto da questa suprema ironia cervantina che richiama il senso dell’arte come impostura. Inoltre il protagonista è un pittore: il segno del falso storico che ho voluto rappresentare è proprio nel fatto che un pittore vivente assume vesti settecentesche.»

Fabrizio Clerici ha raccontato, in un’intervista, il pretesto che ha dato  spunto al libro: un viaggio in Sicilia realmente accaduto…

«Una volta ci siamo trovati a Palermo per un fastoso matrimonio della nobiltà cittadina, a cui indegnamente  ero stato chiamato a fare da testimone. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un viaggio, con Clerici e altri, percorrendo l’itinerario classico di tutti i viaggiatori stranieri dal Settecento in poi. Da Palermo si approdava a Segesta, testimone della grecità, a Selinunte, poi ad Agrigento, spingendosi a volte fino a Siracusa, per fare il giro completo dell’isola. Fu quel giro a suggerirmi un libro che raccontasse di un viaggiatore lombardo in Sicilia. Ho scelto Clerici, che è di origine lombarda ed è un pittore tra il surreale e il metafisico. Inoltre in anni lontani aveva dipinto un quadro dal titolo «Confessione palermitana», dove comparivano le damine settecentesche di uno scultore che lavorava gli stucchi, il Serpotta, accanto alle quali aveva riprodotto gli scheletri delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tutti questi elementi mi hanno spinto a inserire la figura di Clerici come protagonista del libro. Del resto Clerici e un personaggio già visitato dalla letteratura, essendo apparso in un libro di Savinio su Milano, Ascolta il tuo cuore città, in cui l’autore individua in Clerici un personaggio stendhaliano.»

In Retablo si raggiunge una sorta di sintesi tra l’elemento illuministico, rappresentato da Clerici, e la coralità siciliana barocca.

 «Direi di si. La storia racconta di un personaggio, Clerici, innamora-to, non corrisposto, di Teresa Blasco, una fanciulla bellissima, secondo le testimonianze storiche rimaste, figlia di un militare spagnolo e di una siciliana. Nella realtà Teresa sposa Cesare Beccaria. Quindi, nella mia immaginazione, questa vicenda rappresenta l’incontro tra la ragione illuminista e la poesia della ragazza. Dall’incontro emerge la figura di Manzoni, di cui Teresa è la nonna, avendo generato, con Cesare, Giulia Beccaria. Il senso era questo: l’unione tra logica e irrazionalità. Clerici si allontana dalla cultura illuminista per pene d’amore; incontra in Sicilia un ex-frate, Isidoro, in preda anch’egli al delirio d’amore. Allora intraprendono insieme, come don Chisciotte e Sancio Panza, un viaggio per la Sicilia. L’intento di Clerici è di prendere le distanze dalla donna, immettendosi, lui dice, in una dimensione di «stasi metafisica», senza però riuscirci. Ma soprattutto è travolto dalla vita, quindi si crea questa tensione tra la ragione e la poesia.»

Torniamo indietro: in Lunaria (1985) come si combinano i richiami a Lucio Piccolo e a Leopardi?

 «In effetti la dedica è molto importante: «A Lucio Piccolo primo ispiratore, con ‘L’esequie della Luna’. Ai poeti lunari. Ai poeti.» Lucio Piccolo, l’ho già detto, era un bravissimo e purissimo poeta scoperto da Montale, che aveva esordito nel 56, prima del Lampedusa. Le cronache letterarie si occuparono subito di questo signore eccentrico, barone, che esordiva già in età matura. Poi,  però, fu commessa una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Quando esplose il fenomeno del Gattopardo, scritto dal cugino, se ne senti quasi come schiacciato, perché ogni volta che si parlava di lui veniva citato come il cugino di Lampedusa. Questo lo amareggiò molto e una volta, come racconta Sciascia, disse che era Lampedusa il suo cugino e non viceversa. In effetti la critica italiana non gli ha mai reso omaggio, mentre all’estero è molto tradotto. In anni lontani aveva intrattenuto corrispondenze con poeti stranieri importanti, come Yeast e Ezra Pound. Era un uomo di una cultura sterminata, aveva vissuto sempre appartato ed era molto autocritico. Il mio libro, Lunaria, è stato scritto in omaggio a lui, perché aveva scritto un’operetta in prosa che era una sorta di canovaccio da cui voleva ricavare un balletto. Infatti aveva mandato quel canovaccio a Ilde-brando Pizzetti che poi non ne fece nulla. Il tema di queste Esequie della Luna è la caduta della luna, è un tema leopardiano. In una poesia, Spavento notturno, Leopardi dice di un sogno in cui, appunto, la luna era precipitata. Io riprendo questo argomento facendone un’opera teatrale. In realtà ero molto disgustato per certa romanzeria di consumo che si faceva in quegli anni e che purtroppo continua a farsi. Allora ho voluto spingermi oltre Il sorriso dell’ignoto marinaio, proponendo un’opera in cui venisse eliminata tutta quella parte che è la radice del romanzo, la parte diegetica, riducendo all’osso la descrizione con brevi didascalie. La mia preoccupazione era che l’opera fosse più vicina alla poesia, con un rovesciamento di ruoli, per cui le parti scritte in versi sono più prosastiche, mentre le didascalie in prosa sono più ritmate e rimate. Ancora una volta era quindi un libro scritto in polemica rispetto all’industria culturale.»

A proposito dell’ultimo libro, Le pietre di Pantalica, alcuni critici hanno avvertito una sorta di sentimento nostalgico che lo pervade. Tu accetti questa osservazione?

«Non credo che ci sia nostalgia. Il libro è strutturato in tre parti, «Teatro», «Persone», «Eventi». Non so dove si possa avvertire questa nostalgia. Non credo certo nella terza parte, che è la più diaristica, la più violenta: si fonda sui miei ritorni in Sicilia di questi anni, sulla constatazione di un degrado, di un processo di imbarbarimento e di atrocità. Nella prima parte ho voluto raccontare gli ultimi bagliori dell’epopea contadina, a partire dall’arrivo degli Americani sino agli anni Cinquanta, il tentativo fallito di avere una riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il mondo contadino non era assolutamente un mondo felice, per cui non credo se ne possa nutrire nostalgia. Tuttavia cerco di dimostrare che c’erano alcuni valori che si sono perduti: un senso immediato della realtà, senza schermi, e un’alta considerazione della vita umana. Credo che nel processo di imbarbarimento d’oggi sia avvenuto innanzitutto un distacco dalla realtà, per cui non se ne ha più la percezione. Tutta la storia della civiltà, secondo me, è contrassegnata da un oscillare continuo di accostamento e allontanamento dalla realtà. Nei momenti di distanziamento si verifica quella che noi chiamiamo alienazione, che ci costringe a guardare delle false realtà: momenti storici come quello che stiamo vivendo mi fanno pensare al ritorno dentro la caverna platonica, dove ci sono gli uomini che guardano le loro ombre sulle pareti della caverna credendo che quella sia la realtà, mentre la realtà è alle loro spalle. L’altro tema è la perdita del valore della vita umana, che oggi, osservandola dalla Sicilia, mi pare svilita in tutti i sensi. Allora ho parlato delle violenze siciliane, della mafia, in un anno preciso in cui sono successe atrocità incredibili. Era l’estate del 1982, dove un delitto si susseguiva all’altro. In luglio c’era la festa della patrona, santa Rosalia: io ho assistito alla processione, a cui era presente anche il prefetto Dalla Chiesa, incontro Camilla Cederna, che doveva intervistare lui e sua moglie. Quando sono tornato a Palermo, in settembre, il prefetto e la moglie erano stati uccisi. Si è trattato di un anno terribile, in cui sono state uccise più di cento persone. Ho voluto raccontare il degrado di questa città, ma anche di Siracusa, che è un luogo che appartiene a tutti, una città di grande valore civile e culturale, circondata da una enorme fascia di industrie dove interi paesi sono stati evacuati perché nascevano bambini deformi.»
 Come sono stati strutturati, nell’insieme, i diversi testi, in gran parte concepiti come estravaganti?

 «La prima parte, «Teatro», è un nucleo narrativo unitario che avevo concepito come romanzo storico e dopo abbandonai perché non mi interessava più come genere. Quindi ho utilizzato solo una parte di questo roman-zo, che ho sforbiciato, perché mi importava allontanare nel tempo quella civiltà, senza rappresentarla ravvicinata. Poi ho raccolto altre cose che avevo scritto, ma era un periodo in cui guardavo e pensavo con quegli stessi occhi. Quindi ho messo in scena delle persone di quel mondo, come Lucio Piccolo o l’etnologo Antonino Uccello, che rappresenta il personaggio portante di tutto il libro, poi Leonardo Sciascia e Buttitta. A questo ho aggiunto il diario che ho tenuto durante i ritorni in Sicilia. Mi sembra che, più che racconti, il libro, per gli slittamenti che esistono tra una sezione e l’altra, per i rimandi, abbia un’unità e una struttura molto aperta ma anche coerente. Il sigillo del libro è dato dall’ultimo racconto, un racconto-verità, desunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, che si intitola «Memoriale di Basilio Archita». È un racconto che si svolge in pieno oceano su una nave greca, dove vengono scoperti dei clandestini kenioti che vengono gettati a mare in pasto agli squali, per decisione del capitano e degli ufficiali di bordo. Sono stato molto colpito da questo fatto e ho voluto riprodurlo immaginando che a bordo ci fosse un mozzo di origine siciliana, Basilio Archita, che, dopo essere sbarcato al Pireo, raccontasse questo delitto terribile, come testimone. Ho voluto dire che questo processo di imbarbarimento non è solo in Sicilia, ma sta all’origine della nostra civiltà che, come tutti sappiamo, ci viene dalla Grecia.»

All’inizio del racconto dedicato a Sciascia hai posto come epigrafe una sua frase che dice: «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.» Questa affermazione è valida anche per te?

 «Sì, certo. Sciascia, però, quando parla della sconfitta della ragione pensa soprattutto all’aspetto storico e sociale: parla dell’inquisizione, dei fallimenti politici, delle offese all’uomo. Io porto la sua affermazione alle estreme conseguenze e penso alla disgregazione della ragione come follia. Una componente che è stata poco sondata dalla narrativa siciliana è proprio la follia del siciliano. Per questo ho paragonato la realtà siciliana a una tempesta alla quale è estremamente difficile sopravvivere. Quando ci si salva si approda, secondo me, a una sorta di maturazione anticipata. Ho paragonata la maturazione di cui parla Pirandello nel Fu Mattia Pascal («Così l’anima mia venne a maturazione ancora acerba…») a quei frutti che si producono artificiosamente fuori stagione in Sicilia e che si chiamano verdelli. Si portano le piante di limone, nell’agosto inoltrato, sull’orlo della morte, privandole dell’acqua, le foglie rischiano l’essiccazione e sono sul punto di cadere. Quando l’albero è «patuto», come si dice, viene immessa l’acqua nel mezzo degli agrumeti e l’albero fiorisce di colpo, mette la zagara e immediatamente cresce il frutto, un frutto fuori tempo, profumatissimo e gustosissimo che si chiama verdello. Per il siciliano è la stessa cosa: arriva all’orlo della morte e, se riesce a sopravvivere, acquista una saggezza prematura, una disperata intelligenza e una dolorosa consapevolezza.»

Pensi che oggi persistano, nell’ambito della letteratura prodotta in Sicilia, alcune caratteristiche tipiche che si possono definire siciliane a tutti gli effetti?

 «Fino alla mia generazione è esistita. Adesso c’è una sorta di uniformazione. Io, negli anni settanta, ho fatto per anni il lettore per Einaudi e mi sono accorto che c’è stato un momento di passaggio da una scrittura a un’altra. Avevo chiesto a Einaudi di occuparmi soprattutto di letteratura meridionale. C’erano scrittori che in quel periodo erano portatori di realtà sociali ben precise, poi, passando a generazioni più giovani, notavo che i dattiloscritti che arrivavano da Palermo erano sempre più uguali agli altri. Come è avvenuta l’uniformazione linguistica, è venuta l’uniformazione dei temi. Cadeva l’interesse verso il mondo esterno, si tendeva sempre più a parlare dei propri problemi. Inoltre da una scrittura di conquista, una scrittura-scrittura, si passava a una specie di trascrizione di un parlato uguale per il Meridione come per il Nord. Le piccole culture si stanno distruggendo, ma è un processo di omologazione che avviene dappertutto, in Occidente attraverso la forza dell’economia e all’Est per forza di carri armati. Mi sono trovato una volta a Palermo a un convegno internazionale di scrittori. C’erano due scrittori emblematici del cosiddetto socialismo reale, Evtusenko e Kundera. Naturalmente non si amavano e lo mostrarono subito. Ma il primo a provocare fu Evtusenko: disse che gli astronauti sovietici gli avevano detto che dallo spazio le piccole patrie non si vedevano, si vedevano solo le grandi terre, i grandi continenti, alludendo al fatto che la Cecoslovacchia dall’alto non esisteva. Kundera rispose che è probabile che dallo spazio non si vedano le piccole patrie, ma dagli oblò dei carri armati si vedono benissimo. È questo il tema doloroso di Kundera, la sparizione della patria boema.»

Domande del pubblico.

 Lei ha citato molti nomi di autori siciliani, ma non ha parlato di Gesualdo Bufalino. Che opinione ha di questo scrittore?
 

«Lo conosco benissimo, ma lo considero uno scrittore che non appartiene in modo totale alla tradizione siciliana. E un autore, secondo me, che si rifà un po’ a certa scrittura degli anni Trenta, di tipo centrale, rondista, i cui esponenti maggiori, per intenderci, erano Emilio Cecchi e Cardarelli, prosatori d’arte. In lui non vedo sperimentazione, la sua è una scrittura che appartiene, sia pure in modo magistrale, al codice nazionale, non c’è una parola che non sia nel vocabolario italiano, anche se si tratta di una scrittura di livello molto alto ed elegante. Quando cita una parola in dialetto la mette tra virgolette o in corsivo e le sue tematiche assolute non appartengono alla tradizione letteraria siciliana. Per questi motivi Bufalino potrebbe anche essere nato a Roma.»

Che rapporto c’è per lei tra la Sicilia come piccola patria e il suo tentativo di recupero della ricchezza culturale e linguistica della sua terra?

 «Ci sono due modi di guardare alle piccole patrie. Un modo regressivo, per cui ci si chiude dentro al grembo materno senza crescere al mondo dell’agorà e della discussione: quindi il compiacimento della chiusura. Per me le radici, le storie e la cultura locale servono come metafora, come metro per misurare il resto del mondo. Faccio un esempio emblematico per essere più chiaro. C’era un poeta siciliano della fine dell’Ottocento, Alessio Di Giovanni, figlio di un notaio, che una sera rimase ammaliato dal canto in siciliano di un carrettiere, uno di quei canti che somigliano molto alle nenie arabe. Da allora si mise a studiare il mondo siciliano dialettale, scrivendo anche romanzi e poesie in siciliano. Quando uscirono I Malavoglia, rimproverò all’autore di avere scritto quel libro in italiano e si propose a Verga come traduttore in siciliano del romanzo. Naturalmente Verga si oppose. Quello di Alessio Di Giovanni era un modo compiaciuto di guardare al sicilianismo, e in questi casi non è difficile arrivare a chiusure assolute e a forme politiche molto dubbie: non per nulla questo Di Giovanni confluì nel movimento provenzale di Mistral che era molto di destra. Per me non è compiacimento del localismo, ma è misura del mondo data dalla propria cultura e dalle proprie radici.»

Il suo secondo libro è uscito a tredici anni dal primo. Pietre di Pantalica è apparso un anno dopo Retablo. I suoi tempi di lavoro sono cambiati o sia mettendo a frutto quanto ha fatto in passato?

«Prima avevo molti più dubbi, Forse, adesso, tante preoccupazioni sono cadute. Ma sento anche l’urgenza di dire alcune cose che prima non sentivo la necessità di comunicare. Nell’ultimo libro ho voluto ribadire lo   

stesso discorso di Retablo con un linguaggio diverso, in termini molto più chiari. L’ho messo assieme, lavorando molto, proprio per riproporre quel discorso della scrittura con altre parole. Ma anche per mostrare che, al di là del barocchismo, in Retablo c’erano argomenti di fondo che mi stavano a cuore. Il tema di fondo, quindi, rimane uguale: cioè certa cultura e certa civiltà che nel mondo d’oggi si stanno perdendo.»

Che sentimenti nutre rispetto alla società letteraria d’oggi: non sente di compromettersi anche lei nell’industria culturale?

«Finora ho potuto rimanere appartato, rinunciando ad aderire alla società letteraria, negandomi. Dal primo al secondo libro sono passati tredici anni. Il sorriso è stato quel che si dice, in termini molto volgari, un successo editoriale, i critici ne hanno parlato moltissimo. Sull’onda di quel libro avrei potuto scrivere tanti altri romanzi uguali o simili, ma mi sono ritirato, fino a pagare con l’oblio questo mio silenzio. Nell’85 ho pubblicato un libretto che era la negazione del romanzo e del suo consumo. Adesso sento la necessità di scrivere di più. Oggi non è più cosi facile starsene appartati, anch’io subisco quelle che sono le dittature dell’industria e dei mezzi di comunicazione. Anch’io vado per librerie a fare presentazioni, anch’io mi nono assoggettato, con malagrazia e con molte remore, alle leggi della pubblicità e del consumo. Comunque ho cercato almeno di non perdere dignità e classe, di non arrivare a certi spettacoli degradanti. Oggi la letteratura, come la politica o la religione, è spettacolo. Le sorti nostre si decidono sulla base di spettacoli televisivi come quelli delle elezioni americane.»

Come può un siciliano vivere a Milano?

«Le posso rispondere con un’altra domanda: come può un siciliano oggi vivere a Palermo? È terribilmente difficile. Quando vado a Palermo e incontro Sciascia, il quale mi dice del suo dolore e della sua pena di stare in una città  e   in una terra come quella, mi accorgo di quanto sia atroce vivere li. Ma oggi è altrettanto terribile vivere a Roma e forse in tutta Italia. Ma credo che per i siciliani, quando potevano scegliere, come me nel 68, c’erano due modi di uscire dal loro paese: c’era una corrente che li portava a Roma e una corrente che li spingeva a Milano. Questo non era casuale, dipendeva da due modi di concepire il mondo: non per nulla Brancati approdò a Roma, mentre Vittorini scelse Milano. Milano era l’opposto della Sicilia, era la città della organizzazione sociale, mentre noi venivamo da una terra di disgregazione e di disordine atavico. Quando, nel 68, ho scelto Milano, l’ho fatto pensando che a Milano ci fosse un progetto sociale e culturale.

Oggi questa speranza è fallita e mi costa moltissimo rimanere a Milano. Ho detto, fra virgolette, che Milano è oggi la città più volgare d’Italia perché da Milano parte il messaggio pubblicitario, lì si organizza il messaggio che riduce il resto d’Italia in grandi masse di consumatori di oggetti inutili. Ma è volgare anche perché ci sono le case editrici, le case di moda, regno della futilità, i giornali, le televisioni. Eppure, se mi trovo a immaginare una città in cui mi piacerebbe abitare, non so pensare ad altre città se non a Milano. Quando ci si sradica a trentacinque anni, come è capitato a me, si finisce per non appartenere più a nessuna terra. Io vado spesso in Sicilia, ma quando arrivo mi arrabbio e non vedo l’ora di tornare a Milano; quando sono a Milano mi arrabbio con Milano e cerco di tornare in Sicilia.»

Lei crede che la letteratura debba avere soprattutto un compito sociale?

 «Credo che lo scrittore abbia il dovere di essere estremamente critico anche in una ideale società perfetta. C’è un modo di dire dei tedeschi, riferito a scrittori come Böll o Enzesberger: si dice che sono scrittori che hanno sporcato il nido, perché parlano male del loro paese. Ma io credo che sia questo lo scopo della letteratura, sporcare il nido. I politici non lo fanno certo, sporcano eventualmente le coscienze. Ma soprattutto penso che sia questa la funzione del romanziere, perché il romanzo è uno strano ibrido, una unione di discorso logico e di discorso poetico. Ora, io dico che i poeti, i fanciulli e i re non hanno questo dovere proprio perché mancano dell’aspetto logico, che implica il contesto di cui facciamo parte. Nel momento in cui parliamo degli altri, facciamo un discorso critico e oppositivo. Perciò questo non è possibile ai bambini, né ai poeti, i quali non sono chiamati a fare i conti con il discorso logico. Ma neppure chi ha il potere possiede questa facoltà logica, perché non può andare contro i propri interessi. Per me il romanziere che non esercita la critica è uno scrittore di corte e perciò non esercita l’opposizione, perché ambisce ad essere abbracciato dal rе.»

Paolo Di Sefano

SOLITARI COME NUVOLE

Giuseppe Frazzetto

Arte e artisti in Sicilia nel ‘900

Con scritti di Vincenzo Consolo / Giuseppe Giarrizzo / Filiberto Menna

     Nel febbraio del 1921, veniva pubblicato a Catania il primo numero della rivista Haschisch, che così si presentava: “Fu nel salotto rosso di Simonella che nacque questa rivista di raffinati, di intellettuali baudelairiani e futuristi…”.  E vorremmo continuare, se il brano non fosse interamente riportato in questo puntuale libro di Frazzetto. Brano che è fra i più esilaranti in cui ci è capitato di imbatterci; che sembra scritto, con toni più comici, spassosi, se è possibile – per rimanere nell’ambito degli effetti delle novità, delle mode artistiche nella provincia, del dannunzianesimo nel caso – dal Brancati del racconto Singolare avventura di Francesco Maria (“Amo l’Amore, l’Amore perdizione ed esaltazione, spasimo e miele. Non so come dire: avete mai veduto qualcosa di velluto che ferisce?… “). Ma già prima di Haschisch, sempre a Catania, c’era stata la rivista Pickwick, che si dichiarava “l’unico giornale che lasci dormire in pace Mario Rapisardi e che rinunzi ad occuparsi dell’annoso problema meridionale”  ( “È facile” scrive l’autore di questo libro “per il letterato piccolo-borghese mettere alla berlina il “passatismo” di Rapisardi, il suo umanitarismo defeliciano; ben altra cosa, naturalmente, fare i conti con le implicazioni ideologiche dei due maggiori romanzi verghiani”).   Liquidato dunque facilmente Rapisardi, cercano, i futuristi siciliani, l’adesione al loro movimento di Capuana (“mi sento commosso di ammirazione e invidia. Se fossi giovane come i futuristi, m’imbarcherei con loro” dichiarerà lo scrittore di Mineo) e s’inventano un patetico incontro a Catania tra Verga e Marinetti  ( “Un nobile vecchio niveo, magro, asciutto, piuttosto alto, con occhio appannato, s’alzò lasciando la sua bibita:  — Marinetti! – Verga!  Come state? !

— Eh…come un passatista – sorrise modestamente il grande scrittore” racconta in Le serate futuriste il poeta napoletano Cangiullo).

     E, ancora a Catania, escono le riviste La Fonte, La Scalata, La Spirale, Alba d’oro, L’Ascesa; e a Messina esce La Balza, A Palermo Simun, Ci siamo …  Nemmeno oggi, oggi che Stato, Regione, Provincia, Comune, Banche, Assicurazioni, imprese e altri enti e istituzioni largamente ed allegramente elargiscono soldi per ogni minima e spesso peregrina iniziativa culturale, nemmeno oggi si ha un tale fermento di cultura, un tale pullulare di riviste.  “Nel Mezzogiorno d’Italia, particolarmente in Sicilia, si pubblicano numerosi giornaletti futuristi, ai quali Marinetti invia articoli; ma questi foglietti sono pubblicati da studenti che scambiano per futurismo l’ignoranza della grammatica italiana” stigmatizzerà Gramsci.

     Ci siamo soffermati su un movimento d’avanguardia artistica, letteraria e pittorica, come il Futurismo, sui suoi effetti in Sicilia, per dire come in una situazione artistica di periferia, di emarginazione, di ricerca artistica stagnante, dopo il placido vedutismo, ritrattismo, “storicismo”, verismo della fine dell’800, dopo gli Sciuti, i Lo Jacono, I Leto, i Tomaselli; dopo la conclusione della felice stagione dei Basile, dei suoi pittori e decoratori liberty come il De Maria Bergler, stagione in cui il primato spetta all’architettura, che è promossa, determinata da quella rivoluzione economica in Sicilia che porta un solo e favoloso nome, quello dei Florio, un movimento d’avanguardia come il Futurismo che spazzava via di colpo retaggi storici e ipoteche culturali, che aveva la pretesa di coniugare la rivoluzione tecnologica e industriale con le energie primitive della natura, in Sicilia viene accolto ed esaltato come unica possibilità di uscire dall’arretratezza e dall’isolamento, di possibilità di colmare ogni iato o carenza, eludere soprattutto ogni dovere di testimonianza sociale.

Contemporaneamente, il Futurismo, cadeva, per così dire, su un fertile terreno di spontaneismo e di vitalismo.  Lo stesso Marinetti, poi “sentiva” con la Sicilia una consonanza privilegiata.  “Voi mi somigliate, Saraceni d’Italia / dal naso possente e ricurvo sulla preda afferrata / con forti denti futuristi!”  (sic!)  scriverà ne Le monoplane du pape.  E così il Futurismo siciliano trova nei Rizzo, Corona, Varvaro, Lazzaro i suoi Boccioni, Balla, Carrà, Severini.

     Dopo questa esplosione vitalistica, l’arte muore nella sindacalizzazione, nella burocratizzazione, nell’Accademia, nel Novecentismo. Muore nel fascismo.   “L’avvento del fascismo smorza o risucchia il ribellismo avanguardistico”  scrive Frazzetto.  Col fascismo cala sul Paese, sull’Isola, sulla cultura, sull’arte una cappa grigia di piombo, o nera, come le camicie che allora si indossavano.

“Chi non conosce la noia, che si stabilì in Italia nel 1937, manca di una grave esperienza che forse non potrà avere mai più, nemmeno nei suoi discendenti, perché è difficile che si ripetino nel mondo quelle singolari condizioni”.  La noia che uccide, come nel memorabile racconto di Brancati.

Altrimenti, la noia e l’attesa. E, nell’attesa, a Palermo, il giovane pittore Renato Guttuso andava in giro con una sacra reliquia nel portafogli: la riproduzione di Guernica.  Guttuso, Pasqualino Noto, Franchina, Barbara: i due pittori e i due scultori che formano il famoso Gruppo dei Quattro, che staccatosi dal Sindacato, fa la storica mostra del ’34 al Milione di Milano.

Pietro Mignosi, presentando la mostra, dice che il gruppo è accomunato da una “fisionomia dello slancio”.  Slancio certo vitale, oppositivo, innovatore contro una generale situazione stagnante, morta, negativa, che solo è stato reso possibile da una marginalità, eccentricità geografica, sociale, culturale come quella siciliana.  “Questi giovani, guardano dentro disperatamente”  scriverà Leonardi Sinisgalli su L’Italia letteraria.  E: “Questi ragazzi, stiamo attenti, hanno forse il diavolo in corpo”.  Certo, solo con uno sguardo “interno” e “disperato”, solo con la “diabolicità” si poteva giungere alla scandalosa, provocatoria Crocifissione guttusiana, o alla Fuga dall’Etna o alla Fucilazione in campagna. La storia di Guttuso dalla fine della guerra e per anni dopo diventa la storia dell’arte siciliana, dell’arte italiana.  Il suo dominio nella pittura, nella cultura e nella politica o nella pittura politica, è quasi totale.  Ma nella mostra, ancora al Milione di Milano, del ’60, Vittorini, in catalogo, dirà che Guttuso era più rivoluzionario nelle nature morte degli anni ’30 – ’40  che nei quadri “politici”, “popolari”  degli anni ’50 – ’60; che la rivoluzione vera era quella dentro il linguaggio pittorico e non del dipingere le bandiere o le camicie rosse.

      È dall’opposizione linguistica, formale che nasce quel movimento, non più in Sicilia, ma di siciliani

Altrove emigrati e di altri, quel movimento rilevante nella storia dell’arte siciliana, e non siciliana,

che va sotto il nome di Forma 1.  Sono, dei siciliani, Accardi, Attardi, Consagra, Maugeri, Sanfilippo, che scriveranno un’altra storia, divergente e parallela a quella di Guttuso e dei guttusisti. Ma a questo punto, il parallelismo o contrapposizione fra i due linguaggi, oltre ad essere acceso, non sarà più relegato a una storia dell’arte siciliana, non sarà più circoscritto nell’ambito specifico dell’arte. Il dibattito sarà più ampiamente politico o più angustamente partitico.

      Abbiamo voluto fin qui con nostre parole ritratteggiare sunteggiando, negli episodi più rilevanti e significativi, il libro di Frazzetto. Che è, fino ad ora, e a nostra conoscenza, la prima storia organica dell’arte siciliana dalla fine dell’800 fino ai nostri anni ’80.  Una storia scritta con grande scrupolo storiografico, documentata fin negli accadimenti più più marginali ma non insignificanti.  Una storia dell’arte che è storia culturale, storia civile. O, se si vuole, immagine di una precisa, autentica realtà che Americo Castro chiama storicizzabile.

Vincenzo Consolo

Maimone editore 1988

Malophòros

«Vivu sugnu,
mi viditi?
parru!»

IGNAZIO BUTTITTA, L’urtima carta

«Vicé, Vicé, c’è Vicé!» Samìr al cancello m’aiuta con segni a salire la rampa, a raggiungere la breve spianata sotto la casa. Una casa incastrata dentro la roccia che s’alza diritta nel cielo, piomba sul mare. La macchina strepita, sussulta, sfiora il muro, striscia sui gerani e i capperi che cascano dal terrapieno, s’arresta sullo spiazzo.

«Vicé, Vicé!» Angelina e Ignazio chiamano, salutano. Salgo per una scala a chiocciola, emergo da un buco sopra il terrazzo. Mentre li abbraccio, vedo lì accanto Samìr, che fuma e sorride. Ignazio è bianco, bianco il maglione di lana, bianca la caciotta araba in testa, bianchi i capelli che s’aprono come ali di colombella alle tempie, bianco-ambra la faccia, colore del lievito, in cui spiccano l’azzurro degli occhi e il rosso dei pomelli. Qui all’Aspra, nella sua casa, Ignazio è un Antèo che a contatto della Terra riprende vigore. Era proprio rinato, in pochissimo tempo, da quando l’avevo visto in ospedale malato di cuore, giallo, smagrito. Angelina è sempre scura, terrosa, ma la sua faccia è ora distesa, i suoi fluidi umori di donna energica, attiva, sembra si siano rappresi, fatti di miele. Ed è tutta azzizzata, e odora d’acquananfa. Placata forse, per questo marito che ora, in vecchiaia, s’era capacitato a stare un po’ fermo, lui che per tutta la vita era stato un anìmulo, senza ricetto, sempre fuori per i vari punti del mondo, da Marsala a Peloro a Pachino. Il mare, là in faccia, oltre la strada, oltre la scarpata di pini e olivastri, è un abbaglio, con barche che galleggiano, che corrono trascinando la sciàbica, con nugoli di gabbiani che frullano, gridano sopra le scie. E tutta la costa del golfo, da Capo Zafferano a Monte Pellegrino, è velata di vapori azzurrini.

«Hai mangiato, hai mangiato? Samìr, prepara il caffè» dice Angelina. Entriamo in casa, nel grande soggiorno inondato di luce. Al tavolo, mi mettono davanti ricotta calda, caciocavallo, mafalde incrostate di giuggiulèna. Poi sbuca dalla cucina Samìr col caffè alla turca, si siede con noi, accende subito la sua Marlboro. Ignazio sbuccia con le mani un grosso limone, che mangia senza fare una smorfia.

«Non ti posso guardare!» fa Angelina rabbrividendo.

«Questi mi danno ‘a vita, ‘a vita!» esclama Ignazio. Samìr sorride avvolto nel fumo.

«E l’alìve? Sitròn e alìve, sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’.» Aveva questa sua parlata, il tunisino, ch’era un misto di siciliano e francese. Poi dice che dovrà andare al porto a prendere il pesce, ché le barche stanno tornando.

«Sei migliorato, Samìr» lo canzono.

«Ssìii… Qua con ‘Gnassio non posso mai imparare, si parla sempre siciliano.»

E poi dice che lavorava a Monastìr, in uno degli alberghi sul mare, che è venuto qua a imparare l’italiano, che poi vuole andare in Spagna e forse anche in Germania. Così, con le lingue, potrà trovare in Tunisia un posto migliore.

«Prepara il letto a Vicé» gli dice Angelina, e alza il coperchio d’una cassapanca e tira fuori lenzuola e coperte.

«Dormi su, nella casetta in alto,» mi fa «nella stanza di là dorme Pietro.»

«Pietro?»

«È arrivato ieri sera, ma parte domani. Sempre così, sempre così, lo vedo e non lo vedo» si lamenta.

Arriva Carmela, la nipote, con le bambine Francesca e Fernanda. Carmela è cresciuta come una figlia nella casa di Angelina e Ignazio. E ora sta a Milano, dopo essere stata tanti anni a Parigi. Fernanda, la piccola, i grandissimi occhi azzurri di porcellana, bionda, bella e festosa come un putto del Serpotta, parla come Samìr, un misto di siciliano e francese. Carmela sembra felice di ritrovare qui all’Aspra gli zii, di ritrovarsi nei suoi luoghi, e i suoi occhi nerissimi, il suo viso scarno e gentile di magrebina esprimono con ritegno la gioia.

«Chi c’è, chi c’è, chi c’è?» si sente tuonare dal fondo della casa. E spunta quell’omone che è Pietro. Afferra alla vita Carmela, la tira su in alto, la fa girare velocemente. Fa poi lo stesso con Francesca e Fernanda.

«Sono anni che non ci vediamo!» dice a me.

«Eh, ma io ti sento alla radio, da Varsavia, da Beirut.»

«Anch’io lo sento» dice Angelina «ed è come se parlasse con me… Figlio mio, quand’è che te ne starai tranquillo?»

«Ah, tranquillo!» ribatte Pietrone «Dove si sta tranquilli? Qua, a Roma, a Milano?»

«All’Aspra, non si sta tranquilli?!» protesta Ignazio.

«Ma papà, con tutti i morti ammazzati dalla mafia, con la droga, coi missili di Comiso…»

«Ah, va be’…» dice Ignazio. «Senti, sto facendo una poesia sulla bomba atomica.»

«Dopo, dopo, papà. Ora devo scappare, devo andare a Bagheria.»

Ignazio si toglie il maglione di lana e resta in canottiera.

«Mi faccio la barba» informa.

E invece esce sul terrazzo, s’impala al sole, in faccia al mare. Apre le braccia ad ali, come quando recita in pubblico le sue poesie, rovescia la testa, fa grandi respiri. Poi scalcia, si piega col busto in avanti, indietro.

«Ogni mattina, ogni mattina» fa Angelina. «Qualche volta mi resta là accroccato e mi toccherà portarlo in braccio come un nutrìco.»

Le bambine ridono.

«Io vado al porto» dice Samìr.

«E il letto di Vicé?» domanda Angelina, guardando le lenzuola e le coperte ammucchiate sopra una sedia.

«Doppo, doppo» fa Samìr uscendo.

«Deve avere qualche donna all’Aspra. Ogni scusa è buona per andare in paese. Ma non sta bene, povero figlio. Fuma soltanto, fuma. Caffè e sigarette, caffè e sigarette. Vedi com’è secco?»

Carmela, ch’era molto magra, fumava anche lei tantissimo e in quel momento fumava, scoppia a ridere.

«Anche tu figlia mia, devi smettere, devi ingrassare un pochino. L’aria di Milano non ti gode. Dovete starvene qua per un po’, tu e le tue bambine.»

Poi arriva il postino, arriva il garzone delle bombole, il garzone del pane.

Passa sul terrazzo Ignazio con la capretta al guinzaglio, poi col gallo in braccio. Un gallo grosso e selvaggio che becca chiunque, e una volta aveva beccato alle chiappe, fino a farlo sanguinare, un ragazzo che s’era introdotto in giardino per rubare le arance.

Le bambine di Carmela sono annoiate, vogliono uscire.

«Andiamo nel giardino» dice Carmela.

Era un giardino verticale di aranci e ulivi, tutto a terrazze, nel quale si saliva per una stretta scala di tufo che lo tagliava nel mezzo, una scala infinita, che arrivava in cima all’alta collina. Oltre, sull’altopiano, si stendeva la città fenicia di Solunto.

Ci arrampicammo per la scala. Era la fine di dicembre, e una giornata così limpida, un sole così caldo sembravano d’aprile. C’erano sulle piante frutti e fiori, arance e zagare, sopra vi ronzavano insetti. Sotto, nelle conche attorno ai tronchi, v’erano le campanule gialle dell’acetosella. Le bambine andarono tra gli alberi a raccogliere l’acetosella e masticarne il gambo. Io e Carmela ci sedemmo, a guardare da quell’aerea altezza lo spettacolo, il mare, la costa rocciosa, le cale con i paesini a corona d’intorno, Santa Flavia Sant’Elia Porticello Aspra… Carmela accende la sigaretta, i suoi occhi sono perduti.

«Che bellezza…»

«Oh, basta!» sbotta. «Qui è tutto un orrore, è tutto infestato di cadaveri… No, non bisogna tornare, non bisogna più tornare in questi posti.»

E poi parla con tenerezza dei due vecchi, di Angelina e Ignazio, così giovani, così pieni di vita, a ottant’anni passati. E si chiede come facciano. Si chiede se sono loro, i vecchi, che si sono staccati da tutti per vivere una loro vita che noi non capiamo o se siamo noi a esserci staccati da loro, a esser caduti… E parla ancora di Parigi, di suoi amici vecchi ma giovani, pieni di vita, di Henri e Maurice, e di Manuel che sarebbe diventato anche lui un vecchio giovane se l’incidente d’aereo non gli avesse tolto la vita; e così anche sarebbe diventato Capa, così anche Gerda…

«Forse è solo un fatto di vitalità, che è necessariamente egoismo…»

«Forse. Ma c’è un punto nella vita in cui bisogna decidere, se staccarsi dagli altri o se precipitare con gli altri.»

A tavola, c’erano i pesci portati da Samìr. Pietro parlava in arabo col tunisino, gli chiedeva il pane, il vino; lo si capiva dai gesti che faceva Samìr. Poi si mise a raccontare, Pietro, della vita che, malgrado le atrocità, i massacri quotidiani, trionfava a Beirut, del molto amore che vi si faceva, dei molti bambini che nascevano. E Ignazio allora proclama che la vita è forte, la vita è eterna, che l’uomo è eterno, sì, eterno, che sopravviverà anche all’atomica.

«Volete sentire la mia poesia contro l’atomica?»

Ma in quel momento arrivano Flora e Aurora, le due figlie di Angelina e Ignazio che stanno a Palermo, e Nara, la figlia di Flora. E ancora un poeta, amico d’Ignazio, che si mise a recitare poesie, a cantare, con una bella voce di tenore.

Carmela mi guardava e sorrideva, ma con tristezza. Angelina offriva a tutti pignolata, buccellati, cassata. Samìr andava e veniva dalla cucina col suo caffè alla turca.

Venne quindi il momento della partenza di Pietro; Angelina se ne stette lì in un canto, immobile e muta, con la sua faccia ancora più scura. E se ne andò anche Carmela con le bambine.

«Lo vedi?» mi disse. «Qui con loro la mia infanzia, la mia vita di ragazza è stata una festa, una lunga festa. Ma le feste non durano, finiscono, si dissolvono, come i sogni…»

«La vita è un sogno?»

«Mah, forse la storia è un sogno, questa nostra storia di oggi. Un incubo.»

Ignazio si mise a raccontare la vita di Rosa, la cantante popolare, una vita di disgraziata, di emarginata; di Rosa che accoltella il marito; di Rosa, sagrestana in una chiesa, che ruba i soldi dalla cassetta delle elemosine e scappa a Firenze per assistere al funerale del padre morto impiccato; della forza di Rosa, della vitalità di Rosa.

Arriva poi altra gente che viene a salutare Ignazio, a fargli gli auguri per il nuovo anno. E lui prende i suoi libri disposti a pile su un tavolo come su un banco di vendita, a ognuno fa la dedica in versi.

Quando tutti vanno via, quando resto con Angelina, Ignazio e Samìr, m’accorgo che è tardi. Dico che vado a dormire, che l’indomani dovrò alzarmi presto.

«Non resti con noi? Dove vai?» mi chiede Ignazio.

«A Selinunte.»

«A Selinunte?… Vengo con te.»

«Ma ‘Gnazio,» si lamenta Angelina «è Capodanno. Te ne vai in giro a Capodanno?»

«Vieni anche tu» le dice Ignazio.

«Ma c’è Aurora, c’è Flora, Nara…»

«Vengono anche loro.»

Passammo in mezzo ai templi della collina orientale, fra l’ammasso delle immense pietre del tempio di Zeus, basi tamburi capitelli architravi nel caos immoto d’un terremoto primordiale, e gli altri due templi eretti, dalle colonne dorate e splendenti contro l’azzurro del cielo.

Ignazio, accanto a me, non stava fermo un momento, guardava di qua, di là.

Ci arrestammo davanti alle sbarre del passaggio a livello vicino alla stazione. Queste stazioncine solitarie, remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Carthage-Hannibal, di Pompei o di Olimpia, in quest’era di autostrade, di automobili e di pullman, sono commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro. Ti rimandano ai tempi di volenterosi e sapienti viaggiatori con baedeker in mano, di globe-trotter con pesantissimi zaini. Mi chiedo cosa avranno provato questi viaggiatori di un’epoca ormai remota a trovarsi in mezzo a queste rovine, ai templi dell’acropoli, in vista di quel mare. E mi chiedo cosa avrà mai provato l’abate Fazello quando, a dorso del suo mulo o cavallo, si trovò per primo a scoprire Selinunte, invasa d’erbe e di rovi, di serpi e uccelli, resa deserta dalla malaria, sepolta da secoli nell’oblìo. Quale terribile emozione, quale estraneamento, quale panico di fronte al titanico caos, all’affastellamento delle enormi rovine di quel tempio di Zeus nel cui centro restava diritta una sola colonna, sfida al tempo e alle furie telluriche, meridiana e rifugio d’ombra ai pastori, guida all’orizzonte di carovane arabe (Rahl’ al’ Asnam, Casale degli Idoli, chiamavano il sito) in transito verso i porti d’Occidente; quale commozione alle cave di Cusa, dove era vivo ancora il taglio dei blocchi di tufo, dove sembrava che rotolassero sotto gli ulivi i rocchi estratti e fossero stati lì appena abbandonati dai selinuntini che fuggivano all’assalto dei cartaginesi di Annibale.

Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tìndari, affacciato alla balaustra della terrazza sul vertiginoso precipizio sotto cui si stende la spiaggia sinuosa coi laghi marini, e sulla strada verso il teatro e il ginnasio, dove davanti alle casupole costruite coi blocchi di arenaria dei ruderi stavano vecchine, tutte nere e con bianchi fazzoletti damascati in testa, a filare come le Parche. L’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio, in faccia all’orrido da cui saliva il gorgoglìo delle acque del Kàggera; nel tragico silenzio di Micene, rotto dal suono di campani di greggi invisibili; nella sperduta piccola Utica, fra gli umili mosaici e il basilico che odorava di cannella; e qui a Selinunte, la prima volta che vi giunsi, in treno appunto, tantissimi anni avanti.

S’udì un fischio e poi passò lentamente un trenino con dentro un gruppo di ragazzi che salutava dai finestrini. Da dove venivano, dove andavano in quest’ultimo giorno dell’anno?

Il custode bonario e gentile, tutto il contrario di quell’inesorabile cerbero incontrato da Cecchi a Tirìnto, ci aprì il cancello. Fermammo le macchine sotto la casa del soprintendente, un’antica torre di guardia sul ciglio del colle dell’acropoli, in faccia a quel Mediterraneo ocra e verdino. Salta giù dalla macchina Ignazio e comincia a vagare. Guarda, annusa, tocca, strappa da terra nepitella e la strofina tra le palme. Angelina invece va in cerca di fiori, rompe talli di gerani, di rose, e li conserva dentro la borsa capace. Flora e le altre sono già sparse fra le rovine, fra le colonne dei templi che assorbono e rimandano la luce rossastra del sole che va scomparendo nel mare.

Ci viene incontro festante il soprintendente, il professor Tusa, ci invita in casa. La grande scala esterna è adorna ai lati di sarcofagi e stele con iscrizioni consunte in greco e in punico. La casa somiglia a una vecchia masseria, con nidi d’uccelli nel ventaglio della porta e nidi di vespe incrostati nell’arco. Dentro, stanzoni quasi disadorni con foto ingiallite alle pareti di gruppi di campagne di scavi, di soprintendenti, archeologi, storici che per questi luoghi, per questa casa sono passati. C’è Cavallari, Salinas, Gàbrici, Kerényi. Ci accolgono la moglie e la figlia di Tusa.

«Vi dovrete accontentare, vi dovrete accontentare. Non c’è molto» dicono.

Lo studio del soprintendente è una stanza con finestre sul mare. Sembra la cabina di comando di questa nave che è la bassa e lunga collina su cui giace Selinunte. Il mare è ora purpureo, fenicio, e sagome scure di navi si vedono all’orizzonte, forse il traghetto Trapani-Tunisi, pescherecci di Mazara del Vallo e navi-cisterna cariche di petrolio. O navi da guerra. A destra e a sinistra si scorgono le due foci del Selìno, il fiume biforcato da Empedocle, dov’erano una volta i due porti, ora sepolti.

Sulla scrivania di Tusa c’è una pila del suo libro appena stampato, La scultura in pietra di Selinunte, con in copertina la testa ricciuta di Eracle, l’Eracle che lotta con l’Amazzone della metopa che decorava il tempio di Hera. L’avevo visto “nascere”, questo libro, la mattina che con l’editore Sellerio ero andato da Milano a Cinisello Balsamo, allo stabilimento tipografico. Nell’immenso capannone, uscivano velocemente dalla macchina grandi fogli quadrati con su impresse a colori le fotografie luminose con le pietre corrose e rameggiate di licheni, il cielo, il mare, le agavi e i lentischi di Selinunte; e le fotografie in bianco e nero di torsi, di statue acefale, di bellissime teste femminili e delle famose metope, quella della quadriga con Demetra e Kore, della Triade Delfica, di Europa sul Toro, di Perseo e la Medusa, di Eracle e i Cercopi…

Era una mattina di novembre. Al di là del capannone, attraverso i vetri polverosi, si scorgeva un piccolo campo, un terreno vago circondato d’altri fabbricati, d’altri capannoni con ciminiere, sfumati dalla nebbia, un campo sulle cui stoppie marcite di granturco gravava una bruma grigiastra, si stendeva una pellicola biancastra di brina gelata. Fu lì, la faccia contro il vetro, gli occhi persi in quel paesaggio, che mi prese nostalgia di Selinunte, che decisi d’andare a Selinunte per le feste natalizie. E mi ricordai del tempo – tempo remotissimo, arcaico – in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico; del tempo dei miei viaggi alla scoperta dell’archeologia, in cui la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli, latomìe, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dèi ed eroi graffiti; con templi teatri agorai di città morte in luoghi remoti, deserti, incontaminati. Mi ricordai della prima volta che giunsi a Selinunte. Era di marzo. Dopo aver vagato tutto il giorno per le rovine, saltato sulle pietre, sulle colonne riverse, salito sulle mura, sceso nei fossati, corso lungo il Selìno, sulle dune della spiaggia, ero giunto la sera, stanco e affamato, alla locanda di Marinella, un villaggetto di pescatori sotto la collina orientale, ai piedi dei templi. La bettola era al di là della strada, costruita con tavole, latta e cartone incatramato sopra palafitte, sotto cui sbatteva il mare. I padroni, marito e moglie, stavano trattando l’acquisto di sarde, grosse e argentate, che un pescatore gli offriva dentro una cesta col letto di alghe.

«Vuoi le sarde?» mi chiese la donna.

E accesero quindi un bel fuoco di sarmenti davanti alla porta, sulla strada e, quando si formò la brace, vi posero sopra la graticola con le sarde. Voltandole e rivoltandole, l’uomo le spalmava con un mazzetto di origano intinto nella salsa di olio, limone e aglio. Ero il solo avventore, e mangiai al tavolo con loro. E bevvi molto vino, spesso e forte di Castelvetrano. M’addormentai là, con la testa sul tavolo. Dovettero prendermi di peso, marito e moglie, e portarmi fino alla stanza, fin sul letto della locanda di fronte.

Dopo la cena di fine d’anno (avevamo mangiato lenticchie, ricotta e formaggi portati dal pastore di Segesta, bevuto vino di Mozia), scendemmo la mattina per la scala dov’erano i sarcofagi e le stele, ci sedemmo al sole sul basamento d’un tempio. Tusa mi diceva della scoperta di un gruppo di geologi riguardante le tre cave da cui i selinuntini estraevano il tufo, di composizione e consistenza diverse, per usi in progressione di tempo più raffinati, cave poste a distanza dalla città di esatta, come esoterica progressione matematica (5, 10, 20 chilometri): la cava del Landàro per le case; la cava di Cusa per i templi; la cava di Misilbesi, presso Menfi, per le sculture e le metope. Il più compatto e resistente tufo, quest’ultimo, colore del miele, che si chiama calcarenite.

Mi diceva, di questi pionieri, di questi colonizzatori megaresi che, in territorio occupato da indigeni, dominato da Sicani, Elimi e Punici, minacciato dalla potente Cartagine al di là del mare, nell’arco di soli due secoli e mezzo avevano costruito quanto di più splendido, di più grandioso ci fosse in Occidente.

Bisognerebbe capire quale idea politica, quale utopia, quale fede religiosa, qualcosa di simile alla Bibbia dei Padri Pellegrini sbarcati in America, nobilitasse il loro istinto di sopravvivenza, desse significato alla loro vitalità d’emigrati, alla loro forza nel costruire questa città grandiosa, lasciata da tempo la loro patria in Argolide, abbandonata Megara Iblea, la valle dell’ànapo, le pietre di Pantalica, nella parte orientale dell’Isola, e stanziatisi qui, in questa frontiera d’Occidente. Mentre Tusa mi parlava, Ignazio s’era arrampicato su un capitello rovinato a terra, in bilico sopra altre pietre, e lì s’era messo a mulinare le braccia, a saltellare, a fare la sua ginnastica mattutina. Ma sembrava sopra quelle pietre, fra le colonne, con la sua sciascìa bianca in testa, col suo largo trench color crema, un Priamo impazzito di dolore sulle rovine di Troia o un vecchio sacerdote che invocava con insistenza una divinità indifferente.

«’Gnazio, ‘Gnazio,» gli gridava Angelina dal ballatoio della casa «attento, cadi!»

Ci inoltrammo poi in corteo dentro l’acropoli lungo la grande arteria centrale con i templi da una parte, gli altari, le piazze e le case, le botteghe dall’altra. Tusa parlava e indicava con la punta del suo bastone qua e là. Ignazio gli trotterellava davanti, e lo interrogava, gli chiedeva spiegazione d’ogni cosa. Ai piedi dei muri, fra i lastroni della strada sbucavano i cespi di acanto, con le larghe foglie lobate che si piegavano in eleganti volute. Dall’altra parte, sul terrapieno oltre i piloni verticali delle porte di case e botteghe, si stendeva il fitto tappeto dei lentischi. Il cielo era così terso, luminoso, che si scorgeva tutta la valle del Belice e il monte Cronio, dov’erano le terme selinuntine. Giunti in fondo, alle fortificazioni dette d’Ermocrate, con la bella torre rotonda, con i fossati, i camminamenti sotterranei, cominciammo a scendere verso il Selìno. Nella scarpata, le pietre rotolate dall’acropoli, a poco a poco diradavano, il terreno si faceva renoso. Ed era una rena color miele, dello stesso colore del tufo. Sembrava che quei templi dell’acropoli, quelle are, tutto quel bosco di tufo scolpito si fosse formato da solo nel tempo, in un lento processo di agglomerazione, con la forza dei venti, delle acque, del sole; che quel bosco di tufo si facesse e disfacesse, in un ciclo continuo, eterno. Man mano che si scendeva verso il fiume, il sentiero si restringeva, s’inoltrava in mezzo alla fitta macchia di erbe e arbusti, di quercioli e perastri. Le donne erano rimaste indietro, le sentivamo parlottare, esclamare di meraviglia. Erano prese dai fiori che scoprivano lungo il sentiero, in mezzo all’assenzio e all’appio: orchidee spontanee, iris, asfodèli. Corse verso di noi Nara con uno stelo d’orchidea in mano e lo offrì a suo nonno Ignazio.

Si scorgeva ora vicina la foce del Selìno e la spiaggia ondulata di dune. Fra i lentischi e la sabbia v’erano capanni di legni e di frasche, con gente lì davanti e bambini nudi che correvano sulla battigia.

«Sono stranieri» disse Tusa. «Stanno qui a svernare.»

Traversato il ponticello sul fiume, arrivammo alla collina delle divinità catactonie, sotterranee, di Demetra Malophòros, la portatrice di mela, di Persefone, di Ecate Triformis, di Zeus Meilichios, il Benigno: stazione dei cortei funebri verso la vicina necropoli e recinti di culti segreti, di sacri misteri.

S’adagiava, tutta l’area sacra, circondata da mura, sul fianco della collina, partendo dall’alto e digradando fino alla stradina bordata di agavi. Entrammo nell’area, toccammo per prima la bocca di un pozzo rotondo, come il pozzo di Eleusi, detta la base di Ecate. Su per i gradini e il propileo, per il terreno del temenos, ci avvicinammo a poco a poco al recinto più sacro, al megaron della Malophòros. Ma prima incontrammo la grande ara, un altare su cui si sacrificavano maiali, montoni, capre; e altre piccole are d’intorno, pietre macchiate di rosso, fiammate, come se il fuoco dei sacrifici si fosse lì impresso per sempre. E poi un canale scavato nel tufo, che attraversava tutto il recinto, dentro cui scorreva l’acqua d’una sorgente vicina. Entrammo nel tempio. Sulle lastre della soglia v’erano due profonde scanalature semicircolari dove scorrevano le due ante d’una porta pesante. La porta che sigillava il segreto dei riti: riti misterici, inconoscibili. Sembrava, il nostro, per il primo, il secondo e il terzo vano del tempio, un procedere iniziatico o profanatorio. Ci arrestammo di fronte al muro di fondo, in mezzo a cui s’incavava la nicchia. Là dentro era Lei, la grande Dea, la figlia del Tempo, la Signora, la Regina, la madre dolente e ammantata di nero, la Portatrice di spighe, la generosa nutrice.

«Un muro d’indecifrabilità, d’oscurità insondabile si è eretto fino ad oggi in questo luogo. Tutte le nostre domande non hanno trovato risposte. Era questo un luogo di culto pre-greco, pre-colonico? Era un culto indigeno, minoico, fenicio? Era culto delle acque o delle divinità sotterranee?» diceva Tusa. «Qui si sono trovate dodicimila statuette fittili, arule, vasi: tutti segni che danno le risposte più disparate, spesso contrastanti…»

Eravamo seduti nell’area di un tempio da poco scoperto, vicino a quella della Malophòros, con stele intatte, intonacate di bianco e splendenti al sole, che affioravano diritte dal terreno. Dentro questo tempio, di cui ancora non si conosce la divinità a cui era dedicato, sono state trovate statuette di madri in trono che allattano il figlio.

Tusa continuava a parlare, col suo modo chiaro, didascalico, facendo segni col bastone per terra. Accanto a lui Ignazio, con quel ramo d’orchidea in mano, i suoi occhi azzurri fissi, attenti. E accanto Angelina, le mani sul grembo, il capo inclinato, gli occhi socchiusi, scura e terrosa. E tutti noi in cerchio, ad ascoltare in silenzio, nel silenzio immobile di quel luogo. Di fronte, era la collina dell’acropoli, col suo bosco confuso di pietre e colonne. E sul pendìo, verso settentrione, ben disegnati, quadrati e rettangoli di vigne, di orti, di prati su cui pascolavano pecore.

A poco a poco non sentii più le parole di Tusa, guardavo Angelina e Ignazio, questi due giovani vecchi di ottant’anni passati, guardavo Flora, e la giovane Nara… Persone reali, qui con me, su questa collina di Malophòros, in questo radioso mattino del primo giorno dell’anno, che pure a poco a poco svanivano, venivano prese in un vortice, precipitavano con me nel pozzo di Ecate, incontro alle divinità sotterranee, nel mistero e nell’oscurità infinita del Tempo.

Le pietre di Pantalica
ottobre 1988
Arnaldo Mondadori Editore

Giudice popolare

Nel momento in cui mi accingo a stendere questa breve nota per il libro di Mario Lombardo, «Giudice popolare al maxiprocesso» – 0ggi, 28 giugno 1988 — le cronache registrano l’uccisione a Palermo, nel mercato di via dei Nebrodi, di tre venditori ambulanti, tra cui un ragazzetto di 15 anni. Gli assassinii sono stati eseguiti, con sicurezza e impassibilità, da due giovani giunti sul posto a cavallo di un «Vespone», che si sono dileguati subito dopo. Queste tre ultime vittime, questi tre corpi insanguinati, queste tre sagome disarticolate e coperte da un lenzuolo, si aggiungono all’infinita teoria di morti ammazzati dalla mafia a Palermo, in Sicilia. In via dei Nebrodi (il ragazzetto, Giuseppe Lo Jacono, è rigido li a terra tra le bancarelle, sopra la pozza del suo sangue rappreso, un mazzetto di banconote da mille lire stretto in un pugno), in questa strada della zona di Resuttana, abita un mio amico, un poeta, una delle più miti, più civili persone che io conosca. Questo mio amico, forse tra la folla del mercatino settimanale, può aver sentito quella sequenza di spari, può aver visto quei tre corpi crollare a terra disanimati. Ora io mi chiedo: che rapporto c’è fra uomini come il mio amico poeta e quegli efferati killer di via dei Nebrodi? Com’è possibile che convivano in uno stesso contesto, in una stessa realtà storica e sociale tipi umani così diversi, così contrapposti? Mi sono sempre chiesto: che rapporto c’è fra me, Fra l’autore di questo libro, fra te, lettore di questa nota, o fra uno dei giudici togati e uno qualunque degli imputati del maxiprocesso di Palermo, Luciano Liggio, Michele Greco o Pippo Calò? Che rapporto c’è fra un uomo intelligente e civile come il pm Ayala e l’ottuso e feroce Filippo Marchese, quello che a detta del pentito Sinagra – nel «mattatoio» di piazza S. Erasmo (quella piazza già teatro di antiche barbarie, in cui la santa Inquisizione bruciava vivi sui roghi poveri condannati) ordinava ai picciotti di dissolvere nell’acido dei bidoni le carni dei suoi nemici? Da siciliano, mi sono sempre chiesto, da quando ho cominciato a sentir parlare di mafia, a prender coscienza della sua barbarie: com’è possibile che qui, in quest’isola di tanta storia, di tanta cultura, di tanta civiltà ci possano essere mafiosi, criminali spietati, autori di efferati delitti, di stragi? E sono tutte domande che immediatamente sembra non trovino risposte. Risposte, prima o al di là di quelle scientifiche, che servano a darci fiducia nella storia. Così come, in un contesto più ampio (non sembri azzardato l’accostamento: siamo, sia pure per cause e fini diversi e per differente portata, in un simile dissolversi della ragione umana, in un simile insorgere della bestialità nell’uomo), non troveremmo risposta alla domanda: come l’uomo, in un determinato momento storico, ha potuto arrivare fino agli orrori di Auschwitz o Dachau, fino agli orrori dello stalinismo? Sono domande che ci mettono in crisi, che ci fanno disperare della storia, delle umane «magnifiche sorti e progressive». Ma lasciamo le inquietudini, lasciamo alla filosofia le risposte sulla natura dell’uomo e veniamo ai fatti. E un fatto, di portata storica – malgrado i morti ancora ammazzati dalla mafia, malgrado le ultime tre vittime di via dei Nebrodi – è senz’altro il processo contro la mafia che si è celebrato a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987. Un processo enorme per numero di imputati, impegno dei giudici, impiego di forze, durata; un processo unico e forse mai più ripetibile; la più grande e importante celebrazione di rito giudiziario; il più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale. E Mario Lombardo è stato uno degli officianti del rito giudiziario perché la sorte ha voluto che fosse scelto come giudice popolare al processo,
Lombardo dunque, con i suoi colleghi – quelli che per dovere morale e civile non si sono sottratti a quek gravoso impegno, non si son fatti disertori – è stato chiamato a rappresentare il popolo siciliano, il popolo italiano. Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio dell’86, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker in qualità di cronista. E lì, dalla tribuna della stampa, avrò visto, assieme agli altri componenti la Corte, Mario Lombardo, che non conoscevo. Ricordo che quella mattina dentro di me ero grato a quegli uomini della Corte, i quali per tutti si assumevano l’enorme, quasi insopportabile peso della celebrazione di quel processo. Di cui Lombardo, intelligentemente e scrupolosamente in questo libro, ci fa ora il racconto. Racconto oggettivo non solo, ma anche racconto soggettivo, vale a dire delle pieghe umane, di cui nessun verbale giudiziario o cronaca giornalistica potrebbe mai darcene cognizione.

Vincenzo Consolo

UNA BALLATA PER LA BELLA ROSALIA

Meno elegiaco-ironico di La ferita dell’aprile (1963), meno espressionistico-allegorico di Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), meno visionario-filosofico di Lunaria (1985), Retablo (pagine 164, L. 8.000. Sellerio), quarta opera narrativa di Vincenzo Consolo, risottolinea alcuni dei caratteri dello scrittore siciliano: l’esercizio mimetico-parodico (di matrice gaddiana), l’andante affabulato-rio-rapsodico (di matrice calviniana), il simbolismo lirico (di matrice vittoriniana). Tutti questi elementi di una scrittura colta, raffinata, poliedrica, mistilingue, in Retablo sono messi al servizio di una ballata-pastiche che combina slanci romantici e illuministici interrogativi. Retablo, rappresentazione a tre voci di vicende amorose e di viaggi, ha per sfondo la Sicilia del 1760-1761: ne sono protagonisti il pittore lombardo Fabrizio Clerici (in viaggio per dimenticare Teresa Blasco che sposerà Cesare Beccaria), il giovane frate questuante Isidoro che lascia il convento della Gancia per amore della bella Rosalia e Rosalia Guarnaccia che lascia Ciccio Paolo Cricchio (ex frate Isidoro) in un certo senso per restargli fedele, perché sposa un vecchio marchese senza più desideri carnali e che la fa debuttare come cantante in un’opera di Cimarosa. L’amore è, in Retablo, orficamente rivelazione e follia, mentre il viaggio è conoscenza, iniziazione, educazione, ritrovamento. Le sequenze più belle della ballata di Consolo sono quelle dedicate alla visione notturna di Palermo, alla festa di santa Rosalia di Alcamo, alla sosta nelle terme di Segesta, alla scoperta della necropoli di Mozia; o quelle dedicate a variazioni su nomi o emozioni: Consolo è, al meglio, scrittore di incantevole virtuosismo linguistico-musicale. “Rosalia, Rosa e lia Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello si è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia zàgara e cardenia… Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento… Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?”. Così si apre il cantare (l’operina per sontuosi pupi) di Consolo; ed ecco il visivo movimento del primo fondale, Palermo: “mi vedea venire incontro la cittate, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte, in oscillio lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillio di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglio di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade”. Consolo sa rappresentare molto bene l’amore che si incarna e disincarna “in beatitudine o in ebetudine” e gli itinerari che portano a scoprire lo “svariare e colorirsi della vita”. ‘. Più impacciati sono, invece, i risvolti del pastiche in cui la mimesi del conte philosophique settecentesco lo porta a ragionare di vita/storia (Sfinge, Medusa e Persefone come la donna amata) nel tentativo di darne una decifrazione: come a dire che lo scrittore si lascia accendere più dell’imprevisto della fantasia che dal mobile o nobile codice della ragione. La trasgressione fantastica permette a Consolo di presentarci Fabrizio Clerici che dialoga con lo scultore barocco Serpotta (in realtà è morto nel 1732) o di ipotizzare un abate-poeta Meli che palpa sospirando ormai vecchio Rosalia (mentre nel 1761 Meli aveva appena vent’anni); così come la libertà fantastica permette allo scrittore di presentarci il rapporto tra un cavaliere lombardo del Settecento e un frate palermitano della Gancia come una medianica reincarnazione della coppia cervantesiana formata da un rozzo contadino e un hidalgo della Mancia con Teresa Blasco e Rosalia che sono la duplicazione dell’inafferrabile Dulcinea).

Raffaele Crovi
Vincenzo Consolo Retablo
Sellerio editore Palermo
Gran Milan n.17 Un libro al mese

Un gioiello finemente cesellato


Fabrizia Ramondino


Ci sono romanzi, scriveva Walter Benjamin, che somigliano a una catasta di legna da ardere; e mentre la legna arde, si consuma. con quello dei protagonisti del romanzo, anche il nostro destino … Retablo è invece un gioiello, finissimanente cesellato, come quelli di Dalì, che sapeva rendere con un rubino un cuore palpitante di vita, simile a un frutto di mare, a prendere il quale nel fondo dell’acqua si trovano nel contempo attrazione e ribrezzo. Ovvero, come suggerisce il titolo, è un retablo, parola spagnola che indica pale d’alare o successioni d’immagini dipinte meravigliose. Nel nostro caso se ratta di un trittico, le cui tavolette evocano la quête dei cavalieri erranti, l’orazione, la peregrinazione, la verità trovata. Spesso gli artisti dediti alle arti figurative si sono rammaricati di non riuscire a raffigurare il tempo; Consolo, con un procedimento à rebours, ha voluto imitare i pittori.
Se si ricorre al paragone del gioiello, esso raffigura la Trinacria. Pietre preziose e semipreziose, minerali rari e vili, smeraldi e corallo, marmo e alabastro, argento e oro, salgemma e piombo, sono stati impiegati a profusione dall’artefice per raffigurare la Sicilia di due secoli fa: i cibi semplici o elaborati al limite del disgusto, gli zibibbi e i grappoli di pasta di mandorle, inganno per l’assetato, teatro della gola per il sazio, le plebi lacere e lazzare, gli ozi crudeli dei ricchi, l’operosità degli artigiani, i pastorali ospitali, ancora oranti dinanzi alla statua della Grande Madre, i briganti feroci e umani, pronti a fraternizzare con i corsari, i frati lussuriosi, i nudi e neri operai delle saline, i contadini dediti alla fatica di dissodare il campo – e pietre maledette sono cocci di urne funerarie fenicie, membra di statue greche -, l’innestatore di aranci, innamorato della sua arte e dei frutti che produce, lo sfarzo delle chiese barocche, la solitudine estatica dei templi sul mare, la bellezza delle donne, la carnalità e la purezza, la bontà e la ferocia… Un’ode alla Sicilia, e nell’ode più odi: all’arancia e al corallo, a Rosalia la santa e alle Rosalie profane, al latte e al cacio di capra, all’amata e all’amato… e sempre odi al cielo e odi al mare.
Se il libro somiglia a un retablo, fra le molte meravigliose storie raffigurate, una è la principale: l’antagonismo fra Dioniso e Apollo – così intende Consolo la loro relazione -, fra vita ed ebbrezza mortale. La tavoletta centrale del trittico è dedicata al cavaliere milanese Fabrizio Clerici, pittore, che, respinto dalla donna amata, Teresa Blasco, invaghita di Cesare Beccaria, viaggia in Sicilia per dimenticarla e descrivere il nuovo paese all’amata lontana. Antidoto contro il mal d’amore è quindi il viaggio. Ma ancora di più lo è l’arte, di cui il viaggio è in realtà metafora. Il cavaliere non è tuttavia un esteta, il più gramo fra gli uomini ha per lui un valore incomparabilmente maggiore di una splendida statua greca. Il primo portello è dedicato a Isidoro, frate che vende bolle d’indulgenza; per amore di Rosalia fugge il convento, finisce fra i facchini del porto, finché viene preso a servizio dal cavaliere milanese che accompagna nelle sue peregrinazioni. Qui Isidoro narra la sua passione, i suoi tormenti, la sua finale pazzia d’amore. Il secondo portello, corrispondente al primo per brevità e intensità narrativa, è dedicato alla vera Rosalia, dopo i tanti abbagli, le tante Rosalie, sante, statue, ragazze, che figurano nel racconto. Qui ella tesse le lodi di Isidoro, l’unico amato. Ma ha visto donne infelici nel vico nero dove è nata, fugge perciò l’amato povero, diventa la mantenuta di un duca decrepito, che le fa studiare il canto. E annuncia che partirà presto, ingaggiata per cantare Cimarosa. Ha fatto sue le parole del castrato, suo maestro: «Siamo castrati, figlia mia, siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore.
 Il tempo, il nostro tempo, che Consolo ha provato a esorcizzare, ‘insinua nel romanzo con abile gioco di baro, con ammiccamenti,
chiamate, rimandi. L’espediente più innocente è l’avere scelto come protagonista Fabrizio Clerici, pittore contemporaneo, come tutti san-no, e non del secolo dei lumi, presente nel libro anche con cinque disegni – e il virtuosismo tecnico del pittore ben corrisponde a quello dello scrittore. Immediato è anche il parallelo tra l’ottimismo del secolo dei Lumi e la fede, ancora cieca, nel progresso tecnico e sociale, del nostro. Ma solo dai molti ingannevoli ammiccamenti si comprende la nuova e diversa forma che ha assunto oggi la separazione tra i sessi, e si legge un’antica, e attuale, misoginia. Infine, e al modo del paradosso, il Novecento irrompe proprio nel raffinato pastiche stilistico che sembra imitare una lingua antica. Infatti i vocaboli arcaici, dialettali, inusitati, i lacerati aulici, le allitterazioni, le amplicazioni; le anastrofi, le apostrofi, le assonanze; le deprecazioni e le invocazioni; la frequente scansione metrica delle frasi e l’imitazione dei cantastorie siciliani: sono tutti stilemi in parte ripescati dal passato, ma soprattutto scaturiti dalla maggiore libertà, almeno linguistica, conquistata nel nostro secolo, e di cui proprio in terra lombarda, dove vive Consolo, si è fatto Ottimo uso.

Il Mattino, 3 novembre 1987
pubblicato anche nella rassegna trimestrale di cultura “Nuove Effemeridi”
Edizioni Guida 1995

Bella, la verità

retablorid

ISIDORO, dono dell’ alma e gioia delle carni, spirito di miele, verdello della state, sugello d’ oro, candela della Pasqua, battaglio d’ ogni festa, sposo d’ un giorno e sempre disiato, Rosalia che t’ ha donato il core si squaglia per la brama, col ricordo di te rimane incatenata. Ah, bagascia!, dici, lo so. E sua madre pure! Bagascia, sì, all’ apparenza, ma per il bene nostro, tuo e mio. Bella, la verità. Isidoro, monaco smonacato per amore, uomo sbocciato con tardanza, fiumara turbinosa d’ autunno, foco che sprizza in cima del vulcano, tu, nella volontaria povertate, nella sicurezza del paglione, nel profumo e nel ristoro della chiesa, nella serenitate del convento, tu non capivi la laida miseria, i pericoli mortali di due femmine, una vedova e una vergine, nel vicolo fetoso dove mi vedesti, ed io ti vidi, per la prima volta. D’ acchito non mi piacesti, lo confesso. In primo, perch’ ero presa da un giovine ambulante, biondo e rizzuto come un san Giovanni, ch’ ogni giorno arrivava sopra un asino pantesco adorno di specchietti, di nastri e di cianciàne, e con potente voce, modulata, bandeggiava spàragi, cime, bròccoli e finocchi. E guardi e complimenti e regalìe d’ ortaggi salivano dalla strada alla finestra, dentro il panàro e in volo sopra l’ aere. In secondo, perch’ eri torvo, nero come un san Calogero e chiuso nel nero della barba, storto per le bisacce, incerto nella tonaca d’ albagio che ti ballava sul secco delle ossa. Brutto, eri brutto, Isidoro. Io e mia madre ne ridevamo tanto. Ma la notte che scappasti dal convento, dopo che ti tagliasti quei peli in faccia di porco ragusano, che ti sgrasciasti nella pila e t’ appressasti a me che già dormivo, ah, Isidoro, Dio benedica, io subito m’ accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità. La mattina, mentre tu ronfavi, alla finestra, guardando l’ Immacolata dell’ altarino sulla cantonata in faccia, infilando nel dito un anello, che più non tolgo mai, feci giuramento: “Isidoro è l’ unico e vero sposo mio, per l’ eternitate”. E recisi una ciocca di capelli e l’ offrii alla Madonna spargendola nel vento, siccome fanno le monache che si sposano con Dio. E io monaca sono, Isidoro mio, monaca per amore del ricordo più bello e incorrotto, monaca per amore dell’ amore, in clausura d’ anima per te, per te, fino alla morte. Chè mai prima di quella notte io provai il Paradiso, nè mai per l’ innante proverò. Per grazia tua, Isidoro, Dio benedica. Bella, la verità. E dopo quella notte, per un mese e passa non volli più lavarmi, sciogliere l’ essenza, disperdere l’ odore tuo sparso nel mio corpo. Con gran dispetto del signor marchese che, dalla partenza tua per il Vallo di Mazara in compagnia del cavaliere di Milano, ci tolse, me e la madre mia, dal vico malfamato e ci portò in palazzo. “Lavati”, mi diceva “e lavati!”. “No, no e no!” gli rispondevo battendo a terra lo scarpino. E il marchese allora, rassegnato, al momento d’ uscire per la passeggiata, mi spruzzava essenze di bergamotto e di jasmino. Monaca, dicevo, in clausura d’ anima, d’ amore, e il monastero mio è questo gran palazzo in cui dimoro, tenuta al pari d’ un bigiù, nell’ agio e nello sfrazzo, vesti e cibarie sopraffine a tinchitè, ora nel quartierino mio a scrivere questa lettera per te. Lettera, memoria o testamento, prima ch’ io lasci questa citate di Palermo, incontro a un destino che solo Dio sa. ;-3MA NON è la mia mano a far scorrere la penna sulla carta. Io vivo, sento, ascolto il core mio e parlo, e ciò che dico, è la mano innocente di don Gennaro Affronti a calarlo sulla carta, in forma di segni a china, di scrittura. Don Gennariello, artista un tempo molto rinomato, ch’ ha girato per corti e per teatri di tutto questo mondo, s’ è ridotto in Palermo per insegnare il canto. E l’ ha insegnato a me, chè il signor marchese che mi tiene, scoprendomi gran dote nella gola, ha voluto ch’ io divenissi una cantante e così debutterò fra qualche giorno in una capitale, prima donna seria nella Vergine del Sole del Cimarosa. Don Gennariello m’ ha insegnato l’ arte, tutte l’ astuzie del mestiere, ed egli a poco a poco è divenuto per me il padre che non ho, e pure madre, chè quella mia, la naturale, presa nel cortiglio di signore sdillinchiose e dei loro sdillinchiosi cavalieri, non ha più tempo di badare a me. Io sono dunque ormai creatura di don Gennaro. Il quale, meschino, da caruso, fu mutilato della sostanza sua mascolina per esser tramutato in istromento dolcissimo di canto. E ha avuto ricchezza, onori e risonanza, ma gli è mancata la cosa più importante della vita: l’ amore, come quello nostro, Isidoro mio. Mi dice: “Ah, come t’ avrei adorata, Rosalia, se fossi stato uguale come gli altri!”. E ancora, sospirando: “C’ est la vie: chi canta non vive e chi vive non canta”. E mi guarda, alla vigilia del mio inizio, con gran malinconia. “Siamo castrati, figlia mia”, aggiunge, “siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, lo scrittore, il pintore… Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti”. Ha ragione, ha ragione don Gennaro! Così fanno, allungano le mani, questi artisti. Così il vecchio abate Meli, che a Villa Giulia, sbucando avanti a me all’ improvviso da un cespuglio, tocca, sospira e va, declamando poesie. Così il cavalier Serpotta, lo scultore plastico, quando il marchese mi portò da lui per farmi fare le pose per la statua della Verità: al posto dello stucco, plasmava me, con insistente mano. Ahuffa, vah. Non voglio dirti, ma i rischi che c’ erano nel vico ci sono pure qua, coi galantomi. Ma io vivo solo nel ricordo di te e per te, Isidoro. Monaca mi feci e monaca resto nel cuore e nelle carni, finchè posso. Il signor marchese, poveretto, già vecchio, affaticato, s’ accontenta ch’ io viva nel palazzo, di guardarmi e di mostrarsi con me in società. Gli altri, cicisbei o babbaluci, li tengo a bada, e come!, non mi chiamassi se no Guarnaccia Rosalia e non avessi avuto un uomo come Cicco Paolo Cricchiò, ai voti tramutato in Isidoro. E così continuo a chiamarlo, perchè nome troppo bello e perchè sotto questo nome lo conobbi. Bella, la verità. Isidoro, io ti vidi folle per Palermo al tuo ritorno dal viaggio, ti vidi alla Marina da dentro la carrozza, ancora qualche volta sulla strada da dietro le gelosie del palazzo. So, so che per tutti i mesi che durò il viaggio, notte e giorno, in tutte l’ avventure, i mali passi, nel rischio della vita, fra gente bona o pure fra briganti, sotto il sole o le stelle, in fondachi o locande, non facevi che sognare, invocare me, la tua Rosalia. E il cavaliere Clerici racconta che sei stato picciotto valoroso, accorto e ingegnoso. Nello scansare ostacoli, sventare trappole, imboscate, ridurre all’ amistà ladri di passo e truci grassatori. Tu che da monaco vendevi bolle dei Luoghi Santi pei viaggi, bolla vivente fosti per il cavaliere, e più efficace. Nel trovare l’ uscita a ogni intoppo. Come a Selinunte, dopo che al cavalier pintore furarono la sacca con dentro carte, pennelli, carboni e acque tinte, nell’ ingegnarti a squagliare sul foco pallettoni a lupara e farne un bastoncino a punta pel disegno. Ma subito, al ritorno, perdesti la ragione. Ossesso ti facesti, cane randagio e questuante di pietà. Perchè la Rosalia tua era scomparsa. E apparecchiasti casotto, spettacolo per i vichi, le strade e le piazze di Palermo. In pianto rotto sul monte Pellegrino davanti all’ alabastro della Santa; in possessione, in furia dell’ Inferno in San Lorenzo alla scoperta che la Verità ignuda del cavalier Serpotta era la copia del sembiante mio. E l’ urla e lo schiamazzo davanti all’ Oratorio, e l’ accorrere del padre Guardiano che riconobbe in te il frat’ Isidoro fuggito dal convento, ladro dell’ onze delle bolle, e che chiamò i gendarmi. E fu la Vicarìa. Povero Isidoro. Non fosse stato pel signore di Milano, pel cavaliere Clerici, amico del marchese e amico mio, che pagò ogni debito e pure pel riscatto, saresti ancora ai ferri. ;-3ORA sei libero, Isidoro, libero, solo e disperato, per l’ assenza di me, pel tradimento e l’ affronto mortale che credi ch’ io ti feci. M’ ammazzeresti, son certa, nel caso mi trovassi. Male faresti, Isidoro, male, ammazzeresti la Rosalia tua che t’ ama e t’ è fedele, che t’ ha lasciato solo per amore. Bella, la verità. Cos’ è l’ amore in dentro la miseria? Un fiore delicato, una pomelia bianca e avorio dentro in un pantano, neve immacolata nel fervore del luglio. Dura un sospiro, un attimo, si corrompe e muore. E il nostro, così breve, intenso e risplendente? Io vidi nel nero vico dove nacqui innumeri fanciulle infiammarsi d’ amore, maritarsi e subito odiare, cariche di figli e strette dagli stenti, l’ uomo tanto amato, ed essere odiate. Avere insulti, fiati di vino, patimenti, colpi di legno e sfregi di coltello. Finire sfatte al Càssero Morto o fora dalle mura della Kalsa e appestate morire a lo spedale dello Spasimo. Ah, io mai, io mai! Far finire nell’ odio e nel dolore il nostro amore. Fu per questo che scappai, ch’ accettai questa parte dell’ amante, questa figura della mantenuta. Bella, la verità. E ora che la sai, la verità, se la capisci, fatti saggio, Isidoro, ritorna virtuoso. Chiedi perdono al padre Guardiano, rientra nel convento. Saperti ancora monaco, mi dona contentezza. Monaco tu e monaca io, nel voto e nel ricordo del nostro grande amore. Addio, Isidoro, io parto, io parto. Addio. E per l’ ultima volta, come quella notte: dolce, sangue mio.

VINCENZO CONSOLO
La Repubblica, 28 luglio 1985

Un gioco di specchi

Giuliano Gramigna

Lunaria è un cuntu, una narrazione (tecnicamente), a dispetto dell’elenco dei personaggi e della struttura a scene? […] Il dilemma, posto che sia essenziale, non è ancora sciolto. Il lettore apre il libretto, e subito incontra: «Città caduta affranta, misericordia di quiete dopo il travaglio, silenzio, pace». Di li a poco, una voce recita: “Origine del tutto, / fine di ogni cosa, / eco, epifania dell’eterno, / grembo universale, / nicchia dell’Averno, / sosta pietosa, oblio». In qualche modo, l’orecchio può cogliere un’eco del coro dei morti nello studio di Federico Ruysch. La citazione, meglio: la criptocitazione, volentieri dedotta da testi famosi, risulta una componente significativa di Lunaria. Più avanti, il Viceré che parla dietro il manichino, inciamperà con mirabile anacronismo nel Cimitero marino di Valéry (la piana che palpita di scaglie», gli «uccelli bianchi, tanti fiocchi», che «predano» la superficie del mare…). I cerusici, chiamati a diagnosticare i “desvanecimientos” del Viceré, rifanno il verso un po a Molière ma anche al dottor Azzeccagarbugli. Non mancherà anche un’entrata di Pirandello. Tutto ciò vuol dire qualcosa. L’accensioni i rimandi ad altre opere, più o meno evidenti, qui sembra preordinata a soffocare fin dall’inizio qualunque slancio fabulatorio ossia dinamico; a fomentare piuttosto un gioco di specchi moltiplicatorio e immobilizzante. Terrificato dal primo raggio di luce che entra nella sua camera, il Viceré si lamenta: «No, no, no… Avverso giorno, spietata luce, abbaglio, città di fisso sole, isola incandescente.. Porfirio, Porfirio, torcia di catrame, selvaggio figlio di terre inospitali, lucifero crudele, ahimè, i miei nervi nudi, le mie vene, la mia pelle, i miei occhi». La sintassi rincalza – con il dominio quasi assoluto della frase nominale con la sequela delle apposizioni – il rifiuto, quasi ribrezzo, del moto, del cambiamento, insomma della narrazione. Nell’auspicio più profondo del Viceré, tutto dovrebbe restare fermo, in un nodo di assenza, di svenimento. Ha visto in sogno, come nei versi leopardiani, cadere la Luna dal cielo, lasciandovi una nicchia, un buco. In effetti, in una contrada innominata della Sicilia, su cui regna il Viceré, la Luna viene giù a pezzi, spaventando i contadini. Un frammento è portato a corte, oggetto di disputa dotta da parte degli accademici; finché una cerimonia lustrale, ancora dei contadini, non farà riapparire la Luna in cielo. Al Viceré, dubitoso della propria e altrui consistenza, non resterà che rivolgerle un ultimo saluto: “cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Questa pantomima “verbale”, immaginata per una Sicilia possibilmente settecentesca, in effetti fuori tempo, assume nella sua struttura fragile, direi perfino divertita, valori di opposizione astronomica che sono, alla base, di opposizione metafisica: il Sole contro la Luna la necessità imperiosa, violenta della vita, dell’agire, contro l’estinzione, il non-essere. La Luna è pura iscrizione siderale, dietro la quale, per poco che si frantumi o cada, si scopre il vuoto, il niente. Questo niente, che sta sotteso alla favola del libretto, è dirò così rammendato da un verbalismo sfrenato, ostentatorio nel suo eccesso, che adibisce latinismi e ispanismi, barbarità dialettali, rotondità barocche, figurazioni di un’estetica del vuoto un po’ manganelliane (dico come riferimento…). Il lettore vede ricomparire moduli e processi già degustati in un precedente libro di Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio. Là era la Storia, dichiarata vacua e inscrivibile se non per mano del potere; qui l’intimazione o il sospetto di non-esistenza investe l’intera realtà umana, o almeno ciò che ne può apparire a un Viceré, manichino del potere. Altro è il rapporto che mantengono istintivamente con il mondo, con la Luna, i contadini, li abitatori delle ville, i terragni», forze, realtà animali incomprensibili.

(Corriere della sera, 15 maggio 1985)